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Autore: Stefy89M    31/07/2018    4 recensioni
“Storia partecipante al II CONTEST FANFICTION OBSESSION GALLAVICH: CAN WE BE FRIENDS?”
-Per queste settimane ti occuperai della pulizia all’interno dei reparti- disse oltrepassando le porte scorrevoli. Mickey la seguì lanciando uno sguardo alla grossa scritta che dava il benvenuto al “San Payer Ospital”, il fottuto manicomio di Chicago.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ian Gallagher, Mickey Milkovich
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Un colore di più
 
Trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! Eh! Che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Voi dite “questo non può essere” e per loro può essere tutto.

[Cit. Luigi Pirandello]
 
-Capitolo 4-
 

Quel pomeriggio lo spogliatoio era più affollato del solito. Mickey poggiò la borsa nel suo armadietto e fece un cenno di saluto ad alcuni suoi colleghi che invece chiudevano tutto in fretta e andavano via da lì. Avevano finito il loro turno mentre Mickey si apprestava a cominciare il suo... La sua prima notte al Payer. Scese al primo piano a prendere il suo fidato carrello e poi si diresse nella sala comune. La Anderson gli aveva raccomandato di tenerla il più pulita possibile, specialmente a quell’ora, durante la visita dei parenti.

Si preparò mentalmente alla bolgia con cui avrebbe dovuto lottare per farsi spazio, ma quando ci entrò rimase interdetto. C’erano giusto una ventina di familiari che avevano avuto il cuore di andare a trovare i loro parenti, niente di più. La Anderson, in tutta la sua altezzosità, era lì a conversare con alcuni di loro, ostentando una professionalità e una rigidità vomitevole. E a proposito di vomito… uno dei pazienti aveva deciso di lasciarne una generosa quantità sulla poltrona accanto alla televisione. Stava già per svignarsela ma la Anderson lo intercettò subito e con un cenno muto gli ordinò di andare a pulire. Immediatamente. Mickey sbuffò.

Con lo schifo stampato in faccia, indossò i guanti e srotolò un metro di carta assorbente. Cercò di raccogliere quella che forse era stata la merenda di quello stronzo e provò in tutti modi a non contribuire con quello che invece era stato il suo pranzo. Perché quei pazzi vomitavano sempre? Perché?!

Da quella prospettiva si accorse che al solito tavolo vicino alla finestra c’era Ian. Ma stavolta non era da solo. Seduto dall’altra parte del tavolo c’era un uomo sulla cinquantina, i capelli rossi con un inizio di calvizia, il viso segnato, triste. Mickey era sicuro si trattasse del padre del ragazzino. Si somigliavano troppo per poter essere solo semplici parenti.
A quanto pareva la conversazione non doveva essere molto piacevole. L’uomo stava dicendo qualcosa a Ian, che annuiva meccanicamente e con aria spenta. Per un attimo Mickey pensò che fosse scivolato via , ma poi lo vide parlare e partecipare animatamente alla discussione.

Di sicuro era una questione familiare delicata.

Mickey gli occhieggiò comunque per tutto il tempo, anche quando finì di raccogliere tutto il vomito. Ian non doveva ancora averlo visto…

Ciondolò in giro per la sala, spazzando e spruzzando disinfettante ovunque. Nel momento in cui Ian avesse deciso di voltarsi, Mickey era pronto a regalargli un piccolo sorriso di incoraggiamento. Ma non accadde nulla. Padre e figlio sembravano aver finito di discutere ed erano rimasti lì seduti, in silenzio e immobili. Mickey passò casualmente dalle loro parti e lanciò uno sguardo al rosso che invece lo ignorò completamente; come se Ian avesse incrociato accidentalmente gli occhi di un estraneo.

Per qualche ragione Mickey si sentì strano. Era una reazione che decisamente non si era aspettato da parte del ragazzino; non era forse lui quello che insisteva a salutarlo ovunque si incontrassero? E ora faceva finta di non conoscerlo? Dopo che Mickey era andato contro tutte le regole del Payer ed aveva conversato e chiacchierato con lui?
Quel pensiero lo irritò particolarmente e decise che non gli avrebbe più rivolto la parola, né tantomeno si sarebbe fatto coinvolgere nella sua fottuta vita privata. Afferrò la scopa e andò a pulire i corridoi, abbandonando la sala comune e lasciandosi dietro Ian e i suoi problemi. 
 
 
Per la prima volta da quando aveva iniziato a lavorare al Payer, Mickey si trovò a dover cenare nella sala mensa, quella riservata al personale. Il cibo assegnato a loro, fortunatamente, sembrava leggermente più appetitoso della sbobba che invece veniva data ai pazienti. E sicuramente sembrava più appetitosa della cena che Mandy puntualmente bruciava nel forno.

Così si servì abbondantemente di pasticcio di patate, salsicce, verdure miste e mais, e non sdegnò nemmeno una zuppa di qualcosa di un colore indefinito. Infine mise sul suo vassoio una fetta di crostata alle mele e due arance; poi si voltò per cercare un posto. In realtà la sala non era altro che una stanza di media grandezza con quattro tavoli e delle panche. C’erano cinque colleghi in tutto a cenare; Buck e quello che doveva essere Conny-Cronny o qualcosa del genere erano seduti all’ultimo tavolo, mentre Melissa e altri 2 che non conosceva, erano seduti al primo tavolo. Mickey fece per sedersi in un tavolo vuoto e starsene per conto suo ma Melissa iniziò a sbracciarsi per invitarlo a cenare lì. Stava quasi per declinare l’invito ma alla fine decise di unirsi a loro; qualcosa gli diceva che se si fosse seduto da solo, gli altri non lo avrebbero lasciato in pace. Tanto valeva dargliela subito vinta.

-Ehi- lo salutò allegramente Melissa, invitandolo a sedersi. –Ragazzi lui è Mickey!- lo presentò amabilmente agli altri due. Senza scomporsi, Mickey gli salutò con un cenno del capo e poi si avventò sulle sue salsicce.
Melissa gli presentò Vincent e Rachel, di qualche anno più grandi di lui; anche loro stavano facendo un tirocinio da infermieri.

-Ne hai di fame, eh- commentò Rachel quando Mickey passò ad ingozzarsi contemporaneamente di zuppa e pasticcio.
-Non sdegno il cibo- rispose semplicemente, con la bocca piena. Melissa rise mentre Vincent fece una smorfia.
-Tesoro, vorrei avere solo un decimo del tuo metabolismo- fece il ragazzo in modo decisamente poco mascolino, guardando con desiderio il piatto di Mickey, -Invece mi ritrovo ad ingrassare  respirando l’aria-

Melissa e Rachel risero mentre Mickey si accigliò; quel Vincent doveva essere un finocchio.
-Da quando abbiamo iniziato a lavorare qui credo di aver messo su 4 kg!- continuò sconvolto, guadagnandosi la comprensione assoluta delle sue colleghe.

-E’ colpa di questo posto- protestò Melissa –mai una volta che avessi visto un piatto leggero, un’insalatina, del farro! Nulla! Solo piatti grassi e unti-
-E vogliamo parlare del sale?- rincarò Vincent –Nella zuppa di pesce di ieri c’era talmente tanto sale che mi sembrava di bere acqua marina.-
-Hai ragione!-

Mickey scosse la testa, ingoiando una grossa forchettata di pasticcio. Quei tre non avevano assolutamente idea di che cosa significasse avere fame. Altro che diete e 4 kg in più! Mickey avrebbe pagato oro per avere la possibilità di avere un pasto completo al giorno; che ne sapevano loro dei crampi allo stomaco, delle lunghe notti a rigirarsi fra le lenzuola immaginando di addentare un solo pezzo di pizza. Di tutte le volte che lui e Mandy, presi dalla fame, si erano appostati nel retro di alcuni ristoranti a chiedere gli avanzi…

-Beh, io sono stanca di questo posto in generale- sbottò Rachel buttando giù il suo bicchiere d’aranciata come fosse un alcolico. –Credo di star impazzendo. Proprio come loro- disse riferendosi ai pazienti. –Dopo la giornataccia di ieri, pensavo che le cose almeno oggi si sarebbero calmate, e invece nulla.-
-Cos’è successo ieri?- chiese Vincent curioso.

-Perché, non lo sai?- gli domandò Melissa interdetta. –Il tipo del secondo piano ha avuto una brutta crisi.-
-Ieri ero di turno al quarto piano!- si giustificò per la mancanza di quel pettegolezzo, -Cos’è successo?-
-Hai presente quel ragazzino coi capelli rossi?- e qui anche Mickey drizzò le orecchie. –Della 241-
-Quello con la mania dei colori?- si accertò Vincent.

-Proprio lui!- rispose Rachel, compiaciuta di avere la completa attenzione della tavolata. –Beh, ieri mi apprestavo ad iniziare il mio solito turno mattutino- raccontò con voce più bassa, con fare complice -ero lì ad affiancare il Dottor Mcnoir per il solito giro di controllo al secondo piano. Quando ad un certo punto abbiamo sentito delle urla provenire dalla sala comune.- spiegò versandosi un’altra generosa quantità di aranciata nel bicchiere. Mickey non faticò ad immaginare Rachel vuotarsi da sola intere bottiglie di sherry. –Siamo tutti abituati a sentire delle urla qui dentro. Ma quelle, credetemi, non erano urla qualsiasi. Erano urla terrificanti, di quelle che ti fanno accapponare la pelle.- disse con una splendida pausa ad effetto. Se la stava godendo un sacco, pensò Mickey, ma non poté fare a meno di ascoltarla con estremo interesse e un pizzico di preoccupazione. Cos’era successo al ragazzino durante il suo giorno libero?

-Ho proposto al Dottor Mcnoir di andare a controllare cosa stesse succedendo, così ci siamo catapultati nella sala comune. Non avevo mai visto il ragazzo dai capelli rossi avere una crisi del genere. Da quanto ricordo è sempre stato molto tranquillo, sempre lì a fare i suoi disegni. Ma ieri qualcosa deve averlo fatto svalvolare. C’era un tizio delle pulizie, lì vicino. A quanto abbiamo potuto capire, il tizio deve aver fatto cadere accidentalmente un prodotto su uno dei suoi disegni, rovinandoglielo, ed il ragazzo è andato fuori di testa.-

Mickey sentì la gola stringersi.

-Abbiamo provato a calmarlo. Ma era totalmente fuori. Blaterava qualcosa sugli spazi bianchi, e sui prodotti che andavano spruzzati ad una distanza di sicurezza o qualcosa del genere. Abbiamo dovuto immobilizzarlo e legarlo a letto.-
Mickey sbiancò lentamente. –P-perché lo avete legato?-

Melissa e Vincent si voltarono a guardarlo. Come se avesse fatto la domanda più stupida del secolo, come se quella fosse una procedura ovvia.  
No. Non lo era. Non era ovvio per un cazzo.  

-Aveva iniziato a farsi del male- spiegò Rachel per nulla infastidita da quella domanda, anzi. Si beò di avere tutti in pugno col suo racconto. –Aveva preso a graffiarsi la faccia, quasi a strapparsi la pelle. Abbiamo dovuto legargli i polsi a più mandate e iniettargli del calmante e poi del sonnifero.-

Mickey si sentiva arrabbiato, triste, addolorato.
-Abbiamo potuto slegarlo solo stamattina, e abbiamo chiamato suo padre-
Ecco perché quella sera era lì. Ecco perché forse stavano discutendo.
-Stamattina invece è toccato di nuovo al tipo delle canzoni. Anche lui ha avuto una crisi isterica. Non li sopporto più- disse in tono superficiale.

Mickey era indignato. Anche lui a volte non sopportava quei pazzi ma… insomma, non lo facevano di proposito a stare male, no? Non erano loro a volere quelle crisi, e di certo quel ragazzino non aveva voluto farsi immobilizzare a letto così, per gioco. Non era colpa loro.

-Oddio ancora? Cos’ha fatto adesso?-
E spettegolarono sul tizio delle canzoni ma Mickey smise di ascoltarli. Non aveva più voglia di stare a sentire le loro stronzate. I pensieri erano rivolti a Ian; alle immagini di lui che urlava e piangeva mentre veniva legato a letto, mentre non riusciva a collegarsi alla realtà e non riusciva ad essere cosciente. Immaginò la confusione e il terrore nei suoi occhi verdi. Immaginò la paura di vedersi lì da solo, senza nessuno ad aiutarlo…

Gli era passata la fame.
 
 

Erano più o meno le tre di notte e Mickey aveva pulito tutto il terzo piano. I primi tempi aveva creduto che lavorare di notte in manicomio lo avrebbe fatto morire di crepacuore, e invece no! C’era silenzio. Niente Anderson, o Buck, o pettegoli, o pazienti; ogni tanto incrociava un vigilante durante il loro giro di ronda e fortunatamente anche loro non avevano nessunissima voglia di parlare, si limitavano a farsi un cenno o ad ignorarsi a vicenda. Era tutto perfetto.
Prese l’ascensore e si diresse al secondo piano per lavare i corridoi. Cambiò l’acqua del secchio e mise una generosa quantità di prodotto. Fanculo il risparmio.

Passando dal corridoio centrale, si accorse di una piccola luce provenire dalla sala comune. Mickey era sicuro di aver visto tutte le luci spente fino ad un attimo prima..

Forse uno dei vigilanti l’aveva lasciata accesa per sbaglio. Lasciò il secchio sul carrello e poi entrò nella sala comune già sbuffando. La luce proveniva da una piccola lanterna elettrica portatile, poggiata sul tavolo tondo vicino la finestra. Ian era concentrato a colorare uno dei suoi fogli, ignaro di tutto.

Mickey lanciò uno sguardo alle sue spalle per assicurarsi che fossero soli, poi si avvicinò cautamente al ragazzino.
-Lo sai che non puoi stare qui, vero?- gli chiese incrociando le braccia al petto ma utilizzando un tono di voce bonario.

Ian sussultò impercettibilmente e fece incrociare i loro sguardi, lasciando stare per un momento i colori. –…Farai la spia?-
Mickey scrollò le spalle e si avvicinò di un altro passo. –Cosa stai facendo qui?-
Il ragazzino abbassò lo sguardo sul suo album da disegno. –Coloro- disse come se fosse una cosa ovvia, ma Mickey lo fissò, invitandolo a continuare.

Ian sospirò e si lasciò andare contro lo schienale della sedia. –Non riuscivo a dormire. Ogni tanto vengo qui per rilassarmi. Non sto facendo nulla di male- spiegò come per giustificarsi.
Mickey annuì e si sedette sulla sedia di fronte, dove quel pomeriggio aveva visto il padre del ragazzino. Da quel punto poteva vedere i graffi sul collo che si era procurato. –Come mai non riesci a dormire?-

Ian scrollò le spalle e Mickey si sentì triste per lui; non era il solito Ian raggiante e sorridente, evidentemente la crisi del giorno prima lo aveva debilitato parecchio.
-Dovresti andare a riposare- gli consigliò, -E dovresti rilassarti. Una volta mia sorella mi ha fatto vedere una strana procedura orientale- gli spiegò cercando di ricordare cosa esattamente Mandy gli avesse detto, -Devi ehm, stenderti a letto… e toccarti il lobo dell’orecchio sinistro… o forse era il destro? No no no il sinistro!-

Per la prima volta Ian abbozzò un piccolo sorriso e Mickey se ne rallegrò. –Devi credermi, funziona davvero! Devi solo tenerlo premuto per qualche minuto e poi voilà: e t’addormenti come un bambino -
Ian scosse piano la testa mentre il lieve sorriso spariva. –E’ da qualche giorno che non riesco a dormire- ribadì grattando il tavolo con un dito.

Mickey soppesò l’idea di chiedergli se la sua perdita di sonno fosse dovuta alla crisi del giorno prima, ma non voleva urtare la sua sensibilità. Dopotutto non erano poi così in confidenza. -E’ successo qualcosa?- decise di chiedere quindi, rimanendo vago e ignorando volutamente i segni sul collo e sui polsi.
Ian stava per rispondere ma il silenzio fu rotto dal suo stomaco che brontolava in maniera feroce. Mickey sollevò le sopracciglia sorpreso, mentre Ian arrossì.

-Hai fame!- constatò il moro, quasi accusandolo. –Hai cenato stasera?-
Ian arrossì ancora, distogliendo lo sguardo. –…ho mangiato qualcosina- sciorinò piano; il che voleva dire che non aveva mangiato nulla. Mickey sospirò e poi si alzò di scatto da tavola.
-Seguimi.- gli ordinò dirigendosi fuori dalla sala comune.

-Cos-dove?- domandò Ian confuso, rimanendo comunque al suo posto. Mickey si  voltò per lanciargli uno sguardo trucido. –Muoviti- gli disse soltanto, dandogli le spalle e riprendendo a camminare.
Ian fu costretto ad alzarsi e seguirlo.

Pochi secondi dopo, Ian riconobbe la sala mensa del personale. Mickey tirò fuori le chiavi dal taschino e le ficcò nella porta che dava l’ingresso alla cucina.

-Come le hai avute?- fece sbigottito. Era sicuro che non fosse permesso ad un ragazzo del lavoro socialmente utile di poter entrare nella cucina del Payer.
Mickey si aprì in un sorriso sghembo. –Le ho rubate-

Ian strillò -COS-?-  ma Mickey gli premette velocemente una mano sulla bocca per zittirlo.
-Vuoi che ci sentano tutti?- lo rimproverò a denti stretti. Ian scosse il capo  e Mickey notò che da quella distanza riusciva a contare tutte le lentiggini che il rosso aveva sul naso. E se faceva scorrere lo sguardo leggermente più su, poteva ammirare quelle iridi verdi  che in quel momento lo guardavano in pieno viso. Si sentì arrossire e tolse velocemente la mano da quelle labbra particolarmente morbide. Lo invitò ad entrare e subito dopo accese le luci.

Ian si strinse nelle braccia, la stanza era leggermente più fresca rispetto agli altri reparti del Payer. –Perché siamo qui?-
Mickey aprì il grande frigo d’acciaio e tirò fuori un grande vassoio avvolto da una pellicola. –Hai bisogno di mangiare- spiegò velocemente, recuperando piatti e posate.

Ian era annichilito. –M-a ma tu… perché hai rubato le chiavi?- ripeté non riuscendo a capacitarsi del perché e del come si trovassero lì. Mickey sbuffò versando sul piatto un bel po’ di pasticcio di patate.
-Ok… per fartela breve, ho scoperto che in questo posto buttano via tutti gli avanzi e gli scarti della giornata. Così ho pensato che questa roba starebbe meglio nel mio stomaco e in quello di mia sorella piuttosto che in una pattumiera.-
Ian si aprì nel più sincero dei sorrisi della serata. – Hai ragione-

-E anche nel tuo, di stomaco- aggiunse appioppandogli il pasticcio di patate in mano. -Il resto verrò a prenderlo prima di andare via e lo porterò a casa, non si accorgeranno di nulla-

Ian infilzò la forchetta nel suo pasto e annusò. –Sembra diversa dalla solita poltiglia della nostra mensa-
-E lo è- confermò Mickey sedendosi sul bancone e prendendo un piatto anche per sé. Ian gli si sedette accanto, forse un po’ troppo vicino per i suoi gusti, ma lo lasciò fare. Ian aveva un buon profumo.

Lo vide addentare con diffidenza la prima forchettata e poi spalancare gli occhi una volta scoperto che il sapore era buono. Mickey soffocò un risolino e Ian azzannò il suo piatto, finendolo nel giro di pochi secondi. –Ne vuoi ancora?- gli chiese. Ian annuì con la bocca ancora piena.

Mickey sempre più divertito e rilassato gli riempì il secondo piatto fino all’orlo, e stavolta Ian ci si fiondò senza più alcuna diffidenza.

-Dì la verità… da quant’è che non mangiavi?- fece mangiando anche lui il suo pasticcio. Quel coso era davvero buono.
Ian ingoiò a fatica un grande boccone e gli lanciò uno sguardo timido. –Da ieri- confessò ritornando con gli occhi al piatto.
Mickey per poco non soffocò. –Cos- ma perché?-
Ian scrollò le spalle, l’umore di nuovo triste. –Non avevo fame…-
-Perché non avevi fame?-

Ian lo guardò strano e Mickey si chiese se non si stesse spingendo troppo oltre. Dopotutto, perché quel ragazzino avrebbe dovuto confidarsi con lui, e soprattutto, perché Mickey ci teneva così tanto che lo facesse?
-Ho avuto una crisi.- rispose finalmente, guardandolo in faccia, quasi sfidandolo a ridere o ad abbassare lo sguardo imbarazzato o inorridito. Mickey tenne tranquillamente gli occhi nei suoi non regalandogli nessuna reazione in particolare. Si guardarono per lunghi secondi e Ian a quel punto vacillò, allontanando lo sguardo.
-Ora come stai?-

Ian ritornò velocemente a guardarlo, studiando ogni sua espressione. –Credo meglio-
Mickey annuì fissando poi i segni sui polsi e sul collo. Prese coraggio e con l’indice indicò il collo del ragazzo. –Sei stato tu?- gli chiese cercando di sembrare distratto ma allo stesso tempo non superficiale.

Ian di riflesso portò una mano sui punti feriti, pensieroso. –E’…non lo so. E’ una cosa che non posso controllare- spiegò con tutta la spontaneità e la naturalezza di un ragazzo della sua età.

-Come quando vai via?- si ritrovò a chiedere Mickey quasi pendendo dalle sue labbra. Per qualche ragione aveva bisogno di sapere e capire quel ragazzino.  Aveva bisogno che lui gli dicesse cosa sentiva e provava.
Ian lo guardò di nuovo a lungo prima di decidere se rispondere o meno. –A volte… posso decidere io, se andarmene o meno. A volte no, non posso-

Sembrava che il rosso volesse chiudere il discorso ma Mickey non era ancora pronto ad abbandonare la faccenda. –Allora perché a volte scegli di andare via?- chiese d’impeto pur sembrando indelicato. Aveva bisogno di sapere. Lui doveva sapere.

Ian aggrottò la fronte giochicchiando con un po’ di pasticcio rimasto nel piatto. –Per… per stare meglio, suppongo.-
Il cuore di Mickey perse un battito, stringendo forte la forchetta nella mano.
-Era questa la risposta che stavi cercando?- gli chiese Ian, prendendolo di sorpresa.

-Cosa?-
Ian fece un sorriso storto. –Chi era?- domandò semplicemente.
Mickey deglutì e distolse lo sguardo. –Nessuno…- ma si accorse di suonare falso persino a se stesso. Inizialmente aveva fatto quella domanda al ragazzino perché curioso di sapere il motivo della scelta di scivolare via… ma la verità era un’altra. La verità era che lui, forse, aveva bisogno di sapere il motivo per il quale sua madre, aveva scelto di scivolare via. Di lasciare lui e sua sorella Mandy a patire la fame, a privarli dell’affetto di un genitore, per andare in qualsiasi altro posto nella sua mente, lontano dalla realtà e da loro.

Sospirò.
-…Mia madre- confessò alla fine guardando dall’altra parte, non riuscendo a reggere lo sguardo di compassione che Ian gli stava riservando. –Ma ormai non ha più importanza. Ovunque lei sia, avrà sicuramente trovato il posto che cercava nella sua testa-
-Mi dispiace molto-

Ian lo guardava con occhi enormi e lucidi e Mickey si sentì infastidito da quell’improvviso  sentimentalismo. Scrollò le spalle e scese dal bancone. –Dovremmo andare-
-Sei arrabbiato con lei…- constatò il rosso guardandolo di sottecchi, ancora seduto. –Lo capisco, sai? Anche mio padre è arrabbiato con me. Oggi abbiamo discusso. Crede che io non mi stia impegnando abbastanza- disse con una nota di amarezza. Mickey lo ascoltò con attenzione, in silenzio. –Vorrei solo che tutto questo sparisse. Che quello che ho nella mia testa sparisse per sempre… ma non ci riesco-
-P-puoi farcela…- lo incoraggiò Mickey lentamente. –Mi sembri uno sveglio. Puoi uscirne.- Non sapeva perché stesse dicendo quelle cose, ma sentiva il bisogno di dirle, forse perché aveva bisogno di credere che ci fosse speranza, o forse perché aveva bisogno di credere che non tutti quelli che si ammalavano erano destinati a finire come sua madre.
No. Quel ragazzino poteva farcela.

Mickey giurò che gli occhi di Ian avessero brillato per un momento prima di tornare opachi e un po’ malinconici. –Sei gentile a dirlo…-
-Non dire mai più che sono gentile!- borbottò accusandolo con una forchetta. –Ho picchiato per molto meno, sai?- Il discorso stava prendendo una piega fin troppo zuccherosa per i suoi gusti, così decise di sdrammatizzare e portare la loro conversazione ad un livello più gestibile. Ian infatti rise.

-Picchiavi le matricole a scuola?- chiese leggermente più vivace.
-Picchiavo chi mi doveva dei soldi- puntualizzò sbarazzandosi dei loro piatti ed eliminando ogni loro traccia dalla cucina.

-Ancora non posso credere di non averti mai incrociato alla Near- fece Ian pensieroso. –Mi sarei ricordato subito dei tuoi occhi- lo disse così, nella maniera più naturale possibile, e Mickey per poco non si affogò con la sua stessa saliva.
-Come?-

Ian lo guardò. –Sì beh… il colore dei tuoi occhi… sono blu. Con qualche sfumatura azzurra- illustrò muovendo le dita come se stesse dipingendo il suo sguardo a mezz’aria. -E ci sono dei riflessi più chiari che cambiano in base alla luce o alla prospettiva.- 

 Mickey si stupì di come Ian fosse riuscito a notare tutti quei particolari in quelle poche volte che si erano visti. –Oh…- mormorò imbarazzato. –Beh, nemmeno io ti ho mai visto a scuola.-
-Mi avresti picchiato?-

-Non lo so. I capelli rossi mi ispirano violenza, però-
Ian rise di nuovo scendendo dal bancone con un salto e lo raggiunse, parandoglisi davanti. Si guardarono ancora in silenzio e Mickey si chiese perché quella sera si fissassero in continuazione. –Dovremmo andare- ripeté caracollando verso la porta. Accompagnò Ian fino alla 241 dandogli la buonanotte e augurandosi che quella sera, a stomaco pieno, riuscisse a riposare almeno un po’.

-Mickey?-
-Sì?-
-Ci vediamo domani?…- chiese con voce piccola, mettendosi sotto le coperte. Nel cuore di Mickey crebbe velocemente un moto di tenerezza. Una tenerezza che non aveva mai provato per nessuno.
-Sì, va bene- fece per andarsene, ma Ian lo fermò di nuovo.
-Mickey?-
-Sì?-
-Ora… noi siamo amici?- domandò con una tale semplicità che Mickey si sentì arrossire. Si grattò la nuca, spaesato.
-Beh… suppongo di sì.- borbottò girandosi per andarsene di nuovo.
-Mickey?-
Le sopracciglia di Mickey schizzarono verso l’alto. –Sì??-
Ian sorrise scoprendo una fila di denti bianchi. -…Grazie… per oggi-
Le guance si dipinsero di un lieve rossore e questo lo fece sentire tremendamente a disagio. –Bene… se questo è tutto…- alzò una mano a mo’ di saluto e chiuse velocemente la porta alle sue spalle. Ci si appoggiò per un momento contro e un angolo della bocca gli si piegò verso l’alto.
 
 
***

 
La sera seguente Mickey fu felice di trovare un Ian più vivace ad attenderlo. Stava sfogliando una rivista sui dinosauri, una di quelle che si regalavano ai poppanti.

-Quanti anni hai?- lo schernì infatti adoperandosi a pulire i vetri della sala comune. Ian lo guardò come un povero ignorante lebbroso. –Qui dentro c’è tutto quello che c’è da sapere su di loro- gli spiegò con enfasi. –E poi le immagini sono bellissime! Guarda! Guarda i colori! Guarda le sfumature!- disse quasi premendogli la rivista in faccia.
Mickey gliel’allontanò. –Sì, sì, ok, ho afferrato il concetto-

Ian se la riprese e ci affondò la faccia sopra, ammirando la moltitudine di colori.
Il moro continuò a pulire il vetro, pensieroso. Ian aveva questa strana fissazione pei colori che, per carità, potevano tranquillamente derivare dal suo amore per l’arte, ma qualcosa gli diceva che non era propriamente così.
-Perché non disegni?- si ritrovò a chiedergli ad un certo punto, lasciando stare la vetrata. Ian risbucò dalla sua rivista, confuso.
-Cosa?-
Mickey era sicuro di non aver visto un solo disegno nel suo album, c’erano solo fogli colorati e strappati, ma nessuna alba magica, nessun tramonto, nessun paesaggio. Solo e semplici accozzaglie di colori.

-Una volta mi hai detto “io non disegno, coloro”-
Ian lo guardò strano, il viso inespressivo. -Ah…te lo ricordi-

Mickey aspettò che andasse avanti ma Ian prolungò il silenziò finché Mickey non lo spronò a continuare.
-Io non disegno- ripeté meccanicamente- Non ho mai disegnato. Coloro e basta e questo è tutto-

Bugia colossale.

Mickey sapeva benissimo che Ian aveva disegnato eccome in passato, aveva la prova stampata sotto il suo cuscino, la prova di quell’alba mozzafiato vista attraverso i rami di un albero.
Ma perché lo negava, allora? Perché aveva smesso di disegnare? Perché non voleva dirlo?
Fece per aprire bocca ma Ian lo precedette. –Non voglio parlarne-
Non aveva mai usato un tono così perentorio, così Mickey decise di accontentarlo e non aggiungere nulla; evidentemente aveva in qualche modo toccato un tasto dolente.

Ian comunque parve accorgersi che la sua risposta tagliente aveva freddato un po’ l’atmosfera, così provò a rimediare. –Ti va… se ci facciamo un panino?- propose innocentemente.
Mickey scosse la testa, sorridendo. –Sei proprio un ingordo , lo sai?-

Ian si aprì in un sorriso, contento che il discorso si fosse alleggerito. –Perché?-
-Perché stai approfittando delle abilità ladresche di un semplice inserviente per poterti abbuffare- lo accusò lasciando i prodotti sul tavolo e avviandosi verso la mensa.

Ian alzò le mani in segno di resa. –Mi hai beccato!- poi chiuse la rivista e la ficcò nel suo album da disegni, seguendo il moro.
 
 ***
 
Era strano tornare a casa dopo il turno di notte, con la luce del sole che illuminava flebilmente le strade di Chicago. Non si era ancora totalmente abituato al nuovo orario, soprattutto era stato difficile rimanere sveglio la sera per poi dormire di giorno. Sentiva di non riuscire a recuperare mai del tutto il sonno perso. Comunque, a parte questo, poteva tranquillamente dire di starsi trovando abbastanza bene… quando incrociava Mandy in cucina, per fare colazione insieme con gli avanzi e alcune provviste che puntualmente rubava al Payer, sua sorella gli chiedeva come stesse andando, e lui rispondeva con una semplice scrollata di spalle.

A dirla tutta, non aveva voglia di raccontarle del suo lavoro, e soprattutto non aveva voglia di raccontarle di Ian.
Già… Ian.
Un ragazzino, un paziente, un internato con cui lui aveva fatto amicizia.

Era una situazione completamente assurda ma Mickey non si sentì particolarmente in colpa. Durante i turni notturni scambiavano semplicemente quattro chiacchiere; Ian lo seguiva un po’ dappertutto, a volte infastidendolo terribilmente con i suoi sproloqui sulle norme di sicurezza  e sugli agenti chimici, a volte se ne stava seduto a colorare  mentre lui metteva in ordine la sala, facendogli compagnia con la sua sola presenza. In quei giorni avevano parlato un po’ di tutto, di film, di cibo, della loro vecchia scuola scambiandosi aneddoti divertenti e il loro reciproco odio per la preside. Non avevano più parlato della crisi che Ian aveva avuto qualche giorno prima, né del motivo per cui avesse smesso di disegnare e né della sua malattia in generale.

E ad ogni modo, a Mickey andava bene così. Si sentiva stranamente tranquillo e sereno, come non lo era stato da tempo. Ogni tanto si ritrovava a fischiettare o a cantare sotto la doccia, a volte semplicemente sorrideva senza un apparente motivo per poi scuotersi e stamparsi in faccia la sua solita maschera d’indifferenza. Qualcosa comunque era cambiato. E lo notò anche Mandy quella mattina, quando Mickey le passò una scatola di uova presa al Payer.
-Sei strano- disse aprendo le uova e buttandole in padella.

Mickey si versò il caffè nella sua tazza e le lanciò un’occhiata. –Stronzate-
Mandy si limitò a guardarlo di sottecchi, aggiungendo un pizzico di sale nella padella. –Sarà… ma ti vedo diverso- insistette mentre Mickey prendeva posto a tavola, seguito subito da lei e dal profumo delle uova fritte.
Mickey si servì di una generosa quantità e se le ficcò in bocca senza troppe cerimonie. –Non sono diverso- la contraddisse sputacchiando cibo ovunque. Mandy fece una smorfia schifata, togliendosi un pezzo di uovo che suo fratello le aveva sputato su un braccio. –Forse hai ragione-
 
 
***
 

La notte seguente Mickey non trovò Ian da nessuna parte.
 
Non lo aveva visto neanche nella sala comune prima della cena. Fece il suo solito giro di pulizie gettando occhiate ovunque nella speranza di trovarselo improvvisamente davanti intento a disegnare o a vagabondare per i corridoi, ma nulla. Che avesse avuto un’altra crisi?

Dai compagni di Melissa però, non erano sopraggiunti altri pettegolezzi sui pazienti. La situazione era decisamente tranquilla e sotto controllo.
Mickey comunque, non riusciva a togliersi di dosso uno strano senso di inquietudine e preoccupazione. Ogni sera durante il suo turno, scassasse il mondo, Ian era sempre lì ad aspettarlo… dov’era finito?

Decise che alla fine del suo turno avrebbe dato una sbirciatina alla camera 241 per accertarsi che il ragazzino stesse bene. Si preparò a lavare l’ultimo corridoio del secondo piano e quasi non strillò per lo spavento. In fondo al corridoio c’era una figura scura rannicchiata sul pavimento. Da quella distanza Mickey non riusciva a capire di chi o di cosa si trattasse. Assottigliò gli occhi e brandendo la scopa si avvicinò di qualche passo, cauto. Una volta più vicino, riuscì a distinguere una chioma rossa fuoco.

-Ragazzino…-
Ian era seduto per terra con la schiena poggiata al muro, le gambe strette al petto, lo sguardo vacuo. Mickey si piegò per riuscire a guardarlo in viso.
-Ehi…-

Ian non rispose. Gli occhi erano fissi sulla parete bianca di fronte. Mickey gli scosse gentilmente una spalla, chiamandolo ancora, ma Ian sembrava lontano anni luce e ovunque fosse, Mickey sapeva che non poteva sentirlo.
Avrebbe dovuto chiamare aiuto?
-Ian?-

Nessuna risposta. Mickey si rimise in piedi, teso. Cosa poteva fare? Odiava sentirsi impotente di fronte al silenzio del ragazzino. Forse avrebbe dovuto chiamare qualche infermiere o i vigilanti di pattuglia…?

Si morse le labbra e decise di prendersi un po’ di tempo per pensare. Lo lasciò seduto lì assicurandosi che fosse comodo e prese a pulire l’ultimo corridoio di quel turno, sempre tenendolo d’occhio, sperando si ridestasse da un momento all’altro.

Una volta finito andò a lasciare il carrello e molto velocemente ritornò da Ian, che trovò nella medesima posizione. Si accovacciò al suo fianco e provò a chiamarlo ancora. 
Nulla.

Si passò una mano tra i capelli corvini, non sapendo cosa fare. Il suo turno di lavoro era finito e di certo non poteva lasciare Ian lì. Per qualche ragione l’idea di chiamare aiuto gli faceva dolere lo stomaco dalla paura; non poteva permettere che lo legassero o che gli iniettassero qualcosa.

Una vocina remota nella sua testa però, gli ricordò che i dottori quella volta si erano visti costretti a legarlo, perché Ian aveva preso a farsi del male da solo durante la crisi…
Ma Mickey scosse la testa. No. Non gli importava.

Anche se in quel momento Ian non stesse affrontando nessuna crisi e fosse semplicemente spento, decise che poteva gestire la situazione da solo. Senza altri indugi, stando attento, lo tirò piano per le braccia, scostandolo dalla parete. Poi, non sapeva neanche lui come, con uno slancio e un grugnito se lo tirò addosso, accomodandolo sulla spalla sinistra. Il busto e la testa di Ian ciondolavano morbidamente sulla schiena e le gambe erano tenute strette dalle sue braccia. Con un po’ di fatica e stando attento che nessun vigilante lo vedesse, riportò Ian nella sua stanza, adagiandolo sul letto. Gli rimboccò le coperte come sua madre faceva con lui e Mandy quando erano bambini e con delicatezza, con una mano, gli abbassò le palpebre per consentirgli in qualche modo, magari, di addormentarsi.

Si soffermò a guardare il suo viso lentigginoso, gli pareva che fosse più sereno e tranquillo adesso… e Mickey se ne sentì rincuorato.
-Buonanotte ragazzino-
Prima che uscisse dalla stanza si sentì chiamare.
-Mmm-mickeyy?-
Mickey si voltò immediatamente, gli occhi di Ian lo guardavano confusi.
-Ehi…-
Ian si umettò velocemente le labbra sollevandosi sui gomiti mentre Mickey si riavvicinava al letto.
-Dove sei stato?- gli chiese con la fronte corrugata, una nota di ansia nella voce. Mickey non seppe cosa rispondere. –Ti ho cercato tutta la sera- proseguì lui agitato, -ma non riuscivo a trovarti-
Il moro deglutì. –Ero qui… sono sempre stato qui-

Ian lo guardò continuando a non capire. –Ti ho chiamato! Ti ho cercato nella sala comune, in tutto il secondo piano e tu non c’eri!- lo accusò. –Sono andato anche nella mensa, in cucina e-…-
In quel momento Mickey vide chiaramente gli occhi verdi di Ian allargarsi, mentre lentamente la consapevolezza di quello che era successo in realtà si faceva strada nella sua mente.

Ian richiuse la bocca e distolse lo sguardo sentendosi a disagio. –Io… sc-scusami-
Mickey scosse la testa, sedendosi sul suo letto. –Va tutto bene-
-D-devo essermi perso…- continuò cercando di fare chiarezza tra i suoi pensieri –Io… io credevo di… credevo fosse reale.- disse sconnessamente mentre un brivido lo percorreva tutto.

Mickey si sentì profondamente dispiaciuto per lui. –Ora sei qui, non preoccuparti.- provo a dire, cercando in qualche modo di consolarlo. Ian sollevò i suoi occhi su di lui e lo guardò strano.
-Come faccio a sapere che adesso sei reale?- disse. –Come faccio a sapere che non sei nella mia testa?-
Mickey non sapeva rispondere a quella domanda, restò in silenzio per qualche secondo, sentendo lo sguardo del rosso bruciargli addosso. Poi gli tirò un forte pizzicotto sul braccio e Ian squittì dal dolore.

-Perché l’hai fatto?- chiese tenendosi la parte lesa, risentito.
-Ti ha fatto male?-
Ian annuì e Mickey sorrise. –Bene, se hai provato dolore, allora significa che tutto questo è reale.- spiegò affabile. –Ora cerca di dormire, non pensare più a nulla-
Non appena Mickey si alzò, Ian lo guardò con occhi enormi. –Ci vediamo domani?-
Era la domanda che Ian gli ripeteva ogni notte, prima che Mickey andasse via dal Payer. Era una sorta di tacito accordo, una promessa che Mickey tutte le sere si era ritrovato ad accettare.
Perché aveva bisogno anche lui di tener fede a quella promessa.
-Sì- acconsentì Mickey, facendolo distendere.

-E se non riuscissi a trovarti?- chiese spaventato. –Se mi perdessi di nuovo?-
-Allora ti troverò io.- promise Mickey lasciandogli una breve e fugace carezza sullo zigomo. Ian gli bloccò la mano di scatto e incatenò gli occhi ai suoi, guardandolo con una tale intensità che Mickey si sentì avvampare. C’era qualcosa di sbagliato nel modo in cui Ian gli stava stringendo la mano, nel modo in cui lo stava guardando, nel modo in cui la sua testa si stava sollevando dal cuscino per potersi avvicinare alla sua…

Seppe solo che dovette fare un passo indietro, per sfuggire a non sapeva bene cosa, e mettere qualche centimetro di distanza fra lui e la pericolosa nuvola di emozioni che aveva preso a vorticare davanti a lui.

Vide Ian fermarsi a metà strada, tra l’allarmato e l’imbarazzato, distogliendo finalmente lo sguardo. Mickey deglutì e si ficcò le mani in tasca, desiderando come non mai di scappare via da lì, lontano.

-Allora a domani- sussurrò. Ian non gli rispose, annuì soltanto senza guardarlo.
 
 
Mentre usciva dal Payer con l’alba che faceva capolino sullo sfondo, Mickey toccò il punto in cui le dita di Ian avevano stretto la sua mano, la pelle quasi bruciava. Pensò al modo in cui si erano guardati, al modo in cui il viso di Ian si era avvicinato pericolosamente al suo.

Che diavolo stava succedendo?

Note dell'Autrice: Devo ammettere che ho avuto un bel po' di difficoltà nella stesura di questo capitolo perché man mano che lo scrivevo continuavo a sentirlo "slegato". Avete avuto anche voi la stessa impressione o sono io che mi sto facendo mille pippe mentali? Comunque stiamo entrando nel vivo della storia e si sta iniziando a smuovere qualcosa... dovevo farlo perché appunto, come avevo detto all'inizio, questa fic non sarà lunghissima, quindi devo far rientrare tutto nei "tempi". Fatemi sapere cosa ne pensate! Un bacione!
   
 
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