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Autore: Spoocky    01/08/2018    4 recensioni
I pensieri, le paure e le emozioni di due giovani soldati russi subito prima e dopo la battaglia di Kursk.
Ispirata dalla famosa foto che ricostruisce l'evento.
Partecipa alla 26 prompt challenge del gruppo Hurt/ Comfort Italia - Fanfiction & Fanart [https://www.facebook.com/groups/534054389951425/] prompt 12/26 Adrenalina - 14/26 Superstite
Genere: Angst, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
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Or ora, la trama e i personaggi sono miei. 
Per quanto ispirata a fatti realmente accaduti, questa è un'opera di finzione che non intende in alcun modo danneggiare la memoria dei sopravvissuti, se mai - a suo modo - onorarla.
Ho scelto di non dare cognomi ai miei personaggi per aumentare il senso di anonimato ed estraneamento.
La foto a cui mi sono ispirata è questa: 
http://i.imgur.com/MHFnVla.jpg
Per chi non lo sapesse, si tratta di una ricostruzione effettuata in studio nel 2007, non è però chiaro se ci fosse uno scatto originale andato perduto o se sia un'opera di inventiva del fotografo. In entrambi i casi l'ho trovata molto toccante e ho voluto ricostruire i sentimenti dei personaggi ritratti in essa.
Se il rating vi sembra troppo basso, fatemi sapere e provvederò a cambiarlo in Rosso. 


Buona Lettura ^.^




Vitalj sentì il cuore gonfiarsi nel petto alle parole del generale e, in quel momento fu come se gli stesse pompando del fuoco liquido nelle vene.
Gridò, e con lui tutti gli altri, un grido unanime, il ruggito dell’orso russo contro lo spauracchio dell’aquila teutonica.

Mikhail, spalla a spalla con lui, non gridava. Rannicchiato su se stesso, tremava e sussurrava qualcosa di inintelligibile, a guardarlo bene stava piangendo. Le sue lacrime, minuscole gemme di angoscia, scavarono dei solchi negli strati di polvere, sudore e olio di motore e fu come se, nella loro innocenza, cercassero di lavare via anni di lordura provocati dalla guerra.
Lo sporco rimase, sul suo viso, sulle mani e sull’uniforme, sua come degli altri ormai quasi indistinguibili se non per la voce.
Davanti alla morte siamo tutti uguali, pensò, stringendo tra le dita il crocifisso che la madre di suo padre gli aveva dato prima che partisse. Se glielo avessero trovato addosso sarebbe stato condannato alla corte marziale, congedato con disonore e probabilmente spedito in Siberia. Ma per il conforto che quel piccolo scampolo d’argento gli portava, valeva la pena correre il rischio.

Era riuscito a tenerlo pulito, il suo crocifisso. Lo teneva ben nascosto in un taschino interno della giacca e, ogni sera, con il pretesto di andare alla latrina, lo lucidava con un lembo della manica. Non che dovesse sforzarsi più di tanto: se lui a fine giornata era più sudicio del buco in cui pisciavano, quell’oggettivo sembrava non poter essere intaccato dallo schifo che li circondava.
Nessuno lo aveva mai scoperto, solo Vitalj – con il quale era partito dal loro sperduto villaggio nel Sud degli Urali e con il quale aveva sempre condiviso tutto – ne era al corrente ma si sarebbe fatto sparare in testa prima di fare la spia.
Anche perché, secondo lui, la religione non era che un miscuglio di superstizioni.

 “Roba da vecchiette di paese.” Aveva detto un giorno, togliendosi di bocca una sigaretta,
(inglese come i carri armati che avrebbero guidato di lì a poco)
“Roba da vecchiette... e da Misha!” aveva riso, Vitalj, dopo quel motto di spirito e aveva sparso volute di fumo per tutta la stanzetta in cui erano alloggiati insieme agli altri camerati.
Anche gli altri avevano riso e Mikhail con loro, perché aveva notato la strizzatina d’occhio di Vitalj.
Sapeva che quella crocetta sarebbe rimasto un segreto soltanto loro e che l’amico aveva pensato di prendere in giro gli altri facendo credere loro che davvero non ci fosse nulla mentre in realtà qualcosa di nascosto c'era.
Quel genere di bambinate lo divertiva un mondo.


Perso nei suoi pensieri, nei suoi ricordi, Mikhail non si accorse che il generale aveva finito finché Vitalj non gli passò un braccio dietro le spalle, scuotendolo vigorosamente: “Coraggio, Misha! Per il popolo! Per Stalin! E per il culone di Nikita!”
“Sì, sì, Nikita. Nikita Khrushchev!”rispose lui, senza convinzione. Quella botta di adrenalina, quel coraggio liquido che si era impossessato dei suoi compagni, lui proprio non ce l’aveva.
Vitalj lo sapeva, e lo strinse forte prima di separarsi e andare ai rispettivi carri: “Lo vedi Misha: questo è lo spirito giusto! Coraggio, dopo oggi sarà tutto finito: torneremo a casa. Io a far l’amore con Nikita in mezzo ai prati, tu a far cose da vecchi con tua nonna. Staremo bene: te lo prometto.”
Prima di accomiatarsi fece una cosa che non aveva mai fatto, gli premette forte le labbra su una tempia e gli sussurrò: “Sei il migliore amico che io abbia mai avuto, Misha. E il migliore che si possa sperare di avere. Ricordatelo sempre.”
Sconcertato da quella rara quanto irregolare dimostrazione di affetto, Mikhail non riuscì che a balbettare un “Anche tu.”
Sottovoce, come un segreto solo loro.

Poi si divisero, ognuno al proprio carro, cuccioli d’orso con armature inglesi sul campo di Kursk.
 

Si lasciò scivolare fuori dalla cabina di pilotaggio e giù per i cingoli del carro.
Registrò appena l’impatto delle piante dei piedi sul terreno e si allontanò barcollando, trascinandosi senza meta come gli altri intorno a lui, curvi e claudicanti, silenziosi come spettri, avvolti da una nuvola di terra che sembrava aver oscurato il sole.

Alla fine l’aveva avuto, il suo picco di adrenalina, sarebbe stato impossibile non averlo.
Nella cabina di un mezzo corazzato ci si sentiva al sicuro, potenti e invulnerabili.
Il mezzo sembrava proseguire autonomamente per la propria strada, schiacciando e devastando ogni cosa si parasse sul suo cammino. Morte, sangue e ferite non potevano entrare in quella cabina. Si sentivano forti, intoccabili, avevano urlato e imprecato, esultato e gridato di nuovo: un’euforia pazzesca ed innaturale si era impossessata di loro,  pompando nei loro corpi come un carburante superconcentrato.
Poi però se n’era andata, tanto improvvisamente quanto era arrivata, era svanita.
Si erano trovati con il culo per terra, di colpo consapevoli del peso delle loro azioni e soprattutto, delle ferite riportate. Nessuno ne era uscito illeso, fosse anche per un graffio su una guancia o un occhio nero tutti stavano sanguinando. Tutti erano rimasti segnati da quell’orrore.
Fino a quel giorno non avevano mai riflettuto veramente su quanto fragile fosse in realtà quel guscio protettivo.

Tutto intorno era stato un boato continuo e impenetrabile nemmeno il fragore degli spari, che di solito sembrava squarciare l’aria come le trombe dell’Apocalisse, aveva infranto il rombo infinito dei motori, il clangore delle lamiere che si scontravano e si accartocciavano come carta.
Hell is empty. And all the devils are here[1]
Lo aveva sentito dire una volta da un soldato inglese che glielo aveva poi ripetuto in un Russo approssimativo.
Sembrava scritto apposta per quella circostanza: davvero sembrava che tutti i demoni dell’Inferno fossero usciti sulla Terra a gozzovigliare delle loro paure, dissetandosi col sangue delle loro ferite, nutrendosi del frutto osceno della morte che avevano seminato, banchettando con le loro anime lordate dai crimini che avevano compiuto.
Vitalj.
Doveva trovare Vitalj.
Dovevano andare via di lì, era ora di andare a casa.
La mamma si sarebbe arrabbiata se avesse lasciato di nuovo raffreddare la minestra.


Un globo denso, appiccicoso e rossastro gli colò in un occhio e solo allora si rese conto di essere ferito anche lui.
Si accorse che il fianco sinistro gli pulsava di un dolore assurdo ogni volta che poggiava il piede a terra e che i pantaloni gli si stavano incollando alle gambe per via di una serie di piccoli tagli sparsi ovunque sui suoi arti inferiori.
La consapevolezza del dolore lo rese cosciente di un’altra atroce realtà: quella di essere solo.
Tutti i suoi compagni, che aveva visto strisciare fuori dalle lamiere squassate insieme con lui, erano scomparsi. Intorno solo il vuoto, una distesa indefinita puntellata dai relitti delle loro invincibili macchine da guerra.
Il sibilo inarrestabile, il tintinnio che gli riempiva le orecchie dopo ogni esplosione regnava incontrastato su tutto. Questa volta il rumore era stato tanto forte da fargli sanguinare i timpani ma lui non poteva vedere il sangue che gli usciva dalle orecchie, ed era troppo stordito per notare anche quel dolore mentre si trascinava in una ricerca disperata in quel silenzio innaturale.
Ovunque sangue, metallo deformato e cadaveri mutilati, alcuni dei quali talmente ustionati da essere a malapena riconoscibili come esseri umani.

Quanti ne erano scampati dei loro? Quanti dei Tedeschi?
Possibile che fosse sopravvissuto solo lui?
E se invece fosse già morto e quello fosse l’Inferno?


La vista gli si affievoliva e la testa gli girava sempre di più.
L’impulso di accasciarsi a terra dove si trovava e chiudere gli occhi, lasciandosi morire in quel campo di morte che aveva voltato le spalle a Dio. Ultimo superstite di quello scontro disumano.
A quel punto andava avanti di pura volontà, cercando di urlare il nome dell’amico.
E davvero urlava a pieni polmoni, tanto da dover tossire ripetutamente a causa delle costole rotte che gli spezzavano il fiato, ma non poteva sentirsi.  
Forse era quella resistenza disperata a renderlo un superstite: la brutale furia umana non era riuscita a spazzare via quanto di buono ancora aveva. L’innocenza della sua anima era sopravvissuta alla barbarie animalesca che il suo corpo aveva contribuito a commettere.

Uno sprazzo improvviso di luce interruppe la sua camminata da automa.

Vitalj aveva sempre avuto un tratto estremamente particolare, che gli aveva creato non pochi problemi negli ultimi anni: era biondo cenere e con gli occhi azzurri.
Molti Russi avevano i capelli e gli occhi chiari, ma ce n’erano ben pochi dove abitavano loro e questo aveva indotto alcuni – che pure lo conoscevano da anni – a pensare che fosse una spia dei Tedeschi.
Ora però, quegli stessi capelli permisero a Mikhail di ritrovarlo, brillando inconfondibili in mezzo alla terra brunastra mentre era disteso con il volto a terra, in una pozza di sangue vicino al suo carro armato.
Avrebbe potuto essere chiunque altro ma lui sapeva, sapeva che quello era Vitalj.
Ne aveva la stessa certezza di una madre che veda il figlio per la prima volta e non sbagliò.

Accasciandosi accanto all’amico di una vita si accorse immediatamente della chiazza brunastra che gli impregnava il retro dell’uniforme partendo dalle reni.
In quel momento capì che se Vitalj fosse riuscito a sopravvivere non avrebbe mai più camminato, ma quello era un pensiero ancora lontano. Per arrivarci sarebbero dovuti uscire da lì, cosa già abbastanza improbabile se non impossibile.
Inghiottendo un groppo immane, mentre le lacrime di prima minacciavano di ripresentarsi, raccolse l’amico da terra e se lo pose in grembo.
Durante l’addestramento gli avevano insegnato a non spostare un ferito che avesse subito lesioni spinali ma decise di proseguire comunque: ormai il danno era fatto, non poteva fare di peggio.
Lo strinse forte a se, lasciando finalmente cadere le lacrime che ormai a stento tratteneva.
Poco dopo sentì l’altro ricambiare la stretta.

Rimasero così, stretti l’uno all’altro, per un tempo indefinito, forse per sempre.
Cuccioli d’orso sperduti sul campo di Kursk.
- The End -
 
Note:
 
[1] “L’Inferno è vuoto. E tutti i demoni sono qui.” W. Shakespeare “La Tempesta” Atto I, scena II. La traduzione è mia.

Fatemi sapere che ne pensate, anche se vorrete insaccarmi di parole: è uno dei primi tentativi con un'originale e vorrei sapere cosa funziona e cosa no.
Grazie a tutti ^.^


 
  
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