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Autore: Sinkarii Luna Nera    04/08/2018    5 recensioni
Prequel di ''Reflecting Mirrors"
Una Lusan, un Hakaishin e tutto ciò che è avvenuto prima che centinaia di milioni di anni, assieme a centinaia di milioni di situazioni complesse, portassero al presente per come lo conosciamo -nel bene e nel male.
(Ignoro il motivo per cui l'amministrazione si sia divertita a cancellare un'intro che è stata qui per anni, ma non abbia ancora cambiato il mio nick. Misteri della fede.)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Champa, Lord Bills, Nuovo personaggio, Vados, Whis
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Reflecting Mirrors'
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L’aria che si respirava era tesa.
 
L’ultima e unica volta in cui i quattro Lusan presenti nella stanza circolare dalle pareti di nuda pietra erano riusciti a stare nello stesso posto e guardarsi negli occhi senza cercare di massacrarsi a vicenda era stata quella in cui il Trattato tra Città, quello che aveva sancito una tregua ormai morta e sepolta, era stato firmato.
 
I capi delle quattro città rimaste avevano ritenuto opportuno -con sommo rammarico- un incontro per decidere cosa fare contro Calida, Dolmer e relativi soldati. Se fosse stata una singola città a tentare l’assalto non si sarebbero riuniti, sicuramente non avrebbero neppure pensato di farlo, ma l’alleanza tra Ulthmeer e Kahzameer aveva scosso profondamente tutti quanti nella valle.
Gli abitanti delle due città coinvolte magari erano troppo impegnati a battagliare e gioire dei successi per rendersi veramente conto della portata di un simile evento, ma tutti gli altri erano rimasti attoniti, confusi, completamente impreparati.
C’era chi inizialmente si era perfino rifiutato di crederci, c’era chi invece non s’era mosso pensando che una simile assurda unione sarebbe durata meno di un fuoco di paglia; poi però Moriameer era caduta, Sarumeer -difficile da prendere al punto che loro credevano che sarebbe riuscita a far desistere gli alleati- anche, e se n’erano fatti una ragione: se qualcuno non avesse fermato Calida e Dolmer, sarebbero stati i prossimi.
 
«Dobbiamo massacrarli prima che ci massacrino loro» sentenziò uno dei capi, il più giovane tra loro, nero dalla testa ai piedi «Gli eserciti di due città, pur con l’aggiunta di prigionieri da mandare al macello in prima linea, non possono competere con un’armata doppiamente numerosa».
 
«Davachanut’yun yem, Artas» borbottò l’unica donna presente, mandando a quel paese il collega.
 
«Danae Luthmeer a-ghekavary, quest’idea non piace affatto nemmeno a me, però non vedo grandi alternative. A dirla tutta siamo stati stupidi a sperare che le cose si risolvessero da sole in nostro favore. Avremmo dovuto agire già dalla caduta di Moriameer, se non da prima ancora…»
 
«Thandrumeer è stata distrutta principalmente dalla frana della montagna. È stata Calida a provocarla, ma questo è un dettaglio. Abbiamo capito che era meglio lasciare in pace la città di Utlhmeer, ma ai tempi non c’erano le condizioni perché una devastazione del genere fosse ripetibile» disse il più vecchio tra i Lusan presenti «Ad ogni modo, l’alleanza tra Kahzameer e Ulthmeer è un abominio. Un qualcosa di innaturale, destinato a finire male. Voi tre, nessuno escluso, ai tempi avete fatto a Calida una proposta di matrimonio: devo ancora capire perché».
 
«Ma allora sei coglione, Larraz!» sbottò  il solo Lusan che fino a quel momento non aveva aperto bocca «Il “perché” che tu devi ancora capire è la precisa ragione perché ci siamo riuniti oggi! Credi che a me vada a genio l’idea di allearmi con persone che per anni ho considerato mie nemiche?! No! Ovvio che no! Preferirei staccarmi le dita a morsi! Ma per il bene della mia città mi sono messo una mano sulla coscienza, sono venuto qui e sono costretto ad appoggiare Artas. Dovremmo estirpare la piaga ora, prima che peggiori!»
 
«il fatto che la tua città sia quella più vicina a Sarumeer, e dunque la prima che verrebbe attaccata, non c’entra nulla… vero, Galel?» insinuò Danae, con un sorriso maligno sul volto rossiccio.
 
«Hai poco da ridere, dal momento che dopo la mia verrebbe la tua» ribatté il Lusan «E dopo la tua, quella di Larraz».
 
«Le città sono sempre state nemiche tra loro, è così che dev’essere ed è così che le cose devono rimanere» insistette quest’ultimo, incrociando davanti al petto le braccia candide «Se la pensate diversamente, è segno che voi “giovani” state perdendo il senno. L’unione di persone di città diverse porta disgrazia».
 
«Avresti dovuto spiegarlo a quella tua nipote che, se non erro, poco più di vent’anni fa rimase incinta di un Luthmeeriano che avevate catturato e fuggì con lui» disse Danae, aggiungendo una risata da iena «Quella storia mi fa ancora ridere il giusto, caro Beremeer a-ghekavary».
 
Fu con una velocità insospettabile che il vecchio Lusan dagli occhi azzurro scuro tirò fuori una cerbottana da sotto il mantello, soffiando contro Danae un dardo avvelenato che questa riuscì a evitare per pura fortuna.
 
«TI IMPICCO CON LE TUE STESSE BUDELLA, VECCHIO SCHIZZATO!» sbraitò la Lusan, sguainando la spada «Ti faccio ingoiare quella fottuta collana di perline di vetro, ti taglio le mani e te le infilo entrambe nel culo insieme alla cerbottana, hai capito?!»
 
«E dovrei allearmi con questi due?» sospirò Galel, sistemando pigramente le pieghe della casacca bianca come il suo pelo.
 
«Io sono ancora stupito del fatto che tu sia d’accordo con me riguardo il fatto di unirci tutti contro Dolmer e Calida» ammise Artas.
 
«Sono una persona più pratica di quel che credi. Per quel che mi riguarda dobbiamo attaccarli il prima possibile, senza perdere tempo a cercare di prenderli per fame come hanno fatto loro con quelli di Sarumeer. Anzi, non m’interessa neppure tenere in piedi quella città» aggiunse il Lusan «Anche se è un buon avamposto. Che i nostri cannoni tutti uniti la buttino giù, se serve a far fuori quei due prima che arrivino qui a divorarci gli occhi. A quel punto, di avamposti non ne serviranno più».
 
«Crepa, crepa, CREPA!» sbraitò Danae, cercando di infilzare Larraz -il quale si difendeva con un semplice bastone metallico appuntito- senza particolare successo.
 
«Danae, se non la fai finita ti avviso che io e il qui presente Galel potremmo decidere di attaccare insieme la tua città prima di dare addosso ai nostri nemici comuni!» la avvisò Artas.
 
«È stato questo vecchio stronzo decrepito a cominciare, non io!» sbottò la Lusan, spostando dal volto alcune ciocche dei capelli d’un biondo ingrigito dal tempo «Sentitemi bene: posso anche decidere di allearmi con voi a due condizioni. La prima è che mi lasciate dare il colpo di grazia a Calida. Almeno impara a rifiutarmi…»
 
«Alleanze tra città, proposte di celebrare un matrimonio che non porterebbe figli, ma dove siamo finiti?» borbottò Larraz.
 
«La seconda è che una volta finito con Calida e Dolmer mi lasciate attaccare in pace la città di questa cariatide che è Larraz, senza che voi tentiate di prendere la mia!» proseguì Danae, ignorandolo.
 
«Per la prima condizione non ci sono problemi, se ci riesci puoi tranquillamente ucciderla tu. Per la seconda, una volta che ci saremo occupati dei nostri nemici tutto tornerà com’è sempre stato, quindi personalmente non prometto alcunché» disse Galel «Devi accontentarti».
 
«Non è neppure detto che tu, a quel punto, sarai ancora abbastanza viva da poter cercare di prendere la mia città» fece notare Larraz a Danae «Sono abbastanza convinto che sarai la prima di noi a morire. Attacchi troppo impulsivamente».
 
«Parla quello che ha cercato di avvelenarmi con una cerbottana!» sbottò la Lusan.
 
«Senza che tu, nel vendicarti, riuscissi a sfiorare questo povero anziano che sono. Fa riflettere».
 
«Larraz, anche la tua città verrà attaccata. Non puoi riuscire a mettere da parte le tue convinzioni almeno per il bene della tua gente come faccio io, come ha fatto Galel?» insistette Artas «Rifiutarti di partecipare perché convinto a prescindere che “tanto non poterà a nulla di buono” non ha senso. Dobbiamo almeno tentare».
 
«Immagino di essere costretto ad accettare, in caso contrario mettereste in pratica sulla mia città quel che avete minacciato di fare a quella di Danae» disse il vecchio, con una buona dose di disprezzo nella voce «Ma quando tutto andrà a finire nel dolore, nel fuoco e nel sangue, perché la nostra unione non poterà a nulla di buono, ricordate che io vi avevo avvisati».
 
«Che Q’thulu maledica te e la tua lingua velenosa» ringhiò Danae «La situazione è già sgradevole senza che ti metta a portare iella, non ti pare?!... Galel, Artas, a quando l’attacco? Prima sbrighiamo questa faccenda, meno durerà la nostra alleanza».
 
«Io so di poter essere pronto ad attaccare Saurmeer già stasera al crepuscolo» affermò Galel «Se voi riusciste a prepararvi per quell’ora potremmo sbrigare la questione in fretta. In fin dei conti non c’è molto da pianificare, non trovate? Dobbiamo solo sfruttare la nostra potenza di fuoco congiunta per buttare già quella città e chiunque si trovi all’interno».
 
«Io e l’intera Gandameer, o quasi, ci saremo» annuì Artas.
 
«Io anche» disse Danae, rinfoderando la spada.
 
Larraz alzò gli occhi al soffitto. «Finirà male. Lo sento».
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«Basta. Andrò a prendere i soldati “freschi” della mia città e della tua, che a te la cosa piaccia oppure no. Siamo due capi con pari disponibilità di forze e dobbiamo cercare di andare d’accordo, ma io mi sono stancata di quest’attesa inutile che dura da troppo tempo».
 
«Calida, sono solo sei giorni in p-»
 
«E noi avremmo dovuto attaccare la città più vicina già sei giorni fa. Era mia intenzione partire dopo una settimana, tu invece hai voluto per forza procrastinare».
 
Calida e Dolmer, come da piani, avevano occupato la città di Sarumeer.
Al momento si trovavano in quella che era stata la casa della loro defunta collega, strappata alla vita dalla pestilenza che loro avevano contribuito a creare, e quella che stavano facendo, illuminati dalla luce rossastra di un tramonto iniziato da un po’, non era la “chiacchierata” più tranquilla che avessero avuto da quando si erano sposati -tanto per usare un eufemismo.
 
«Ho ritenuto che servisse del tempo in più, sì» ribatté Dolmer «In poco tempo abbiamo devastato una città, ne abbiamo assediata un’altra respingendo le sortite dei suoi abitanti per poi assaltarla, e alcuni dei nostri uomini avevano contratto il morbo, quindi era necessario».
 
«Primo: a un certo punto gli abitanti di Sarumeer avevano smesso di fare sortite, dunque tempo per riposare c’è stato. Secondo: una settimana sarebbe bastata, specialmente perché ci sono anche altri soldati che avremmo potuto impiegare. Terzo: avevamo messo in conto che alcuni dei soldati più vecchi o meno in salute sarebbero stati a rischio, non c’è nulla di sorprendente. Abbiamo soltanto perso tempo».
 
Il Lusan scosse la testa. «Non la penso nello stesso modo e non rimpiango di aver aspettato un pochino di più. Se non ci hanno attaccati durante l’assedio-»
 
«Se non l’hanno fatto è stato perché evidentemente non riuscivano ancora a capacitarsi del tutto, e magari perché speravano che sarebbe andato tutto a rotoli» replicò Calida «Tuttavia non è andata così! Abbiamo preso Sarumeer, siamo praticamente alle porte delle loro città, se non tentassero qualcosa sarebbero completamente idioti».
 
 
 
“Tu sei convinta del contrario, ma tornerai a cercarmi, Calida Ulthmeer a-ghekavary. Tornerai eccome”.
 
 
 
In quelle due settimane le erano spesso tornate in mente le parole di Rubedo, quel monito, quella sottospecie di profezia. “Tornerai a cercarmi”.
Tempo prima Dolmer le aveva fatto quel discorso riguardo il “dopo”, ma aveva creduto di essere riuscita a schiacciare la pulce che le aveva messo nell’orecchio. Si era sbagliata, e quelle due settimane di relativa inattività le avevano riportato alla mente Rubedo, Rubedo e le sue parole, Rubedo e il suo potere.
Rubedo e il suo patetismo completo.
Rubedo e l’idea dell’affrontare una possessione da parte sua.
 
“Anche se ora mi sento decisamente meglio, resta una pessima idea. Pessima!” si ripeté la donna.
 
«Devo ringraziare Q’thulu che tu non abbia tentato di convincermi minacciando di strapparmi gli occhi, immagino» disse Dolmer.
 
«Non ringraziare il tuo dio, ringrazia il mio buonsenso e il mio buongusto nell’evitare di fare minacce che non potrei mettere in pratica, o meglio, che non potrei mettere in pratica senza conseguenze» si corresse Calida, impassibile «Le alleanze hanno i loro pro e i loro contro».
 
«Se non ho accettato di partire non è stato per ostruzionismo fine a se stesso. Finora siamo riusciti ad andare piuttosto d’accordo, non potremmo continuare?»
 
«Continueremo ad andare d’accordo se partiremo quando sarò tornata con altri soldati. Tu finora hai accettato di seguire molti dei miei piani d’azione» riconobbe la Lusan «Motivo per cui tutto sommato ti sono venuta incontro, ma siamo in ritardo di quasi una settimana sulla mia tabella di marcia. È tempo di andare».
 
Dolmer restò in silenzio per qualche attimo, per poi fare un cenno di assenso. «Dovremmo attaccare questa sera stessa?»
 
«È quel che ho detto poco fa. Considerando che tutto è pronto da sei giorni, non resta altro da fare se non dare l’ordine. Io vado» concluse Calida, muovendosi a grandi passi in direzione dell’ingresso.
 
«Calida».
 
Sentendosi chiamare dal marito, lei si voltò. «Sì?»
 
«So che quel che sto per dire non c’entra nulla con il contesto, ma pensando a quel “tutto sommato ti sono venuta incontro” mi sono reso conto di non averti mai detto che questo matrimonio alla fin fine è meno peggio di quanto avessi pensato. Ammetto che mi ero immaginato un altro tipo di trattamento».
 
Calida sollevò un sopracciglio. «Cercavo un alleato, non un ulteriore problema. Tornerò presto. Fatti trovare pronto».
 
Dette quelle ultime frasi lapidarie prese congedo e, senza neppure curarsi di farsi affiancare da qualche soldato, uscì da Sarumeer per dirigersi a Ulthmeer.
Avrebbe potuto mandare qualcuno a portare il messaggio invece di muoversi personalmente, ma aveva preferito così, forse perché anche in un frangente del genere aveva sentito la necessità di trascorrere del tempo da sola, tempo che andare da Sarumeer a Ulthmeer le avrebbe concesso.
Gli impegni attuali gliene lasciavano poco, e gliene lasciavano ancor meno per andare a fare visita alla sola persona che avrebbe voluto vedere davvero.
Dall’assedio di Sarumeer in poi era riuscita a vedere Anise solo in un’occasione. Era già tanto così, Calida ne era consapevole -e se non altro grazie a quella visita aveva saputo che Anise, in quei giorni, non sarebbe stata sul pianeta- però era un po’dispiaciuta di non poterla vedere un po’di più adesso che la propria salute mentale era migliorata.
A tal proposito, se da un lato la fredda logica le imponeva di non credere alla stabilità di miglioramenti miracolosi, dall’altro lato non riusciva a soffocare la flebile -e comprensibile- speranza che quella condizione durasse davvero. Era da tempo ormai che non si trovava più a supplicare che quell’incubo avesse termine o a prendere in mano un pugnale col pensiero di porvi fine personalmente.
 
Mentre passava vicino a una piccola collina le parve di iniziare sentire del rumore di troppo, quello di un folto gruppo di persone ammassate, provenire da una certa distanza.
Non proveniva da Ulthmeer, non proveniva da Kahzameer; per un istante pensò che provenisse da Sarumeer ma concluse presto che no, era troppo lontano.
 
Corse in cima alla collinetta -da un punto leggermente più alto avrebbe visto meglio cosa stava accadendo- e, quando puntò lo sguardo in direzione delle quattro città che restavano da affrontare, si sentì gelare.
Al di fuori delle mura nemiche si stava radunando un’armata che, per gli standard della valle, era la più grande che si fosse mai vista. Un esercito che non poteva appartenere a una singola città, nemmeno a due: o erano tre armate molto numerose, o tutte e quattro le città, nessuna esclusa, si erano unite. Era facile immaginare chi fosse il loro bersaglio.
 
«Sarumeer» sibilò.
 
Strinse i pugni, poi lasciò ricadere mollemente le braccia lungo i fianchi, osservando la scena con aria cupa.
Lei e Dolmer avrebbero potuto gestire l’attacco di due città, forse con la giusta strategia e l’utilizzo di soldati più freschi - nonché di prigionieri di Moriameer costretti a combattere per loro- avrebbero potuto gestirne persino tre, ma affrontare con successo un esercito simile era impensabile.
Era una cosa che sapeva perfettamente, proprio come sapeva che lasciare Dolmer al proprio destino non avrebbe migliorato la propria situazione: una volta occupatisi di Sarumeer, gli eserciti nemici avrebbero attaccato anche la sua città e una Kahzameer i cui abitanti, privi del proprio capo, sarebbero diventati delle mine vaganti dal comportamento imprevedibile.
Anche cercare di aiutare Dolmer, tuttavia, non avrebbe portato a nulla. Avrebbe potuto irrompere nel campo di battaglia con i soldati che in teoria stava andando a prendere ma, considerando il terreno, la potenza messa in campo e il numero, non avrebbe ottenuto altro che una disfatta.
 
Proprio quando aveva iniziato a credere che una volta scesa a compromessi la realizzazione del suo sogno fosse possibile, proprio quando aveva iniziato davvero a immaginare di poter avere la valle nelle proprie mani, le sue peggiori previsioni si erano avverate.
 
“Se ci fossimo mossi prima, le città da affrontare sarebbero state al massimo tre” pensò “E avremmo avuto anche dei nuovi prigionieri da poter utilizzare in battaglia. Se ci fossimo mossi prima…
 
Era stato tutto inutile: il matrimonio, le conquiste fatte, tutto stava per andare in fumo indipendentemente dalla sua prossima mossa.
Contemplò l’idea di una fuga, provando ribrezzo per se stessa meno di un secondo dopo: non avrebbe ottenuto nulla se non una vita nel disonore più completo, per non parlare del fatto che avrebbero potuto farsi venire la brillante idea di cercarla nella foresta.
La stessa dove viveva Anise, che fino a quel momento era stata risparmiata grazie alla tregua, al fatto che la sua abitazione fosse tutto sommato ben nascosta e, forse, anche a un pizzico di fortuna. Vero, Anise era ancora fidanzata con Lord Beerus, ma tra loro due non andava più molto bene, non vivevano insieme, dunque non c’era nulla che le garantisse che lui, in caso di attacco, sarebbe stato lì per evitarle il peggio.
 
Fissando l’armata in lontananza, Calida emise un ringhio di frustrazione e disperazione.
Non c’era niente che potesse fare.
 
 
 
“Tu sei convinta del contrario, ma tornerai a cercarmi, Calida Ulthmeer a-ghekavary. Tornerai eccome”.
 
 
 
Sgranò gli occhi verdastri, mentre il cuore iniziava a battere con tanta violenza da risultare quasi fastidioso. Le era quasi sembrato di sentire veramente la voce di Kamandi/Rubedo nella testa, e ciò le aveva ricordato che definendosi del tutto impotente davanti al disastro mentiva, qualcosa che poteva fare c’era: correre nella foresta, andare a Vynumeer con il carrello, immergersi nel lago e andare a prendere quella maledetta corona.
 
«No. Non posso. Non voglio» scosse la testa «Non voglio condividere il mio cervello con qualcun altro, non adesso che sto meglio, non posso farlo, non voglio farlo! Mi sono sposata proprio per evitare questo, e adesso dovrei?!...»
 
“Tornerai a cercarmi”.
La profezia di quell’essere inutile e patetico, del cui potere però aveva bisogno, alla fine si era rivelata corretta.
Oltre alla corona non vedeva alternative, solo buio completo.
 
«Non voglio» sussurrò.
 
Pensò a Ulthmeer, la sua città, che aveva curato per anni e che sarebbe stata devastata; pensò a tutta la fatica fatta fino a quel momento, che non era stata poca e le aveva portato via del tempo che avrebbe potuto passare con Anise; pensò ad Anise stessa, alla quale poco importava di Ulthmeer e della valle, ma alla quale sicuramente importava di lei.
 
Calida rivolse lo sguardo verso la foresta.
Rubedo era un essere che era stato incorporeo per migliaia di anni, giusto? La sua salute mentale era migliorata, giusto? Non era detto che riuscisse a sopraffarla, non adesso.
Forse poteva farcela. Forse poteva accogliere nella propria testa un ospite indesiderato e riuscire a sfruttarlo senza pagare un prezzo troppo alto.
Del resto cos’altro avrebbe potuto fare? Se c’erano altre opzioni, non riusciva a trovarle.
 
Col cuore pesante, una morsa allo stomaco, paura e un barlume di speranza messi insieme, Calida iniziò una corsa sfrenata in direzione della foresta.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
L’istante in cui Dolmer aveva posato gli occhi sullo spiegamento di forze dei loro nemici, quello in cui aveva visto il gran numero di cannoni edi catapulte, aveva sentito su di sé tutto il peso di quello che sarebbe stato un massacro annunciato, del quale stavolta sarebbero stati lui e Calida a fare le spese. O meglio, lui e i soldati, perché Calida aveva deciso di andare a Ulthmeer per procurarsi i soldati, ciò poco prima di un attacco in forze di quattro città messe insieme.
Che caso fortuito! Che buona occasione per darsi alla macchia e lasciar massacrare tutti quanti loro!
 
“Hai veramente deciso di lasciarci al nostro destino? Pur sapendo benissimo che se qui e ora noi cadiamo tu sarai la prossima?!” pensò il Lusan, stringendo con forza l’elsa della spada.
 
Che Calida avesse sentito qualcosa, quel giorno?
Che fossero arrivate al suo orecchio voci che l’avevano avvertita di un’alleanza e avesse deciso di togliersi di torno per quella ragione?
Il dubbio era legittimo, anche se lui per primo non avrebbe mai detto che Calida fosse tipo da darsi alla fuga quando c’era da andare in battaglia, ma doveva ammettere a se stesso che quella non sarebbe stata una “battaglia”, quanto piuttosto una condanna a morte dovuta al suo essersi impuntato su ragioni che no, magari non erano sbagliate, ma si erano rivelate fonte di una perdita di tempo che stava per portarli alla rovina.
Era qualcosa di cui Dolmer era fin troppo cosciente, qualcosa di cui sentiva di essere colpevole. Era stato lui a insistere per far riposare i propri uomini nonostante Calida premesse per partire.
Non l’aveva forse avvertito, sua moglie, riguardo il fatto che le altre città avrebbero potuto decidere di imitarli, vedendo i loro successi?
 
I suoi uomini non meritavano l’abbandono da parte di Calida.
Lui, invece, era convinto di meritarlo totalmente.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
La corsa, il fatto di conoscere la foresta come il palmo della propria mano e la presenza del carrello le avevano permesso di raggiungere Vynumeer in un lasso di tempo abbastanza decente che in teoria avrebbe dovuto consentirle di tornare nella valle senza trovare Sarumeer completamente devastata… o così auspicava.
 
Il cielo stava diventando sempre meno rosso e sempre più violaceo, avvicinandosi man mano al crepuscolo vero e proprio. Nello sporgersi a osservare le acque del lago, in piedi sulla parte di riva che prima dell’hakai di Lord Beerus era stata coperta da un costone roccioso, Calida notò nei propri occhi un accenno di paura che era solo un briciolo di quella che provava in realtà.
 
“Non voglio!”
 
«Ma devo» borbottò.
 
Prese un bel respiro e, senza esitare oltre, si tuffò nel lago.
Sapeva dove avrebbe potuto trovare l’imboccatura del cunicolo e sapeva con precisione quanto questo era lungo: tempo addietro, Anise le aveva gentilmente disegnato una mappa piuttosto accurata.
Raggiunse il fondale e, ignorando tanto le alghe quanto il cumulo di resti di Lusan, riuscì a trovare rapidamente l’imboccatura del cunicolo.
La corsa fatta stava rendendo l’immersione ancor più difficoltosa di quanto fosse di suo, ma ormai era lì, e nella situazione in cui si trovavano lei, Dolmer e le città, morire nel tentativo di recuperare quella corona era meglio di arrendersi a prescindere.
 
Ricordò che Anise le aveva detto che il suo era stato solo un sogno, che non aveva incontrato veramente Rubedo. Calida non ci aveva creduto ai tempi, tantomeno voleva farlo adesso. Accantonò brutalmente quel pensiero.
 
Iniziò a risalire il cunicolo. Le rocce sporgenti e la mancanza d’aria, che nonostante l’allenamento iniziava a farsi sentire, la portarono in più occasioni a maledire qualunque dio, conosciuto di persona e non.
Nello scattare in avanti si ferì a una spalla e, pur non provando dolore, maledisse anche Rubedo e chi l’aveva imprigionato in un posto tanto difficile da raggiungere.
Andò ancora avanti. I suoi movimenti si stavano facendo sempre più lenti, l’ossigeno nei polmoni stava finendo e tenerlo al loro interno stava diventando difficile. Si impose di darsi una mossa, perché non poteva mancare tanto, non poteva cedere, non adesso che…
 
“Che” stava vedendo quella che doveva essere la luce generata dai licheni della caverna che stava cercando di raggiungere.
 
Iniziò a nuotare quasi con rabbia mentre sentiva i polmoni contrarsi, costringendola a espellere qualche bolla d’aria preziosa, ma non le importava: l’unica cosa che vedeva era la luce, sempre più vicina, anche se la visuale stava iniziando a essere inframezzata da attimi di buio completo; nella sua testa, un unico pensiero: “ci sono quasi, ci sono, ci sono!
 
Finalmente riemerse. Si aggrappò alla roccia con le unghie, strisciando su di essa come un lombrico, mentre sputacchiava acqua e riempiva d’aria i polmoni. Ce l’aveva fatta. Aveva raggiunto la caverna.
 
Si concesse un minuto intero per riprendersi un po’, poi si fece forza e si costrinse ad alzarsi in piedi. Il suo cervello aveva perfettamente chiare le prossime mosse, riusciva a immaginarle in modo talmente vivido da avere il dubbio di averle già fatte.
 
“Vieni, Calida. Vieni da me”.
 
Quel sussurro, di una voce familiare… probabilmente lo aveva sentito davvero.
Si avvicinò a quella che Anise aveva descritto -e disegnato- come “una roccia somigliante a una statua di Lusan rozzamente intagliata”.
Non era “somigliante”, era una statua rozzamente intagliata che, per Calida, mostrava chiaramente un Lusan con un solo braccio.
 
“Raggiungimi, Calida”.
 
La gigantesca Lusan poggiò le mani contro la statua e, chiamate a raccolta tutte le proprie forze, spinse. Riuscì a spostarla, non senza fatica, e trovò l’ingresso di un altro cunicolo.
Senza perdere tempo corse all’interno, e dopo pochi metri raggiunse la fine.
Vide lo scrigno, proprio come quello della leggenda, vide il lucchetto arrugginito e, preda di una frenesia incontrollabile, riuscì a strapparlo via a mani nude.
 
Aprì lo scrigno.
 
“Mi hai trovato!” bisbigliò Rubedo, ebbro di gioia.
 
Calida osservò la corona. Era davvero lì, davanti a lei, nera e appuntita, con pochi intarsi decorativi di colore azzurro scuro. La sfiorò con venerazione, pur sapendo che chi l’aveva indossata non era stato da venerare.
Il potere, la leggenda, i suoi sogni: erano tutti lì, radunati in quel monile.
 
NON VOGLIO!” si fece sentire nuovamente il suo cervello.
 
«Non voglio. Ma devo» ripeté ancora Calida.
 
“Oh sì che devi. Faremo grandi cose, noi due. Indossa la corona. Accoglimi. Riportami alla vita. Dammi un corpo e io ti darò il potere” mormorò Rubedo “Hai ritardato anche troppo, non credi?”
 
Calida indossò la corona, notando che era della misura perfetta per il proprio capo. Non sapendo bene cosa fare, chiuse gli occhi.
Non successe nulla.
 
“Non fare scherzi. Io ti ho liberato, io ti accolgo a malincuore nella mia mente e nel mio corpo… non fare scherzi, vecchio bastardo schifoso e storpio!” pensò.
 
Fu allora che la terra cominciò a tremare.
 
Quel che Calida riuscì a sentire fu, inizialmente, un sussulto appena percepibile. Come se aver indossato la corona avesse risvegliato una creatura che dormiva da tanto tempo, i cui battiti cardiaci, con la veglia, iniziavano ad accelerare.
 
Ben presto però il tremolio divenne forte, sempre più forte. Polvere e sassi iniziarono a cadere dalle pareti e dalla volta di quel cunicolo, mentre lo scrigno da cui aveva tirato fuori la corona, per colpa delle scosse, si chiuse di scatto come la tagliola di un cacciatore.
 
Gocce d’acqua provenienti dalla spaccatura che si stava rapidamente formando nella pietra sopra la testa di Calida provarono a bagnare la Lusan, circondata da un’aura nerastra dal particellare di un luminosissimo colore dorato.
Quelle gocce non arrivarono neppure a sfiorarla, evaporando miseramente a metà strada; come da quel momento in avanti era destinato a evaporare chiunque altro, e qualunque cosa, che provasse ad avvicinarsi senza il suo consenso.
 
Calida lo sentiva, il freddo metallo della corona attorno al suo capo, il potere puro che le pulsava nelle vene. Era grande, era immenso, smisurato al punto che in un certo momento, se lei avesse sofferto il dolore, le avrebbe procurato un male indicibile: lo sentiva spingere, come se il suo corpo non fosse stato sufficiente per contenerlo, come se volesse schizzare fuori dalla sua pelle, come l’acqua che stava cercando di penetrare con violenza in quel tunnel divenuto un reticolo di crepe in ogni sua parte.
 
Urlò. Un suono selvaggio, delirante, che segnò la distruzione definitiva delle pareti e della volta di pietra. Le acque ancora calde del lago di Vynumeer si riversarono con forza devastante all’interno del cunicolo, ondate feroci che cercarono di attaccare Calida dai lati, una cascata proveniente dall’alto che cercò di schiacciarla, mentre la sua pelle veniva gonfiata da protuberanze sottocutanee in continuo movimento, come l’interno del suo corpo fosse stato invaso da enormi scarafaggi.
 
La Lusan strinse i denti, strinse tanto i pugni da far sanguinare il palmo delle mani, mentre dalla profondità della sua gola risaliva un ringhio.
Quello era il potere cui aveva sempre anelato.
Quello era il momento in cui doveva dimostrare di essere in grado di sostenerlo.
Il ringhio si trasformò in un ruggito, e l’acqua che aveva cercato di investirla si trasformò in vapore.
 
Calida sollevò il capo, senza interrompere quel ruggito disumano che avrebbe distrutto le corde vocali di una creatura normale. Strinse i pugni ancor di più mentre il suo corpo cominciava a gonfiarsi, a ingrossarsi, diventando più mastodontico di quanto fosse mai stato. Le parve di sentire buona parte dei suoi vestiti strapparsi e, osservando le proprie mani con gli occhi ormai color cremisi, vide che sul suo manto decisamente scurito erano comparse striature e ghirigori dorati, brillanti, tanto da rendere il vapore di una luminosità accecante.
 
“Accettalo, Calida. Distruggi, Calida. Distruggi. Distruggi!” urlò Rubedo nella sua mente.
 
Calida, con la mente obnubilata dal nuovo potere e dall’impulso distruttivo che stava provando, serrò la mascella.
 
“No” pensò “Non ‘distruggi’…”
 
«Brucia» sentenziò, con voce cavernosa e ancor più mascolina di quanto già fosse.
 
“Brucia tutto, Calida! BRUCIA TUTTO!”
 
Il vapore era diventato talmente tanto da non riuscire a distinguere più nulla. La Lusan sollevò un braccio e, un istante dopo, una potente ondata di energia investì quel poco che restava della volta del cunicolo, distruggendola assieme all’acqua, assieme a ogni briciola d’ossigeno dell’aria che svelta era andata a occupare il vuoto lasciato da essa, mentre la terra continuava a tremare, continuava a rompersi, col fragore che sembrava il grido ultimo di un mostro in agonia.
 
Rendendosene conto a stento, Calida uscì volando dalla voragine che aveva creato, veloce come il proiettile di un hrat’san, di un fucile: il vapore, la sua mole, l’aura nera e oro che la circondava, tutto la identificava come un demonio vomitato fuori da chissà quale inferno -e tale descrizione non era lontana dalla realtà dei fatti.
 
La Lusan rimase immobile a mezz’aria, osservando i resti di quello che era stato il “villaggio maledetto”: tutti gli edifici presenti, nessuno escluso, erano crollati su loro stessi a causa del terremoto da lei provocato, il lago era ormai prosciugato, e le ossa dei Lusan erano state bruciate dal suo raggio energetico assieme alla terra.
 
BRUCIA TUTTO!” urlò nuovamente il suo cervello, con una voce che era un miscuglio della sua e quella di Rubedo “Tutto! TUTTO!
 
«Non tutto. Quasi» disse Calida, lentamente «Quasi».
 
Era difficile resistere al richiamo all’annientamento totale, quello di un odio puro che non sentiva suo e che le scorreva nelle vene ed era infuocato come magma, però doveva cercare di ritrovare il controllo, sebbene le grida di quella voce-miscuglio fossero diventate continue.
 
“Ora siamo una cosa sola. Ora tu e io siamo uno. Bruciali, Calida. Bruciali!”
 
Fece un respiro profondo, chiuse gli occhi, li riaprì.
Aveva il potere. Il potere di Rubedo era suo, proprio come nei suoi sfrenati sogni di bambina, di ragazzina e poi di adulta -almeno fino a quando lo aveva incontrato davvero.
Allargò le braccia, abbassò lo sguardo. Sì, i vestiti si erano decisamente rotti, ma non importava: che tutti potessero vedere quel corpo! Era o non era Potere incarnato?!
Sempre restando a mezz’aria fece un breve giro su se stessa. Nonostante il trauma iniziale si stava trovando a proprio agio, come se fosse nata per essere così, come se avesse trovato una parte mancante di sé e l’avesse spinta con forza nel posto che le competeva. Parte del merito era della voce-miscuglio che urlava ancora ma che, al contempo, stava facendo venire a galla tutte le informazioni che servivano sull’utilizzo di quella grande, immensa potenza.
 
Atagash, l’alieno che Rubedo aveva fuso con se stesso, potenziava in base al livello di malvagità chi ne veniva posseduto.
Rubedo era stato un mago malvagio, ed era diventato potente… ma lei era Calida Delle Croci Infuocate.
 
Socchiuse gli occhi, concentrò l’udito e sentì distintamente il rumore della battaglia che si stava svolgendo a Sarumeer.
Nel silenzio di tomba che regnava a Vynumeer -quel che ne rimaneva- Calida esplose in una risata gutturale.
Era tempo di mostrare ai nemici di Ulthmeer, i suoi nemici, che Q’thulu non era più il dio cui dovevano adorazione e suppliche.
 
 
 
***
 
 
 
 
La doppia cinta muraria di Sarumeer, bersagliata dai cannoni delle armate di ben quattro città, aveva ben presto ceduto, e il fossato non avrebbe tenuto lontani gli aggressori.
 
«Hogevor Dolmer, che facciamo?!» gridò uno dei suoi ufficiali «Sono troppi!»
 
“Che facciamo?”
 
Buona domanda. Non c’era molta scelta tra morire, morire o, magari, morire. I colpi dei cannoni e le palle di pece infuocata, dopo essersi occupati delle mura, stavano distruggendo il resto; quello stesso edificio, quello in cui si trovava in quel momento, era stato parzialmente sfondato da una cannonata che per puro miracolo non lo aveva colpito.
 
«Dov’è la Hogevor Calida?!»
 
Altra buona domanda.
 
« Hogevor Dolmer!...»
 
«Quanto al cosa facciamo, c’è solo un’opzione: vendiamo cara la pelle e portiamo all’inferno con noi quanti più possibile di quei bastardi! Calida dal canto suo dovrebbe essere ancora a Ulthmeer, ma tornerà» mentì il Lusan, non volendo che i soldati si demoralizzassero anche per quello e combattessero con meno foga «Alle armi!» urlò, uscendo fuori dall’edificio «Alle...»
 
Il secondo urlo gli morì in gola: nonostante il crepuscolo, l’altezza cui era stato costruito l’edificio e l’ubicazione dell’ingresso gli stavano permettendo di vedere molto chiaramente delle volute di fumo -o altro?- sollevarsi dal punto in cui si trovava Vynumeer, il villaggio maledetto.
 
«Che sta succedendo, adesso?!» esclamò, sgranando gli occhi dorati nel notare in aria una creatura luminescente in rapidissimo avvicinamento.
 
Sapeva che in teoria avrebbe dovuto preoccuparsi più della battaglia in corso, eppure quella cosa strana sotto i suoi occhi gli stava causando una terribile stretta allo stomaco, e un’ altrettanto terribile voglia di mettersi a pregare Q’thulu, più di quanto stesse già facendo- mentalmente- per la propria sorte e quella dei suoi uomini.
Soprattutto quando iniziò ad avvertire la strada lastricata di pietre sussultare sotto i propri piedi.
 
«Hogevor Dolmer, che succede ora?!» gridò uno dei suoi uomini, terrorizzato.
 
La sola memoria che i Lusan avessero del terremoto era relegata in libri che pochi di loro si erano degnati di leggere, motivo per cui quel fenomeno mandò tutti quanti in confusione, tanto gli attaccanti, quanto gli attaccati.
 
«N-non…» balbettò il Lusan, avvertendo distintamente l’aria farsi sempre più elettrica man mano che l’essere luminescente si avvicinava; un individuo di cui ora, grazie alla vista estremamente acuta che caratterizzava la sua specie, Dolmer riusciva a distinguere vagamente le fattezze, notando con suo sommo sconcerto che somigliavano a quelle di un Lusan.
 
“Tu e i nostri uomini rientrate negli edifici che sono ancora in piedi”.
 
Nel ricevere quell’ordine mentale conciso e perentorio, Dolmer sibilò di dolore, spalancando la bocca per la sorpresa. Aveva riconosciuto immediatamente la voce di sua moglie. «C-Cal...»
 
“Dolmer. Adesso”.
 
Per un brevissimo istante pensò a un’allucinazione di qualche genere, ma quando sentì il pelo rizzarsi su tutto il corpo, quando sottili saette di colore dorato iniziarono a crepitare nel cielo e le macerie più leggere iniziarono a volare in aria attratte dalla forza invisibile e indicibile che tutti loro stavano avvertendo chiaramente, la sua lingua si mosse da sola.
 
«RIENTRATE!» urlò, con tutto il fiato che aveva in gola «Entrate negli edifici che sono ancora in piedi e riparatevi sotto qualcosa! RIENTRATE SUBITO!»
 
I soldati, percependo quel che lui percepiva, vedendo quel che lui vedeva, non esitarono a spargere l’ordine e obbedire, ormai incuranti di nemici che avevano fermato la loro avanzata e la loro opera distruttiva, presi da qualcosa che non riuscivano a spiegarsi e di cui provavano un terrore viscerale.
 
Un “qualcosa” che ormai era sopra le loro teste, temporaneamente coperto da una nuvola scura che però venne prontamente spazzata via.
 
«Cosa cazzo è?!» riuscì a dire Danae, capo di Luthmeer, con gli occhi violacei rivolti verso il cielo.
 
Dolmer, pur avendo obbedito agli ordini, aveva dato retta al desiderio di osservare a sua volta quanto stava accadendo e quanto sarebbe accaduto.
Stringendo in maniera quasi convulsa il davanzale in legno della finestra, non riusciva a smettere di fissare quella che, pur essendo quasi irriconoscibile, era sempre sua moglie.
Calida Ulthmeer a-ghekavary, diventata un essere mastodontico vomitato dal baratro infernale che avrebbe potuto essere la bocca di Q’thulu stesso; i vestiti strappati, i capelli allungati, gli occhi rossi come il fuoco, il corpo percorso da linee e segni simili a rune che sembravano quasi il ritratto vivente di una maledizione.
 
«Come?…» sussurrò, cercando di contenere un’ondata di panico puro che minacciava di travolgerlo.
 
“Te lo dico dopo”.
 
Quelle furono le ultime parole che Calida, in quell’occasione, rivolse al marito.
 
Abbassò lo sguardo sui quattro eserciti nemici.
Com’era riuscita a trovarli “problematici”? Non lo ricordava più. Erano moscerini, formiche, insetti non meglio definiti per i quali essere uccisi da lei in persona non sarebbe stato altro che un onore immeritato.
Perché aveva parlato con quel Lusan, con quel… come si chiamava? Dolmer, sì, Dolmer. Perché lo aveva fatto? Non c’era la necessità. Non sarebbe stato una delle sue vittime ma non sarebbe stato nulla più di un adoratore senza importanza.
 
«Sottomettetevi o morite» fu tutto quel che disse loro, in un impeto di strana magnanimità nel concedere loro una scelta.
 
«Muori tu, orrendo abominio!» urlò Larraz, il vecchio Beremeer a-ghekavary «Perché state tutti immobili?! Colpite quel mostro con tutto quello che abbiamo! TEINE! Fuoco!»
 
Riscossi dall’immobilità cui la paura li aveva intrappolati, le quattro armate -nessun componente escluso- presero alla lettera l’ordine di Larraz.
La terra sussultava ancora, i fulmini continuavano a squarciare il cielo, il mostro stava ghignando, ma tutto ciò non li avrebbe fermati: il clamore delle loro urla di battaglia tornò a riecheggiare nella valle, la rabbia atavica e la voglia di massacro derivati proprio dalla maledizione del nuovo nemico -o meglio, di parte di esso- risorsero, impetuose più di prima.
 
«Cannoni! Teine!» urlò Artas, in contemporanea con Galel che aveva dato alle catapulte l’ordine di fare fuoco e a Danae, la quale aveva ringhiato agli arcieri di infilzare “quella roba”.
 
Una pioggia di palle di cannone, di frecce e di pece infuocata si riversò addosso a Calida, le cui fauci si snudarono in un ghigno ancor più largo e feroce, mentre l’aura nera e oro che la circondava si estendeva, disintegrando tutto ciò che i quattro eserciti le avevano lanciato contro.
 
«Non funziona! Non funziona!» urlò Galel, nuovamente terrorizzato.
 
Calida inclinò leggermente il capo in direzione delle città degli insetti.
Non avevano compreso.
Lo avrebbero fatto molto presto.
 
BRUCIA TUTTO!” urlò Rubedo, nel cervello di Calida.
 
Allargò le braccia, i Lusan poterono sentire distintamente una quantità immensa di energia sfiorarli, senza toccarli perché non erano loro il bersaglio.
Due boati e le due città nemiche più vicine a Sarumeer esplosero, creando enormi colonne di fuoco che tinsero le nuvole di rosso, di giallo, di nero fumo. Altri due boati, e le altre due città rimaste subirono lo stesso destino.
“Sottomettetevi o morite”.
Loro avevano scelto.
 
Vide in lontananza spauriti gruppetti di Lusan che per qualche miracolo erano riusciti ad abbandonare le loro città e a scappare in tutta fretta, ma li risparmiò: in fin dei conti poteva anche lasciare in vita qualche futuro adoratore e schiavo, oltre a quelli che aveva già.
 
«L-le città!... l-le...» farfugliò Danae, col riflesso del fuoco impresso negli occhi e nella mente «Tu…» rivolse lo sguardo al mostro «Continuate a colpirlo! CONTINUATE!» sbraitò, indicando Calida «Ha distrutto le nostre città, facciamolo fuori!»
 
Pur avendo capito perfettamente quanto fosse inutile, i Lusan della valle non intendevano deporre le armi prima di aver vendicato le loro case, i loro familiari, le vite perdute e che avrebbero perso.
 
Loro erano così, pensò Calida. Anche lei era stata così, fino a poco tempo prima -un tempo che nella sua attuale forma le sembrava una vita fa.
Ignorando i nuovi attacchi degli insetti, diede ascolto a una parte del suo cervello che le stava sussurrando qualcosa con una certa urgenza.
 
Mèin a-aryun”.
 
«“Musa di sangue”» disse con lentezza.
 
Aveva una mèin a-aryun, una musa di sangue?
 
“Non dimenticarla”.
 
Musa di sangue.
L’immagine di una giovane lince dai capelli argentati si affacciò con forza nella sua mente.
Musa di sangue, Anise, sua sorella.
 
«Anise» mormorò.
 
“Non dimenticarla mai”.
 
«No. Mai» promise a se stessa, mentre gli “insetti” sotto di lei tornavano ad avere un nome e delle identità che avrebbero mantenuto ancora per poco.
 
Il nero dell’aura sprigionata da Calida inghiottì buona parte del particellare dorato, la terra tremò ancora più forte, tanto che svariati Lusan caddero perfino a terra.
Da un momento all’altro un numero indefinito di squarci si aprì sotto i piedi dei soldati delle quattro armate, senza che questi riuscissero a cadervi dentro: come ferite infette che scernevano pus caldo e maleodorante, quelle spaccature nel terreno avevano iniziato a grondare una sostanza nera e viscosa, che ribollendo e muovendosi in un modo tale da far sospettare che fosse senziente stava inglobando dentro di sé chiunque le capitasse a tiro, senza far salvo nessuno, soprattutto i capi delle quattro città.
 
«GALEL!» gridò Artas, invischiato in quella sostanza mortale, al collega «Galel aiut-»
 
Non terminò mai quella richiesta disperata: tutto ciò che Galel riuscì a sentire fu un verso soffocato, e tutto quel che riuscì a vedere fu la marea nera che, nell’ultimo tentativo che Artas stava facendo per uscirne, si tendeva al punto da lasciar scorgere la protuberanza del naso del Lusan, le braccia e le mani disperatamente tese, il buco nero della sua bocca spalancata dall’orrore.
Una visione che lo avrebbe perseguitato nei suoi peggiori incubi da lì in poi, in tutte le notti che sarebbero venute, se un secondo dopo non fosse stato inglobato a sua volta; così come Danae, Luthmeer a-ghekavary, presa dopo un’ultima imprecazione.
Larraz, il vecchio Beremeer a-ghekavary, fu il solo che non provò neppure a tentare di fuggire dalla Disgrazia -così chiamava la marea nera. Rivolgendo gli occhi azzurro scuro verso l’alto, verso il mostro, prima di venire inghiottito disse solo una cosa: “Io lo avevo detto, che sarebbe finita male”.
 
La marea nera continuò impietosa a mietere vittime, a incorporare tutto dentro di sé. Armi, Lusan, qualunque cosa: non c’era nulla che quella roba risparmiasse, il tutto sotto lo sguardo soddisfatto di colei che l’aveva evocata e osservava i propri nemici venire inghiottiti, morire, urlare suppliche a divinità meno concrete di lei che non li avrebbero mai ascoltati.
 
Quando la Disgrazia ebbe preso tutti, Calida sollevò una mano in aria e voltò in direzione delle quattro città che stavano ancora bruciando.
 
Quella parte di valle devastata iniziò a gonfiarsi, poi si ruppe, trafitta da quattro punte di pietra che iniziarono a crescere verso l’alto, divenendo man mano ampi pilastri che compensarono lo spazio che c’era tra loro andando a fondersi uno con l’altro e creando quella che sarebbe diventata la base di un immenso palazzo di roccia dura.
Dalla base si originò un gran numero di nuove punte, che si lanciarono anch’esse verso l’alto come a voler trafiggere una luna che non potevano vedere, intrecciandosi tra loro e creando una miriade di torri relativamente piccole che ne circondavano un’altra immensa, centrale.
La marea nera che aveva inghiottito i suoi nemici schizzò in alto e, come un mantello nero e vivo, andò schiantarsi e a spalmarsi lungo tutta la base del palazzo appena creato, ricoprendola interamente di e dei Lusan che aveva inghiottito, solidificandosi e solidificando anche loro in “statue” fatte di cadaveri dalle pose grottesche e dai volti, appena accennati, condannati a un’espressione eternamente orripilata.
 
Calida atterrò in cima alla torre centrale e mosse qualche passo avanti, lasciando crescere una passerella sotto i propri piedi nudi, pensando che ormai la sua nuova casa fosse completa, perfetta.
 
“Quelle cimici nascoste a Sarumeer. Uccidi anche loro!” urlò la voce di Rubedo nel suo cervello “E poi passa al resto del pianeta! Al resto del sistema solare! Divora la galassia!”
 
Fece violenza su se stessa e lo ignorò, pur sentendo le tempie pulsare.
Potere.
Nemici annientati.
Palazzo.
La valle, finalmente sua.
Rise, la sua aura circondò l’intero palazzo e illuminò il cielo.
 
Dolmer, vivo e vegeto ma immobile come i Lusan che erano diventati pure e semplice decorazioni, si ostinò a rivolgere l’ennesima sentita preghiera a Q’thulu.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il capitolo è lungo, il caldo abissale: sembrava impossibile ma ce l’ho fatta. Nel prossimo capitolo torneranno Anise e Beerus!
A voi eventuali commenti, io mi limito a lasciarvi dei disegni, uno qui, uno in fondo al primo capitolo in cui Dolmer compare (il 23). A presto!
 



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