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Autore: Damnatio_memoriae    08/08/2018    1 recensioni
Facciamo un gioco, un gioco pericoloso. Facciamo che un oste, che chiameremo Ambrosius, scrive quello che sta accadendo ai suoi sfortunati avventori. Facciamo che alla locanda del Canide Sdentato nessuno è più al sicuro da un pezzo, perché ci sono gli uomini e ci sono loro, i licantropi, che vogliono qualcosa. Qualcosa che nemmeno il nostro Ambrosius ancora conosce. E facciamo che non è tutto come sembra, perché neanche le mura più solide possono proteggerci da un pericolo che si è già infiltrato. Che poi chi l’ha stabilito che gli uomini sono gli alleati e i lupi i nemici?
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo “lupesco”

 
In Renania, alle soglie di quel secolo maledetto che fu il Cinquecento, non esistette mai nessuna locanda, taverna o cantina più famosa dell’ostello del vecchio e taciturno Ambrosius. Nato come rifugio per i soldati in tempo di guerra e trasformatosi poi in una trascurabile stamberga di campagna, la locanda del Canide Sdentato era il cuore e l’anima di Ambrosius, che passava le sue lunghe giornate chino a spolverare il bancone e a spazzare in terra, senza dimenticarsi mai di lavare e ripulire boccali già lavati e ripuliti.
Le pareti in legno e pietra erano come le orecchie del nostro locandiere e coglievano tutto, senza mai spifferare nulla: urla, sussurri, gemiti, pianti, risate; la porta chiodata, robusta e decorata a lucchetti e serrature era come le sue braccia: nessuno veniva allontanato dal Canide Sdentato senza una giusta causa e tutti i viandanti, i vagabondi, i disperati, i pazzi, le prostitute lì trovavano il loro riparo, che avessero di che pagare o meno. In ogni caso, a lavare boccali non si era mai in troppi.
Le finestre erano gli occhi di Ambrosius: vigilavano all’interno e all’esterno, sui campi che circondavano l’osteria, sulle stalle quasi vuote che erano state costruite al limitare del cortile e, più importante della vita medesima, vigilavano sui barilotti di idromele e di birra; al piano di sopra, da cui si accedeva attraverso una scala troppo stretta e traballante, si aprivano stanze e stanze, quasi tutte occupate, tenute sempre al caldo dalla buona volontà del padrone di casa, che non mancava una sola sera di far passare sotto le porte un po’ di carboni ardenti sottratti al camino della sala principale.
Ambrosius passava le giornate di quegli inverni perenni così, eroico protettore della sua osteria e di chi la viveva. Anche se nemmeno lui, in fondo, era sicuro di potersi fidare di tutti. Erano tempi bui, quelli. A nulla erano valse le retate dei contadini, i roghi dei preti, le incursioni dei soldati imperiali, perchè in mezzo a quelle campagne dove si ergeva solitario soltanto il comignolo del Canide Sdentato, ancora si vociferava di quel pericolo di zanne feroci, di occhi gialli, di intenzioni malefiche che erano bastate a far allontanare villani, mangia-terra ed ecclesiastici da quella piana.
Ambrosius, però, era rimasto. Più saldo di una quercia secolare e più testardo di un mulo, non avrebbe mai abbandonato il suo rifugio, unico riparo per gli sventurati che si addentravano in quelle terre inospitali. Eppure li vedeva, lì fuori, di notte, aggirarsi come ombre intorno alla sua casa, pieni di cattive intenzioni. Cani del demonio senza dubbio, che pure non riuscivano – o ancora non sapevano come farlo – ad entrare in quella roccaforte improvvisata per cibarsi dei suoi avventori. O, destino più amaro, per trascinarli insieme a loro nell’oscurità.
Nessuno l’avrebbe immaginato, sperato o confessato, ma il Canide Sdentato era diventato, non per sua scelta, l’ultima valida difesa contro i mezzi-uomini, le mezze-bestie, i lupi, i Mannari o qualsiasi altro appellativo i viandanti gradissero affibbiare a quelle empietà viventi.
La vecchia Nan l’aveva predetto quel che sarebbe capitato, ma nessuno le aveva dato ascolto. Nessuno in quella stamberga era sordo a profezie, maledizioni o divinazioni, ma chi mai avrebbe potuto credere ad una anziana suora, allontanata e rinnegata perfino dal suo stesso convento, che travisava le Scritture, che confondeva la storia e che stentava a rammentare gli accadimenti anche più recenti? La risposta corretta sarebbe “non molti”, ma solo per essere cortesi, dato che la vecchia Nan era, per così dire, l’idolo della locanda, il suo totem, la sua protettrice, la nonna di tutti. Per quel che ne sapeva lo stesso Ambrosius, quella suora era sempre stata lì, con lui, sin dal primo giorno.  
«Avanti, megera, spostati!» la coinvolse proprio in quel momento un’altra presenza costante alla locanda, un uomo che anche da lontano, prima ancora di scrutarne i lineamenti, si capiva essere un cacciatore. «Tu e la tua solita abitudine ad impadronirti del camino come se dovesse scaldare solo te! Non siamo più in monastero» sbottò con la sua voce profonda e graffiante, facendosi posto sulla panca vicino al fuoco e allungando la mano – l’unica che gli era rimasta – per scaldarsi le ossa.
Poco più in là, un uomo della stessa età che non portava incisi addosso i rischi del mestiere e che per via della sua vita rilassata e abitudinaria appariva anche più giovane, sollevò gli occhi dalle pagine che stava leggendo indisturbato, per riprenderlo senza troppa enfasi: «Dominic» lo chiamò «Non è questo il modo di comportarsi».
«Oh, taci Edmund!» rispose lui, senza degnarlo di uno sguardo ma accompagnando le sue parole con un gestaccio, e per via dei caratteri, degli atteggiamenti e non in ultimo dell’aspetto fisico, nessuno avrebbe capito che in realtà proprio quei due uomini, così diversi, erano in realtà fratelli e non fratelli qualsiasi. Si sapeva che la madre li aveva portoriti lo stesso giorno, a pochi minuti di distanza, ma perché non fossero uguali come solitamente accadeva, almeno di viso, nessuno lo aveva capito. Un ciarlatano una volta aveva provato a proporre loro una sua strampalata teoria, su due pance, o due sacchi, non si era capito. Di sacchi, come quelli per il grano, poi, nel ventre di una donna non se ne era mai sentito parlare. Secondo questo arrivato, comunque, i sacchi erano due e ben separati, non comunicanti, e lì i bambini non ancora formati erano poi cresciuti da soli, ognuno per conto proprio. Edmund, che era il più calmo e il più curioso, vi aveva riflettuto a lungo prima di rispondere allo straniero che, sì, forse vi era qualcosa di vero nelle sue parole. Per contro, Dominic lo aveva liquidato a suon di brutte parole.
«E allora» aveva provato ancora a convincerlo il malcapitato, trattenendolo per una spalla «Allora, se non credete a questa ipotesi, dovrete almeno dar credito alla seconda: che vostra madre avesse amanti diversi!». Dello sfortunato viandante nessuno seppe più nulla, ma Dominic ancora si gongolava al pensiero di essere riuscito a strappargli tutti i denti prima di vederlo correre via impaurito come un agnello, sotto lo sguardo contrariato del fratello.
A Dominic si avvicinò, senza più il timore che l’aveva colta le prime volte in sua presenza, una ragazza da poco entrata in età da marito. Gli porse una coperta calda, pesante, una delle tante che Ambrosius aveva cucito e che lei si affannava a portare ai compagni appena rientrati alla locanda, per evitare che prendessero freddo. Portava il nome di Hanna, ma non erano rimasti in molti a chiamarla in quel modo, preferendo invece rivolgersi a lei con diminutivi e vezzeggiativi di ogni sorta che avevano come effetto, quasi immediato, quello di farla arrossire.
Il cacciatore quasi non le strappò la coperta dalle mani e a mo’ di ringraziamento emise solo un suono gutturale, burbero e pressochè impercettibile, ma lei continuò a sorridergli come sempre, sicura della sua ruvida bontà.
Aveva gli occhi chiari, Hanna, di un azzurro cristallino, e la pelle bianca come il latte che tirava dalle mucche, quelle poche che erano sopravvissute ai lupi. I capelli biondi, lunghi, lisci e sempre sciolti la facevano somigliare agli Angeli che la vecchia Nan diceva di sognare, ma in quegli anni il Diavolo era stato così impegnato a dar mostra delle sue capacità che Hanna dubitava dell’esistenza delle schiere angeliche.
Edith, che prima di dover chiedere asilo al Canide Sdentato era stata la balia e l’ostetrica più richiesta della bassa, aveva fatto nascere anche Hanna – insieme ad un numero cospicuo di ospiti lì presenti – e l’aveva vista crescere minuta ma sana, insieme ai suoi fratelli e a sua madre. Non riusciva tuttavia a capacitarsi di come la sua famiglia avesse potuto abbandonarla, lasciarla indietro nella disperata fuga d’anime che aveva trasformato quelle campagne prima floride in colli desolati. Come se altrove, poi, non ci fosse nulla da temere, come se i lupi si aggirassero solo intorno a quella locanda.
«Non è stata colpa loro!» li difendeva subito la giovane, stringendosi nelle spalle e abbassando lo sguardo. «È stata colpa mia. Ho fatto la mia scelta: sono rimasta».
«Perché?» la invitava a parlare Edith, che aveva a cuore tutti i suoi neonati e li trattava come se fossero suoi figli, gli stessi figli che il Signore non le aveva mai dato ma che lei aveva desiderato tanto.
«Dovevo» nascondeva le lacrime Hanna «Avevo…avevo una persona da proteggere».
L’unica che non gradiva la presenza di Hanna o il cui animo non sembrava essere stato toccato dalla gentilezza della ragazza era Lilith e insieme a lei, più per riflesso che per antipatia sincera, la sua combriccola di burloni, mascalzoni e donnaioli, ognuno con la sua storia, con i suoi timori e i suoi segreti, ma in fondo bravi giovani, pronti all’avventura, sprezzanti del pericolo e decisi a far colpo sull’unica donna del loro gruppo, di certo il più affiatato del rifugio. Conosciuta come la lupa per via dei folti capelli neri, degli occhi vivaci ma minacciosi e non in ultimo per il suo carattere selvaggio e indomito, Lilith aveva cessato di gioire del suo soprannome – che pure sentiva le appartenesse – per motivi scontati. Nessuno degli avventori di Ambrosius aveva avuto vita facile, ma alcuni di loro potevano almeno consolarsi nei ricordi di un’infanzia spensierata e felice. La stessa cosa non si sarebbe potuta dire per l’avvenente Lilith: della sua bellezza se ne accorse per primo il padre, che la cedette per qualche soldo al bordello di Casa Matilde, dove rimase fino a venticinque anni. Al contrario di quello che si potrebbe pensare, però, Lilith non fu mai succube né degli uomini né di Dama Matilde – e Dama era tutto un dire, per una nobile caduta in disgrazia. Pur arrivando da lontano per incontrarla, le dicerie sul temperamento della lupa erano volate così in fretta che i clienti si erano rassegnati all’idea di non poterla sfiorare senza il suo consenso. E il suo consenso, Lilith, se lo teneva stretto, proteggendolo con le unghie e con i denti. E quand’anche l’ebbe dato, non fu senza amore.  
Il Canide Sdentato era, come si può intuire, un crogiolo di razze e di dialetti, di abitudini e di personalità. Si consumavano liti, rappresaglie, passioni, alcune trattenute al pari delle bestemmie in Chiesa, altre conclusesi drammaticamente. Come quella di Gerwin, che era difficile da dimenticare, in particolare per la dolce Odine, che ne portava il peso addosso – letteralmente. I clienti che Ambrosius vedeva ora nel suo locale e che si trastullavano come meglio credevano nella sala principale l’avrebbero scoperto solo verso la fine di questo racconto che fu quello che successe allora tra Gerwin e Odine a mettere in moto tutti gli avvenimenti successivi. Ma non è questo né il tempo né il luogo per accennarlo, specie contando quello a cui i presenti stavano per assistere.
A ridurre il baccano che aveva riempito la sala principale di voci, risate, urla sguaiate e quant’altro ci pensò, involontariamente, la vecchia Nan. Le mani tremarono convulsamente, le dita ossute e piene di grinze lasciarono la presa sul bicchiere che tenevano stretto e questo cadde a terra disfacendosi in centinaia di schegge. Al povero Ambrosius il cuore saltò in gola.
«Che ti prende, strega?» schizzò in piedi Dominic «Mi hai bagnato tutti gli stivali!».
Hanna corse da lei, scuotendole le spalle. «Nan? Nan!».
«La vecchia starà per morire?» domandò Lilith al suo vicino, un ragazzo dai capelli castani e dagli occhi verdi.
«Perché? Non è immortale?».
Lei scosse la testa. «Dio dev’essere proprio un uomo se è così stupido da volersela prendere così presto».
«Presto? Sarà più vecchia di un albero secolare!».
Il corpo dell’anziana donna venne ancora scosso dagli spasmi. Aprì la bocca e la richiuse, ripetendo il gesto. «Sta arrivando…» riuscì infine a bisbigliare e davanti agli sguardi perplessi dei suoi compagni ripetè, senza più fiato: «Sta arrivando!».
Dominic percepì un brivido corrergli lungo la schiena, gli occhi si ridussero a due fessure, la mano corse all’archibugio posato sul tavolo. Gli altri lo imitarono all’istante, afferrando chi un coltello, chi una spada, chi un forcone, chi una lancia e tutti trasalirono quando un urlo di donna, sofferente e pieno di paura, arrivò dal piano di sopra.  
   
 
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