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Autore: ___Aliena___    08/08/2018    2 recensioni
ATTENZIONE: storia legata alla raccolta "Immortal". 
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Ryuzaki l’avrebbe salvata, perché l’aveva chiesto lui. Ryuzaki l’avrebbe salvata perché lui non ne sarebbe stato capace, così come non era stato in grado di salvare sua madre.
 
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Spense le telecamere e si disse che lei l’avrebbe fatto, gli sarebbe rimasta accanto. Perché l’aveva chiesto lui.
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"Until the day I die
I'll spill my heart for you"...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Nuovo personaggio, Watari
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Until the day I die
 
 
Until the day I die
I’ll spill my heart for you
 
 
 
«Ryuzaki, dov’è mia figlia?».

La stessa domanda, la stessa esalazione di respiro che continuava ad affiorare dalla sua bocca da più di vent’anni. Ormai aveva imparato a riconoscere ogni accento, la cadenza un po’ molle e liquida della voce verso la fine della frase, le vibrazioni arrotondate della lingua contro il palato.
«Dov’è mia figlia?».
Un quesito collaudato, obsoleto come certi marchingegni che custodiva gelosamente nel suo studio, a cui corrispondevano risposte altrettanto sperimentate, certe, risposte che parlavano al suo buon senso di studioso e lo avvertivano di spostare l’attenzione su qualcosa di nuovo.
«Sul balcone» «Su un albero» «All’ombra della mimosa» «Sopra il tetto»...
Lo sapeva perfettamente, e nello stesso tempo non riusciva ad impedirsi di chiedere, di cercare la complicità nei respiri regolari, nella monotonia apatica di quel giovane che, tra una zolletta di zucchero e l’altra, trovava sempre il tempo di assecondare i suoi dubbi posticci.
 
 
 
Until the day I die
I’ll spill my heart for you
 
 
 
Nell’ultimo periodo, il rito era andato modificandosi impercettibilmente. Senza quasi accorgersene, una nota più acuta, concitata aveva iniziato a serpeggiare nel suo tono pacato, caricandolo di un’insolita apprensione.

«Ryuzaki, dov’è mia figlia?».
«È qui con me, Watari».

Anche la risposta aveva mutato aspetto, ma alle orecchie stanche del vecchio non dispiaceva affatto. Non era stato merito suo, anche se per anni aveva intimamente sperato che accadesse qualcosa in grado di portare un soffio rigenerante, una dolcezza nuova che non coinvolgesse lui solo. Non era stato esaudito, non come immaginava almeno; nessun prodigio sentimentale, nessuna luce che li illuminasse. Soltanto il lampo scarlatto degli occhi degli Shinigami.
Gli immensi castelli di certezze erano crollati all’istante, sgretolati come i croccanti biscotti al cioccolato che il suo protetto adorava divorare per colazione. Per la prima volta nella sua lunga vita come Watari, Quillsh Wammy aveva visto la sua maschera dissolversi nell’impotenza dell’uomo di fronte alla morte, nella fragilità di un nome che non avrebbe più protetto né lui, né lei.
 
 
 
 
As years go by
I race the clock with you
But if you died right now
You know that I’d die too
 
 
«Ryuzaki, dov’è mia figlia?».

Non l’avrebbe più chiesto, a cominciare da quella sera. Non ce ne sarebbe stato bisogno.
 
«Promettimi che la salverai, Ryuzaki, ed io non esiterò ad obbedirti».
 
Avevano fatto un patto, suggellato nella reciproca dissimulazione della paura. Watari si fidava ciecamente di lui, della sua genialità bizzarra e troppo spesso fraintesa, della gracilità celata dietro all’ostentata e fallace aura di superiorità tessuta dall’ammirazione effimera della gente.
Quella stessa sera era comparso alle sue spalle mentre lavorava, la schiena curva sotto il peso delle sue deduzioni, i piedi scalzi sporchi di fuliggine, la mano destra affondata in una tasca dei jeans sgualciti e la sinistra accanto al viso, sulla bocca. Erano rimasti a scrutarsi alla luce dei monitori iridescenti, e Watari non aveva potuto fare altro che accennare un sorriso sghembo di fronte alla consapevolezza di quello sguardo penetrante, alla supplica di quegli occhi troppo adulti, che sembravano quasi pregarlo di restituirgli un po’ dell’infanzia perduta. Mai come in quel momento aveva sentito l’impulso di stringerlo tra le sue vecchie braccia di padre, sussurrargli parole di conforto, scacciare via i fantasmi che lo assediavano.
Ma non c’era più tempo.
Memorie lontane avevano iniziato a lampeggiargli nella mente, immagini nitide di un bambino arruffato che gli teneva la mano, imbacuccato in un grosso cappotto di piume d’oca, della Wammy’s House coperta dalla neve, della creaturina senza calze avvinghiata alle sue spalle, troppo impegnata a lanciare stilettate diffidenti al nuovo arrivato per preoccuparsi del freddo. La natura era stata una madre ipocrita: gli aveva donato il privilegio di crescere due miracoli, per poi obbligarlo a scegliere quale salvare e quale portare al macello assieme a lui.
 
«Ryuzaki, che cosa c’è? Ryuzaki?».
 
Da giorni, ormai, avvertiva un insolito nodo al cuore, una gravezza insostenibile, come se centinaia di piedi continuassero a calpestargli le vene. Probabilmente anche Ryuzaki era in preda alla medesima angoscia, il medesimo, fatale preludio; eppure non aveva smesso di essere L nemmeno per un istante, aveva continuato imperterrito a percorrere la sua strada e gli aveva fatto quella promessa, l’ultimo atto di amore nei suoi confronti.
 
«Salvala, Ryuzaki. A qualsiasi costo. Con ogni mezzo».
 
L’avrebbe esaudito perché era lui a chiederlo, l’avrebbe esaudito perché entrambi sapevano che lei gli avrebbe permesso di attingere per l’ultima volta alla fonte della vita... perché lei era viva.
 
 
 
 
You remind me of the times
When I knew who I was
But still the second hand will catch us
Like it always does
 
 
 
 
«Medea, dov’è Ryuzaki?».
Entrò nella stanza della ragazza con religiosa lentezza, nell’irrazionale convinzione di lasciarsi investire dall’effluvio intenso che permeava ogni oggetto lì attorno. Trovò sua figlia in bilico sulla balaustra, le gambe penzoloni nel vuoto, lo sguardo perso a rincorrere qualche remota chimera. La vide riscuotersi all’istante non appena la sua voce le sfiorò le orecchie, la vide voltarsi e balzare verso di lui senza alcuna esitazione, senza nemmeno percepire i brividi dell’altezza spropositata che la separava dal suolo. Fin da piccolissima, l’aveva sempre lasciata libera di arrampicarsi, di esplorare vette a lui precluse, non badando mai al pericolo a cui quell’ossessione la esponeva; era convinto che, se l’equilibrio l’avesse tradita e il suolo l’avesse reclamata, lei sarebbe riuscita a cadere a quattro zampe come un gatto, conficcando le unghie nella terra. Il vuoto era il suo elemento, non avrebbe potuto ucciderla.
«Medea, dov’è Ryuzaki?». L’ennesima domanda retorica, l’ennesima richiesta di conferma.
La risposta fu repentina. «Nella sua stanza».
Watari si accomodò gli occhiali sogghignando sotto i baffi. «Sei sicura?».
Medea sgranò impercettibilmente gli occhi ed arrossì. Prese a tormentarsi le mani dietro la schiena. «Era sul balcone e l’ho visto! Non ho telecamere sparse ovunque come voi due».
Quell’affermazione fu come un tiepido languore che gli scivolò lungo la gola. Così spontanea e genuina. Così vera.
«Potresti farmi un favore?».
«Quale?».
«Ho fatto una torta di fragole con la panna, questa mattina, ma Ryuzaki ne ha mangiato soltanto una fetta. Adesso è in cucina. Potresti portargliela e chiedergli di finirla? Altrimenti andrà a male e dovremo buttarla via».
La ragazza serrò titubante le labbra. «Di solito sei tu che vai».
«Ho tanto lavoro da sbrigare».
«E devo andare proprio io?».
«Non ti piacciono le mie torte, Medea?».
«Sì, però...».
«Allora che cosa stai aspettando?».
La smorfietta di disappunto che si formò sulla bocca della ragazza lo riportò indietro nel tempo alla Wammy’s House, lo riportò di fronte all’occhiata fintamente inviperita di una bimbetta irrequieta e quasi soffocata dal manto folto di riccioli scomposti.
 
«Perché non vai a leggergli l’ultima filastrocca che hai composto? Magari condividerà con te un po’ delle sue caramelle».
«Ma papà...».
«Non ti piacciono le caramelle, Medea?».
«Sì, però...».
«Allora che cosa stai aspettando?»
 
Quel labile richiamo alla passata gelosia puerile lo fece esplodere in una breve risata.
«Smettila, papà!» Medea si piegò verso la scrivania per afferrare un plico di fogli, simulando un broncio poco convinto. «Vado».
Watari lanciò uno sguardo fugace alle carte e gli parve di riconoscerle. Un brivido lugubre gli congelò la spina dorsale, cancellando ogni traccia di serenità dal suo volto. Le strinse forte le spalle. «Dove hai preso questa roba?».
Medea lo guardò attonita. «Li... li ho fatti io, papà» abbozzò un sorriso. «Ryuzaki mi ha chiesto di copiare i nomi scritti in quel quaderno dello Shinigami. Ho tentato di emulare al meglio la grafia dello scrivente, per poterla analizzare con attenzione».
Lui deglutì sollevato arricciando i baffi. «Sei molto brava, Medea».
Comprendendo i timori del padre, la ragazza gli prese il viso tra le mani e gli stampò un fresco bacio sulla fronte rugosa. «Stai tranquillo, il quaderno originale è di sotto, al sicuro, ed io ho intenzione di stargli lontana». Indugiò in quella posizione ancora per qualche attimo prima di liberarlo e zampettare a piedi scalzi oltre la porta. «Buonanotte, papà».
 
 
 
 
 
We’ll make the same mistakes
I’ll take the fall for you
I hope you need this now
‘Cause I know I still do
 
 
 
«Mi stai forse chiedendo di entrare?».
«Questa è una tua congettura. D’altronde, se insisti...».
 
Seduto davanti agli schermi luminosi, Watari la vide dirigersi convinta verso la scrivania, gettare via le scartoffie che la affollavano e accomodarsi di fronte al giovane dondolando le gambe nude. Proprio come sua madre. Non c’era giorno in cui la sua mente non corresse a sfiorare il pensiero di quella donna, di quel corpo caldo e selvaggio che l’aveva accolto senza remore.
L’aveva incontrata per la prima volta una mattina di Maggio, mentre danzava con le sue compagne di fronte ai cancelli dell’orfanotrofio. I bambini erano venuti a chiamarlo nel suo ufficio, pregandolo di lasciarli assistere allo spettacolo delle Belle Fate Straniere e lui aveva acconsentito, unendosi a loro. E l’aveva vista.
Danzava reggendo la lunga gonna verde e scoprendo le ginocchia pallide e tondeggianti. Danzava battendo i piedi con vigore, e la terra sembrava sul punto di tremare ad ogni colpo, satura dell’energia sprigionata e incapace di assorbirne altra. Danzava agitando i riccioli arruffati, piegando il collo madido di sudore, socchiudendo le labbra scarlatte a scrosci improvvisi di risa. Una delle compagne suonava il tamburello, lei la assecondava con il corpo. Per un attimo, all’uomo era parso di incrociare il suo sguardo sfuggente e di cogliere un luccichio dorato nelle iridi feline. Ed era rimasto incatenato, inevitabilmente. L’aveva seguita, quel giorno e quelli successivi, aveva scoperto gli anfratti dove si rifugiava durante la notte, le aveva portato del cibo, delle fragole, le aveva chiesto il nome. Lei parlava una lingua sconosciuta e vibrante, ma aveva accettato le sue offerte ridendo ed era tornata a danzare di fronte all'orfanotrofio. Non era bella come le compagne, non aveva il fascino esotico della pelle ambrata né la lascivia prorompente delle forme, dello sguardo. Non era la più giovane e nemmeno la più aggraziata. La sua danza non aveva regole, soltanto il sentore della carne accaldata mescolato al fango che le impregnava i piedi. C’era qualcosa di animalesco in lei, un fuoco che divampava al ritmo del tamburello, una forza d’attrazione che la teneva ancorata alla terra dando però l’impressione che fluttuasse, che facesse l’amore col vento come lui con la sua scienza.
Aveva continuato ad incontrarla di nascosto per un mese intero. Lei s’era lasciata spogliare continuando a sorridere, gli aveva preso le mani e le aveva guidate ad occhi chiusi sul suo corpo eburneo e vibrante. Lui le aveva offerto dei soldi, un riparo, dei vestiti. Lei aveva rifiutato ma gli aveva sottratto l’anello di rubino e l’orologio. A fine Maggio era scomparsa così com’era giunta. Il tempo aveva continuato a scorrere regolarmente ed erano volati via l’estate e l’autunno. In inverno s’era ripresentata al cancello della Wammy’s House, restituendogli l’anello e mostrandogli il ventre gonfio. Era rimasta lì fino al parto. Roger l’aveva persuaso a fare dei test per confermare la paternità. Positivi.
Agli inizi di Febbraio era entrata nel travaglio, aveva dato alla luce una bambina, ma non era riuscita a sopravvivere per vederla crescere. Prima di spirare, aveva stretto la figlia al seno sussurrando il suo nome da gitana, quello con cui la chiamavano le compagne: Medea.
La bimba aveva urlato per giorni interi, lasciandosi toccare soltanto da suo padre. Roger aveva storto il naso, denominandola scherzosamente Belzebù.
La prima volta che l’avevano adagiata tra le sue braccia, Watari non era riuscito a trattenere la commozione nell’avvertire il battito ritmico del cuoricino, il risucchio dell’aria in quelle piccole narici: l’energia della madre pulsava ora nel corpo della figlia, tra le sue dita raggrinzite di inventore era andata a posarsi la vita e lui, vent’anni dopo, l’aveva condotta al cospetto degli Shinigami.
 
«Prendi almeno questa fragola».
«Non la voglio, davvero».
«Ma io voglio che tu la mangi».
«Non mi piace la panna».
 
Si accomodò gli occhiali sul naso. Scorse Ryuzaki portarsi una fragola alla bocca e poi tenderla con due dita a Medea; vide sua figlia avvicinarsi titubante al frutto e dare un morso.
Inspirò rumorosamente. Se fosse rimasta in quella stanza sarebbe stata al sicuro, era la sua certezza. Ryuzaki l’avrebbe salvata, perché l’aveva chiesto lui. Ryuzaki l’avrebbe salvata perché lui non ne sarebbe stato capace, così come non era stato in grado di salvare sua madre. All’epoca nevicava forte e le strade erano sommerse. La Wammy’s House era rimasta isolata e il medico bloccato in città. E lui non aveva fatto niente. Sarebbe potuto correre a prenderlo, avrebbe potuto affrontare la bufera, ma non l’aveva fatto. Da uomo di scienza, era perfettamente consapevole che le cose non sarebbero cambiate in ogni caso, ma spesso l’amarezza del rimpianto era più potente persino della ragione.
Aveva giurato a se stesso che avrebbe preservato la vita di sua figlia e per farlo l’aveva affidata a Ryuzaki, alla sua mente razionale, al suo ingegno.
 
«Devi vivere. Lo devi fare, Medea, è nel tuo nome».
«Taci».
 
Apollineo e dionisiaco lottavano in quella stanza, così come anni prima s’erano incontrati tra le ombre di un vicolo malfamato. All’epoca era stato lui ad abbeverarsi alla fonte pura della vita, all’epoca aveva lasciato che l’istinto di quella donna portasse una ventata d’aria fresca negli scomparti un po’ impolverati della sua mente quadrata. Ora era il turno di Ryuzaki. Prima dello scontro decisivo con la morte, prima di piombare nuovamente nella sala monitor ad elargire le sue geniali e aride deduzioni. Probabilmente non avrebbe avuto il tempo di comprendere fino in fondo il dono che gli era stato concesso, probabilmente lo stava facendo soltanto perché l’aveva chiesto lui. Ma in fin dei conti andava bene così.
 
«Basta, non ti voglio sentire, devi tacere! Io sono viva e lo sei anche tu! Non ci sono campane che suonano, non servono questi discorsi! Ti prego...».
 
Vide Medea balzare sul giovane con uno scatto ferino, la vide aggrapparsi al suo corpo senza rabbia né rancori, spinta unicamente da quella disperazione furiosa, da quell’energia vitale che trasudava dalla danza della madre. Pensò a tutte le volte che da bambina l’aveva rifuggito , al terrore cieco che si impadroniva di lei ogni volta che quella mente razionale tentava di invadere il suo centro. Pensò alle carezze che ora gli avrebbe consacrato, al rossore che le avrebbe tinto le gote pallide nel lasciarsi scoprire davvero per la prima volta.
 
Salvalo, Medea. A qualsiasi costo. Con ogni mezzo.
 
Spense le telecamere e si disse che lei l’avrebbe fatto, gli sarebbe rimasta accanto. Perché l’aveva chiesto lui.
 
 
 
 
 
Should I bite my tongue?
Until blood soaks my shirt
We’ll never fall apart
Tell me why this hurts so much
 
 
 
 
All’alba del mattino dopo si recò nella stanza di Ryuzaki. Fuori, l’acqua scrosciava con violenza nelle strade. Trovò il giovane già in piedi, intento a leccare via la panna dalle ultime fragole della torta. Medea dormiva scompostamente avvolta nel lenzuolo, i capelli sul viso e le labbra socchiuse. Ryuzaki sollevò un frutto tra le dita. «A qualsiasi costo e con ogni mezzo. L’avevi detto tu, no?».
Watari annuì in silenzio. Si avvicinò alla figlia e le scoprì la fronte per stamparle un ultimo, fugace bacio. «Ci vediamo dopo, Ryuzaki».
«Già, dopo». Si guardarono per un attimo. La luce dorata del lampadario si insinuava negli occhi del ragazzo, e Watari ebbe la fugace impressione di trovarli diversi, più chiari.
È stata lei.
 Uscì nel corridoio sospirando tra i baffi folti. Il detective si portò la fragola alla bocca e si affrettò a seguirlo fuori.  Chiuse la porta a chiave e si avviò verso il tetto del palazzo.
A qualsiasi costo. Con ogni mezzo.
Tra la pioggia, in lontananza, rintoccavano le campane.
 
 
 
Until the day I die
I’ll spill my heart for you
 
 
 
 
 
 
 
 
 
AVVERTENZE!
 
Questa cosa è in qualche modo tratta dall’altra mia storia, “Immortal”, in quanto fa riferimento al capitolo “Le campane”. Se non l’avete letta, potete farlo. Oppure potete non farlo. Insomma, viva la libertà!
In attesa di scrivere l’ultimo capitolo di “Immortal” mi è venuto in mente di buttare giù questo “esperimento”, chiamiamolo così. Era da un po’ che pensavo al rapporto tra L, Watari e Medea nel mio racconto e a molti interrogativi irrisolti che sono sorti nella mia testolina malata durante la scrittura, quindi mi sono detta: «Avanti, prova a sbrogliarne qualcuno!».
Gli interrogativi in questione sono: cosa è successo durante l’ultima notte di vita di Watari e L? Perché Medea è rimasta in quella stanza? Perché L l’ha tenuta in quella stanza? Dov’era Watari? È stato davvero tutto pilotato, come Medea ha in futuro ipotizzato, oppure c’era sotto qualcosa di più tenero?
Inutile dire che molte risposte non le ho ancora trovate. Perché, riflettendoci, quelli che ho scritto sono i pensieri di Watari, ma le telecamere sono state spente. “Ai posteri l’ardua sentenza”.
Nella composizione mi sono ispirata ad alcuni versi di una canzone molto speciale cui sono particolarmente legata: "Until the day I die", del gruppo Story of the Year. È la prima volta che faccio qualcosa di questo genere, quindi nebbia anche su questo punto.
Per quanto riguarda la mamma di Medea, diciamo che nella mia mente è un po’ un mix fra diversi personaggi letterari: Ofelia (Shakespeare), Esmeralda (Hugo), Salomé (non tanto quella biblica, ma il personaggio dell’omonima tragedia di Wilde) e infine Medea stessa; che sono un po’ i medesimi personaggi che hanno dato vita alla mia Medea.
“Belzebù” sta per “Diavoletto” e le campane sono belle!
Ringrazio tutti quelli che si soffermeranno a leggere, spero vi siate divertiti tanto quanto me nello scrivere! Alla prossima!
 
 
 
   
 
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