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Autore: SirioR98    13/08/2018    2 recensioni
In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.
Mi chiamo Noah e mi hanno costretto in un sistema isolato.
Noah è un sedicenne nato e cresciuto in una piccola comunità di mormoni nello Utah. Apertamente omosessuale e fiero di esserlo, si ritrova a convivere per cause di forza maggiore con Alex, la sua “persona preferita”, che si identifica come nonbinary. Esplorando la comunità LGBTQ+ di Salt Lake City e sopravvivendo alle sfide della città natale di Joseph Smith, Noah si vede costretto a crescere prima del tempo e a cercare la sua voce.
Genere: Azione, Dark, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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*Angolo dell'autrice*

Update: Sistema Isolato - Mitch diventerà una serie web, cliccate qui per visualizzare la pagina instagram ufficiale, dove caricheremo gli aggiornamenti.

Buonsalve a tutti e bentornati. Il brano eponimo è Dark Side of Medel gruppo indie australiano Carvel. La band, in giro dal 2015, non ha ancora pubblicato un album intero. Questa canzone in particolare ha una chitarra molto piacevole, consigliata agli amanti dello strumento.
Vi auguro una buona lettura.


 
Capitolo 11


Sospiro sonoramente nella solennità della chiesa vuota.
Alzo la fronte dallo schienale della panca davanti a me, posando il mento sulle braccia incrociate e lo sguardo sulla semplice croce di legno, appesa dietro il leggio dove il pastore è solito tenere il suo sermone domenicale.
Almeno così immagino in base alla mia esperienza, non ho idea di come mandino avanti la messa in questa chiesa, non ci ho mai assistito.
Tra l’altro questa è appena la seconda volta che entro qua.
Ricordo la prima come fosse ieri: mi stavo nascondendo da Cox, in quel giorno che sembra appartenere a secoli fa.
Quasi mi mancano quei tempi. Allora non dovevo fare altro che preoccuparmi di sopravvivere - come se non avessi detto nulla -, ma adesso…
Incredibile da credere, eppure la mia vita si è complicata ancora di più.
A dire la verità, non so perché sia venuto in questa chiesa. I miei piedi mi hanno portato automaticamente qui, dopo il lavoro.
Dopo che mio padre ha tentato nuovamente di parlarmi.
Fortunatamente, non ho notato alcun livido sul suo corpo, o meglio, sulla parte visibile del suo corpo. Mi sa che, in un momento di rabbia, il pugno sia finito contro qualcosa di più duro.
Come cemento.
Un muro.
La sua volontà di ricucire i rapporti.
Ci siamo capiti, insomma: non l’ho colpito.
Anche nel momento di rabbia più intensa preferisco far del male a me stesso che ad altre persone.
Il solo pensiero mi nausea, ne ho abbastanza di violenza, ne ho fatto il pieno in questi anni.
Eppure…
Mi passo una mano sul viso, cercando di cancellare l’ombra dei ricordi.
È allora che dei passi, così cauti da farmi chiedere se li abbia immaginati, interrompono il mio viaggio verso l’inferno.
Volto lentamente la testa verso il rumore, guardando da sopra le spalle incurvate.
Un uomo dalla camicia nera e il colletto bianco raggiunge la mia panca e, senza chiedere il permesso, prende posto accanto a me.
Sul viso sfoggia un sorriso pacifico, come se la sua mente appartenesse a un universo diverso rispetto al mio, dove i problemi terrestri non sembrano poi così gravi e la soluzione è data da una forza superiore.
A volte penso a quanto possa essere facile la vita di un pastore, la cui preoccupazione maggiore è ricordare il discorso preparato la sera prima.
A volte vorrei diventare io stesso un pastore. O un monaco tibetano. O un prete cattolico, un rabbino, un brahmana come Govinda, o ancora un muezzin, così da poter gridare dall’alto di una torre cinque volte al giorno con la scusa di richiamare alla preghiera.
Non è la fede a farmi gola, ma la promessa di una vita semplice, lontana da problemi mondani quali popolarità, piattaforme e social media.
Poi ricordo che anche il papa twitta almeno una volta a settimana e mi chiedo se tale vita non sia diventata solo una fantasia, invece che una possibilità.
Nel deserto c’è Wi-Fi? Nella foresta il cellulare prende, forse le caverne fanno perdere il segnale.
“Sei tornato.”
Non una domanda, ma un dato di fatto.
Ora che lo osservo bene, il suo sorriso nasconde un accenno di sicurezza. Sapeva che sarei tornato, prima o poi.
“Ce ne hai messo di tempo.” Aggiunge, voltandosi verso di me.
Non gli rispondo, torno a guardare avanti.
Non so perché faccia così, una parte dentro di me non vuole dargliela vinta, ammettere di aver bisogno di aiuto e di essere entrato in chiesa in cerca di quell’aiuto.
Quanto può essere disperato un ateo per farlo?
Inizio a dubitare delle mie convinzioni, a essere sincero.
“Ti rivelerò un segreto, figlio mio: i pastori sono particolarmente bravi ad ascoltare. Non quanto i preti cattolici, che si allenano in confessionale, ma nemmeno noi siamo malaccio.” Mi propone, chinandosi per bisbigliare.
“Noah. Mi chiamo Noah.” Lo riprendo, senza togliere gli occhi dalla croce. Alla luce soffusa delle lampade fulminate, ha un che d’ipnotico.
Ne ho abbastanza di padri, figli, sangue e nomignoli.
Io sono Noah. Voglio essere riconosciuto per la mia identità, non per l’appartenenza ad altre persone.
Al suo ennesimo sorriso, mi metto a sedere dritto.
“Ok, la situazione è questa: una persona che non volevo più vedere si è ripresentata nella mia vita, chiedendo perdono per un torto che mi ha fatto. Sono indeciso se provare a perdonarla e riallacciare i rapporti, perdonarla e non parlarle più… o lasciare le cose come stanno.” Spiego, cercando di non entrare nel dettaglio.
L’uomo si tocca il mento, passando le dita sul residuo di barba rimasto dopo essersi rasato.
“Sei rimasto molto vago, Noah. Mi serve qualche particolare in più, altrimenti non potrò darti alcun consiglio.” Sentenzia, incrociando le braccia.
“Non le ho chiesto alcun consiglio.” Rispondo glaciale, mimando la sua posizione.
Il pastore sorride.
“Se avessi voluto solo sfogarti, non saresti venuto qua. Mi sbaglio?” Domanda retoricamente.
Mi mordo d’istinto l’interno della guancia.
Un giorno la lingua la passerà da parte a parte, me lo sento. Tanto vale farmi mettere un dilatatore.
Non vorrei dire nulla, sono anni che mantengo il segreto per non essere rintracciato, ma ormai…
“… ormai che importanza ha?” Mi lascio scappare, dando voce, ancora una volta, ai miei pensieri.
L’uomo mi guarda paziente, fermo nella sua calma pacata.
“È mio padre.” Ammetto, concentrandomi sulle linee del palmo sinistro, che traccio con il pollice dell’altra mano.
“Lui…” Lascio che la frase muoia in un sospiro, prima ancora di essere formulata.
Mi massaggio il collo, cercando di sciogliere i muscoli in tensione.
“È una situazione complicata.” Confesso, non trovando parole migliori.
“Io ho tempo.” Ribatte il pastore, mettendosi più comodo.
Lo osservo trovare la posizione giusta, divertito dalla sua tenacia.
“Mi sta invitando a raccontarle la storia della mia vita, per caso? Perché quello dovrei fare, per spiegarle bene il tutto.” Lo avverto, il sarcasmo messo da parte per una volta.
“Vado a prendere i popcorn?” Risponde lui, prendendo al balzo il tono che avevo abbandonato.
Lo guardo di traverso, un po’ come a chiedergli se sia serio.
“… va bene, cercherò di essere sintetico, ma non prometto nulla.” Replico.
Prendo un respiro profondo e mi preparo a ricostruire la storia, mettendo in sequenza i ricordi.
Questa volta nessuna invenzione, sono stanco di fingere.
“Sono nato a Mapleton, una cittadina a sud di Provo, in una pacifica famiglia mormone. Già da questo dovrebbe capire tutto sui miei genitori: classica gente di provincia, cresciuta nel timore di Dio, con diversi anni di volontariato ed esperienza come missionari in diverse città, come tutti i mormoni che si rispettino.  Sono stato educato alla fede, ogni domenica ero in chiesa, pregavo sempre prima dei pasti e prima di andare a letto. Ero il perfetto figlio mormone della perfetta famiglia mormone, pensi che condivido pure il cognome con il fondatore, non mi sorprenderebbe se ne fossi discendente!
Andava tutto bene, non disobbedivo mai, non mi hanno mai messo in castigo, non ho mai dato loro motivo di essere delusi… finché non ho dato il primo bacio a un John, invece di una Joanne.
Mettiamo un momento da parte tutti i pensieri auto-critici che hanno portato a odiarmi per un periodo, perché quella è un’altra storia.
Ovviamente non sono stato io ad aggiornare i miei genitori sulla mia nuova scoperta, come avrei potuto? Sapevo perfettamente come la pensavano al riguardo. Oh, no… è stata la figlia della mia vicina, la ragazza ci aveva visti in atteggiamenti poco consoni alla nostra religione. Nulla di scabroso, sia chiaro, solo un innocente bacio. E solo quello è bastato a far crollare anni di stabilità.
S’immagina che bel rientro a casa? Subito dopo la scuola mi hanno fatto sedere sulla poltrona, loro due sul divano a fare muro contro di me. Mancava solo una luce puntata addosso e l’avrei potuto definire un interrogatorio da manuale, di quelli che si vedono in televisione.
Quando non ho confutato il pettegolezzo, mia madre è scoppiata a piangere. Continuava a ripetere che sarei andato all’inferno, che dovevano curarmi, che mi avrebbero potuto mandare in un centro di recupero. Ha presente quali intendo, no? Quelli dove ti torturano per ‘far passare l’omosessualità con le preghiere’.
Sapevo già a cosa sarei andato incontro, non volevo. Insomma... ero seriamente convinto che mi sarebbe passata quando avessi trovato una ragazza, magari era solo una cosa temporanea, un prurito che avevo grattato, non servivano misure così drastiche.
Ovviamente così non è stato, sono ancora gay, ma allora ci speravo.
Così ho rifiutato la loro soluzione.
I miei genitori si sono infuriati, mia madre sembrava una belva. Mi urlava contro, mi spingeva, m’insultava. Oh sì, non si è risparmiata.
Mio padre… la sua è stata una rabbia gelida, di quelle che ti rendono la faccia un blocco di marmo.
Quando sono stato buttato di peso fuori di casa, era ormai sera. Mi ricordo di aver strisciato il gomito contro l’asfalto del vialetto, di averci lasciato un pezzo di pelle. Se guarda bene, si vede la cicatrice, poi si è infettato un poco.”
Faccio una pausa per mostrargli il segno. La cicatrice è appena percettibile: tre sottili linee bianche giusto sopra l’osso.
“La prima di una lunga serie.
Avevo quattordici anni.
In un modo o nell’altro, qualche settimana dopo sono finito a Riverton. E lì sono finito nel sistema d’affidamento. Per i primi tempi sono stato sballottato in una decina di case diverse, c’era sempre qualcosa che non andava: troppi ragazzi, troppo rumore, troppo arrabbiato, troppo omosessuale. Poi sono finito dai Bennet, dove ho conosciuto la mia persona preferita. Allora non aveva ancora fatto coming out con nessuno, era solo una tredicenne magrolina, con gli occhi più grandi della faccia. Si chiamava Alexis, da qui il nome che usa al momento.
I Bennet… quel periodo è stato un inferno. Forse avrei preferito l’inferno promesso dai miei genitori, invece di Riverton. Al signor Bennet piaceva la cinghia, la signora Bennet non aveva pazienza, ma aveva accesso a una riserva di prodotti per la casa, a nessuno andava mai bene niente, faccia due più due.
Può giocare un campionato di tris sulla mia schiena.
Penso di aver passato più tempo inconscio, in quella casa, che da sveglio. Non sono mai svenuto prima di entrare dai Bennet, mai.
Ma a volte il dolore era insopportabile, a volte la stanchezza era troppa o il fiato mancava.
Sa che se mischia ammoniaca e candeggina ottiene dei vapori molto tossici, che anche in piccole quantità possono causare danni seri?
Io lo so bene, una volta sono finito all’ospedale per edema polmonare. Meno male che se ne sono accorti subito, un cadavere sulla testa nuoce alla reputazione di chiunque.
Ancora mi chiedo come siano riusciti a ottenere la licenza per l’affidamento. Immagino che essere uno dei pilastri della comunità religiosa abbia i suoi vantaggi…
I ragazzi in affidamento lo irritavano, io e Alex in primis, forse perché siamo diversi, non so, è solo una supposizione.
Ma gli assegni dello stato sono troppo comodi per rinunciarvi, no?
Quando Alex ha avuto la bellissima idea di prendere una forbice e tagliarsi i capelli alla maschietto, ‘per un look più androgino’… il signor Bennet è esploso.
Il fatto è questo: non m’interessa se fai del male a me, posso sopportarlo. Davvero, puoi picchiarmi a sangue, sputare sui miei resti, trattarmi come un animale. Non m’importa.
Ma prova a toccare qualcuno a cui voglio bene…
In quell’anno e mezzo ho fatto di tutto per proteggere Alex, di tutto. Ho preso la mia dose di bastonate e anche la sua, pur di salvare la mia persona preferita. Faceva arrabbiare Bennet? Allora io lo facevo arrabbiare di più. Rompeva un piatto? Io me ne assumevo la colpa.
Caso vuole che quel giorno il club di giornalismo fosse finito prima, quindi Alex aveva avuto la malsana idea di tornare a casa e fare quello che ha fatto, mentre io mi trovavo ancora a scuola. Non so perché, ma tutte le cose peggiori avvengono al rientro da scuola.
Alex era in soggiorno, senza sensi, a terra. C’era così tanto sangue…
Ho chiamato immediatamente un Uber per andare in ospedale, portando il corpo della mia persona preferita in braccio. Perché non un’ambulanza, si starà chiedendo. Lo sa quanto costano le ambulanze? Non ho mai avuto tutti questi soldi e i Bennet non volevano sborsare. Ho urlato e urlato per convincerli a chiamare un’ambulanza, ma hanno voltato le spalle dicendo che non era nulla cui io non fossi sopravvissuto. Se ce l’avevo fatta io, ce l’avrebbe fatta anche Alex, questa era la loro logica. Nemmeno mi aveva colpito per avergli urlato contro, secondo me sapeva di aver esagerato, quella volta.
In ospedale mi hanno fatto mille domande e io ho risposto a tutto. Nessuna menzogna, ho detto alla polizia la pura e semplice verità.
Non mi hanno creduto. I Bennet avevano dato la colpa a un qualche spacciatore, venuto a casa per riscuotere un debito con Alex. Questi maledetti randagi non imparano mai.
Che cliché.
E la polizia se l’è bevuta. Uno spacciatore… a Riverton. Alex che fa affari con uno spacciatore.
Secondo me ci hanno voluto credere, perché non è possibile che le forze dell’ordine abbiano elementi così stupidi. Era semplicemente una scusa più comoda, meno indagini da fare. Nessuno vuole aprire un caso per maltrattamento, va troppo per le lunghe.
Una settimana dopo, quando Alex camminava di nuovo abbastanza bene per affrontare un viaggio, abbiamo preso baracca e burattini e ce ne siamo andati. Fortunatamente le gambe non erano rotte, altrimenti sarebbe stato un bel problema scappare. Non ero abbastanza forte da portare un corpo sulle spalle, non importa appartenesse a una persona di a stento cento libbre.
Il resto è storia nota: siamo rimasti a Liberty Park per qualche tempo, sono finito in riformatorio e adesso stiamo dai Winterfield.” Concludo il racconto, portando un ginocchio al petto.
Fisso ancora una volta il crocifisso, che sembra giudicarmi dall’alto della sua solennità.
“Per un periodo ho dubitato anche di essere umano… quando ti trattano come un animale, il dubbio sorge spontaneo. Cos’ho fatto io per meritarlo?” Chiedo al pastore, girandomi nella sua direzione.
“Lei lo sa? Mi dica, allora: cos’ho fatto di male? L’unico crimine che ho commesso è essere nato. Ma anche gli altri sono nati, cos’hanno loro di diverso per godere di privilegi che a me sono stati negati? Di una casa sicura, di stabilità, di serenità? Perché io devo andare a letto con la paura di non sopravvivere alla notte?
Se non mi avessero buttato fuori di casa, se mio padre si fosse opposto a mia madre, invece di assecondarla, non sarei qui a implorarla per una risposta. “ Aggiungo, inghiottendo un singhiozzo.
Il pastore mi sorride incoraggiante. Anche con un po’ di pietà, ma lascio correre il dettaglio.
“D’altro canto, se non fossi finito dai Bennet non avresti conosciuto Alex, non avresti potuto salvarlo. Non tutto il male vien per nuocere.” Commenta.
Rido sarcastico.
“Facile a dirsi quando il male non tocca te. E Alex non è un lui, è… lasci perdere, troppo lunga da spiegare.” Ribatto, scuotendo la testa.
“Ma c’è un fondo di verità nel detto, non è vero? Sai, Noah, il male prima o poi colpisce tutti. Non importa quanto la tua vita sia bella, quanta fortuna tu abbia. Il successo di una vita non si misura in base a quanto una persona sia felice, ma a cosa questa persona riesce a cavare dalla situazione in cui si trova. In questo momento hai la possibilità di fare del bene per altre persone nella tua stessa condizione, puoi aiutare ragazzi che devono affrontare i propri ‘Bennet’, puoi dare una voce a chi non ce l’ha.
E puoi perdonare.
Tutte le persone sbagliano, tutte, nessuno escluso.
Tuo padre avrà riconosciuto i propri errori e se ne sarà pentito. Immagino ti sia familiare la parabola del figliol prodigo…”
“Abbastanza.” Confermo.
“Perfetto, non ho bisogno di raccontartela. Tuo padre è il protagonista, riuscirai ad accoglierlo a braccia aperte?
Ricorda le mie parole, Noah: il mondo può toglierti tutto - casa, famiglia, amici, beni materiali e anche la libertà fisica -, ma lotta con tutte le tue forze per conservare la forza di amare, immaginare e perdonare, perché quando perderai anche quelle, allora avrai perso la vera libertà e potrai definirti sconfitto. Fino a quel momento, combatti.” Con questo consiglio, il pastore si alza ed esce sul corridoio.
“Grazie, padre. Davvero, la ringrazio di cuore.” Sussurro, girandomi finalmente a guardarlo.
Il pastore sorride ancora una volta.
“Dovere. Spero di rivederti qualche domenica.” Risponde.
Sorrido a mia volta, scuotendo la testa.
“Di domenica non credo, però anch’io spero di rivederla presto.” Ribatto, seguendo il pastore alla porta d’ingresso.
Credo che questo sia l’inizio di una nuova amicizia. Almeno, così vorrei che fosse.
Con un ultimo cenno del capo, saluto il pastore ed esco dalla chiesa.
Direzione: casa.
Si è fatto buio, non vorrei che gli altri si preoccupassero.
Riesco a sentire i singhiozzi già dal corridoio.
Qualcuno tira su con il naso, qualcuno mormora qualcosa, tutto è attutito dalla porta di legno che mi separa dalla mia camera.
Che Alex stia piangendo?
Perché mai dovrebbe piangere? Cos’è successo?
Cautamente, afferro la maniglia e mi accingo a far chiarezza sul mistero.
Sul letto della mia persona preferita, posto dirimpetto rispetto alla porta, Marlene sta piangendo sommessamente mentre Alex, abbracciandola, cerca di rincuorarla.
Io rimango sull’uscio, imbambolato per la sorpresa.
Nessuno si accorge della mia presenza.
Lo ammetto: non me l’aspettavo.
Se Marlene si trova in questo stato, vuol dire che ancora non ha risolto con Audrie. La situazione dev’essere più grave di quanto immaginassi.
Mi avvicino cautamente alle due figure, chinandomi all’altezza della ragazza per guardarla negli occhi.
“Marlene, va tutto bene?” Le domando, tentando di attirare la sua attenzione senza spaventarla.
La ragazza mi guarda per un momento, prima di scoppiare di nuovo a piangere.
Missione fallita.
Con lo sguardo cerco Alex, implorando una spiegazione.
La mia persona preferita si limita a stringere ancora più intensamente la ragazza, posando il mento sulla sua testa.
“Andrà tutto bene, Marlene. Siamo qui per te.” Le sussurra, cullandola dolcemente.
La gonna del vestito di Marlene, uno di quei vestiti stile ‘anni Cinquanta' di colore rosso, mi sfiora le ginocchia. Lo scanso per farmi posto accanto a lei.
Il materasso si piega sotto il mio peso, facendo incurvare impercettibilmente la ragazza verso di me.
Le metto una mano sulla schiena, passandogliela su e giù in un movimento lento e ritmico. Di solito questo mi tranquillizza, non so che effetto abbia su di lei, ma tanto vale provare.
“Marlene, parlami. Qualcosa non va?” Le sussurro.
Qualcosa non va? Che domanda cretina, Noah. È ovvio che c’è qualcosa che non va, altrimenti non sarebbe in camera tua a singhiozzare.
Stranamente, la banalità funziona per farla parlare.
La ragazza si gira e mi osserva con sguardo malinconico. I suoi occhi, nei quali si riflettono le ciglia rivestite di mascara, sono ancora bagnati di lacrime.
“Noah… sono un uomo.”
…aspettate un attimo.
Cosa?
La fisso imbambolato, colto alla sprovvista.
“Come, scusa? Puoi ripetere?” Domando, scuotendo la testa per riprendermi.
“Sono un uomo.” Confessa nuovamente.
Dopo aver sbattuto le palpebre un paio di volte e aver fatto tutti i calcoli e i collegamenti possibili, guardo prima Alex, poi Marlene.
“Momento… nel senso che sei nata uomo?” Chiedo, implicando una spiegazione più esaustiva.
Alex scuote la testa.
“No. Sono nata donna, ma so di essere un uomo.” Specifica, tirando su con il naso.
Penso avesse già messo in conto le domande.
FtoM, Noah. Female to male. Ragazzo transgender, in questo senso.” Chiarifica Alex, notando la mia espressione ancora confusa.
Se fossi il personaggio di un cartone, una lampadina mi s’illuminerebbe sopra la testa.
“Ah, ok, ho capito… un po’ come Alex, giusto? Quindi, devo usare i pronomi neutri anche per te?” Replico, felice di aver compreso la situazione.
Alex alza gli occhi al cielo.
“No, io sono non-binary, è diverso.” Ribatte la mia persona preferita, con voce irritata.
“Qual è la differenza, allora?” Domando, mettendomi sulla difensiva.
“Andiamo, Noah… ho passato diversi pomeriggi a spiegartelo!” Si lamenta.
Mi stringo nelle spalle, non so che dire.
Non può semplicemente spiegarmelo in parole povere?
Alex sospira, passandosi una mano sul volto.
“Tutt’e due siamo biologicamente femmine, ma Marlene si identifica nel genere maschile, io rifiuto la binarietà uomo/donna e m’identifico nel mezzo, all’incirca. Quindi io uso pronomi neutri, Marlene pronomi maschili. Qui sta la differenza.” Chiarisce, cercando di sintetizzare il più possibile.
La lezione sul genere è finita e, stavolta, ho quasi capito.
“Quindi… cos’hai intenzione di fare, adesso?” Domando alla ragazza.
Ragazzo.
Marlene.
Accidenti, so già che sbaglierò spesso nei prossimi mesi, mi devo abituare.
“Terapia ormonale… ne ho già parlato con Anne, mi sta indirizzando da un medico specializzato, così potrò iniziare a prendere testosterone. Ovviamente non subito, mi ha avvertito che passerà un po’ di tempo. Non ho capito bene come funziona, ma dovrò fare diverse analisi e un periodo di bloccanti ormonali, prima di poter prendere il testosterone. Da quanto ho capito, guardando video su Youtube, sarà un po’ come mettere in pausa la pubertà, per poi dare al mio corpo gli ormoni giusti e riprenderla come un ragazzo, invece che come una ragazza. Quindi… niente più estrogeni, per me.” M’informa Marlene.
“Poi cambierò legalmente nome e genere, ma questo non so come si faccia, mi dovranno aiutare Emma e Josh.” Aggiunge, guardandosi le mani.
Chissà quanto ci avrà pensato, per avere un piano quasi completo.
“E l’operazione?” Domando incuriosito.
Marlene ridacchia.
“Di quale operazione stai parlando? Ce ne sono diverse, in questo caso.” Ribatte con il sorriso ancora sulle labbra.
“Sì… insomma… l’operazione….” Continuo, indicando la gonna e grattandomi la testa imbarazzato.
Certe domande metterebbero a disagio chiunque, ma non lei.
Lui.
Insomma.
È difficile cambiare pronomi da un giorno all’altro, mi serve tempo.
Meglio non usarne per un po’.
Marlene si stringe nelle spalle.
“Non so, ancora non ho deciso… è molto costosa, ora come ora non me la posso permettere. Di sicuro voglio togliermi queste.” Dice, prendendosi i seni tra le mani.
“Non aiutano la mia disforia di genere. Poi… chi lo sa, dipende come il mio corpo reagisce agli ormoni.” Conclude, buttandosi a stendere sul letto.
“E… l’hai detto ad Audrie?” Chiedo esitante, conoscendo già la risposta.
Marlene annuisce.
“Non l’ha presa bene, vero?” Rincaro la dose.
Sento nuovamente un singhiozzo. Alex si stende accanto al ragazzo, prendendogli la mano.
Un giorno mi prenderò a calci da solo, me lo sento.
Ho il potere di non aver completamente tatto.
Marlene respira profondamente per calmarsi, l’aria entra nella sua gola con un rantolio.
“Per ora siamo in pausa… mi ha detto che le serve tempo.” Spiega, asciugandosi le lacrime, per poi pulirsi le dita.
“Ancora non ha deciso se continuare la relazione... ho così tanta paura, Noah. Io… io vorrei continuare a stare con lei. Però devo rispettare la sua decisione, non posso costringerla a continuare una relazione che non vuole portare avanti. Anche di questo consiste un rapporto: rispetto reciproco. Lei non mi ha chiesto di non fare la transizione, io non le chiederò di rimanere con me, se non vuole.” Si ferma un attimo a riprendere fiato.
Alza gli occhi al cielo per fermare le lacrime.
“Perché è tutto così difficile?” Mormora fra sé e sé.
Si copre gli occhi con le braccia, il suo respiro è smorzato da sospiri.
Alex stringe la mano, invitandomi a fare altrettanto.
“Marlene, provo un orgoglio smisurato per te. Grazie mille per avercelo detto, sono felice che ti fidi di noi a tal punto. Non sarà facile, te lo assicuro, ma non sei da solo. Hai tutto il nostro supporto, vero Noah?” Dichiara incoraggiante Alex, voltandosi verso di me.
Confermo, aiutando Marlene a tirarsi su.
“Grazie, ragazzi. Vi voglio bene.” Sussurra, abbracciandoci.
Alex sa usare sempre le parole giuste, sono contento che sia la mia persona preferita.
Rimaniamo così: legati in tre in questo limbo, lasciando che la tristezza e i problemi si ritirino, per almeno il tempo di un abbraccio.
 
  
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