Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Ricorda la storia  |      
Autore: Amor31    13/08/2018    3 recensioni
Connie passeggia lungo le strade di una Trost rifiorita.
Tenta di dimenticare, invano: i ricordi lo travolgono, la memoria lo fa soffrire.
Perché la guerra è finita e gli anni passano, ma l'amore, quello vero, non lo abbandona mai.
----------------------
- ATTENZIONE! SPOILER PER CHI NON E' IN PARI CON LE SCAN -
- Storia classificatasi sesta al Contest "Una storia per un quadro" indetto da wurags sul Forum di EFP -
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Conny Springer, Sasha Braus
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Le onde della memoria

 

Faceva freddo, quel settembre. Un freddo insolito, persistente, come se di colpo fosse arrivato il pieno dell'inverno senza passare per la mitezza dell'autunno.
Il vento lo aveva costretto a tirare fuori dall'armadio una giacca che in altre occasioni non avrebbe rispolverato prima di metà novembre. Aveva infilato le maniche e sistemato il colletto, che come al solito si era girato verso l'interno, poi era uscito e una raffica gelida lo aveva travolto, mulinandogli davanti al viso un paio di foglie già secche che si rincorrevano nel vento. Le aveva scacciate con la mano, innervosito, per poi restare a guardarle: sembravano due ragazzi che giocavano. I ricordi lo avevano travolto, ma si era fatto trovare pronto e li aveva ricacciati indietro, come la marea che risucchia le onde. Inspirando, si era incamminato per strada stringendosi nella giacca, le mani ben piantate nelle tasche.
Trost era profondamente diversa da come l'aveva conosciuta da ragazzo. Quanti anni aveva, quando vi si era rifugiato? Undici? Di certo a dodici era già lì, arruolato nel 104° Reggimento. Da quel momento in poi, salvo sporadiche occasioni legate per lo più alla guerra, non aveva più lasciato la sua città adottiva. Del resto, non aveva un altro posto in cui andare.
Il villaggio di Ragako era stato distrutto quando lui, di anni, ne aveva appena compiuti quindici. Ora, al posto delle vecchie rovine, abbandonate per due anni prima che vi tornasse qualcuno a insediarsi, sorgeva un piccolo agglomerato urbano dipendente da Trost. C'era una chiesetta, il mercato settimanale, una sorta di ambulatorio medico e perfino una scuola elementare. Chi ambiva a un futuro migliore, ovviamente, era costretto a emigrare verso la Capitale o in alternativa a Shingashina. Trost, invece, era diventata un avamposto militare, sede di importanti uffici legati all'attività dell'esercito. E lui, Connie, proprio all'esercito era rimasto fedele. Perché, d'altronde, non aveva altro a cui tornare.
Molti dei suoi vecchi compagni avevano preferito lasciare la milizia e costruirsi una vita lontana da lotte, morte e sangue. Non che li biasimasse, anzi. Mikasa era stata la prima a dire addio: non era mai stata sua intenzione proseguire una carriera che, di fatto, le era stata imposta da Eren e per un periodo era tornata a Shingashina, lavorando in una sartoria e pagando la pigione della pensione in cui alloggiava con il suo stipendio. L'aveva incontrata di rado e solo quando era stato assegnato alla Guarnigione per dei turni speciali nella città più a sud delle Mura, ma le era parsa felice, seppur ancora provata dalla morte del fratello prima e di Armin in un secondo momento. Forse – e questa era la conclusione a cui Connie era giunto dopo averci rimuginato su – era stata proprio la perdita di quella sua seconda famiglia a farla desistere dal tornare a vivere tra i boschi, lì dove era nata. Se il suo desiderio era stato quello di vivere tranquilla in una piccola casa coltivando la terra con gli altri due ragazzi, be', inutile dire che quel sogno, purtroppo, si era infranto fin dal giorno in cui Eren aveva scoperto che il Potere dei Titani condannava a morte chiunque ne fosse in possesso.
Poi era venuto il turno di Jean. Connie si era fatto cogliere impreparato dalla sua richiesta di allontanamento dall'esercito: aveva creduto che, con la straordinaria carriera fatta, il suo amico sarebbe rimasto a fargli compagnia. Invece no: addio alle armi. Al contrario di Mikasa, però, Jean era rimasto a Trost, tornando sotto lo stesso tetto dei suoi genitori, e si erano dati appuntamento in più di un'occasione nei giorni in cui Connie era libero dal lavoro. Era stato perfino invitato a casa Kirschtein per dei pranzi e delle cene; all'inizio aveva desistito – non se la sentiva proprio di assistere Jean fare il figlio felice di una famigliola felice – ma poi, su insistenza dell'amico, aveva accettato e aveva dovuto ammettere di aver fatto bene: i signori Kirschtein lo accolsero come se fosse stato un secondo figlio. Di questo Connie fu immensamente grato. Così come fu entusiasta di sapere che alla fine, dopo anni di tentativi andati a vuoto o semplicemente procrastinati, alla fine Jean aveva trovato il coraggio di dichiararsi a Mikasa. Inutile dire che le cose tra i due fossero andate a rilento, ma d'altra parte c'erano grosse difficoltà da superare, prima di poter stare insieme. Avevano impiegato tre anni prima di uscire allo scoperto come vera coppia, seguiti da altri quattro prima di prendere la fatidica decisione di sposarsi. Il loro era stato un matrimonio estremamente intimo e Connie non era potuto mancare, essendo stato tra l'altro scelto da Jean come testimone. Così i novelli sposi avevano stabilito la propria residenza proprio a Trost, ben lontani, però, dalla casa della famiglia Kirschtein. Mikasa aveva ripreso il suo lavoro in sartoria, venendo indirizzata da sua suocera, mentre Jean aveva iniziato a collaborare con la banca locale. Finalmente una vita normale dopo un'infanzia e l'intera giovinezza trascorse nella paura che ogni giorno potesse essere l'ultimo.
Mentre Connie camminava a passo spedito, dunque, ripensava a tutto questo. Rifletteva, inoltre, sul senso che stava dando alla propria, di vita: alzarsi tutte le mattine e procedere alla ronda per dodici ore consecutive era estenuante, ma tutto sommato non gli dispiaceva. Il suo stipendio era buono – senza contare i premi in denaro derivanti dall'aver prestato servizio durante la guerra prima contro il regime corrotto dei Fritz, poi contro la potente nazione di Marley – e poteva soddisfare ogni suo desiderio, almeno materialmente. Certo, c'erano cose che non si potevano acquistare con il denaro. C'erano cose che non avrebbe più potuto ottenere a prescindere dai soldi. Ma anche quella era acqua passata.
Il vento gli soffiò ancora sulle guance e stavolta Connie si riparò dietro il colletto della giacca, appena rialzato con un movimento veloce della mano, subito tornata nel tepore della tasca destra. Le strade di Trost erano tempestate di foglie gialle, un colore che gli riportò alla mente le distese di grano coltivate dai suoi genitori nei tempi ancora felici della sua prima infanzia. L'immagine delle spighe ondeggianti sparì in secondo piano, lasciando emergere prima il viso di Armin, poi quello di Annie e Historia. Tre persone che avevano in comune, per l'appunto, solo il colore di occhi e capelli. Capelli biondi come quelle foglie invecchiate. Connie si chiese se Annie, ovunque si trovasse in quel momento, non avesse alla fine trovato la pace che tanto cercava; allo stesso modo si domandò se Historia, ora che i suoi domini erano decuplicati, non si sentisse schiava del proprio ruolo di sovrana. Si disse che avrebbe dovuto indagare cercando una risposta dalla diretta interessata, magari la prossima volta che ci fosse stata la possibilità di incontrarla di persona.
Camminò ancora a lungo, arrivando a costeggiare il fiume che attraversava il lato est della città. Superò un ponte e si trovò dall'altra parte, in un quartiere che solo di recente era diventato residenziale; ricordava, infatti, che proprio nelle vicinanze, fino a poco prima della fine della guerra, erano stati confinati i profughi provenienti da Shingashina e dai villaggi disseminati nel territorio circondato dal Muro Maria. Incredibile, rifletté, come le cose fossero cambiate nell'arco di appena dieci anni. 
La sua passeggiata lo spinse a fiancheggiare nuove case a due e tre piani, tutte circondate da giardinetti e da recinzioni in ferro battuto. Proseguì ancora per un paio di minuti, finché non svoltò in una zona dedicata alla movida di Trost. E lì, finalmente, proprio all'angolo tra una strada secondaria e l'arteria principale che riportava al centro della città, trovò il suo vecchio bar preferito.
Si trattava di un locale che era nato nell'anno 840, cinque anni prima della caduta di Shingashina. A quei tempi – questo era ciò che i proprietari gli avevano raccontato – il bar non occupava più di dieci metri quadri. C'era posto solo per il bancone e un tavolino stretto in un angolo: gli avventori erano costretti a darsi il cambio per fare in modo che tutti, prima o poi, venissero serviti. Allora si poteva scegliere solo tra birra chiara e scura, al massimo vino se da Shingashina era arrivata una buona vendemmia. Con la caduta del Muro Maria, però, le cose si erano complicate e il bar aveva rischiato di chiudere. Si era ripreso lentamente nel corso dell'850, con una crescita esponenziale dall'anno successivo. Solo a quel punto i proprietari avevano allargato il locale, trasformandolo in qualcosa di più ricercato. Non più solo birra e vino, ma anche super alcolici e analcolici. Il tutto in un ambiente decisamente più sano – l'igiene non era stata mai al primo posto, almeno inizialmente – e finalmente aperto a clienti che non appartenessero solo ai ceti sociali più bassi di Trost.
Connie aveva assistito all'evoluzione di quel bar proprio dall'850. Lo aveva scoperto per puro caso, girovagando insieme a Thomas e Datz durante una ricognizione di allenamento, e si era ripromesso fin da subito che sarebbe tornato. Aveva mantenuto la parola, diventando praticamente un cliente abituale – adorava la birra scura, non ne aveva mai assaggiata una qualità così buona – e alla fine aveva trascinato nel giro anche Sasha. Appena avevano del tempo libero ne approfittavano per andare a bere qualcosa, eccitati dal pensiero di dover agire in tutta segretezza per non farsi scoprire dai loro superiori.
I pomeriggi o le serate che avevano trascorso insieme in quel locale erano ben scolpiti nella memoria di Connie. Prendevano sempre lo stesso posto al bancone e non uscivano dal bar se la birra non faceva il suo effetto. Dopo settimane trascorse nell'angoscia totale, con la paura che uno qualunque dei loro compagni – se non loro stessi – potesse morire, il minimo era annegare la disperazione in un bel boccale schiumoso. Non erano state poche le occasioni in cui si erano allontanati dal locale sorreggendosi l'un l'altra, troppo deboli e troppo presi dagli schiamazzi per poter stare dritti sulle proprie gambe.
Connie giunse all'angolo della strada e scrutò l'entrata del bar. Be', chiamarlo bar era ormai improprio. I proprietari avevano apportato ulteriori modifiche e adesso il locale si era allargato fin sul marciapiede, occupato da quattro tavolini forniti di ombrelloni per riparare gli avventori dal sole. Non trattenne un sorriso malinconico e, facendosi avanti, sedette non lontano dall'ingresso. Fissò prima la strada, poi la sedia vuota che gli stava di fronte. Sospirò, mentre una giovane ragazza gli si avvicinava chiedendogli se volesse ordinare qualcosa.
-Può portarmi il menù?-, domandò gentilmente. La cameriera, poco più che diciottenne, assentì e rientrò nel locale, comparendo subito dopo con il foglio cartonato pieghevole su cui era raffigurata la maggior parte delle bevande a disposizione.
Connie si girò il menù tra le mani e lo soppesò. Dio, se quel posto era cambiato. Era così diverso, così differente da come lo aveva conosciuto... E come si sentiva diverso lui stesso, ora che la guerra era finita da un pezzo e con lei la fase più avventurosa della sua vita di soldato.
Scrutò l'elenco degli alcolici, pur conoscendolo a memoria, e si stupì di trovare novità mai sentite prima; mentre leggeva, le onde dei ricordi depositarono sulla spiaggia della sua memoria il riflesso di un lontano pomeriggio di primavera.
Era l'anno 850. Eren aveva scoperto da pochissimi giorni di saper padroneggiare quella che, in un secondo momento, avrebbero tutti imparato a conoscere come Coordinata. Allo stesso tempo, la vita di Connie era completamente cambiata. Da quel momento in poi, niente sarebbe più stato uguale a prima.
Era partito con Hanji e la sua Squadra alla volta del devastato villaggio di Ragako. Ciò che aveva visto e appreso stando sul posto lo aveva profondamente destabilizzato. Per una settimana non aveva avuto notizie dei propri compagni; sapeva soltanto che erano tornati tutti a Trost, in attesa che Eren, il Comandante Smith e tutti gli altri si riprendessero dallo scontro con il Titano Corazzato. Quando poi era rientrato anche lui in città, Hanji non gli aveva permesso di riunirsi subito al resto della truppa. C'erano voluti ancora diversi giorni prima di poter riabbracciare gli amici: la priorità era stata raccontare a Erwin quanto scoperto a Ragako sulle possibili origini dei Titani. Era stato lui stesso a mostrare la verità al Comandante e quell'incontro lo aveva semplicemente accecato di dolore. Perciò, quando finalmente Hanji gli aveva concesso di andare, il suo primo pensiero era stato parlare con la persona di cui più si fidava al mondo. La sola che gli fosse rimasta, dopo aver perso la propria famiglia. 
Aveva fatto recapitare un biglietto a Sasha e la ragazza si era presentata puntuale all'appuntamento. Erano da poco passate le cinque del pomeriggio quando entrambi si erano ritrovati di fronte al piccolo bar all'angolo.
Connie ricordava come lei gli fosse corsa incontro, tutta trafelata. Lo aveva abbracciato e si era assicurata che le sue condizioni fossero buone.
-Non preoccuparti-, le aveva detto lui, -niente di rotto. Solo... Ho bisogno di raccontare delle cose e voglio che tu sia la prima a saperle. Non so se riuscirei a parlarne davanti agli altri, ora come ora... Io...-.
La sua voce si era spezzata e Sasha gli aveva circondato le spalle con un braccio, da brava amica qual era. Lo aveva accompagnato nel locale e si erano seduti al bancone, prendendo però posto nell'angolo più lontano, così che Connie potesse raccontare senza aver paura di essere ascoltato da orecchie indiscrete.
-Vuoi la solita birra scura? Offro io-, gli aveva detto Sasha, sistemandosi sullo sgabello di legno alla sinistra di Connie. Lui aveva impiegato qualche secondo prima di annuire con un cenno della testa.
-Una bionda e una scura, per favore-, la ragazza aveva ordinato lanciando una rapida occhiata al barista, tornando subito dopo a fissare l'amico. -Quando ti senti pronto, io sono qui per ascoltarti-.
Probabilmente era stato il tono mite e caldo della sua voce a spazzare via i dubbi e le paure che gli stavano divorando lo stomaco già da dieci giorni. Connie aveva alzato lo sguardo: negli occhi castani di Sasha aveva letto comprensione e sincera voglia di aiutarlo. Perciò non aveva esitato oltre e le aveva raccontato tutto, senza lesinare alcun particolare.
-Mia madre si è trasformata in un Titano-, aveva sussurrato, la voce di nuovo interrotta da un singulto che presto si sarebbe convertito in pianto, -e così sicuramente mio padre e i miei fratelli. Loro... Non ci sono più, ormai. Non potrò riaverli indietro-.
Mentre il barista lanciava nella loro direzione i due boccali di birra, prontamente afferrati da Sasha, Connie aveva sentito grosse lacrime rigargli il viso. Se le era strofinate via in fretta per evitare che l'amica lo guardasse piangere, temendo che potesse giudicarlo debole, ma Sasha, come in seguito avrebbe imparato a riconoscere, non era il tipo di persona che puntava il dito contro le presunte debolezze altrui. Al contrario, la ragazza gli aveva afferrato le mani e le aveva allontanate dal suo viso, fissandolo negli occhi.
-Non hai niente da nascondere, Connie. Se devi sfogarti, fallo pure. Piangi, se ne hai bisogno. Io sono qui per sostenerti e lo farò sempre, proprio come tu hai sostenuto me in questi anni di addestramento. Siamo amici e gli amici si dicono tutto. Gli amici si ascoltano e sono pronti ad aiutarsi a vicenda, quando ce n'è bisogno-.
Connie non era abituato a sentirla parlare con tono così serio, perciò quella decisione nella sua voce gli aveva strappato una mezza risata tra le lacrime che ancora gli imperlavano le guance. Sasha aveva riso a sua volta, con una dolcezza che Connie non avrebbe mai creduto di poter vedere, e poi gli aveva detto ancora: -Non sto scherzando, è questo che fanno gli amici. Ma adesso bevi la tua scura; sarà meglio che io assaggi la mia, magari lo stomaco smetterà di gorgogliare. Dico, non si potrebbe anticipare di qualche ora la cena, invece di aspettare sempre le otto in punto?-.
Era il suo modo di sdrammatizzare che la rendeva unica e incredibilmente comica. Dopo aver trangugiato la propria pinta di birra in compagnia di Sasha, Connie si era sentito incredibilmente meglio. Certo, era ufficialmente orfano di entrambi i genitori, senza contare la perdita dei due fratelli minori, ma c'era ancora qualcosa a cui aggrapparsi. O meglio, a qualcuno. E quel qualcuno, da quel momento in avanti, sarebbe stata sempre Sasha.
-Cosa le porto, signore?-.
La voce della cameriera lo riscosse dai pensieri. Si affrettò a scorrere un'ultima volta il menù e poi, ripiegandolo, lo consegnò alla ragazza: -Una birra scura. E una bionda, formato grande-.
-Boccale grande anche per la scura?-.
-Sì, grazie-.
La giovane rientrò e lui rimase solo, l'unico avventore del locale a sfidare il freddo vento di fine settembre restando seduto all'aperto. Non che la cosa gli dispiacesse, anzi: gli trasmetteva un senso di pace che, di tanto in tanto, era intervallato da scatti di profonda malinconia.
Ma a cosa stava pensando, prima che il flusso dei ricordi fosse interrotto? Ah, sì, a quel lontano pomeriggio in cui due quindicenni avevano affrontato un discorso molto più grande di loro.
Ora che ci rifletteva con più calma e, soprattutto, a mente lucida, Connie dovette constatare che era stato proprio quello il periodo in cui aveva cominciato a nutrire un sentimento molto forte per la propria compagna di Squadra. Il modo in cui lei gli era corsa incontro dopo dieci giorni in cui non si erano potuti né vedere né sentire, senza contare l'atteggiamento confidenziale con cui Sasha si era approcciata al suo triste racconto, avrebbero dovuto fin da allora indurlo a pensare che, forse, anche lei nutriva qualcosa per lui. Qualcosa di non ancora ben definito; d'altra parte avevano solo quindici anni e ben altri problemi, purtroppo, a cui pensare. Però... Si erano sempre definiti amici e quel bar, sviluppato solo attorno al bancone e ai cinque sgabelli disponibili, era stato il luogo fisico che avevano inconsapevolmente scelto per alimentare il proprio rapporto. Un'amicizia che, come quel locale, era nata da pochi punti in comune, per poi allargarsi e diventare qualcosa di decisamente più grande.
-Scura e bionda a lei. Questo è lo scontrino. Lasci pure i soldi sul tavolo, quando avrà finito-, venne ancora disturbato dalla cameriera.
-Grazie-, la congedò, vedendola sparire di nuovo nel bar. Poi scrutò attentamente il colore della sua birra e lasciò che la mente si perdesse nella consistenza della spessa schiuma bianca che sfiorava il bordo del boccale.
Quante volte lui e Sasha erano stati lì? Mah, dire innumerevoli era perfino riduttivo. Per non parlare del tempo che avevano trascorso seduti a quel bancone! Ne perdevano davvero la concezione, una volta entrati nel bar. Forse perché bevevano e l'alcol inevitabilmente li stordiva, forse perché stavano così bene da dimenticare tutto ciò che c'era e avveniva fuori dalla porta del locale; sta di fatto che il tempo, una volta insieme, assumeva un significato e una logica completamente diversi rispetto a quando erano sul campo di battaglia o con il resto dei compagni. Che passassero solo cinque minuti o due ore a ridere e a scherzare davanti a una bella pinta di birra, nella loro testa non sembrava trascorso più di un minuto. Erano appena entrati e già dovevano scappare. Strana convenzione, il tempo, e ancora più strano il modo di percepirlo. Ma mentre contemplava il suo boccale, Connie non poté fare a meno di pensare ad altre due particolari occasioni in cui la vita sua e di Sasha si erano intrecciate tenendo come sfondo, appunto, il loro adorato bar.
La prima era avvenuta qualche settimana dopo la battaglia di Shingashina. Erano stati giorni frenetici, quelli successivi allo scontro con il Titano Bestia e all'abbattimento del Colossale: il ritorno a Trost con il resoconto di una parte della verità sulla storia del loro mondo, le esequie del Comandante Smith, la cerimonia di consegna della medaglia al valore per tutti i componenti della Squadra Levi... Insomma, mille e più avvenimenti concentrati in appena tre settimane. Connie li aveva vissuti in compagnia dei propri compagni, ovviamente, ma la mancanza di Sasha si era fatta sentire più di quanto previsto.
Dov'era la ragazza? Be', costretta a letto con un paio di costole rotte. Aveva riportato le fratture durante lo scontro con il Titano Corazzato ed era corsa pericolosamente vicino al rischio di rimetterci la pelle. I superiori le avevano impedito anche il minimo movimento, sperando che si rimettesse in fretta; d'altronde, del Corpo di Ricognizione non restavano che nove superstiti e perdere un membro importante come Sasha a causa delle ferite di battaglia non avrebbe garantito alcuna buona pubblicità presso le nuove reclute.
Proprio per il fatto che fosse a letto al pari di una qualsiasi persona malata, Connie non aveva mancato di farle visita, quando possibile. Gli incontri, però, erano stati sempre fugaci, sotto la costante minaccia che "Braus non deve sforzarsi in alcun modo, quindi spicciati se devi portarle un mazzo di fiori". In realtà gli unici fiori che le aveva praticamente contrabbandato erano delle rosette di pane, conoscendo bene l'appetito insaziabile della compagna di Squadra.
-Quando ti sarai rimessa, andiamo a bere qualcosa, ti va?-, le aveva proposto un giorno, mentre lei sgranocchiava voracemente il pane che le aveva portato.
-Certo-, aveva risposto lei, con gli occhi che le brillavano. -Quella bella birra...-.
-E se provassimo qualcos'altro? Vino, magari? O...?-.
-Il vino me lo concedo solo per sfumare la carne. È un peccato berlo così com'è-.
Connie si era passato una mano sul viso, fingendosi rassegnato, e si era lasciato sfuggire un sorriso. -Va bene, allora. Vedi di rimetterti presto, sono stanco di aspettarti-.
-Quanto tempo è passato dalla battaglia?-.
-Quasi un mese. E ne sono passati cinque dall'ultima volta che siamo andati a farci una bevuta-.
-Connie, stai diventando noioso. Te l'ho detto, ci andremo, spero il prima possibile. Se sei stufo di aspettare, vai con Jean o Armin-. Si era fermata per un secondo a riflettere e poi, ridendo, aveva aggiunto: -Ti immagini Armin sbronzo? Non sarebbe meraviglioso?-.
Anche lui aveva riso, figurandosi il compagno delirante e in preda ai fumi dell'alcol. Ce lo vedeva proprio bene a dare di matto.
-Scema, certo che ti aspetto. Voleva essere un incoraggiamento per farti sbrigare-.
-Però dai, prendi in considerazione la possibilità di far ubriacare Armin-.
Si erano lasciati così, tra le risate mezze soffocate a causa dell'arrivo improvviso di Hanji. E si erano rivisti al bar due settimane più tardi.
-Finalmente in piedi!-, aveva esclamato Connie vedendola arrivare. A dire il vero Sasha arrancava, non ancora abituata a lunghe passeggiate come quella a cui il compagno l'aveva appena costretta.  Ricordava di essersi immediatamente sentito in colpa e quindi l'aveva invitata ad entrare, accompagnandola all'interno.
-Ma cosa è successo, qui?-, aveva chiesto lei, guardandosi intorno.
L'opera di allargamento era appena cominciata. I proprietari del locale dovevano aver acquistato il vecchio banco del pesce che per un decennio li aveva fiancheggiati; in questo modo era stato possibile abbattere la parete che divideva le due attività e finalmente il bar si era potuto dotare di veri e propri tavoli e sedie per far accomodare maggior clientela.
-Già che ci siamo, sediamoci qui-, Connie l'aveva guidata verso il tavolo più vicino, aiutandola a prendere posto. Poiché a Sasha, pur stringendo i denti, era scappato un Ahia! bello deciso, l'amico le aveva subito chiesto se sentisse ancora dolore.
-Ogni tanto sento delle fitte intercostali, proprio come un attimo fa. Il medico mi ha proposto di indossare un busto sotto la camicia. Sai, per favorire ulteriormente il contatto tra le costole incrinate-.
-Bella scocciatura-.
-Mh, se serve... Ma dimmi, adesso: novità dell'ultimo minuto? Nessuno mi ha ancora detto cosa ha trovato Eren in quella dannata cantina-.
-Oh, be'... Non ha trovato risposte, se è quello che intendi. Al massimo ci siamo ritrovati tutti con più domande di prima-.
-Come dice il proverbio? Si chiude una porta...-.
-E si apre un portone. Di grossi guai, però. Aspettami qui, vado a ordinare le nostre birre. Sono argomenti di cui è meglio discutere bevendo qualcosa, di tanto in tanto-.
Era tornato dopo pochi minuti e le aveva riassunto le ultime scoperte, oltre a raccontare in dettaglio gli avvenimenti che avevano movimentato quell'ultimo mese e mezzo.
-Ho io la tua medaglia al valore. Te la sei meritata-.
-...Avrei preferito che Historia mi facesse recapitare una partita di carne come quella che avete mangiato voi al banchetto, piuttosto. Sarebbe stata decisamente più succulenta-.
-Ma piantala, tuo padre sarà fiero di te, quando saprà cosa hai fatto!-.
-Papà sarà molto più orgoglioso quando saprà che ho abbattuto un cinghiale di duecento chili con una sola freccia, te lo dico io-, aveva sbuffato lei, portandosi alle labbra il boccale e sporcandosi la punta del naso con la schiuma della birra. 
-Ah, storia vecchia. Non te ne uscire così davanti a Jean, potrebbe essere ancora suscettibile al riguardo. Ma aspetta-, le aveva detto, sporgendosi sul tavolo e allungando il braccio, -guarda cosa hai fatto...-.
Le aveva raccolto la schiuma dal naso con la punta dell'indice. Un gesto del tutto innocente, dietro cui non si nascondeva niente; eppure, dopo averla sfiorata, Connie aveva chiaramente percepito un uncino di ferro arpionargli la bocca dello stomaco. Aveva ritirato il braccio e aveva asciugato i resti di schiuma strofinando l'indice contro il palmo della mano sinistra. Sasha lo aveva guardato per tutto il tempo senza proferire parola.
-Scusa, stavamo dicendo?-, aveva provato a tirarsi fuori dall'improvviso imbarazzo.
-Che vale di più uccidere un cinghiale rispetto a rischiare di morire per niente-.
-Sì, be'... Non sono affatto d'accordo, ecco. Ci hai fatto davvero preoccupare-.
-Prova a pensare in positivo: se fossi morta, avreste avuto una razione di cibo in più da spartirvi-.
Quella frase aveva innescato in lui una reazione forse fin troppo esagerata, doveva riconoscerlo; ma allora, dopo un mese e mezzo trascorso in attesa di rivedere la compagna più in forze che mai, quel tentativo di sdrammatizzare gli era parso totalmente fuori luogo: -Ma che accidenti dici?-, aveva battuto un pugno sul tavolo, facendo schizzare fuori dal boccale non poche gocce di birra. -Ero spaventato a morte, credevo che... Insomma, ti rendi conto di quanto hai rischiato? Potevi morire sul serio, poi... Cosa ne sarebbe stato della Squadra? E io? Cosa avrei fatto se tu non ci fossi stata più?-.
Sasha aveva abbassato gli occhi sulla propria pinta, rialzandoli nel sentirlo pronunciare quell'ultima frase. Come se non fosse bastato, Connie aveva aggiunto: -Ti ho portata io al riparo, mentre Jean e Mikasa continuavano a combattere contro Reiner. Perdevi sangue, eri priva di sensi... Ho avuto paura. Perciò non cercare di fare la simpatica dicendo cose che non stanno né in cielo né in terra, per favore. Ma d'accordo-, aveva sospirato, -per fortuna tutto si è risolto per il meglio. E scusami se ho alzato la voce-, si era rammaricato, -non ti ho invitata qui per urlarti contro. Solo che... Cerca di non correre rischi la prossima volta, d'accordo?-.
Lei non aveva detto nulla. Aveva bevuto la propria birra e aveva fissato il fondo vuoto del boccale, specchiandosi con aria distratta.
-Mi dispiace di averti fatto preoccupare. Mi dispiace che tutti voi siate stati in pensiero per me-, aveva commentato dopo un paio di minuti di silenzio. -Prometto di stare più attenta. Però sappi che questo stesso discorso vale anche per te. Ti ho salvato in un paio di occasioni, se non sbaglio. Nella grotta sotterranea dei Reiss, per esempio: stavi per farti colpire in pieno petto-.
-Be', ma...-.
-Quindi vedi di non cacciarti nei guai. Così eviteremo di preoccuparci a vicenda-.
Nonostante avesse parlato con aria seriosa, un sorriso le aveva disteso le labbra e Connie aveva capito che, ancora una volta, tra loro era tornato il sereno. E il loro rapporto si era mantenuto stabile per un tempo lunghissimo, o almeno così era sembrato a entrambi. Nell'anno 851 tutti i Titani erano stati abbattuti e finalmente il Corpo di Ricognizione aveva potuto avviare le spedizioni di esplorazione di quella che poi si era rivelata essere davvero un'isola, seppur di discrete dimensioni. Dall'852, poi, la Squadra di Levi era stata divisa in due tronconi che avevano operato in zone separate e fino all'anno successivo Connie e Sasha non si erano più visti. Avevano mantenuto i contatti tramite lettera, ma nulla di più. 
Fissò il boccale di birra bionda e nella sua mente tornò vivido il ricordo di un terzo appuntamento, il secondo a cui aveva pensato. Era l'aprile dell'853. Ancor più precisamente, il giorno in cui lui e Jean erano tornati dalla missione nell'estremo nord di Paradis.
Il rientro della truppa a Trost era stato salutato con grande favore da tutta la popolazione, che aveva accompagnato i soldati fino ai campi di addestramento militare. Qui i cancelli si erano aperti e i soldati avevano fatto il loro ingresso, accolti dai compagni rimasti a sud. Tra i superstiti del 104° Reggimento, però, non figuravano né Sasha né Mikasa.
-Sono di guardia con alcune Squadre della Guarnigione-, aveva spiegato Armin durante il pranzo, seduto proprio con Connie e Jean, oltre che a Eren e Flocke. -Torneranno entro l'ora di cena, o almeno questo era quanto previsto dal piano di giornata. Vi aspettavamo già ieri, a dire il vero; infatti avevano chiesto di poter spostare il turno proprio per essere presenti al momento del vostro ritorno-.
-Ci sono state delle piccole complicazioni, scendendo verso sud-, aveva raccontato Jean. -Niente di cui preoccuparsi. Solo alcune manifestazioni di dissenso nei nostri confronti, sempre ad opera dal solito Culto delle Mura... È incredibile come dopo tre anni ancora ci accusino di aver rovesciato la legittima monarchia-.
-Come se Historia non avesse alcun diritto a sedere sul trono-, aveva aggiunto Connie. -Abbiamo dovuto sedare un paio di rivolte, prima di poter proseguire la marcia. Ecco perché abbiamo tardato-.
-Capisco-, Armin aveva annuito. -Be', saranno davvero felici di rivedervi. Sasha non stava più nella pelle fin dalla settimana scorsa. Credo che abbia fatto il conto alla rovescia-, aveva riso, mentre Connie aveva sentito le guance prendere colore.
-Chissà cosa dirà di quei capelli, allora-, si era inserito Eren, rimasto in silenzio fin dall'inizio del pasto. 
-Chissà cosa penserà Mikasa di quelli di Jean-, Connie aveva dato una gomitata all'amico, che per poco non si era strozzato con la zuppa di cereali. Dopo un rapido scambio di sguardi, avevano tacitamente deciso che non si sarebbero stuzzicati a vicenda. Non in presenza degli altri, almeno.
Il pomeriggio era passato con una lentezza esasperante. Connie aveva tentato di riposare – la lunga marcia da nord era stata estenuante – ma l'impazienza di rivedere Sasha lo aveva reso nervoso, impedendogli di chiudere gli occhi anche solo per cinque minuti consecutivi. Steso sulla propria branda nel dormitorio maschile, aveva fissato il soffitto per un tempo che gli era parso interminabile, girandosi prima su un fianco, poi sull'altro. Ricordava di essere stato preso in giro da Jean, ma non aveva più idea di cosa gli avesse detto il compagno di Squadra. Qualcosa che doveva averlo solo infastidito di più, comunque.
Quando le campane di Trost avevano finalmente suonato, facendo sapere a tutta la popolazione che erano ormai giunte le sette della sera, Flocke era entrato nel dormitorio spalancando la porta, trafelato: -Mikasa e Sasha sono tornate. Se volete...-.
Non aveva fatto in tempo a finire la frase. Connie era saltato in piedi ed era corso fuori, seguito a ruota da Jean e dallo stesso Flocke. Investito dagli ultimi raggi del sole morente, l'aveva vista.
Le due ragazze stavano varcando in quel momento la soglia dell'accampamento. Al centro dello spiazzo c'erano anche Eren e Armin ad aspettarle.
-Connieee!-.
Un solo grido e uno scatto da far invidia a un velocista. Sasha gli era corsa incontro, senza badare a nessuno degli altri, e spalancando le braccia gli si era precipitata addosso. Avevano rischiato entrambi di perdere l'equilibrio, ma anche se fosse successo probabilmente non sarebbe importato a nessuno dei due. Connie ricordava vividamente la sensazione di felicità pura che lo aveva travolto sia prima sia durante quell'abbraccio così caloroso, senza contare il pizzico di imbarazzo che probabilmente chiunque avrebbe potuto leggergli sul viso. Troppo preso dalle emozioni che lo stavano frastornando, non aveva prestato attenzione a quanto gli accadeva intorno; non ricordava assolutamente nulla di quanto detto da Mikasa o da uno degli altri amici. La sua preoccupazione, i suoi pensieri si erano focalizzati esclusivamente su Sasha. D'altronde aveva passato i precedenti dodici mesi nella smania di rivederla e quando aveva potuto stringerla tra le braccia – un qualcosa che, riflettendoci, probabilmente non avrebbe avuto neanche il coraggio di fare, se non fosse stata lei a prendere l'iniziativa – il resto del mondo non aveva fatto altro che perdere qualsiasi significato.
-Non sai quanto mi sei mancato-, aveva continuato Sasha, distaccandosi e guardandolo in viso con quel modo di fare fin troppo diretto che era sempre stato tipico di lei. -Sono successe un sacco di cose mentre tu e Jean non ci siete stati! Ma sai qual è la più sorprendente?-.
Connie aveva scosso la testa, sorridendo. A ripensarci adesso, doveva aver avuto un'espressione fin troppo accondiscendente.
-Non ci crederai, ma il cibo della mensa è migliorato! Non è più il rancio di una volta, adesso possiamo finalmente mangiare qualcosa di davvero commestibile! Ma il merito è tutto dei Volontari Marleyani, sono fenomenali in cucina. Soprattutto Nikolo... Te lo ricordi, vero? Prepara dei piatti buonissimi, mi viene da piangere per quanto sono deliziosi. E non è finita, c'è anche...-.
Mikasa aveva interrotto il flusso delle sue parole e lui si era ridestato. A quel punto tutta la Squadra si era diretta proprio verso il capanno della mensa, dove di lì a poco avrebbero cenato. Anche di quella sera Connie ricordava solo degli sprazzi. Le memorie più limpide coinvolgevano inevitabilmente Sasha. Tra i pensieri si fece spazio un bel ritratto della ragazza, ora sorridente, ora in preda al più devastante attacco di ingordigia. Focalizzò le sue labbra sporche di salsa, le guance gonfie di cibo, gli occhi spalancati davanti alle pietanze portate in tavola; poteva ancora sentire l'eco della sua risata e il rumore del momentaneo attacco di tosse causato da qualcosa che non doveva aver deglutito per bene. In quella quotidianità Connie si era perso già allora, ma anche adesso, contemplando ogni singola onda della memoria, provò la sensazione di essersi smarrito nel passato.
Dopo cena i componenti della Squadra erano rimasti ancora un po' insieme, prima di decidere di disperdersi. Sasha, invece, aveva insistito per poter chiacchierare ancora, come se non fosse stata soddisfatta da quanto raccontato fino a quel momento da Jean e Connie.
-Non dirmi che vuoi andare a dormire anche tu!-, aveva esclamato. Per tutta risposta – e mentendo – lui aveva scosso la testa.
-Niente affatto. Sono in formissima, io. Sono gli altri che si stanno rammollendo-.
-Mh, sarà... Cosa facciamo?-.
Ci aveva pensato un po' su prima di avanzare la propria proposta: -Che ne dici se ce ne andiamo...-.
-A bere!-, lo aveva anticipato lei.
-Shhh!-. Connie le aveva tappato la bocca con una mano, abbassando il tono della voce: -Vuoi urlarlo ai quattro venti? Lo sai che succede se ci beccano brilli, no?-.
Si era accertato che Sasha avesse capito e poi aveva mollato la presa sulle sue labbra, sospirando. Non c'era niente da fare: gli anni passavano, ma la ragazza non cambiava mai.
-Hai ragione-, anche lei aveva adeguato il volume della voce. -Quindi andiamo a bere?-.
-Perché no? Facciamo che beviamo per festeggiare-.
-Sì, esatto! E magari mangiamo anche qualcosa. Per accompagnare la birra, intendo-.
Così, di soppiatto come avevano sempre fatto, erano sgattaiolati fuori dall'accampamento e, non visti, si erano mescolati al flusso di gente che movimentava le strade di Trost.
A differenza di soli due anni prima, infatti, la città era molto cambiata, così come lo stile di vita dei suoi abitanti. Erano fiorite nuove attività commerciali ed erano stati aperti negozi mai visti prima. Complice il primo caldo di primavera, in molti si attardavano per passeggiare nelle vie principali, rendendo quindi molto semplice a due ragazzi come lui e Sasha di confondersi tra la moltitudine.
Raggiunto il loro amato bar, questa volta era stato proprio Connie a restare stupito. In un solo anno il locale si era ingrandito ulteriormente e adesso non solo c'era una vera e propria fila di avventori ad aspettare fuori dalla porta, ma c'erano anche i primi tavolini posti all'esterno, proprio sul marciapiede. Una novità, quella, che contribuiva ad attirare clienti mai visti prima di allora.
-Andiamo a sederci lì-, aveva proposto Sasha, indicando un tavolo a poca distanza dall'entrata del bar.
-Ma ci sono due ragazzi che stanno bevendo!-.
-Stanno per andare via-.
-Ah, davvero?-, aveva chiesto con scetticismo, alzando un sopracciglio. -E come lo sai?-.
-Stanno litigando o hanno appena litigato, si vede-.
-Sì, come no. E magari adesso uno dei due si alza prima, sbatte i soldi sul tavolo e se ne va-.
-Può darsi. Questo non so dirlo, ma... Ecco, hai visto?-.
Connie aveva sgranato gli occhi. Uno dei due giovani aveva appena trangugiato in un sol sorso la sua bevanda, aveva poggiato il boccale e si era alzato di scatto, facendo stridere la sedia contro il selciato del marciapiede e rovistando nelle tasche alla ricerca di qualche spicciolo. 
-Impossibile-, aveva esalato, mentre anche l'altro ragazzo, inizialmente rimasto seduto, imitava l'amico, togliendo di fatto il disturbo e liberando il tavolino.
-Che ti avevo detto?-, gli aveva sorriso Sasha. -Dai, sediamoci, prima che qualcuno ci rubi il posto-.
In tutta fretta si erano sistemati l'uno di fronte all'altra. Si erano guardati intorno e avevano fatto qualche commento sui miglioramenti del bar. Poi Connie si era offerto di entrare per andare a prendere le birre.
-La solita bionda?-, le aveva chiesto.
-Sì. Boccale grande, mi raccomando-.
Aveva sorriso di fronte a quella specifica – non ce n'era alcun bisogno, conosceva Sasha e i suoi gusti fin troppo bene – poi si era addentrato nel bar e ne era uscito a fatica non meno di dieci minuti dopo.
-È un inferno, lì dentro!-, aveva sbottato, servendo la pinta alla ragazza e tornando a sedere. -Mai vista così tanta fila. E pensare che non molti anni fa era considerata solo una bettola-.
-Le cose cambiano, qualche volta in meglio. Come i tuoi capelli-, lo aveva preso in giro lei.
-Be'? Hai sempre detto di essere curiosa di vederli lunghi-.
-Non sono ancora lunghi-.
-Ma è comunque qualcosa, rispetto alla rasatura completa-.
-Sì, però...-.
L'aveva interrotta: -Che ne pensi?-.
Lei ci aveva riflettuto per una manciata di secondi: -Ti stanno bene, ma... Mi fa strano-.
-Davvero?-, aveva riso Connie.
-Ero abituata al tuo testone, eppure in un solo anno è cambiato tutto-.
-Ehi, io sono sempre lo stesso. Magari i capelli sono cresciuti, ma ti posso assicurare che sono ancora il Connie che è partito mesi fa. Quello che conosci da anni-.
Sasha non le era parsa convinta fino in fondo e le sue parole successive glielo avevano confermato: -Sarà, però mi sembri davvero diverso. Un po' come questo bar-.
Di colpo la sua espressione gioiosa si era rabbuiata e Connie si era chiesto quale potesse essere il motivo. Era davvero insolito che Sasha si rattristasse o che manifestasse di avere l'umore a terra. Per lo più era lei quella brava a sdrammatizzare anche nei momenti peggiori.
-Ehi, che ti prende?-, le aveva domandato, piegando leggermente la testa. -Qualcosa non va?-.
Sasha non gli aveva risposto subito. Aveva tenuto gli occhi abbassati sul boccale, saggiando poi la birra e sporcandosi il labbro superiore con la schiuma. -Prima dicevo sul serio, all'accampamento. Mi sei mancato davvero tanto, durante questo anno. È stato difficile saperti lontano-.
Al sentirla parlare, Connie aveva tossito, battendosi il pugno sul petto per liberarsi della birra che aveva preso la via della trachea. Non si era di certo aspettato che Sasha volesse parlargli di questo.
-Anche tu mi sei mancata-, aveva confermato a sua volta. -Per fortuna ci siamo scritti, ogni tanto-.
-Scriversi non è la stessa cosa. Non ero abituata a non averti intorno e mi sono sentita sola-.
Lui aveva chiaramente percepito il proprio cuore iniziare ad accelerare. -Perché sola? C'erano Mikasa, Eren e Armin, Flocke...-.
-Ma non c'eri tu-. 
Connie si era preso un minuto prima di dire qualsiasi cosa. Imbarazzato, aveva sorseggiato un po' della sua scura e aveva lasciato vagare lo sguardo al tavolo vicino, dove quattro vecchietti stavano terminando una partita a carte che doveva averli tenuti impegnati a lungo.
-Sai che non me ne sarei mai andato, se Hanji non lo avesse ordinato. Quando ha dato l'incarico a me e a Jean, nessuno dei due era entusiasta dell'idea di dover partire. Non ti avrei mai lasciata. Noi-, e, mentre stava parlando, Sasha gli aveva puntato gli occhi dritto nelle pupille, come trepidante, -siamo una squadra, no?-.
La ragazza aveva stretto le mani intorno alla propria pinta, portandosela alle labbra. -Sì-, aveva annuito dopo una lunga sorsata, -siamo una squadra-.
A Connie era sembrato di rilevare una nota di delusione nella sua voce, ma si era subito detto che probabilmente non era così. Quanto gli sarebbe piaciuto, però, che davvero Sasha provasse per lui un sentimento più grande della semplice amicizia! A distanza di anni e ripensando a quell'episodio, si disse che forse allora ci aveva visto giusto. Peccato non poterne avere l'assoluta certezza.
-Se hai qualche dubbio su di me, pensa che la birra qui è sempre buonissima. Anzi, forse è persino migliorata-, aveva aggiunto, cercando di smorzare l'atmosfera un po' tesa che si era creata.
-Su questo posso darti ragione. La bionda, per lo meno, è ottima-.
-Anche la scura. Dovresti provarla, qualche volta. Vuoi assaggiare?-.
-Mh...-.
-E dai!-, aveva insistito lui. -Solo un sorso!-.
-Non sono molto convinta. E poi abbiamo sempre fatto così, a te la scura e a me la bionda. Perché vuoi cambiare?-.
-Non è cambiare, ma provare. Su, assaggiala-.
Le aveva porto il boccale e Sasha, pur riluttante, lo aveva afferrato, bagnandosi appena le labbra con la bevanda ambrata. -No-, aveva scosso la testa, riconsegnando tutto a Connie, -non fa per me. Ma che gusti orribili hai?-.
Lui aveva riso di fronte all'espressione quasi disgustata della ragazza – che si era subito rifatta la bocca con la sua bella bionda – poi aveva finito di bere a sua volta la propria scura. Solo in un secondo momento si era accorto di aver sorseggiato nello stesso punto in cui le labbra di Sasha avevano incontrato il vetro spesso del boccale. Quel pensiero lo aveva agitato e aveva ringraziato il Cielo che fosse buio, certo di essere arrossito.
I minuti successivi li avevano trascorsi per lo più in silenzio, finendo di gustare le birre senza sforzarsi di parlare di qualcosa. Molti argomenti li avevano esauriti nel corso della cena e non c'era stato nient'altro in particolare da raccontarsi. Eppure quel silenzio a Connie era sembrato comunque carico di tensione, nonostante il tentativo di sdrammatizzare che aveva messo in pratica poco prima. Ricordava di aver desiderato che fosse Sasha a iniziare un nuovo discorso, ma la ragazza pareva troppo assorta, troppo presa da pensieri che di solito non offuscavano la sua spensieratezza. Connie stesso era concentrato a riflettere su alcune cose che lei aveva detto durante la serata, analizzandole una ad una nella speranza di trovare indizi che provassero un cambiamento dei sentimenti che lei provava nei suoi confronti. Per quanto avesse ragionato, non era comunque riuscito a cavare un ragno dal buco. Sì, in due occasioni il tono della voce di Sasha era stato molto diverso dal normale, senza contare che le era parsa davvero rammaricata, però... A quei tempi, la somma di questi fattori non gli era parsa una testimone sufficiente di un possibile interesse della ragazza. Ora, trascorsi molti anni, Connie non poteva fare altro che darsi dello stupido.
-Sai-, aveva provato a dire a un certo punto, senza sapere bene da dove cominciare, -a volte penso che, quando mi sono arruolato, non avrei mai immaginato di incontrare un gruppo di persone che sarebbero diventate così importanti per me. A dire il vero, non avrei neanche immaginato di restare vivo tanto a lungo-. Si era sforzato di ridere anche per notare la reazione di Sasha, ma la ragazza era semplicemente rimasta ad ascoltare. -Quando ti ho conosciuta, mi sei sembrata solo una pazza che aveva voglia di sfidare l'Istruttore. Credo proprio che non dimenticherò mai tutti quei giri di campo che Shadis ti fece fare dopo la storia della patata-.
-Nemmeno io, se è per questo-, era rabbrividita lei a quel ricordo.
-Ti ho osservata per tutto il tempo, quella volta. Ero curioso di sapere se e a quanti giri ti saresti fermata-.
-Non ne avrei fatto nemmeno uno, se avessi potuto. È stata un'ingiustizia-.
-E invece li hai fatti tutti. Cinquanta giri di campo senza fermarti mai. Ho pensato che, sì, sicuramente eri scema, ma anche molto simpatica-.
-Quindi è così che mi hai considerata, prima di conoscermi meglio? Un'idiota e basta?-.
-No, affatto. Ho solo pensato che probabilmente saremmo potuti andare d'accordo. E ora, sei anni dopo, eccoci qui, seduti ad un tavolino mentre finiamo di bere due birre prese in un locale che proprio io ti ho fatto conoscere-.
Le aveva sorriso e finalmente aveva visto il volto di Sasha distendersi come era accaduto nel pomeriggio, quando gli era corsa incontro per abbracciarlo. Vedendo i suoi occhi illuminarsi, Connie aveva percepito il cuore fargli un salto nel petto, evidentemente colto impreparato dalla bellezza semplice che emanavano. 
-Sei la persona più importante tra tutte quelle che conosco, non dimenticarlo mai-, le aveva detto. -Tu e Jean siete... Speciali-.
Non era stato in grado di decifrare il significato dell'espressione sul viso della compagna di Squadra, ma le sue speranze si erano infrante quando lei gli aveva domandato, quasi in un sussurro: -Come fratelli?-.
Quella parola aveva avuto il sapore di una sentenza. Il martello inesistente di un giudice immaginario gli aveva battuto contro la parete dello stomaco, privandolo per alcuni secondi del fiato. Avrebbe voluto rispondere che no, non li considerava suoi fratelli. Jean sì, ovvio, ma lei... Lei no. Lei era ben più di una sorella, ben più di un'amica. Era...
-Sì-, gli era uscito dalla bocca meccanicamente e senza alcuna consapevolezza, -fratelli-.
Per un istante aveva visto Sasha rabbuiarsi, poi, senza preavviso di sorta, la sua bocca si era spalancata in un grande sorriso e lei aveva aggiunto: -Allora io e te siamo come gemelli! Siamo praticamente identici, se escludiamo la tua pessima passione per la birra scura-.
Lui aveva riso a sua volta, ma la voglia di smentire tutto aveva continuato ad essere grande. Si era detto già mille volte di dover trovare il momento giusto per dirle quanto teneva a lei, quanto la volesse al suo fianco a prescindere dalla Squadra, ma l'occasione non era mai arrivata e anche quella sera era scivolata via proprio quando il discorso era ormai giunto al suo punto centrale. Perciò, spinto dal grande rimpianto provato, era stato vicino a dirle la verità. Ma poi...
-Sasha, c'è qualcosa che vorrei dirti-.
La risata della compagna si era spenta di colpo. -Sì?-.
-Ecco... Hai presente quello che tu, Mikasa e Armin stavate dicendo a cena? Intendo la questione del piano contro Marley-.
-Sì, certamente. Perché?-.
-Niente, sono solo un po' preoccupato. Infiltrarci nei ranghi di quell'esercito, valutare la situazione direttamente sul campo...-.
-Connie, cosa devi dirmi?-.
-Be', niente di importante, alla fine. Anzi, sai cosa ti dico? È un discorso troppo stupido e adesso dobbiamo concentrarci sulla prossima missione. Ne parleremo quando torneremo da Marley, d'accordo? Magari proprio qui, davanti a un altro bel boccale di birra.
Sasha aveva fatto spallucce, racimolando con la punta della lingua l'ultima stilla di schiuma fatta scivolare fin sul bordo del boccale: -Come vuoi. Non scordarti niente, perché vorrò saperlo-.
-Contaci. Che ne dici se andiamo a dormire, adesso? Comincio ad essere un po' stanco-.
-Ah, ma allora anche tu ti stai rammollendo!-.
-Cosa? No!-.
-Allora facciamo una gara. Chi arriva prima all'accampamento domani mattina farà doppia colazione con il cibo dell'altro. Sei pronto?-.
-Ma non possiamo iniziare a correre nel bel mezzo del...-.
-VIA!-.
Sasha era scattata dalla sedia, percorrendo il lungo marciapiede a grandi falcate. Connie aveva avuto giusto il tempo di rendersi conto di ciò che stava succedendo, poi, a fatica, aveva iniziato a seguire i passi della compagna, travolto dalla voglia di prendersi a pugni per aver perso il coraggio di dirle quanto fosse davvero speciale per lui.
La birra adesso era veramente finita. Davanti ai suoi occhi non restava altro che il fondo ancora avvolto da una leggera schiuma biancastra ormai sul punto di dissolversi. Assieme a lei, si diradarono anche i ricordi su cui aveva tanto a lungo indugiato.
Tre incontri, tutti nello stesso bar. In quel momento, tra l'altro, stando seduto allo stesso tavolino dell'ultima volta.
Il boccale di bionda se ne stava intonso proprio di fronte a lui, lì dove lo aveva poggiato la cameriera. Sembrava gustoso, ma Connie non fu sfiorato nemmeno per un secondo dall'idea di poterlo assaggiare. No, la bionda non era per lui. Era sempre stato così
Restò ancora un po' a fissare quell'oro liquido, stavolta senza pensare a nulla. Si sentiva svuotato. Nemmeno la birra scura che gli aveva tenuto compagnia era riuscito a riempirlo. Così come non ci erano riusciti tutti quei ricordi, che, anzi, non avevano fatto altro che scavare ancora più a fondo.
Si frugò nella tasca della giacca e trovò, tra i resti di un fazzoletto usato e la carta di una caramella, una piccola banconota stropicciata. La tirò fuori, la distese sul tavolo e ci passò sopra per tre volte il boccale vuoto, sperando di eliminare le pieghe. Quando ebbe completato l'operazione, si alzò, facendo attenzione a non far stridere la sedia, e bloccò la banconota con il boccale per evitare che il vento la portasse via come quelle due foglie che aveva visto poco prima uscendo di casa. Fissò un'ultima volta la bionda e la sedia vuota destinata ad un cliente che non sarebbe mai arrivato, poi, con il cuore pesante, si allontanò dal bar, lasciandoselo alle spalle.
Proseguì la propria camminata lungo una strada secondaria. Svoltò a sinistra alla fine del vicolo, poi ancora a sinistra e infine a destra, ritrovandosi su una delle vie principali di Trost. Fiancheggiò la piazza principale e il monumento ai caduti in guerra, ma non gli rivolse la minima occhiata. La sua meta era un'altra.
Camminò per parecchi minuti standosene sul corso, prima di immettersi di nuovo in una viuzza laterale. Si trattava di una strada che conduceva lontano dal centro, in una zona periferica considerata molto importante da tutta la cittadinanza. Per lui, poi, era diventata fondamentale.
Percorse la strada rimanente cercando in tutti i modi di non farsi dissuadere dal forte vento che aveva di nuovo cominciato a soffiare. Parlando a se stesso, si incitò a sfidare il freddo: chi come lui aveva visto gente morire non poteva di certo farsi abbattere dal primo gelo, seppur anticipato a settembre.
Ben deciso a continuare, giunse infine a destinazione. Si era lasciato indietro le ultime abitazioni e adesso aveva davanti a sé solo una distesa piatta delimitata da un basso muretto e da una bella recinzione in ferro battuto, il tutto completato con un enorme cancello che era ancora spalancato, nonostante fosse ormai prossimo l'orario di chiusura.
Connie oltrepassò il cancello e si diresse verso uno dei punti più lontani della zona. Superò molti suoi commilitoni, abbandonati da quegli stessi cari che avevano tentato di proteggere in vita, e non si fermò a commemorare la statua eretta in onore del Comandate Erwin Smith. Proseguì fino al limitare dell'area, finché non si fermò.
La luce opaca del primo tramonto autunnale illuminava fiocamente i caratteri dorati che spiccavano sulla lapide. Non un disegno, non una fotografia a ricordare chi giaceva nella terra ancora umida per la pioggia dei giorni precedenti.
Connie restò in piedi a fissare quel nome. Lo ripeté tra sé e sé, sperando che prima o poi potesse perdere il suo significato. Invece no: il senso di quelle lettere rimaneva lì, scolpito nella sua mente, rivangando tra i ricordi che le onde della memoria avevano riportato a riva.

 

SASHA BRAUS

Paradis, 26 Luglio 835 - Marley, 854

La Patria le rende onore

 

-La Patria le rende onore-, lesse a voce alta, stringendo i pugni nelle tasche. -Quale onore? Quello di una scritta dorata su una lapide dimenticata? Senza una medaglia al valore perché è morta prima di poter assaporare finalmente la pace-.
Sentì riversarsi nel vuoto dentro di sé un'onda di ira repressa. Avrebbe voluto urlare o distruggere qualcosa, ma sapeva di non poter compiere nessuna delle due azioni. Osservò ancora la lapide.
Non le avrebbe mai potuto dire la verità. Non c'erano e non ci sarebbero più stati incontri al loro bar preferito. Non ci sarebbero stati altri scherzi o prese in giro, non una parola o un abbraccio. Non ci sarebbe stato niente come, d'altra parte, non c'era mai stato nulla. All'ira si unì altro rimpianto, poi vennero le lacrime. 
-Da quando non ci sei, un minuto è come un giorno, un giorno come un anno e un anno come un secolo-, singhiozzò, cercando di asciugarsi le guance. -Ora sono io a dirti che non hai idea di quanto mi manchi-.
Pianse e represse altri singulti, ma gli fu sempre più difficile placare il dolore che gli premeva nella gola. Sentiva le corde vocali impastate da un grumo di sofferenza, così come la mente era soffocata dai ricordi che si affastellavano l'uno sull'altro, portandogli davanti agli occhi solo le ultime, terribili immagini della vita che pian piano abbandonava Sasha. La memoria lo condannò ancora una volta a rivivere tutto: il tonfo di qualcuno o qualcosa che sbatteva contro il dirigibile, il rumore di uno sparo e poi lei che cadeva molle a terra, tra sangue e capelli sparsi, accasciata come una martire. Le labbra che diventavano violacee, gli occhi contornati di nero che pian piano si appannavano, ultime, stupide parole pronunciate nel male provocato da una singola pallottola.
Poi il cuore che smetteva di battere. E il lamento dei compagni che saliva al cielo, terribile nenia che accompagnava la sua anima verso l'infinito e indefinito mondo della morte.
Il pianto si fece più forte. Connie non riusciva calmarsi: le tempie pulsavano, il nodo alla gola gli impediva di respirare e i ricordi lo assalivano colpendo come pugnali affilati. Finì in ginocchio, sporcandosi il bordo della giacca e i pantaloni con la fanghiglia del cimitero.
-Tu eri tutto per me-, singhiozzò ancora. -Avrei lasciato l'esercito, un giorno, se te ne fossi andata. Ti avrei seguita ovunque per restarti vicino. Ma tu non te ne sei mai andata, te l'hanno impedito. E io, senza te, non ho nessuno da cui tornare-.
Altre lacrime caddero a bagnare la terra già umida, confondendosi tra i radi fili d'erba. Connie tentò di farsi forza, prese dalla tasca ciò che rimaneva del vecchio fazzoletto e si soffiò il naso. Per parecchi minuti rimase a contemplare i caratteri dorati che, muti, lo fissavano senza potergli rispondere. Aspettò pazientemente che la crisi di pianto passasse, prima di poter aggiungere altro. Parlò solo quando si sentì pronto. Si rialzò, si spolverò i pantaloni, macchiandosi inevitabilmente i palmi delle mani, e poi restituì un'ultima occhiata alla lapide.
-Forse per te ero davvero solo come un fratello gemello. Ma per me... Eri tu la mia casa-.

 

 


Angolo dell'Autrice

Piccolo - ma nemmeno tanto - omaggio alla Springles, trattata in modo becero da Isayama. Non so voi, ma la morte di Sasha è stata (e cito le parole di Nikolo nel capitolo 107) "troppo stupida per essere vera". Stupida per come è stata messa in scena, stupida perché le sue ultime parole sono state "Voglio la carne", stupida perché un personaggio ormai entrato già da tempo immemore tra i principali di SNK non può, dopo la bellezza di oltre cento capitoli, essere ancora trattato come una macchietta da quattro soldi. Spero che Isayama non riservi un trattamento simile anche a Connie, perché, davvero, sarebbe imbarazzante.
Grazie a tutti i coraggiosi lettori che sono giunti fin qui. Mi farebbe davvero piacere ricevere un parere da chi sta leggendo il manga, così da aprire, se possibile, una piccola discussione tra appassionati ^^
Alla prossima!
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: Amor31