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Autore: AlexiaLil    14/08/2018    2 recensioni
*Obbligo* del gioco sulla pagina Facebook "Il Giardino di Efp" richiesto da Samanta Ladyhawke Crespi.
Due misteriose e girovaghe ragazze occupano un tavolo di una locanda ai confini del nulla più assoluto, sotto gli occhi di un sospettoso e guardingo locandiere e di un Mastro spadaccino senza pudore e cervello alcuno.
Genere: Commedia, Fantasy, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per essere la metà pomeriggio di una giornata assolata ed estiva, una locanda in mezzo al nulla, su una via secondaria per Huuto, non darebbe tanto nell'occhio ad un viaggiatore di passaggio o ad un latitante decennale in fuga dall'Armeija Paha.

Se all'interno non vi fosse una rissa di tutto rispetto.

Per essere una locanda anonima, nel mezzo di un anonimo nulla frequentato per lo più dalla più bassa leva della criminalità del Paha Valtakunta -l'alta leva non si sarebbe mai trovata così in basso. Piuttosto si sarebbe sporcata le mani dall'alto della Korkea Huone-, una qualunque rissa passerebbe inosservata e ignorata, se tale rissa non fosse iniziata e incoraggiata da due giovani provocanti signorine.

E se gli uomini rozzi non fossero ciò che la natura e la vita li ha resi.

L'anonima locanda tale non sarebbe rimasta per il resto di quell'afosa giornata; purtroppo per lei e per le sue vecchie giunture di porte e finestre, e per gli spartani mobili, non sarebbe stata una gran bella giornata.

Non lo sarebbe stata nemmeno per il marcantonio armato di spadone che aveva, in modo notevolmente stupido, tentato di abbordare Aurora con molto charme e decisamente poco sale in zucca, e che quel preciso, esatto momento, giaceva inerme e supino -ammaccato qua e là- sul pavimento sporco e animato da parecchi e indistinti grugniti.

Il mercante tozzo e dal grugno suino che aveva osato provocare la compagna di Aurora subito dopo, invece, era rimasto sepolto dai tavoli proprio in mezzo alla sala dove Benedicta -questo il nome dell'amica di Aurora- l'aveva lanciato come un sacco di spazzatura -e dall'odore che quell'uomo emanava, mai metafora fu più azzeccata- dall'angolo remoto della sala, dove le due si erano accomodate.

Il proprietario del pub, dal canto suo, ben poco avvezzo a certi pandemoni in quel metro quadro di legno ed edera, se ne stava con gli occhi fissi e spalancati su quelle gheparde assatanate, a guardar loro fare della sua clientela carne da macello, cercando intanto di salvare il salvabile dei suoi liquori e delle sue birre dietro di lui, scattando nervoso ad ogni schiocco di legno rotto -o di ossa? Non ci teneva a saperlo davvero- e ad ogni risolino maligno della ragazza dai corti capelli rossi che stava facendo del suo locale il suo parco giochi di sangue.

C'è da specificare che, malgrado il Rumpelstiltskin fosse frequentato da gentaglia di una certa bassezza e possezza, nessuno di loro, nemmeno quel focoso e testardo d'un Troll di "Mangiasassi", gli aveva mai recato alcun tipo di danno, né mai, seppur sia strano a dirlo, erano venuti alle mani.

Eppure, quando un paio d'ore fa avevano varcato quella stessa porta, ora diverta sotto il peso di Nak lo Gnomo -che aveva avuto solo la malaugurata sorte di consegnarli la merce quello stesso giorno- non si sarebbe mai aspettato che tutti loro potessero essere messi all'angolo, o spiattellati sul muro, dipende dai punti di vista- da due esili fanciulle come loro.

Il Sole non aveva ancora raggiunto lo zenit quando due coppie di tacchi bassi pestarono con grazia il parquet smosso del Rumpelstiltskin attirando l'attenzione di tutti i commensali sui loro formosi profili mal nascosti; i mantelli corti e color fumo ondeggiavano placidi e coprivano le spalle scoperte di entrambe le avventuriere -in altro termine il locandiere non avrebbe saputo definirle, dato il vestiario-.

I lunghi pantaloni di stoffa scura e la camicia blu della ragazza riccia e mora, per quanto sobrie e povere di fronzoli, le avvolgevano le forme con eleganza, lasciando che la vita sottile e i glutei sodi facessero bella mostra di sé; nonostante fosse armata di due coltelli a tre lame, sottili e lunghi alla cintura, non condivideva per niente l'aura di pericolo che invece aleggiava intorno alla compagna. La giovane, di corti capelli rossi e viso appuntito, ma altrettanto attraente, possedeva uno sguardo sfidante e strafottente, colmo d'ardore e, come dimostrato poi, dall'insana irruenza guerrigliera verso il prossimo, soprattutto se più possente e forte di lei.

Le sue dita sempre in movimento, come se suonassero la tastiera di un pianoforte nell'aria, invisibile, correvano spesso alla cinta e alla daga nera stretta ad essa con una tale velocità che, se avesse dovuto paragonarla ad un animale, sarebbe stata un gatto perennemente sulle spine, il pelo rossiccio e ritto, pungente e gli artigli affilati e sguainati ad ogni minimo passo. Le vide accomodarsi all'ultimo tavolo all'angolo più nascosto del locale, quasi nel sottoscala, a guardarsi accigliate a vicenda. Il locandiere, che chiamerei d'ora in poi Il Sopravvissuto, le ignorò, come del resto fece poi tutto il locale, passato il primo momento di spaesamento al loro ingresso.

« Aurora ... » soppesò il boccale di birra che la vecchia cameriera le portò poco prima; non staccava gli occhi scuri da gatta da quelli della fanciulla seduta di fronte, contemplando i lineamenti delicati del viso tondo e roseo, la fronte bassa oscurata da una frangia mossa che non rendeva giustizia ai suoi occhi piccoli e a mandorla, chiari come il cielo d'Estate.

Nelle ultime due ore di cammino, dalla città di Kalkrikivia a quella locanda sperduta, non aveva fatto altro che ascoltare la voce d'uccellino che le saliva in gola dall'emozione, spiegandole della spedizione che cercava di raggiungere, a circa – a suo dire- cinque giorni di distanza da dove erano partite insieme.

Le si era presentata come una studentessa dell'università di Kirka che da giorni tampinava un gruppo ristretto della sua classe, capitanato dalll'elfico insegnante di Rune, che viaggiava verso il Tempio di Aurigone, abbandonato da secoli ma, secondo dicerie di banco, ancora oggi ricolmo di testi e segreti in lingue intraducibili, sicuramente riconducibili alla magia e alle scienze perdute a memoria d'uomo; compito della spedizione era, per ogni studente, trafugare uno di quei misteriosi tomi e carpirne i segreti più celati, irriconoscibili da occhi ignoranti come i suoi.

Aurora, così almeno disse di chiamarsi, non era stata sulle prime molto entusiasta -rubare un antico testo da un tempio diroccato suonava come una delle tipiche storie del terrore che fin da tempi immemori si raccontavano ai bambini- ma, dopo pochi giorni, si era ricreduta e si era messa all'inseguimento della classe, sgraffignando l'itinerario del professor Jaan dalla camerata degli insegnanti.

« Benedicta ... » le rispose a tono la studentessa, sorseggiando il sidro con dubbio, guardandosi attorno con circospezione, per poi trasformare lo sguardo da cerbiatta artica accigliata in una smorfia da troll pestato per il disgusto:

« Bleah ... il mio collega di corso di Gnomico distilla roba migliore da un fico marcio di Kuollut maa »

« E come diavolo farebbe? » s'incuriosì ridendo l'avventuriera

« Corregge il gusto con il Rum Linfatico » sorrise Aurora

« Oh beh, quello renderebbe di gusto persino la pipì di Troll »

« Non che non abbia tentato ... » borbottò sottovoce la ragazza;

Il Sopravvissuto dedicò loro uno sguardo annoiato da dietro il bicchiere ormai vuoto, attirato dal loro chiacchiericcio insolitamente basso per due donne -la sua "lunga e ricca" esperienza col gentil sesso l'aveva abituato ed addestrato a sopportare frivolezze di ogni tipo, rese vive da suoni acuti come squittii di topi e risolini volutamente beffardi e rumorosi-.

La gatta rossa alzò d'improvviso due dita, attirando la sua attenzione con un « Ehi, un altro giro », sguardo stretto e attento alla sua interlocutrice, che continuava a ciarlare senza sosta, scostando di tanto in tanto una ciocca di capelli particolarmente sfuggente.

« E tu, Benedicta? Non hai detto una sola parola di te in tutto questo tempo » le sorrise, poggiando il gomito sul tavolo e reggendosi il mento con la mano libera, in una posa incuriosita e attraente; Benedicta si concesse un lungo e placido sorso della sua bevanda, prima di risponderle:

« Avrei rovinato il tuo accolorato racconto, con le mie chiacchiere e domande ignoranti. Sai, per quanto ad occhi umani essere una girovaga elfa possa sembrare avventuroso e affascinante, in realtà non faccio altro che macinare chilometri di polvere sotto le suole. Non possiedo sicuramente la tua passione, né per la storia né per qualsiasi altra cosa che mi circonda, se essa non è sfruttabile per la mia sopravvivenza. Vivo alla giornata, come i vagabondi senza dimora della capitale, e mi sta bene così ».

Aurora sbuffò divertita « Non credo ad una sola parola » piegò il busto sul tavolo, appoggiandosi su entrambe le braccia incrociate sul legno opaco di polvere, invitando la sua compagnia ad imitarla.

I loro visi ad un palmo di distanza, occhi negli occhi e l'odore forte e dolce dell'alcool che aleggiava fra le labbra...

« E' un problema tuo, cara » rispose l'elfa, chinando appena la testa di lato, sorridendole.

Lo scambio di sguardi venne interrotto da un'ombra che aleggiò improvvisamente sulle loro teste e dal braccio che si frapppose poco elegantemente fra le due, allontanando loro visi.

« Due belle fanciulle come voi non dovrebbero bere da sole » la voce bassa e calda di liquore, quasi rauca, rendeva ancor più seducente il viso magro e il corpo mascolino del giovane che si stagliava su di loro; i muscoli scoperti delle braccia avrebbero invitato qualsiasi donna a buttarsi di peso contro il suo petto marmoreo e abbronzato in bella vista, strette nel loro abbraccio. La pelle caramellata dal sole e tutto l'insieme di quel bruno umano viaggiatore, dagli occhi pece e profondi alle dita lunghe, prometteva notti insonni e caldamente lascive come lava.

« Non hai alcun bisogno di preoccuparti tanto, bel fusto. La compagnia la facciamo da noi » il fastidio e il sarcasmo nella voce di Benedicta parve, purtroppo, non avere poi l'effetto sperato; di fatti il bel sordo recuperò uno sgabello vicino e si sedette affianco ad Aurora, sotto l'occhiata truce dell'elfa pallida e lo sguardo perplesso della studentessa.

Il sospettoso e bel sorriso bianco e liscio -decisamente non si integrava granchè fra la marmaglia del locale- non accennò a spegnersi « Mi duole dirvi d'aver origliato la vostra conversazione. Sapete, so essere molto maleducato a volte e vorrei scusarmi in qualche modo, magari accompagnandovi fino alla vostra meta » sorrise mellifluo in direzione di Aurora, allungando le dita ad accarezzare leggermente il dorso liscio della mano più vicina.

« Non credo che avremo bisogno di un terzo incomodo » gli rispose lei , sgusciando via dalla sua presa; il sorriso del ragazzo si spezzò appena, ben visibile all'occhio compiaciuto dell'elfa, che sogghignò irriverente.

« In due si viaggia più velocemente »

Il ragazzo non allentò la presa.

Audace, allungò il braccio sullo schienale della sedia della ragazza, che continuava a fissarlo serena ma impassibile:

« Non avete tutti i torti, oltretutto non mi sono nemmeno presentato. Sono Sibil, mastro di spada dalla lontana Pisto. Sono famoso nella mia regione ma, sapete, era uno stagno troppo piccolo per un pesce grosso come il sottoscritto. La fama del mio brando e della mia agilità non può essere limitata da confini, non lo credete anche voi? » sorrise smagliante, eloquente nella sua pessima battuta a doppio senso. Aurora replicò la smorfia di disgusto che aveva dedicato alla pessima birra del locale poco prima, allontanandosi quanto più possibile poté da Sibili.

« Allora, mie signore? Dovete ammettere che un abile spadaccino come me non può che esservi di ottima compagnia e utilità! In tre il viaggio è sempre più ... movimentato! » rise a gran voce. Il disgusto esasperato di Aurora, in bella mostra sul suo viso candido, fece ridere invece Benedicta e Sibil, fraintendendo, sbattè una mano sul tavolo, soddisfatto.

« Allora è deciso! »

« Non è deciso un bel niente, mastro di daga » lo guardò torvo l'elfa, dopo essersi ricomposta; Aurora le aveva lanciato un'occhiata torva e poi supplichevole, non avendo altro in mente per fermare quel bell'imbusto senza ritegno alcuno.

« Mastro di spada, prego » la corresse offeso.

« Se ti piace tanto crederlo ... » borbottò l'elfa.

« Cosa avresti in mente, mia signora dalle orecchie a punta? » la sfidò, ignorando il suo commento.

Benedicta socchiuse gli occhi color notte, saettando lo sguardo qua e là in cerca di una sciocca ispirazione, pur di togliersi quell'impiccio di muscoli e null'altro dai piedi: le arrivò con lo schianto dei boccali sul pavimento, che l'altra cameriera, impacciata, si era fatta sfuggire dal vassoio stracolmo.

« Nulla di cui debba preoccuparti, poppante ... una semplice gara di bevute. Chi regge meglio la sbobba liquida di questo posto, vince »

« Nulla di più semplice. Deve sapere che reggo meglio di un nano qualsiasi tipo di alcool ... Nel mio Paese ... »

« Si si, va benissimo così. Ti crediamo sulla parola » lo interruppe Aurora, prima che il ragazzo si prolungasse in altre modeste storielle.

« Partecipi anche tu, Aurora. Non credere di poter sfuggire. Dobbiamo far vedere a questo nobiluomo quanto due fanciulle indifese siano capaci di badare a sè »

« Così non vale, anche io debbo avere un compagno » si infervorò giocosamente Sibil, richiamando l'attenzione di un tizio basso e tozzo qualche tavolo più in là.

« Ferlog, ti va una sfida con due belle fanciulle? » lo invitò.

Ferlog, tozzo e puzzolente quanto la latrina nelle prigioni della capitale, si sedette senza tante cerimonie al tavolo, il grugno suino prominente e sudaticcio accartocciato in una smorfia scocciata e annoiata. Le guardò con gli occhi piccoli e acquosi, piatti come una pozzanghera in un letamaio: « Giocate soldi? »

« Se vuoi » Benedicta fu svelta a rispondere, non volendo prolungare quella spina nel fianco che era diventata quella situazione.

Aurora la guardò sott'occhi, dubbiosa: non avevano certo soldi da buttare nel cesso. Letteralmente.

Il Sopravvissuto guardò nuovamente il tavolo della coppia, ora un quartetto mal assortito, e un brivido di panico risalì lungo la spina dorsale, sversando il liquore dai quattro bicchieri che proprio l'elfa gli aveva appena richiesto.

 

La gara, dopo quasi un'ora, era ormai il centro del divertimento di quel pomeriggio nella locanda, fra il giro di scommesse che stava via via prendendo piede e le giocate sempre più numerose fra quelle mani bucate dei suoi avventori. Il Sopravvissuto non si domandò nemmeno da dove avrebbero preso il denaro i suoi clienti, che già facevano fatica a pagargli il conto.

Sospirò, nascondendo già qualche bottiglia più pregiata nella botola sotto i suoi piedi, annusando nell'ambiente, oltre al solito olezzo, aria di guai imminenti.

La giovane mora, dagli occhi lucidi di alcool, teneva ben testa al suo mercante di carne, Ferlog, che tracannava senza sosta e senza pudore tutta la birra che gli stavano mettendo sotto il naso rosso e grosso. Gli si leggeva in faccia che avrebbe vomitato da un momento all'altro, ma il suo "amor proprio" non gli permetteva di arrendersi, soprattutto dopo aver ascoltato quanto alte si erano fatte le giocate. La ragazza sospirò velocemente, buttando giù l'ennesimo shot sotto i fischi dei commensali. Non parve farci molto caso, comunque; negli occhi chiari, se solo si fosse stati più attenti, si sarebbe potuta leggere la determinazione e la sicurezza in sé stessi che solo un essere insidioso e furbo avrebbe potuto avere. E pericoloso, nel suo caso.

Per quanto potesse essere avvincente la sfida tra quei due, il vero duello era lì affianco, fra l'eleganza senza incrinature dell'elfa, che non dava nemmeno segno di una leggera sbronza, e il testosterone zuppo d'alcool del tizio con la spada, il collo e il viso vermigli e metà della birra ancora intatta nel bicchiere.

Il quartetto di stava scolando ogni tipo di bevanda che le sue cameriere riuscivano a recuperare e avevano già più volte sgombrato il tavolo dai boccali vuoti, tanto che il locandiere dovette cambiare panno e lavare le stesse tazze più spesso di quanto in realtà avesse mai fatto.

Il tonfo di Ferlog che precipitava dalla sedie malferma e vomitava l'anima sugli stivali di Nak lo Gnomo fu coperto solo dalle risate di tutti e dal ruggito di vittoria della fanciulla elegante. Ma metà della sfida era ancora lontana dalla conclusione.

Almeno così credette.

« Non mi hai detto nemmeno il tuo nome, orecchie a punta » rise Sibil, senza controllo « dev'essere qualcosa di poetico, di floreale, tipico di voi orecchie spuntate, no? OH OH, noooo! Vero? »

« Ti prego, fermati. Già prima mi risultavi sgradevole, ma adesso raggiungi un nuovo livello di fastidio e imbarazzo umano tale, per gli Dei, che non muoveresti nemmeno la pietà di Saalittava » sbottò Benedicta, posando leggera la tazza di vetro vuota.

« Suuuuuvvia, cosa ti costa? »

« Benedicta » rispose atona e lapidaria.

« Eh?! »

» Be-ne-dic-ta » pronunciò a voce più alta, infastidita.

Perchè non crollava e basta, stupida scimmia?

« Che razza di nome è Benedicta? » rise sguaiato Sibil.

« Con facce come la tua in circolazione nel mondo » e gli occhi dell'elfa saettarono con faccia tosta fra i visi dei bruti intorno, in ascolto « sono ben più che una benedizione per l'intero Regno, non trovi? »

« Che gran paroloni per una feccia della tua razza » rantolò Ferlog dall'alto del pavimento, alzandosi poi barcollando.

« Prego? » ringhiò a denti stretti l'elfa, le dita velocemente a stringersi sull'elsa della daga d'ombra che penzolava dalla cinta.

« Non ha mica tutti i torti! La tua razza dovrebbe essere bandita dalle nostre terre! » parlò a gran voce un ometto insignificante in mezzo alla mandria silente.

« Non mi pareva fosse un problema avermi qui, fin ora ... o vi vanno solo a genio le mie monete sporche di elfo? » s'alzò, alta e inquietante, calciando il tavolo tanto forte da buttar giù Sibil e i suoi possenti muscoli ebbri di birra.

« Benedicta, per favore ... » sussurrò Aurora, anche lei in piedi.

Ferlog s'arrampicò sul tavolo riverso, afferrando l'ascia ricurva al suo fianco.

« Fatti sotto, pezzente dei boschi »

Il volo d'Angelo del mercante, afferrato senza sforzo dall'elfa e scaraventato in mezzo ai tavoli vuoti, diede inizio al massacro.

Aurora si sedette esausta su una panca sopravvissuta lì vicino, roteando i Sai fra le dita con noia, nelle orecchie le urla eccitate e divertite -arrabbiate e piene d'odio- di Benedicta, mentre finiva di prendere a pugni Mangiasassi.

Sospirò pesantemente, soddisfatta, e premette il tacco sullo stomaco del Troll, rotondo e peloso quanto una collina di erbacce. Rise divertita, sbollita la furia dell'offesa.

Per una volta gli umani si rendevano utili di qualcosa.

« Finito? » le chiese l'amica, abbracciando con lo sguardo il macello di corpi attorno a sé, compiaciuta.

« Si ... » rise ancora, portando la sua attenzione sul Sopravvissuto, immobile come una statua di marmo dietro al bancone. Il quel preciso istante, una mensola penzolante alle spalle della ragazza cadde rovinosamente sulla testa di un tizio all'angolo.

« Ops » ghignò lei, ridendo della faccia terrorizzata e della fuga a gambe levate del locandiere.

Aurora s'alzò sbuffando, camminando senza tante cerimonie sulle dita di quei poveri beoti e schiacciando con fastidio ogni loro verso con un calcio.

« Forza tesoro, abbiamo del lavoro da fare » le palpò il sedere, cominciando a rovistare fra le giacche e le cinte dei cadaveri, in cerca di monete.

« Agli ordini, mia adorata »

   
 
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