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Autore: avalon9    14/08/2018    5 recensioni
“Milo” lo chiama Camus, le mani fra le ginocchia e l’interesse improvviso per le ombre della notte.
“Dimmi.”
“Noi siamo ancora amici?”
“Sinceramente?” mormora Milo, muovendosi a disagio sulla sedia, una gamba portata al petto e il sapore dolce del sidro all’improvviso troppo forte, quasi nauseante.
“Non lo so.”

Sullo sfondo della ventosa costa bretone è il momento di un discorso lasciato per troppo tempo in sospeso: il perché del tradimento di Camus che ha portato ad un passo dall’infrangere il rapporto di una vita.
Post: Soul of gold
Per Francine, senza la quale l’idea forse non sarebbe nata.
Attenzione: novel
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Scorpion Milo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Meltemi'
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Autore: Avalon9

Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of live

Personaggi Principali: Camus di Acquarius; Milo di Scorpio

Altri Personaggi: Aurélie, in una fugace apparizione. Aioros, Saga, Shura e buona parte della combriccola dorata; Kostas e gli altri solo nominati.

Rating: giallo/arancione per il linguaggio

In proposito: “Milo” lo chiama Camus, le mani fra le ginocchia e l’interesse improvviso per le ombre della notte.

“Dimmi.”

“Noi siamo ancora amici?”

“Sinceramente?” mormora Milo, muovendosi a disagio sulla sedia, una gamba portata al petto e il sapore dolce del sidro all’improvviso troppo forte, quasi nauseante.

“Non lo so.”

Sullo sfondo della ventosa costa bretone è il momento di un discorso lasciato per troppo in sospeso: il perché del tradimento di Camus ad Asgard che ha portato ad un passo dall’infrangere il rapporto di una vita.

Per Francine, senza la quale l’idea forse non sarebbe nata.

Attenzione: novel

Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^

Note: novel; one shot; missing moments

Cose:Ok, questa fanfic non è quello che qualcuno si aspettava, probabilmente. E se ho deluso o deluderò me ne dispiace. Sinceramente.

Ma quando mi è stato gettato l’amo, io non ho potuto esimersi di abboccare. E da subito, nella mia mente, si è formata questa scena. Va bene, forse non proprio la scena completa della fanfic, ma gli estremi sì. Ho immaginato Camus, e Milo e la ventosa costa bretone. Ho recuperato un paesino, Louguivy-sul-la-mer,che è una goccia nella mia memoria, e gliene ho affiancato un altro, Saint-Quay-Portieux, un'altra piccola pittoresca perla di mare.

Questa storia mi ha fatto compagnia nei giorni di influenza, con gli occhi a mezz’asta e un mal di testa da volersela staccare. E in seguito. Perché è andata oltre quello che prevedevo, e ci sono voluti quasi sei mesi, per finirla. Praticamente, un parto. O ci siamo andati vicini.

Ma, come dicevo, mi ha fatto compagnia. Mi ha fatto compagnia perché, per documentarmi come si deve, ho fatto un giro cartaceo e informatico (che un viaggio no, non era né tempo né stagione per farlo) in quella Francia che amo, che mi manca e in cui ho lasciato un pezzetto di me. Ho vissuto a Parigi, e nel sud di questo magnifico paese, in paesini dell’Occitania e dei Midi-Pirenes, e la Bretagna è stata più che altro un volo di gabbiano fatto da bambina. Però. Però ce l’ho qui, nel cuore. Con la sua cucina, le sue usanze e la sua lingua, che mi ricorda tanto il tedesco (o l’olandese, se conoscessi l’olandese).

Camus, per me, è bretone; Camus è Louan Maël Le Blais, figlio e nipote di pescatori, cresciuto in una paesino che affaccia su una baia del mare della Manica. Ma dalla Bretagna se n’è andato presto, e per questo alla lingua madre mescola il francese di Parigi, dove ha vissuto per alcuni anni da adolescente (un po’ di argot e un po’ di verlan quindi). Quindi sì: francese, dialetti francesi e bretone. Perché è in Bretagna che va a rifugiarsi, quando le cose non vanno. E dopo Ásgarðr le cose non vanno.

Per questo ho preferito ambientare qui il confronto- rapporto-dialogo. O quello che è. O sarà per voi. Perché qui Camus è se stesso, o almeno prova a recuperare se stesso. Qui Camus è disposto a parlare. Anche di quel tradimento che lo ha visto protagonista in Soul of Gold. Che, ammetto, devo ancora decidere se mi sia piaciuto o meno. E che sì, fra le camicie improbabili, i rovesci di carattere che manco le montagne russe, una storia d’amore (che amore non è. Almeno per me), sarà anche l’elemento meno deterrente, ma c’è; con annesso rinsavimento nel momento della dipartita di Shura. A seguito di epico duello pieno di pathos, ovviamente.

Quindi: questa è la mia versione di quello che è successo, in quelle lande desolate. E del come e del perché Camus abbia scelto di stare, fin quasi all’ultimo, sul fronte opposto. E del come e del perché si sia arrivati allo scontro e alla (quasi) morte di Shura; e di come ci sia rimasto Milo.

Perché sì: Milo è la seconda parte dell’equazione. E sì, sarà banale e sarà semplicistica, come soluzione. Chè non sono la prima né sarò l’ultima a mettere in campo questi due. Ma, oh: io non ce l’ho fatta, a resistere. Perché nell’economia della mia testa la cosa funzionava solo con Milo. E, onestamente, continua a funzionare solo con Milo. Almeno per quello che riguarda questo confronto.

Forse perché Milo già conosce la Bretagna e la famiglia di Camus (nel mio fan-verse, ha incontrato tutti loro subito dopo la morte di Camus durante la battaglia alle Dodici case); forse perché è con Milo che c’è un rapporto particolare, non tanto più stretto quanto solo più complice. Forse perché Shura (per me, al secolo, Diego) è quello che è e il tutto ha la sua spiegazione se vorrete leggere.

Non lo so.

È diversa sotto altri aspetti, rispetto al solito: è più dialogata (e chi mi legge sa che non sono una campionessa, di dialoghi. Sempre pochi, prediligendo il flusso di pensiero e il discorso indiretto. Anche libero, sì), e più articolata anche nel tempo. Sono classicista, e resto classicista, e la lezione di Aristotele sulle unità narrative l’ho masticata e digerita, quindi luogo e tempo limitato (se non proprio univoco). Ma sì, prende più di un fugace incontro. E. Ripeto: non lo so.

A me piace.

Piace per l’atmosfera che ho respirato nello scriverla, fosse anche diventato un qualcosa di troppo avulso da Saint Seiya; ma io amo Saint Seiya e amo vedere i personaggi muoversi in un contesto di quotidianità con i loro rimandi a un’altra vita, a un mondo che solo loro conoscono, con i suoi drammi e le sue regole inviolabili.

Mi piace anche perché ogni angolo che ho descritto esiste. Prendete GoogleMaps, se non mi credete, e cercate: se le fotografie non cambiano, troverete la crêperie, e la strada, e la casa di Camus, esattamente com’è descritta. Forse sono pedante. Sicuramente sono ossessiva. Ma non è tanto la lezione di Flaubert a essermi entrata nelle vene, quanto piuttosto la voglia di dare davvero uno sfondo e un tempo (siamo nei primi anni Novanta, per la cronaca) reali a questi personaggi.

E sì: Camus regge poco l’alcool ed è un pessimo cuoco (in barba alle sue origini, e al fandom che ho scoperto lo ritiene una specie di masterchef occulto), mentre Milo con i liquori non ha problemi e ai fornelli se la cavicchia (nulla si chè, per carità) ed entrambi sono legati al mare e alle sue correnti. Non me ne vogliano i puristi.

Infine, è lunga. Sì: è decisamente lunga. E anche se saprei benissimo dove e perché tagliarla, per articolarla in capitoli, non voglio farlo. È un carico da novanta, quello che si rovesciano addosso questi due; e secondo me va letto come un carico da novanta. C’è il rischio dei tempi narrativi, certo. E della stanchezza. Ma non importa. O meglio: mi importa nel senso che sì, vorrei che chi ce la facesse ad arrivare in fondo in una sola tirata si sentisse addosso quella stessa stanchezza che hanno Milo e Camus.

Ci sono anche delle cose sott’intese, in questa storia. Non molte, giusto qualcosina. Per alcune note eventuali se vorrete, rimando a fino capitolo. Nulla di davvero necessario (forse solo una, ma non è davvero fondamentale) e la storia si può benissimo leggere anche così. Da sola. Salvo conoscere Soul fo gold, ovviamente.

 

 

 

Il gusto del sidro e del mare

 

 

 

“Cosa è successo.”

Una frase del genere se l’era aspettata. E anche quel tono, quello freddo e distaccato che usa sempre quando è in tensione. Come il modo che ha di restare in piedi, rigido e compassato. Anche con quel grembiule e il vassoio ancora in mano.

E vorrebbe mettersi a ridere, davvero.

Perché Camus, in quel momento, con quello sguardo che vorrebbe ucciderlo, gli sembra completamente fuori luogo sul lungomare di Saint-Quay-Portrieux, fra gli arredi in ferro battuto del plateatico e le fioriere a righe azzurre e blu.

E si chiede quanto sia passato, da quando si guardavano così. Si chiede perché, all’improvviso, tutto sia cambiato, e nello sguardo di Camus si legga il sospetto e l’apprensione, e non quel misto di imbarazzo e insofferenza che ci avrebbe visto una volta. Se lo avesse pescato a fare il cameriere alla Crêperie du port.

“Ma niente” gli risponde, scrollando appena le spalle e decidendosi a coprire quei cinque metri scarsi tra i due marciapiedi. “Perché deve essere successo per forza qualcosa?” continua, appoggiando il borsone sulla botte. Blu con le doghe d’argento.

Deve essere una mania di famiglia, il blu.

“Perché sei qui.”

E da un bel po’, anche vorrebbe precisargli. E no, non è stato granché piacevole restarsene in piedi sotto il sole di settembre ad aspettare che Camus si accorgesse di lui. E forse. Forse Camus di lui si era già accorto, solo non aveva voglia di parlare. Tutto qui. Non aveva voglia di rientrare così, all’improvviso, in quel mondo da cui sembra esser scappato senza dir una parola a nessuno. E allora forse. Forse davvero aveva solo cercato di ignorarlo, sperando che se ne andasse. Scegliendo quel mutismo che gli riesce tanto bene di mettere in pratica quando vuole chiudere fuori tutto e tutti.

Sono proprio quei mutismi a non andargli giù. Quel modo che ha Camus di affrontare i problemi. Rimuginandoci su fino alla sfinimento. Una volta quel modo di fare lo divertiva, lo trovava particolare perché gli ricordava l’ostinazione di un bambino. Con il tempo, invece, ha iniziato a irritarlo. Come lo irrita sempre più spesso il modo che Camus ha di voltargli le spalle senza degnarlo di una parola. Come se avesse già tutte le risposte in tasca, lui.

Però qui ci sono venuto. Alla fine.

E questo non può nasconderlo. Come non riesce proprio a staccarsi dalla faccia quel mezzo sorriso che gli sta facendo, come fosse la cosa più naturale del mondo. Mentre lo provoca. Lo provoca solo standosene lì, in camicia e jeans, una mano sulla rastrelliera dei fiori e l’altra nella tasca dei pantaloni. Come quando erano ragazzi. Come quando, da ragazzi, Camus tornava e lui si ficcava in testa che dovevano parlare. Anche solo per sentirsi mandare al diavolo prima di trovarsi a bere due birre al Ntelenia, i piedi nella sabbia e il mare a due passi.

“Ci sei anche tu. O sbaglio?” gli risponde, allargando ancora di più quel sorriso che, adesso, non ha più niente di innocente. Perché ci sono troppi sottintesi, in quelle parole, perché Camus non riesca a capire. E Camus le cose le capisce. Troppo in fretta, alle volte. E in quel modo tutto suo che poi, chissà perché, si rivela più sbagliato che giusto. Ma non è uno stupido, Camus, e lo ha capito, che quella non è solo una semplice visita di cortesia. Lo ha capito e gli rode, che lo abbia raggiunto lì, in quel paesino della Bretagna che è la sua personalissima Itaca. Quel porto sicuro e segreto dove va a rifugiarsi quando qualcosa non va e la vuole solo dimenticare.

E lui si chiede cosa sarebbe successo, se Camus non fosse quello che è. Se non lo fossero entrambi, quello che sono.

Se lo sono chiesti assieme più di una volta, in verità. Nelle serate pigre, la stanchezza degli allenamenti nelle ossa e l’euforia di essere di nuovo assieme, anche solo per poche ore, anche solo per una nottata consumata a chiacchierare sotto le stelle.

Se lo sono chiesto spesso, cosa sarebbe successo, se il loro cosmo non si fosse risvegliato. Se Camus, a sei anni, nel dolore delle lacrime e della disperazione, non fosse esploso per la prima volta in un turbine di ghiaccio e neve. O se lui stesso non avesse avvertito sotto la pelle il fremito elettrico di Antares incendiargli le vene come una corrente che si propaga rapida e letale.

Già. Se lo sono chiesti spesso, in passato, la pigrizia di immaginare una vita diversa, un futuro diverso che non fosse un lento prepararsi alla morte.

Lui probabilmente sarebbe rimasto sulla sua isola, forse avrebbe dato una mano a Kostas, forse adesso al mattino si sveglierebbe con gli occhi di Electre nei suoi, e la sua bocca aperta in un sorriso. Forse. O forse se ne sarebbe andato; forse la sua isola gli sarebbe diventata troppo stretta e avrebbe preso il mare, come altri prima di lui. Forse Atene non l’avrebbe mai vista o forse ci avrebbe passato tutta la vita, chissà.

Camus invece. Camus probabilmente il mare lo avrebbe preso per certo, come suo padre prima di lui. O forse. Forse se ne sarebbe andato anche lui, da quel villaggio di pescatori incastrato nella baia di Louguivy. E sì, ce lo avrebbe visto davvero, Camus, a fare il cameriere in un bistrot, magari a Parigi. O a Lione. E alla sera poi passeggiare lungo la promenade, una bella francesina al braccio e tutta la vita davanti.

Sì: sarebbe stata una bella vita.

Una vita diversa, una vita in cui loro due non si sarebbe nemmeno incontrati. Ma sarebbe stata comunque bella. O forse. Forse è bella solo perché è un sogno, è quel sogno di normalità, di diversità, che hanno sempre cullato, nella loro cieca devozione. Per ricordarsi che c’è davvero un’altra vita, un altro mondo, fuori dalle mura del Temenos. Ed è per quel mondo e per quella vita, quella vita che non è stata ma avrebbe potuto essere, che sono sempre stati pronti a lottare e morire. Per quella vita che non è mai stata loro, scomparsa nello scintillio del cosmo che si incendia come una galassia.

Va bene anche così.

“Te lo ripeto” gli soffia Camus, una mano troppo stretta al suo braccio, mentre lo spinge verso la porta, sotto la tenda gialla, a due passi dalla svolta della strada, a quell’angolo dove ha capito che vuol infilarsi. “Perché sei qui.”

“Avevo del tempo libero” butta lì, strattonando il braccio e piantandosi davanti all’ingresso, fra i clienti che occhieggiano e il profumo di birra, sidro e vapore caldo. “E non mi andava di restare al Temenos.”

“Potevi andare da Kostas” prova a capire Camus, il vassoio ancora in mano e lo sguardo di chi non sa nemmeno se essere contento o meno. “Ci vai sempre, quando puoi.”

“E invece ho preferito venire qui” sbuffa, gli occhi che corrono veloci in giro. Come a recuperare il tempo trascorso dall’ultima volta. “Perché? Non ti sta bene?”

No pensa Camus. Però.

Da quando hanno smesso di parlarsi con normalità?

Milo se lo è chiesto spesso, in quell’ultimo anno. Da quando non riesce più a parlare con Camus senza avvertire quell’irritazione crescergli nello stomaco come una marea. Anche una volta non era facile parlare con Camus; anche una volta c’erano volte in cui Camus lo esasperava, con quel suo modo di fare così distaccato e imperturbabile. Sembrava quasi indisponente, quelle volte, o altezzoso. Un vero arrogante bastardo. Ed erano le volte in cui ci si intestardiva di più, a parlarci. Perché lo conosceva. Perché aveva imparato a conoscerlo, e sapeva che era tutta scena. Sapeva che dietro a quell’atteggiamento compassato, Camus era come lui: un ragazzino con una responsabilità enorme a gravare sulle spalle e tante domande dalle risposte paurose.

Perché non puoi dire ad un ragazzino, a un bambino di otto anni, gli occhi spauriti e un greco che mastica appena, che è nato per morire, è nato per esplodere in uno scintillio di polvere di stelle. Non puoi dire ad un bambino strappato da una terra di mare e di vento che non ci sarebbe più tornato; e che tutto quello che avrebbe visto, da quel momento in poi, sarebbe stato il sangue nell’arena e lo strazio della battaglia.

Non puoi dirlo, non dovresti dirlo.

Ma lo avevano fatto. Lo avevano fatto che Camus ancora non capiva bene nemmeno Kalimera e Kalispera. Lo avevano fatto e lo avevano consegnato all’arena. Era stato anche per questo che gli si era avvicinato. Era stato anche per rassicurare un bambino spaurito quanto lui in un mondo mai visto, con una lingua mai udita dai suoni duri e secchi, con quella cadenza ritmata che sembra sempre correre sulle parole. Era stato anche per questo che avevano iniziato a parlarsi, loro due. Con i gesti e con la semplicità di chi sa capirsi ancora senza bisogno di parole.

Avevano iniziato così, e se anche Camus era stato portato via presto, fra loro qualcosa era rimasto. Qualcosa di semplice, e così complesso da essere una ricchezza da custodire. Facendola crescere anno dopo anno nella distanza e nella separazione; rinverdendola ad ogni occasione, ad ogni piccola possibilità. Era. Era qualcosa di così contorto e speciale, da apparire quasi banale. Qualcosa che aveva insegnato loro a cercarsi, a fidarsi. Ad appoggiarsi l’uno all’altro anche quando di appoggi non ce n’erano, anche quando il dovere e la battaglia trascinavano lontano.

E allora perché? Perché, continuava a chiedersi, quell’equilibrio fra loro si era spezzato. Perché Camus aveva deciso di spezzarlo così, come se niente fosse. Aveva deciso di mischiare le carte in tavola e poi, all’improvviso di abbandonare la mano. Salvo poi tornarci, al tavolo, con la stessa faccia da giocatore con cui se ne era andato. E a lui, questo, proprio non andava giù.

Perché quell’amicizia, quel rapporto speciale, per lui aveva significato molto. Aveva significato tutto, in realtà. Aveva significato un senso anche in quella vita da soldato, in cui le amicizie sono spesso l’offerta sull’altare del dovere. Lo sapeva Camus e lo sapeva anche lui, che quello che li legava non li avrebbe potuti proteggere, non li avrebbe potuti salvare. E andava bene anche così. Sarebbe andato bene anche così. Forse la loro vita si sarebbe consumata in un’esplosione di stelle; forse sarebbero sopravvissuti entrambi. Forse uno avrebbe raccolto il corpo dell’altro, assieme ai cocci dell’illusione di una vita e di un’amicizia nata per non soffrire troppo. Forse. E sarebbe andata anche bene così, sì.

Ma così no. Così non lo accetto.

Non con Camus sul fronte opposto; non con Camus che lo fissa, negli occhi la stessa determinazione di ucciderlo che un tempo era la volontà di salvarlo. Non con Camus che rinnega tutto: se stesso, l’armatura e Anissa. Per poi tornare. Tornare fulgido di Acquarius, la testa alta, fiera, e la quieta indifferenza di chi non si rammarica di nulla. Di chi rifarebbe tutto d’accapo, convinto della propria scelta.

“Allora?” lo incalza ancora, con quell’emergere forte, prepotente dell’accento insulare che gli colora la voce quando è spazientito o arrabbiato. E adesso non so cosa sono di più, dei due. “Ti dà problemi, che io sia qui?”

Met nann” sospira infine Camus, una mano a massaggiarsi la radice del naso. Come fa sempre quando non sa bene se rassegnarsi o esasperarsi per quel suo modo di fare. Così altalenante fra leggerezza e irritazione da non saper proprio come prenderlo, perché non morda. O punga. “È solo che non capisco. Tutto qui.”

“Tutto qui?”

Ya.

“Sei sparito” lo incalza Milo, piantandogli a due centimetri dal naso tutta la sua rabbia. “E tutto quello che hai da dire è tutto qui?”

Camus ha la faccia di quando non capisce. Ha davvero quella faccia, e Milo vorrebbe strozzarlo seduta stante. Vorrebbe tirargli un pugno e costringerlo a dargli una risposta, una, che sia decente. E sensata. O forse ha solo voglia di pestarlo. Di prenderlo a pungi come quando, da ragazzi, l’arena era la sola lingua che Camus sembrasse capire, quando si ostinava a rinchiudersi in se stesso.

Anche se lo sa, che ci sta per provare, a dargli una qualche spiegazione. Una che, soprattutto, motivi il perché di quella sua faccia mezza inebetita mezza spazientita. Perché sì; perché lo ha capito che Camus inizia a non poterne più, della sua presenza. Inizia davvero ad essere infastidito, da quel suo modo di fare e dal fatto che si è presentato alla crêperie.

“Louan Maël Le Blais” scandisce invece qualcuno, interrompendolo. E Camus ingoia la riposta e Milo sente le labbra stendersi in uno di quei sorrisi pieni, aperti, che riserva solo a chi è davvero importante. “Stai dando spettacolo. Si può sapere cosa sta succedendo?”

Aurélie è come se la ricordava. Un uragano di energia che ti travolge come una piena, un’euforia calda, rassicurante. Aurélie è Aurélie, con quel sorriso che le si allarga a illuminarle gli occhioni azzurri smarginati, quando lo vede. E lo riconosce.

“Milo” si sente chiamare, una risata di stupore gaio nella voce e due braccia di libellula che lo stringono. “Sei davvero tu? Quando sei arrivato?”

“Adesso, Auraur” le risponde, e se la stringe al petto con tutto quell’affetto che solo una complicità nata nel dolore può insegnare. Perché Aurélie l’ha conosciuta così, quando aveva vent’anni e un buco nel petto che non sapeva come riempire. L’ha conosciuta che Camus gli era rimasto fra le braccia, la pelle di ghiaccio e quel sorriso strano, quell’incurvarsi appena delle labbra che gli aveva lasciato dentro, nello stomaco, il più grande odio e il più profondo rammarico.

Perché Camus era suo amico. E gli amici non si fanno ammazzare senza spiegarti nemmeno il perché; gli amici non rinunciano a lottare, quando sanno che c’è una promessa da rispettare. E loro, quella promessa, se l’erano fatta: di sopravvivere fino alla fine, di non arretrare mai, di un solo passo.

E Camus. Camus si era lasciato ammazzare; da quel ragazzino che lui stesso aveva cresciuto. Camus si era lasciato morire, Milo lo aveva capito e non lo aveva accettato. Come non si era rassegato all’angoscia e alla colpa di essere stato proprio lui a lasciar passare Hyoga. Per un dubbio. Solo per un dubbio che lo aveva sfiorato. Ma in battaglia sono i dubbi a far pendere l’ago della bilancia. E quando combatti per Anissa, il dubbio è quell’increspatura che non ti puoi concedere, che non puoi permetterti di soppesare. Perché se hai dei dubbi, allora. Allora forse non è Anissa, la tua strada. Oppure.

Milo ci si era artigliato, a quell’oppure che gli aveva trafitto il cervello. Ci si era avvinghiato con tutte le sue forze, azzannando quella possibilità con la caparbia determinazione di chi all’improvviso vede il mondo da una prospettiva nuova, da un’angolazione sconosciuta.

Aveva voluto scommettere su quel dubbio, Milo di Scorpio: e aveva vinto la battaglia e perso un amico. Il più caro.

Aurélie l’aveva conosciuta così.

Un cappello di paglia in testa e delle cesoia da giardinaggio in mano. Mentre a Louguivy rassettava un giardino umido di un inverno che non se ne voleva andare. L’aveva conosciuta che non cercava altro che ritrovare Camus e le sue scelte in quello che era stato. Per non essere costretto a odiare Hyoga, e se stesso.

L’aveva conosciuta nella rabbia e nella frustrazione, e con lei aveva passato ore a ricostruire l’infanzia di un amico, sempre troppo avido di parole, sempre troppo triste per raccontare di una terra abbandonata da bambino. Con Aurélie, Milo aveva conosciuto un altro Camus, un Camus che non era mai arrivato al Temenos. Con Aurélie, Milo aveva conosciuto Louan; aveva conosciuto un bambino che Camus non sapeva nemmeno cosa significasse, e che era morto quel giorno che era partito per Lannion, un volo verso una terra che affacciava sul caldo mare Mediterraneo.

“Guarda che per il matrimonio sei in anticipo” gli dice Auraur, stringendogli ancora quelle braccia che conosce così bene. Perché è in quelle braccia che Aurélie ha trovato il conforto per la morte di Louan, di quel cugino con cui era cresciuta, di quel bambino raccolto in casa quando il mondo gli era crollato addosso. Perché è nelle braccia di Milo che Aurélie, a ventitrè anni e con tanta confusione in testa, aveva scoperto cosa fosse l’amore e cosa significasse desiderare qualcuno. Ed è fra quelle braccia che ha ricevuto la prima delusione. Quando, impudente, lo aveva baciato. O almeno ci aveva provato, sperando in qualcosa in più di una fronte contro la sua e del respiro caldo di Milo nell’orecchio. Di quel mi piaci, Auraur sussurrato su un divano, la penombra del camino e il vento a premere sulle finestre. Davvero; mi piaci molto. Ma sei sua cugina. E io un soldato che potrebbe morire domani aveva continuato, accarezzandole quel profilo di giovane donna, gli zigomi un po’ sporgenti come li aveva Camus. Ho perso un amico. Il più caro. E tu un cugino. Quasi un fratello. Non voglio che questo. Qualsiasi cosa sia questo. Non voglio che ci facciamo del male. Non voglio perdere anche te. Non per questo. Non così.

E per quello non l’aveva persa. Per quello Aurélie si era asciugata le lacrime, dopo che lui se ne era andato, ed era andata avanti con la sua vita. Accogliendolo con un sorriso e un bicchiere di sidro ogni volta che gli capitava alla porta, per nostalgia o forse solo per solitudine. Perché Aurélie gli ha sempre ricordato Camus. Glielo ha sempre ricordato nel modo che ha, di piegare la testa di lato o per quello sbuffo leggero che le solleva i capelli, la frangia sempre troppo lunga, quando è arrabbiata.

Glielo ha ricordato, glielo ha insegnato negli anni in cui Camus era solo il ricordo di un amico perso troppo presto; glielo ricorda ancora adesso, che Camus è ben saldo al suo fianco, la camicia con due bottoni slacciati e quel grembiule che sì, deve ancora decidere se gli stia bene o no.

“Matrimonio? Ti sposi?”

“Sì. A metà ottobre. Con Benôit” gli risponde, la sorpresa nella voce e il rossore sulle guance. “Te lo ricordi Benôit, vero?”

E Milo se lo ricordi sì, Benôit. Due gambe secche e un viso di lentiggini sotto una zazzera di capelli ricci. Glielo aveva presentato proprio lì, alla crêperie, mentre distribuiva l’impasto sulla billig. Due anni più di lei, un diploma di perito tecnico in tasca e tanta voglia di lavorare addosso. A Milo era piaciuto, tanto e subito. Perché per Aurélie era il ragazzo giusto, era quello che non se ne sarebbe andato seguendo la marea e non sarebbe nemmeno morto dando la vita per il sorriso di Anissa.

Sì: a Milo Benôit era piaciuto subito, e gli piace ancora di più in quel momento, quando lo intravede in un saluto distratto dentro la crêperie, le stesse lentiggini sulla faccia e qualche muscolo in più nel corpo. Non è più il ragazzino dinoccolato di alcuni anni prima, ma l’uomo giusto per Aurélie. Quello che le darà sicurezza e stabilità.

“Non lo sapevi?” gli chiede ancora lei, e Milo ammicca all’occhiataccia che Aurélie rivolge a Camus. Come fosse sua, la colpa di quella gaffe. “Non hai ricevuto l’invito? Te l’ho mandato all’indirizzo che mi avevi dato.”

“Ah. Non ci torno da un po’, a casa” glissa, un gesto vago nelle spalle che sembra racchiudere tutto e niente. Milo lo ha sempre avuto, quel modo di scrollare le spalle quando vuole aggirare un discorso che non sa bene come prendere. E in quel momento non ha idea di cosa dirle, o di cosa Camus le abbia detto.

“Ma me lo hai detto ora” si affretta a continuare, per non darle il tempo di chiedersi troppi perché. “E stai tranquilla: non me lo perderei per nulla al mondo.”

“Davvero?”

Alethina” le sussurra, pizzicandole il naso in quella confidenza che ha preso negli anni e nel conoscersi. “E sai che quando prometto prometto.”

“Sì. Lo so” sorride Aurélie, risistemandosi dietro l’orecchio un ciuffo ribelle e regalandogli lo sbuffo di inchiostro sul polso di una triskele fatta a diciotto anni, l’euforia di un qualcosa di proibito negli occhi. “Ma allora perché sei qui?”

E nel chiederglielo Milo sente una nota come di tremito. Sente la paura che serpeggia e gli occhi correre a Camus. A Louan. Correre a quel cugino tanto amato e ritrovato per inciampo, senza voler sapere i come e i perché. Ritrovandolo per stringerselo al seno e piangere, di gioia e di sollievo e incredulità.

“Sei venuto a prenderlo?” gli chiede ancora, mentre si stacca da lui con il tremito sottile di un uccellino che all’improvviso si è scoperto tra gli artigli di un falco. “Dovete. Dovete ancora…”

Sì: Aurélie ricorda tanto un uccellino, in questo momento. Un uccellino che arruffa le piume e prova le unghie per scoprire se anche lei ha la forza di graffiare, mentre cerca la mano di Louan e la stringe. La stringe forte.

Nann.”

Okhi.”

Forse qualcosa ancora c’è, per cui andate d’accordo, si dice Milo, nello scoprire la stessa risposta per rassicurare la stessa persona. E si chiede se davvero tutto è così cambiato, se davvero quello che è successo ha potuto cancellare quello che hanno coltivato negli anni.

Perché Camus è lo stesso di allora. Perché Camus continua a guardarlo con la stessa espressione di sempre, mentre lui, dentro, ormai non riesce più nemmeno a capire se prova rabbia, rimorso, delusione o forse. Forse solo tanta amarezza. Per non essere stato forse mai quell’amico che si ostinava a voler essere.

Nann, ma p’tite” dice Camus, stringendo quella mano piccola e insolitamente fredda nella sua. “Io non vado da nessuna parte. Non oggi, almeno.”

E Milo si dice che no, non era quello che voleva. Non era quello che si era immaginato. Ma quel che è fatto è fatto, e l’unica cosa che gli resta è raccattare la sua borsa e andare a farsi una lunga passeggiata per Saint-Quay-Portrieux, nell’attesa che ripassi l’autobus per tornare a Rennes o uno per Lannion.

“Ero solo venuto per parlare” sbuffa alla fine, una mano ad arruffarsi la testa. Perché in fondo è quella la verità: con Camus ci voleva solo parlare. Lontano dal Temenos e da tutto il resto. Parlargli in quel posto che sa di tranquillità per entrambi, di quieta pacifica sicurezza.

Parlare di quello che non è ancora riuscito a capire, di quello che ancora non riesce ad accettare. E che tutti, invece, sembrano aver accolto con una sospetta indolenza.

Ma Camus ha combattuto con i cavalieri del nord, ad Ásgarðr. Ha combattuto levando la mano contro di lui e Anissa che lui rappresentava. Ha combattuto per vincere, e per vincere gli ha scatenato contro il gelo di Acquarius. E per lo stesso motivo si è scontrato con Diego e ha permesso. Ha permesso che.

Io non me lo sono dimenticato ha rimuginato in quei mesi, la vita una lenta normalità che si andava ricostruendo. Fra mezze parola masticate con imbarazzo e vecchi gesti di mani, di occhi, di braccia che si stavano riscoprendo come la prima volta. In quei mesi, Milo non ha dimenticato quello che è successo, e che ancora, davvero, non riesce a capire. Come non riesce a comprendere la disinvoltura con cui Camus e Diego parlino, quando si incontrano nei templi profumati di incenso e olio delle lucerne. Come non riesce proprio a capire quel parlare rilassato, disteso, che c’è fra loro. Dopo quello che è successo. Soprattutto dopo quello che è successo: il corpo di Diego un ammasso di carne e ghiaccio nella sala che stava crollando e Camus. Camus che, appena cosciente, guardava un amico d’infanzia trafiggere Diego. Lì, nel petto. Trafiggerlo e donarlo alle spire di Yggdrasill.

No. Io non me lo sono dimenticato.

Come non ha dimenticato che è stato Camus a rivolgere per primo contro di lui il gelo di Acquarius. È stato Camus il primo a scendere in campo contro di lui, contro di loro, il lucore del cosmo a incendiargli lo sguardo e quella determinazione forte, assoluta, che Milo gli ha sempre conosciuta. Rivolta contro di lui; rivolta contro Anissa.

Eppure.

Eppure Anissa non ha fatto niente, non ha detto niente. Eppure Anissa, quando sono rinati, la vita in membra addormentate alla morte, li ha stretti, uno per uno, i cavalieri che erano caduti per lei, per il suo sorriso e l’universo che brilla nei suoi occhi. Li ha stretti e ha detto solo ricominciamo.

Ricominciare. Ritornare a quello che sarebbe dovuto essere; ritornare ad una vita prima, ad una realtà mandata in frantumi in una notte d’ottobre, l’ultimo tepore del sole sulle rocce apriche e il profumo di artemisia e olive torchiate nell’aria, con le prime piogge.

Sembrava facile; sembrava bello.

Ma non è stato facile; e nemmeno bello. Perché quindici anni hanno scavato un solco, fra ognuno di loro. Perché quindici anni hanno costruito dei legami che sono andati in pezzi all’improvviso, nella crudezza di battaglie che hanno scoperto amici e traditori. Nell’asprezza di un istante solo, consumato nell’esplosione accecante dei loro cosmi uniti davvero per la prima volta. Uniti davvero per un istante. Come non è stato con Loki. Come non sono riusciti davvero a ricreare nelle lande innevate di Ásgarðr.

Milo lo ha avvertito, quel misto di volontà e ritrosia aggrovigliato al proprio cosmo. Lo ha sentito e lo ha riconosciuto negli occhi sfuggenti di Aioria, nel sorriso sghembo di Cancer. Lo ha scorto anche nelle labbra strette e sottili di Camus, chiuse in una linea che ricordava una cicatrice e tanta amarezza. Lo ha percepito anche nel lucore caldo, abbacinante di Sagitter, nel fremito delle sue ali. Lo ha sentito, e lo ha ignorato. Come lo hanno ignorato Camus, Aioria e gli altri. Come lo hanno ignorato tutti loro. Perché era ad Anissa che dovevano rivolgere la mente e le azioni. Perché era per Anissa che erano di nuovo pronti a offrire e cosmo e vita.

Ma anche quando erano tornati. Ma da quando avevano di nuovo calcato la terra, quella sensazione non se n’era andata. E il tempo l’aveva solo stratificata, complicando tutto ancora di più. Accatastando non detti su incomprensioni e occhiate sbilenche; sommando imbarazzi e ritrosie con qualche passo in avanti, con la cautela di chi ha di nuovo paura di scottarsi.

“Solo per parlare? Davvero?”

C’è un’ombra di aspettativa, forse di sospetto, in fondo agli occhi di Camus. Nel modo che ha di piegare di lato la testa, soffiando piano fra le labbra un respiro che sembra una confessione trattenuta.

Age” sbuffa Milo, gli occhi al cielo chiaro e le mani ad affondare nei pantaloni, cercando in fondo alle tasche le parole come fossero spiccioli dimenticati. “Sì: solo parlare. Lo facevamo una volta. Ricordi?”

“Ricordo anche che, prima di parlare, di solito ce le davamo.”

“Nell’arena, certo. Durante gli allenamenti.”

“Non solo durante gli allenamenti.”

“Oh, quello” nicchia Milo, le spalle che si stringono con noncuranza. “Facciamo che questa volta passiamo. Ho già le ossa abbastanza a pezzi dopo questo viaggio. Non occorre che rincari la dose.”

Camus annuisce piano, soppesando il peso di quelle parole che non sa nemmeno lui se attese o inaspettate. Resta il fatto che Milo è lì, gli occhiali da sole in testa e quell’aria da gatto randagio che cerca solo un cantuccio dove riposarsi un po’. E gli viene da sorridere, anche. Perché Milo è sempre stato così: Milo è sempre stato quello che lo trascinava fuori dalla sua solitudine e lo costringeva a raccontare. Anche quando non voleva; soprattutto quando non voleva, in verità.

“Quindi: non lo vuoi portare via” espira Aurélie, nello stomaco una sensazione che non è ancora sollievo e non vuole chiamare certezza.

“No. Non lo voglio portar via” le conferma, sulle labbra un sorriso di condiscendenza che ha il sapore dell’affetto. “Non ho avuto degli ordini. Ve l’ho detto: avevo del tempo libero. E volevo parlare” ripete ancora, stanco, lasciandosi cadere sulla sedia accanto all’ingresso. “Con te.”

Camus espira piano, gli occhi socchiusi e quel vassoio ancora in mano freddo come il ghiaccio. Non se n’è accorto, ma ha concentrato lì tutta la tensione di quegli ultimi venti minuti. E adesso dovrà gettare il vassoio e prenderne un altro, mentre gli avventori, ormai, a loro non ci fanno più caso e Aurélie gli è sfuggita fra le mani, un sorriso sereno sulle labbra e due baci alla guancia di Milo, in un saluto che è solo un arrivederci.

“L’hai spaventata.”

“Non volevo. Davvero.”

“Sì. Lo so.”

Camus si concede un sorriso, uno di quei sorrisi lievi come un’increspatura che riserva solo a pochi, a quei pochi che davvero lo conoscono. In qualche modo, è contento. In qualche contorno modo che nemmeno lui capisce, è contento che Milo sia lì, le gambe allungate sotto il tavolino e l’ombra di una barba di due giorni sul mento. Si è fatto almeno dieci ore, fra voli, cambi e corriera da Rennes per arrivare lì. E se li è fatti perché voleva parlare con lui, perché forse vuole provare a ricostruire quel rapporto che è andato in pezzi. Anche se nessuno dei due capisce ancora perché.

“Senti” lo chiama, il vassoio che produce un suono di cristallo quando tocca il tavolino in ferro. “Fatti un giro. Vai al porto; o al Poisson rouge. O all’Atypic. Quay la conosci, no?”

“E se andassi da Ninenn?” butta lì Milo, gli occhi sgranati di innocenza e un sorriso che sembra cancellare la stanchezza. “Saranno tre anni che non la vedo.”

“Vacci pure, se ti va. Le farà piacere” sbuffa Camus, un brivido lungo la schiena al pensiero di Milo e mamie a chiacchierare da soli, magari davanti a un bel piatto di conchiglie di Saint Jacques nel profumo della mollica rosolata con il prezzemolo. “Ma vedi di non spaventarla, d’accord?”

“Non credo che Ninenn si spaventi per una mia visita” borbotta Milo, gonfiando le guance come un bambino. “Quella donna resiste a tutto.”

“Non si sa mai” mugugna Camus, una mano a massaggiare gli occhi. “Ci vediamo qui. Questa sera. Alle otto e mezza. Ça va bien?”

“Sì sì. Va bien” lo canzona Milo, arrotolando al francese quel suo accento cicladico che è insieme melodia e vitalità. E se ne va. Le mani in tasca e gli occhiali ben calcati sul naso, con quella sua camminata distesa e rilassata di chi si sa godere una manciata di ore arrivate all’improvviso. Di chi, alla vita, non ci ha rinunciato e non ha alcuna intenzione di farlo.

Milo è sempre stato così, Camus lo sa. Milo è quello che, forse più di loro, è stato fregato dalla vita; e che ha scelto di andare avanti. Milo ha sempre scelto di andare avanti, ricacciando in fondo allo stomaco tutti i perché e i però di un bambino cresciuto solo, di un bambino che dell’infanzia conserva molto, e non possiede forse nulla.

Forse è per quello che Milo si affeziona a quel modo alle persone.

Forse è perché non vuole dimenticare cosa significa avere qualcuno al fianco, anche se non ci sono legami di sangue, che Milo ha la pericolosa abitudine di aggrapparsi a quel poco di affetto che riesce a raccattare. Con l’ostinazione e la cocciutaggine che solo un orfano può avere.

Perché Milo non è come Mur o Diego e nemmeno come Aioria, o come lui. Lui una famiglia ce l’ha ancora. Ha Aurélie e mamie Ninenn, e quando non è per mare Fantin, con la sua pipa in bocca e le mani nodose di chi la vita l’ha passata sulle barche, a raccattare dal mare reti e pesce.

Milo invece non ha nessuno.

Milo ha una casa bianca dalle imposte blu, sulla sua isola, sotto un arancio dalle foglie scure. Una piccola casina sopra una caletta ritagliata fra il nero della roccia vulcanica, il rosmarino e le ginestre. Ci è cresciuto, Milo, in quella casetta che sapeva di aglio e timo e maggiorana, e che non aveva nemmeno una foto in una cornice. Camus se la ricorda ancora, quella casetta arrampicata sui faraglioni. E ricorda anche Kostas e Akylina, la spensieratezza degli otto anni di Gravil e gli occhi scuri e caldi di Electre. Tutto quello che Milo chiama famiglia. Assieme al nome dell’uomo che lo ha cresciuto e allenato, e che è scomparso in un’alba troppo fredda e troppo chiara per essere aprile. Isavros.

Forse è per quello che Milo gli si è affezionato a quel modo, di un affetto quasi viscerale. Ed è per quello stesso affetto che si è intestardito a creare fra loro quel legame, e a conservarlo anche quando tutto sembrava andare a rotoli, anche quando tutto era contro. Lo ha conservato anche nell’orrore della battaglia, mettendoci il cuore e le lacrime in colpi che non avrebbe mai voluto portare, in una determinazione che era la sola cosa che lo facesse andare avanti senza pensare.

Milo è sempre stato così.

Milo possiede quella pigra indolenza del mare, dell’acqua che sonnecchia cheta in un ritaglio fra gli scogli, iridescente sotto il sole. Ma che sotto è vita e frenesia e agitazione. Milo possiede la tenacia dell’onda che scava la roccia e la rasposità della salsedine che ti rimane sulla pelle, una crosta dura e croccante come la corazza di uno scorpione. E come uno scorpione è pronto a difendere quei legami che lo tengono a galla, dovesse anche distruggersi per provarci.

È per questo che ha accettato di aspettare. È per questo che trascorrerà la giornata a bighellonare per Quay, prima di andare da Ninenn, una rete di conchiglie di Saint Jacques in mano e il calore di un abbraccio. È per questo che lo aspetterà, chiacchierando con mamie sotto la pergola del glicine, un bicchiere di sidro e un piatto di galette da spiluccare.

È per questo che lo vede arrivare, alle otto e trentatré di quella sera, un’ombra di abbronzatura in più e la stessa camminata indolente della mattina. Nella luce fioca dei lampioni del lungomare, aldilà della strada, Milo sembra graffiare con quel suo mezzo sorriso compassato e gli occhi da gatto randagio che ti vogliono sfidare.

“E questa da dove salta fuori?” gli chiede, appoggiandosi al tettuccio della Renault rossa.

“È di Fantin. Me la presta quando serve” gli spiega Camus, rigirandosi fra le mani le chiavi. “La tua borsa è già nel bagagliaio. Dai. Monta.”

“E dove andiamo?”

“A casa. A Louguivy” sussurra Camus, ingranando la marcia. “Ho promesso a Auraur di portarle una cosa.”

“Per il matrimonio?” indaga Milo, la mano oltre il finestrino aperto e il vento una carezza piacevole sulla pelle calda. “O è una scusa?”

“Per il matrimonio, sì” sbuffa Camus, mentre tamburella l’indice sul volante, fermo all’angolo prima di svoltare. “Vuole il costume bretone di mamm.”

E quella parola, quel mamm pronunciato con rimpianto, ha per Milo il sapore di una confessione fatta una sera di sedici anni, le gambe a pendere nel vuoto e un bottino di mele e fichi dolci da spartire. Quando ormai lo chiamava Camus, ed era tornato dalla Siberia su ordine del Sacerdote.

Quella sera, nel raccontarsi, Camus gli aveva detto che no, non aveva idea di come avrebbe fatto, lui ragazzino, ad allevare due bambini. A crescere chi, di anni, ne aveva una manciata in meno di lui. Ma lo parlano il greco? gli aveva chiesto Milo, una mela a picchiettare fra le dita. O almeno il russo aveva aggiunto poi, mordendo il frutto.

Sì, entrambi. Non preoccuparti aveva sorriso Camus, la memoria a poche parole raccattate per inciampo assieme a lui prima di partire per le lande bianche della Siberia, prima di imparare un’altra vita, un’altra lingua. Uno è russo. Ma è piccolo. Molto piccolo. L’altro lo sta già allenando Oskars, da alcuni anni. E il russo lo masticava già aveva spiegato Camus, il fico a sciogliersi dolce in bocca. Perché? Da dove viene? aveva chiesto Milo, la curiosità come una pigra occasione di parlare. Finlandia aveva risposto Camus, stringendo le mani fra loro. Forte. Gli ho promesso che non dimenticherà la sua lingua aveva aggiunto poi, in un sussurro sottile che sapeva di impegno. Come è successo a te? gli aveva chiesto Milo, gli occhi al cielo pieno di stelle. Già. Come è successo a me.

Perché Camus il bretone non lo ricorda quasi più. Di bretone raccatta nella memoria le poche parole che solo l’abitudine e l’affetto vi avevano impresso. E Milo. Milo sa che per Camus. Per Louan. Sa che quella è stata una delle perdite più grandi, uno degli strappi più profondi.

Per questo non ha più aggiunto nulla, osservando la notte dal finestrino, i grappoli di luci che superavano e le note pop di Carolin Loeb e di Guesch Patty a riempire il silenzio dell’abitacolo. La campagna scura, con le colline che si indovinano appena e poi il cielo grande, immenso, sopra le loro teste, che corre verso nord. A Poimpol la luce dei lampioni e il rumore del paese, con il suo porticciolo, è stata una fitta dolorosa dopo la quiete dell’entroterra. Ad accogliergli, dopo altra campagna e notte e la sporadica luce dei fari sulla strada, c’è la casa cantoniera con il suo arco di pietra per ingresso al giardino.

Louguivy non è cambiata: lo stesso grumo di case raggruppate attorno alla baia di quattro anni prima; e della prima volta che ci era arrivato. Alle nove e venti, La Frègate sta chiudendo e al Cafè du Port si sentono passando le imprecazioni e le risate forti, piene, degli ultimi uomini che finiscono una partita a carte. Camus ha guidato in silenzio lungo Rue de Porjou. Lo ha fatto scendere e ha proseguito fino al parcheggio pubblico centocinquanta metri più avanti.

E Milo si è ritrovato lì, davanti alla casetta numero 18, con il suo cancelletto di legno blu e le ortensie ormai sfiorite lungo il muricciolo in sasso. Anche la ghiaia ha lo stesso suono di allora, mentre Camus lo raggiunge e apre la vecchia porta, dagli infissi blu.

Davvero. Una mania pensa Milo, grattando appena la vernice secca e chiudendosi alle spalle il silenzio di Louguivy.

“Fatti un doccia, se ti va” lo richiama Camus, un sacchetto grigio fra le mani. “Non ci vengo spesso, ma Aurélie ha sempre provveduto. E Annaïg e suo marito la tengono in ordine” prosegue poi, sistemando nei pensili in legno chiaro i pochi viveri che ha portato. “Te la ricordi Annaïg? O non l’hai conosciuta?”

“Oh sì. Sì che me la ricordo” ride Milo, i gomiti sul tavolo liscio, di legno recuperato, che riempie la cucina e l’ingresso. “Pensa. Voleva a tutti i costi farmi conoscere sua figlia.”

“Chi? Rozenn?” sorride Camus, il naso e le mani ben affondate nel frigorifero. “L’hai scampata bella, allora.”

“Davvero” gli risponde, allungandogli l’involto di uova e due cartoni di latte. “Sai che fine ha fatto?”

“Non so” nicchia Camus. “Te l’ho detto. Non ci vengo spesso, qui.”

E se ne restano così, in silenzio nella cucina di una casa che racchiude tanta infanzia, e una vita diversa, un futuro forse diverso. Ci sono le tacche dell’altezza di Louan, nella colonna che regge le scale verso la mansarda. Una tacca per ogni anno passato in quella casa, fino ai sei anni. E c’è la poltrona di mamm, nell’angolo accanto al camino, con il cesto dei ferri da calza e le riviste patinate di moda. Ferme al 1989. E c’è la pipa di tadoù, sopra la mensola, dove la metteva sempre anche il nonno. Forse, se avesse il coraggio di guardare, Milo troverebbe anche Louan a sorridergli fra le cornici esposte sulla credenza in fondo alla stanza. Non c’erano, quelle cornici, l’ultima volta che è stato in quella casa. O forse. Forse erano solo da un'altra parte. Come era da un’altra parte, forse, il pezzo di timone appeso sopra al camino. Auraur pensa. E sa di aver pensato bene. Perché solo Aurélie sarebbe capace di attaccare un vecchio timone, consunto dalla marea, al muro. A ricordare la vita di suo zio, e il significato che da sempre il mare ha per lei, per Louan, per tutti loro, che a Louguivy ci sono nati, e forse avevano creduto di morirci, anche.

“Un’idea di Auraur” gli spiega Camus, raggiungendolo accanto al camino, le mani affondate nella field e le spalle strette. “È il timone della Krog e Barz, l’aragostiera del nonno.”

“È quella che”

“Sì” sospira Camus, gli occhi a chiudersi su un pensiero che fa ancora male, e che lo farà sempre. “È la barca che usava anche mio padre. Quella che è stata trovata mezza sfasciata sulla spiaggia di Roc’h Hir. Dietro il promontorio.”

E Milo si ritrova senza parole importanti da dire.

Perché Camus ha quello sguardo, un luccichio negli occhi che non è solo un gioco di luci basse e riverberi. Ha quello sguardo, lo stesso di anni prima, di quando gli ha raccontato per la prima volta cosa fosse successo a suo padre. Di novembre, nella sua casa a Melo, la pioggia a battere sul tetto e il letto in ferro battuto come unico rifugio. Prima che partisse, e ritornasse in Siberia. Quella era stata la prima volta che Camus aveva pianto davanti a lui, dopo l’addestramento nelle lande desolate di Russia. Raccontandogli di un marzo ventoso, con i cavalloni che ti ricacciano indietro nell’insenatura montati all’improvviso poco prima dell’albeggiare. Era uscito in mare da solo, quella notte, il padre di Camus, perché Fantin aveva la febbre alta, e un freddo nelle ossa che non lo lasciava stare dritto in piedi. Quella notte, un marzo uggioso che si stava consumando, un soffio prima di chiudere la stagione, il mare si era ingrossato senza preavviso e la Krog e Braz era sparita dietro il promontorio.

La barca era stata ritrovata due giorni dopo, lo scafo e la velatura a brandelli; di Edern Le Blais, invece, del padre di Camus, non si era più saputo nulla. Mangiato da quel mare che tanto amava.

“E a te va bene?” chiede Milo, passando la mano sul legno lucido di pialla e olio. E chiedendosi perché Auraur si sia ficcata in testa una cosa così. Così. Non trova nemmeno le parole. “Voglio dire. È comunque”

“So cosa vuoi dire” lo interrompe Camus. “La verità?” continua poi, dandogli le spalle e avviandosi verso la scala che porta al piano superiore. “Non lo so, se mi va bene. Ma in mare non ci poteva più stare. E comunque te l’ho detto: io qui non ci vengo quasi mai” finisce, già a metà della rampa. “Fatti quella doccia, Milo” aggiunge alla fine. “Ci vediamo più tardi.”

“Vuoi una mano?”

“No” quasi grida. Un grido strozzato in gola, assieme a un sentimento misto di dolore e angoscia che strazia il cuore. “No” ripete più calmo, sorpreso delle sue stesse sensazioni. “Solo. Ci vorrà un po’. Scusami.”

Milo lo lascia andare.

Con quello scusami che ricorda una preghiera, una supplica che non si riesce nemmeno a sussurrare, a riempire il silenzio, Milo lo lascia andare. Chiedendosi se Camus ce la farà mai, ad accettare quelle sue emozioni, quel suo modo di affrontare le cose. Chiedendosi perché Camus debba sentirsi in colpa perché ha deciso di andare avanti. Perché è quello che Camus, che Louan ha fatto: ha raccattato i cocci di se stesso ed è andato avanti. Ha superato il dolore, anche se non l’ha dimenticato; solo, ha deciso di trasformarlo in qualcosa, qualcosa di diverso, qualcosa che gli ha dato la forza di andare avanti, di dedicare ad Anissa e al suo sorriso tutto se stesso.

Da ragazzi, hanno discusso anche di quello. Da ragazzi, le rare volte che Milo lo raggiungeva in Siberia, discutevano anche di quello. Dell’ostinazione di Hyoga di restare ancorato alla sua tragedia, e della rabbia di Camus che non riusciva a estirpare quell’ossessione. E Milo ci si ritrovava in mezzo, incapace di comprendere appieno lo strazio per quelle perdite e chiedendosi se a Camus bruciasse di più la determinazione di Hyoga o il dubbio di essere lui, il figlio che ha sbagliato. Perché Camus ha reagito al dolore superandolo; perché Camus non ha costruito tombe di ghiaccio lucido e splendente né ha racchiuso il mare in un abbraccio di neve eterna. Camus ha accettato le onde per sepolcro di quel padre tanto amato e, bambino, ha consegnato alla terra il corpo appena nato di Nevena Seza Le Blais, il corpo di sua sorella.

Camus ha solo scelto di continuare a vivere.

Rimpiangendo ogni giorno ciò che ha perso, ma ostinandosi nel non guardare indietro. Hyoga lo aveva tacciato di insensibilità, per quel suo modo risoluto, determinato, di non soffermarsi sul passato, mentre lui. Lui non ha mai commentato granchè. Lui si è sempre limitato ad accettare ciò che Camus aveva deciso di fare, della sua vita e della sua memoria. Forse perché non sapeva come parlare, di quel lutto che lo aveva distrutto; forse perché non riesce a immaginare cosa si provi davvero a perdere qualcuno di così importante come un padre o una sorella. La prima persona davvero importante che Milo ha perso è stato Camus.

E quando Camus è tornato. Quando Camus è tornato aveva una surplice nera a rivestirlo, e negli occhi il gelo della determinazione e sulle mani il sangue di Shaka. Quando Camus è tornato, tutto quello che Milo ha provato è stato dolore. Un dolore tanto devastante da poter essere solo negato, ricacciando in fondo allo stomaco ogni affetto e convincendosi che l’uomo che aveva di fronte, l’uomo contro cui rivolgeva la rossa Antares, era un nemico, era un avversario da falciare, e non quello stesso compagno, quello stesso amico rimpianto.

Milo le ricorda ancora. Ricorda ancora le sue mani strette alla gola di Camus. Quando Anissa; quando Anissa ha scelto di sacrificare se stessa, quando Anissa si è pugnalata, la daga d’oro nella gola sottile e il sangue denso, fluido, a sgorgare in un arabesco osceno, Milo ha sentito rabbia e ha sentito dolore. E stringere la gola di Camus, stringere quella gola, quel collo gelido con le vene che pulsavano furiose sotto la pelle, quasi traslucide, è stato. Per Milo è stata tutta la sua impotenza e la sua sconfitta. È stato lo struggimento di sentirsi di nuovo solo, di nuovo tradito, e la sorpresa terribile, devastante, di non avercela comunque la forza per spezzare di nuovo quel respiro. Di non riuscire comunque, anche con gli occhi offuscarti di pianto, anche con il calore di Antares nelle vene e l’elettricità del cosmo nella palle, anche con tutta la rabbia, l’impotenza e la frustrazione a macerare nell’animo, Milo aveva scoperto che non ce l’avrebbe fatta, che non sarebbe mai riuscito a togliere la vita a Camus. Nemmeno se fosse stato lui stesso a stringere fra le mani la daga dorata o il corpo di Anissa.

Lo aveva capito; e si era odiato anche per quello.

Come si è odiato quando ha avvertito la stessa esitazione, nelle lande innevate di Ásgarðr. Tutto come prima, tutto come allora. Davanti a Camus, davanti alla sua risolutezza, davanti al suo cosmo che cresceva, brillante come l’aurora del nord, Milo ricorda la stessa annichilente impotenza. E la rabbia. La rabbia montare con la furia di una mareggiata violenta. Una rabbia viscerale, animale. Una rabbia che gli ha dato la forza di controbattere, gli ha dato la forza di attaccare dimenticando per un istante, per un solo eterno istante, il nome e il viso dell’uomo di cui desiderava la morte, di cui voleva annullare e cosmo e vita.

E si chiede se sia stata quella furia, quel desiderio viscerale di dimostrare a Camus, a se stesso, di essere capace di combattere, di essere capace di scontrarsi seriamente anche contro di lui, di vincere lui, Camus, l’amico per cui è sempre stato disposto a morire, ad aver mosso la sua mano e la sua volontà. Si chiede se è stato qualcosa di personale, qualcosa di così profondo da risultare quasi blasfemo, ad averlo spinto a combattere, ad averlo spinto a scendere in campo contro Loki.

Certo, c’era Anissa e il suo cosmo che li riscaldava; c’era il ricordo di un istante giocato nella luce abbacinante del sole per sfondare il muro del Pianto; c’era la consapevolezza di essere nel giusto, anche. Eppure. Eppure Milo si chiede ancora se, quella volta, in quella battaglia, fra l’infuriare della tempesta e i riverberi di un’aurora boreale, lui non abbia combattuto solo per se stesso e per il proprio egoismo, per la propria impotente delusione nello scoprire un amico, il più caro, ergersi come avversario. Risoluto, imperturbabile, determinato. Determinato come forse Milo non ricorda di averlo mai visto; come forse Camus non è mai stato.

Deciso a vincere; deciso a conquistarsi un posto alla corte del nord. Risoluto di quella risolutezza che non ricorda nemmeno quando Camus era sceso alla settima casa di Libra per concedere a Hyoga la strada o assumersi la responsabilità di un allievo ribelle alle leggi di Anissa. Nemmeno in quel momento; nemmeno in quel momento, le spalle rigide e il cuore pesante, Milo ricorda negli occhi di Camus quella risoluzione ostinata, quasi malata. Ricorda invece il dubbio che lo tormentava, quando ha deciso di affrontare Hyoga; come ricorda la rassegnazione che leggeva nei suoi tratti, nel modo che aveva di sfuggire lo sguardo, di accennare appena a mordersi le labbra, quando lo ha affrontato che era deciso a prendere la testa di Anissa.

Ma quello sguardo. Lo sguardo di Camus di Acquarius, signore dei ghiacci perenni; lo sguardo di un cavaliere che non teme nulla perché sa di essere nel giusto. Quello sguardo Milo non lo ricorda in Camus, almeno fino a quel loro duello davanti alla ridotta arabescata di ghiaccio.

È anche per quello sguardo che ha deciso di seguirlo in Bretagna; è anche per capire da dove Camus avesse preso tutta quella risolutezza quasi arrogante, che ha scelto di affrontarlo. Anche se farà male; e già lo sa. Perché può fare solo male porre certe domande. Ma sa che dovrà avere il coraggio di farlo; e soprattutto la forza di restare ad ascoltare la risposta. Lo deve a Diego, che di quella cieca risolutezza è stato il pegno; ma lo deve anche a se stesso e a quel legame che per lui è sempre stato importante, quasi inviolabile.

Ma non è facile; non è affatto facile.

Per questo non ha fretta. Per una volta nella sua vita, Milo si accorge di riuscire a controllare la sua passionalità. Si accorge che invece di precipitare gli eventi sta cercando in tutti i modi di ritardarli.

Sa che dovranno parlare; lo sa lui come lo sa Camus. Perché glielo ha detto, certo; e perché non si possono liquidare quasi tremilacinquecento chilometri con un semplice attacco di nostalgia. Non quando è quasi un anno che sono tornati e si sono quasi ignorati. O quantomeno lui non è riuscito a parlare come un tempo, con Camus. Perché c’era qualcosa. C’era sempre l’ombra di un non detto, l’ombra di un qualcosa di spezzato e raccattato e riaggiustato nell’indifferenza, ad aleggiare fra loro.

Milo lo ha sentito, il crack della loro amicizia andata in pezzi assieme all’infrangersi del ghiaccio di Ásgarðr sotto i loro colpi. Lo ha sentito come un’eco assordante, anche nel fragore della battaglia e nella frenesia della lotta. Lo ha sentito assieme alla consapevolezza di aver lasciato una parte di sé, in quelle distese innevate. E non sa se qualcosa potrà essere recuperato; sa solo che non se la sente di lasciare le cose come stanno, in una quiescenza snervante che ha il sapore dell’inganno.

Ma sa anche che aspetterà.

Aspetterà di sentirsi abbastanza forte da ascoltare quello che Camus gli risponderà, quella sua versione dei fatti che vorrà dargli. Lo sa come sa che, in quel momento, Camus vorrebbe essere ovunque tranne che in quella soffitta, ad aprile i bauli di un’infanzia che non potrà mai tornare. Come sa che, per quando scenderà, gli ha fatto trovare un piatto di minestra calda e la discrezione del silenzio di una cucina carica di ricordi.

“C’è anche della birra, se preferisci.”

La voce di Camus è un sussurro nel silenzio della notte di Louguivy. Quando lo raggiunge, su quelle vecchie sedie da giardino, nelle ombre di alcune candele e dello spiraglio di luce della porta lasciata accostata, sono le ventitré passate e Milo ha addosso la felpa petrolio con il cappuccio che ha lasciato lì l’ultima volta che era stato in quella casa. Quando Camus era ancora il ricordo di un amico perso in battaglia.

“Nah” scrolla le spalle, gli occhi socchiusi e il copro rilassato sulla seduta. “Il sidro va bene, non preoccuparti” conclude, prendendo un lungo sorso. Farà sì e no 8°, ma gli piace il sapore, secco e con quel retrogusto fruttato di mele mature. E poi non ha voglia di bere, non sul serio; nemmeno ci fosse una di quelle Coreff spillata a mano, che gli era tanto piaciuta quando Auraur gliela aveva fatta assaggiare la prima volta.

“Ho visto che hai cucinato” continua Camus, stappando una bottiglietta. “Mi dispiace. Ho perso la cognizione del tempo.”

“Non è un problema. Cucinare mi piace, lo sai” nicchia Milo. “E poi era solo una zuppa di cipolle. Sarebbe riuscita anche a te.”

“Ho i miei dubbi” ridacchia Camus, la bottiglia che ondeggia fra le mani. “Comunque, grazie. Era. Buona. Sì.”

Milo mugugna appena, lasciando ricadere la testa di lato.

Ha sonno, e freddo, e una voglia matta di sdraiarsi in un letto e tirare fino a tardi il giorno dopo. Eppure non se la sente di andarsene; non davanti agli occhi di Camus, rossi e piccoli e lucidi come quando era bambino. C’erano delle volte, quando erano piccoli e Camus masticava appena qualche parola in greco, che Milo lo incrociava con quegli occhi rossi e lucidi. Sabbia borbottava Camus, e alzava le spalle arricciando il naso. Sono lacrime ribatteva invece Milo. Mo lo dici, perché piangi?

E gli restava davanti, le mani dietro la schiera e la bocca aperta come in attesa, fino a quando Camus non sbuffava e se ne andava bofonchiando qualcosa in una lingua che Milo non conosceva.

Ecco: quelle erano le volte in cui Milo proprio non se la sentiva di mollarlo, quel ragazzino scontroso e indisponente che gli era capitato fra capo e collo come compagno di addestramento al Temenos. Forse perché sapeva che se ne sarebbe andato presto, verso una terra gelida e spietata; forse perché aveva sentito Isavros commentare che Camus si portava dietro un lutto troppo fresco e troppo grande, per i suoi sette anni. Forse. O forse semplicemente perché Milo è testardo, e curioso. E il modo che Louan, che Camus aveva di scrollare le spalle e negare l’evidenza lo incuriosiva e lo divertiva assieme. Per questo non si dava per vinto, e gli trotterellava dietro per esasperarlo, anche nella consapevolezza che probabilmente non avrebbe mai avuto una risposta vera, soddisfacente.

E anche in quel momento, anche nella penombra tremolante della candela, Milo riconosce quegli occhi e sa che, se glielo chiedesse, Camus rispondere solo è stata la polvere. E forse. Forse la polvere della soffitta c’entrerà anche, ma non basta. Milo lo sa, che non basta, come spiegazione.

E di nuovo si chiede cosa sia andato in pezzi, fra loro. E perché. E se ha senso davvero provare a recuperarlo, quel loro rapporto, o se è destinato a finire così, assieme al sangue versato sulle nevi di Ásgarðr. O se è solo lui quello che si ostina a non voler accettare quello che Camus ha fatto per quello che realmente è: un tradimento.

Anissa però.

Anissa però ha riaccolto Saga, e anche Death e Kelavi. Anissa ha tenuto al suo fianco per quasi quattro anni Kanon, come ultimo dei suoi cavalieri d’oro. Anissa non ha detto loro nulla, né rimprovero né biasimo. Li ha solo riaccolti in seno, tutti loro. E lui? Lui può davvero contrastare la volontà di Anissa, la volontà della dea cui ha giurato fedeltà?

Hai dei dubbi gli aveva detto Anissa, una sera di alcuni giorni prima, il calore di un tramonto ancora estivo una sfumatura di arancia all’orizzonte. Glielo aveva detto, e non era stata una domanda. Perché Anissa non chiede; Anissa ti costringe solo ad accettare quello che già ti frulla nella testa. E lo fa con quel sorriso dolcissimo da essere crudele.

Non gli aveva chiesto nulla di più, e Milo si era sentito schiacciare sotto quelle semplici parole che gli suonavano di accusa, che gli suonavano di blasfemia.

Perché non era di lei, che dubitava. Anche se. Anche se quel tarlo nella mente, l’incapacità di accettare senza spiegarsi, senza ottenere risposte, era un qualcosa che non gli apparteneva, era un qualcosa che non riusciva a razionalizzare.

Milo lo aveva chiamato ancora lei, scorgendo nelle sue labbra strette, nella testa che si ostinava a restare piegata, una domanda, una preghiera, forse un’angoscia che non avrebbe mai osato esprimere a parole. Milo aveva ripetuto Anissa, inginocchiandosi davanti a lui, ricordando con un sorriso di nostalgia il cavaliere, l’uomo che, in quelle stesse stanze, aveva osato contraddire la sua volontà attaccando Kanon per testarne la fedeltà. Non hai bisogno del mio permesso, per andarlo a trovare. Lo sai. Vero?

Lo aveva lasciato così Anissa, il suo profumo di olio d’oliva nell’aria e il rassicurante abbraccio del suo cosmo nell’anima. Due giorni dopo aveva messo alcuni vestiti in una borsa ed era partito per la Francia. Forse per rabbia, forse per disperazione; forse solo per scoprire davvero cosa era rimasto dell’uomo che un tempo aveva chiamato amico. E che adesso gli sedeva accanto, una bottiglia fra le mani e un’espressione indifferente sul viso. In quel giardino in cui era cresciuto; in quello stesso giardino dove Milo aveva imparato un po’ della sua infanzia, per superare il dolore della sua morte.

“Non c’era un albero lì, una volta?” domanda pigro, ricacciando in gola parole che non è ancora pronto a pronunciare.

“Un pero, sì” commenta Camus, sistemandosi meglio sulla poltroncina di plastica e allungando le gambe. E ricordando un albero verde, i bei rami nodosi con appesa un’altalena rossa, costruita da suo nonno. Era stato tutto il suo mondo, quell’altalena: il destriero di un cavaliere o la plancia di una nave. Erano le ali per andare oltre le siepi e le mura quando era troppo piccolo e le prove di equilibrio per esercitarsi alle oscillazioni del mare.

“Auraur ha dovuto farlo abbattere” mormora ancora. “Un fortunale lo aveva sradicato.”

“Quando?”

“Saranno cinque anni.”

“Cinque anni.”

La bottiglia alle labbra, Milo si accorge di cercare Camus, il suo sguardo e quel pensiero nato in una condivisione che sa di silenzio e di esperienze vissute assieme. La bottiglia alle labbra, Milo ritrova lo stesso pensiero nell’espressione di Camus, nelle ombre che la luce tremolante della candela disegna sui loro vivi.

Cinque anni.

Un’eclissi a oscurare il sole e il mare gonfiarsi sotto le mareggiate violente; cinque anni, e una notte di settembre trascorsa nell’attesa della missione di una vita o della morte. Cinque anni, le scale del Temenos devastate e il sangue di Anissa bruciare come fuoco sotto la pelle. E poi. Poi ancora. La folle resistenza in Ade, l’annullarsi nella luce e il risveglio, nell’abbraccio delle nevi del nord. E. E ancora.

Mentre loro combattevano; mentre loro dilaniavano e corpo e spirito; mentre Camus bestemmiava la sua lealtà e Milo spergiurava la sua devozione, mentre decidevano di seguire entrambi il proprio volere, Auraur vedeva un albero della sua infanzia piegarsi alla furia degli elementi, schiantandosi al suolo con un rumore secco di ossa spezzate.

Cos’è la consapevolezza?

Per Milo, in quel momento, è l’avvertire di nuovo, come un tempo, una comunione di sentire che credeva non fosse più possibile. Non è qualcosa legato al cosmo; e nemmeno dovuto al loro rapporto. È qualcosa di più profondo, qualcosa che affonda nelle viscere, rimestando e contorcendosi per uscire. È quella stessa cosa che ha spinto Milo a cercare la costa di un vecchio album di fotografie, sulle mensole vicino al camino. Per rivedere quel bambino che Auraur gli aveva insegnato, e ricordare l’affetto e la nostalgia che aveva provato. È quella stessa cosa che ha portato Camus a sedersi lì, in quel giardino di settembre, negli occhi ancora il dolore dell’assenza e nel cuore la consapevolezza di non doverla davvero nascondere.

È qualcosa che hanno imparato entrambi negli anni in cui si sono sorretti a vicenda, anche a distanza. È qualcosa che per loro significa scoprire la stessa conclusione di pensiero pur partendo da premesse diverse. È qualcosa che era solo loro, che definiva loro.

E adesso. Adesso è solo un’eco, un istante che sorprende per l’ovvietà con cui si presenta e terrorizza nel riscoprirlo estraneo nella sua normalità.

“Milo” lo chiama Camus, le mani fra le ginocchia e l’interesse improvviso per le ombre della notte.

“Dimmi.”

“Noi siamo ancora amici?”

“Sinceramente?” mormora Milo, muovendosi a disagio sulla sedia, una gamba portata al petto e il sapore dolce del sidro all’improvviso troppo forte, quasi nauseante.

“Non lo so.”

Lo soffia come di singhiozzo, realizzando lui per primo il significato di quelle stesse parole. Perché in Bretagna ci è andato con la ferma volontà di ottenere risposte; perché in Bretagna ci è arrivato con la determinazione di recuperare un rapporto che considerava infrangibile, o capire perché Camus l’abbia mandato in pezzi. Eppure. Eppure si accorge di non sapere nemmeno lui, in verità, cosa stia cercando di recuperare o di salvare. O se semplicemente sta solo ricercando il coraggio per chiudere davvero quel loro rapporto che rischia di trasformarsi in un cancro. Tanto profondo e tanto devastante da mangiargli il cervello e la ragione.

Se sono ancora amici?

Milo fino a due giorni prima avrebbe avuto la risposta pronta: no. No, perché Camus l’ha mandata al diavolo, quella loro amicizia. No, perché Camus ha scelto di combattere contro di lui, invece di parlargli. No, perché un amico con cui hai giurato fedeltà, il ginocchio piegato e l’oro delle armature a rifulgere della potenza del cosmo, un amico del genere non te la fa, la bastardata di pugnalarti alle spalle. Tradendo te, e tutto quello cui avete deciso di sacrificare la vostra stessa vita. Un amico non te la fa, una simile bastardata.

Anche se quell’amico è Camus. Anche se quell’amico è lo stesso bastardo che è stato capace di farsi ammazzare del proprio allievo pur di impartire un’ultima, fondamentale lezione. Lasciando lui a raccattare il rimorso e il bruciare della consapevolezza di essere stato ingannato, di non esser riuscito a intuirne le reali intenzioni.

“Ho capito” chiosa Camus, finendo in un lungo sorso veloce la sua bottiglietta. “La notte qui è freddo. Fai attenzione” lo saluta, un movimento fluido, forse affrettato nell’alzarsi.

Chiedendosi cosa è andato perso, e perché. Vedendo nella testa di Milo, bassa e ostinata, nelle mani, strette, quasi spasmodiche, attorno al collo della bottiglia, tutto il peso di quel non lo so. Tutto il peso di un rapporto naufragato troppo in fretta perché ancora si sia in grado di rendersene conto. Perché davvero si riesca ad accettarlo, o forse solo a realizzarlo.

Camus sa solo che, nella risposta di Milo, è morta una parte di lui, è morta una delle cose più importanti che abbia mai posseduto. Quello che lo ha tenuto a galla i primi mesi al Temenos; e poi ancora, ciò che ha sempre considerato giusto, inalienabile. Ciò per cui era disposto a morire.

E si domanda se, semplicemente, non è stato troppo presuntuoso.

Nel considerare che Milo ci sarebbe sempre stato; nel valutare come ovvia la presenza di Milo al suo fianco, fino all’ultima stilla di vita e di cosmo. Si chiede se non sia stato il suo carattere, chiuso e incline alla solitudine, ad allontanare Milo, a costringerlo a quella scelta che li ha portati su strade diverse. E forse. Forse era quello, ciò che Milo voleva dirgli, il motivo per cui lo ha raggiunto in Bretagna. Perché Milo le cose gliele ha sempre dette in faccia, non ha mai usato giri di parole. Milo è quel tipo di persona: una persona forse troppo schietta e onesta e corretta, capace di dispiacersi anche per gli sbagli che fanno gli altri, sentendosene addosso tutto il peso. Anche quando di pesi e colpe non dovrebbe nemmeno sentirne parlare.

“Te ne sei andato” lo ferma Milo, un tremito che nasconde forse rabbia forse livore. O forse solo tanta delusione. “Hai preso e sei sparito. Così. Da un giorno all’altro” continua, la testa che si ostina a restare incassata fra le spalle.

“Anissa lo sapeva” tenta Camus, la mano sul pomello della porta e la sgradevole sensazione di qualcosa di sbagliato addosso. “E anche Shion. E Saga” continua, due passi verso la testa di Milo reclinata all’indietro. “Non sono scappato, Milo. L’ho detto anche a Diego.”

“Ma non l’hai detto a me!”

Camus prende un respiro fra i denti. Lento. Profondo. Perché conosce quel tono; lo conosce da quando aveva sette anni e Siberia era il nome di una terra che gli era stata paventata, con il suo gelo perenne. Lo conosce da quando ha scoperto per la prima volta la rabbia di Milo, una borsa appena finita sul letto e Anatolij ad aspettarlo fuori dal dormitorio. Milo se lo era trovato davanti all’improvviso, il respiro corto e il viso stravolto.

Quando me lo avresti detto gli aveva chiesto. Con una voce così dura, così ferma che Camus quasi non l’aveva riconosciuto. Perché Milo aveva sempre una nota di riso, in quegli accenni cicladici che gliela addolcivano. Quella volta, invece, il tono di Milo era duro, secco, e anche se Camus ancora capiva appena il greco, il tono era stato più che sufficiente. E significava guai. Grossi guai in arrivo. Ma tutto quello che era stato capace di fare era chiudere la cerniera e infilarsi la giacca nella più grande indifferenza. Anche se li sentiva, gli occhi di Milo che gli trapassavano la nuca. Li sentiva addosso con tutta la loro rabbia e un sottile sentore di elettrico che correva lungo la spina dorsale. Come quando sta per scatenarsi un temporale.

Camus la conosceva bene, quella sensazione. C’era cresciuto, a Louguivy, imparando a riconoscere il fremito elettrico dell’aria che si porta dietro l’odore penetrante di iodio e mare che si ingrossa. C’era cresciuto, con la consapevolezza di dover imparare a riconoscerla, quella sensazione. Perché se sei bravo a farlo, ti può salvare la vita, quell’intuito, quel sesto senso che solo l’abitudine ti può dare. E in quel momento, le mani ancora sul bavaro, gli occhi stretti per non concedere una lacrima al dispiacere, Louan aveva riconosciuto la stessa sensazione di pericolo. E non aveva la minima idea di come fare a cavarsi d’impiccio. Perché, dopo tutto, come poteva fare a spigare a Milo che non glielo aveva detto solo perché non aveva idea di quali parole, anche solo quali gesti avrebbe dovuto usare. E che non era ancora pronto. Per questo aveva continuato a dargli le spalle, cocciuto. Ma poi. Poi si era trovato le braccia di Milo, quelle braccia nervose e abbronzate, strette strette al petto. E la fronte di Milo sulla schiena mentre gli diceva Mi mancherai. Tanto.

Quella volta, era stato Milo a risolvere la situazione, a tirarlo fuori da quella fredda indifferenza che indossava quando non aveva la voglia, o più semplicemente il coraggio, per affrontare qualcosa. Era fatto così, Louan. Le cose che lo spaventavano le affrontava fingendo che non avessero valore, per lui. Per non scottarsi troppo, se qualcosa fosse andato storto.

Con il tempo, Milo aveva imparato a trattare Louan, aveva imparato che la sua freddezza era la sua corazza e aveva imparato anche come fare per obbligarlo a romperla, quella corazza, e a confidarsi con lui. O almeno aveva imparato come fare per gettargli un’esca che Camus a volte ingoiava, amo compreso, a volte no. Anche se la vedeva lì, bella brillante e invitante; e sapeva che ci sarebbe rimasta ancora. E ancora e ancora.

Quando avevano sette anni, era stato Milo a decidere cosa fare; e anche poi. Ogni volta. Ogni volta che succedeva, era Milo che cercava un modo, una parola, un gesto, per offrire a Camus l’occasione di parlargli, di aprirsi.

Questa volta no. Questa volta è diverso.

Lo sa Milo; e lo sa anche Camus.

Questa volta, Camus ne ha la dolorosa consapevolezza, Milo non insisterà. Questa volta non ci saranno gesti, parole, mezzi sorrisi incoraggianti o solo Milo che si siede vicino a lui, schiena contro schiena, in silenzio o ciarlando di tutto e niente solo per dargli il tempo di decidersi.

Questa volta, la testa di Milo resterà dov’è, gli occhi fissi al cielo e tutta la rassegnazione addosso. Quella rassegnazione che Camus ha sentito premere nelle parole di Milo con un qualcosa che non è nemmeno rabbia. È solo. È il tono che Milo ha quando davvero rinuncia a qualcosa; quando davvero ti vuol dire che non ce la fa più, ad andare avanti. E basta. È meglio finirla lì, senza come e senza perché.

“Non” tenta Camus, cercando in fondo allo stomaco, nelle mani che si sfregano nervose, le parole o forse la forza di mettere insieme una spiegazione che non è chiara nemmeno a lui. Sa solo che, se non vuole che davvero tutto finisca così, deve fare lui la prossima mossa. E che Milo non ci sarà, per dargli una mano nel farlo.

“Non sapevo come dirtelo” tenta, allungando una mano sulla spalliera della sdraio, cinque centimetri più in là della testa di Milo.

Malakies” bercia Milo, piantandogli in faccia un’espressione che sembra dire non provarci nemmeno, a prendermi per il culo. “Tu non volevi dirmelo. È diverso.”

D’accord” acconsente Camus. “Non volevo farlo. Ma perché credevo non ti importasse. Mi rivolgi a stento la parola.”

“E non ti sei chiesto il perché?”

Ouais” sbuffa Camus, le mani nelle tasche dei pantaloni e due passi oltre la sedia, le spalle a Milo e a quella sua aria di rassegnazione che non riesce né a capire né ad accettare. “Sì che me lo sono chiesto. Me lo chiedo anche adesso.”

“E?”

Perché c’è un e, in quella frase che Camus ha lasciato lì. Milo ne è sicuro. Per questo si è spostato in punta di sedia, le mani nella tasca che si ritrova sulla felpa e nelle gambe un formicolio. Perché forse riuscirà a capire, il perché siano finiti così, a parlarsi senza nemmeno la forza di guardarsi in faccia.

“E niente” stringe le spalle Camus. “Non lo so, il motivo. Davvero. Non lo so.”

“Non.” Milo inghiotte saliva, smarginando gli occhi mentre le tempie gli martellano come un tamburo. “Non lo sai?”

“No.”

E lo dice allargando appena i gomiti, con quell’aria di ingenuità e stupore che lo fa sembrare davvero un ragazzo, e non tanto un cavaliere. Camus ce l’ha sempre avuta, quell’aria di ragazzo qualunque. L’aria di chi avrebbe vissuto la propria vita senza scossoni, un fluire sereno e tranquillo con quegli alti e bassi che fanno parte della quotidianità. Camsu ce l’ha sempre avuta, l’aria del bravo ragazzo, e del ragazzo ingenuo. Anche se ha imparato presto che l’ingenuità non paga. Anche se ha imparato presto che uno sguardo affilato e poche parole ben piazzate possono far male. Possono fare molto male.

Camus potrà sembrare un ingenuo, a volte; di certo, però, non è uno sciocco. Camus non fa giochetti, non li ha mai fatti: Camus la sua verità te la sbatte in faccia. E se dice no è perché davvero non la sa, la risposta che vorresti sentirti dire.

Per questo la risata di Milo non se l’aspettava.

Una risata bassa e gutturale, nervosa, quasi isterica; Milo trema: nelle spalle, nella testa bassa piegata fin quasi alle ginocchia, nelle gambe. Trema e si raggomitola su se stesso, sempre con quel fastidioso tremolio e quel suono roco che gli gorgoglia in gola.

Camus volta la testa sopra la spalla, un disorientamento nella pancia, nel petto che non gli piace. Perché Milo sembra malato. Perché quella risata, bassa e roca e singhiozzante, gli ricorda troppo il modo che ha Angelo di ridere. Una risata di gola, arrochita dal fumo e dal tempo; una risata inquietante, di chi sputa in faccia alla vita e alla sorte.

Milo non ride così. Milo non ride come Angelo. Milo ride di pancia, di cuore. Milo ride con la bocca aperta e due fossette ai lati delle labbra che gli salgono fino agli occhi. Milo, quando ride, ride anche con gli occhi. Ci vedi il divertimento, la spensieratezza; ci vedi anche la felicità, negli occhi di Milo, quando sorride.

“Non lo sai” biascica Milo fra i denti, con dei singulti che a tratti ricordano un singhiozzo. “Tu mandi tutto a puttane, e poi non sai il motivo per cui io non ti parlo.”

Gueh?” esclama Camus, la bocca aperta e una voglia matta di scrollare Milo per farsi spiegare per bene quell’assurdità. “Cos’è che avrei fatto, moi?”

“Lo sai benissimo” nicchia Milo, piegando la testa e arricciando appena le labbra e il naso in una smorfia.

Kaoc'h” impreca Camus. “No, che non lo so” ripete, mentre sente le mani farsi fredde e la voglia matta di piazzare un pugno su quella piega sardonica che deforma la bocca di Milo. “Se davvero è perchè me ne sono andato senza dirti nulla.”

Skaze” bercia Milo, quasi infastidito. “Mi credi davvero così infantile?”

No.

“E allora cos’ho fatto?”

“Non ci arrivi proprio da solo?”

Nenn!”

Skatà, Louan!” ringhia Milo. “Mi hai fottuto!”

Lo butta fuori con un rigurgito, arrochito e gutturale. Glielo sputa a due centimetri dal naso, dopo essersi alzato trascinato per le sue stesse parole.

“Ci hai fottuti tutti. Come coglioni” aggiunge, il tono appena più sommesso, le spalle e i pungi stretti che si abbassano, come se il peso di quelle stesse parole lo stesse premendo a terra. Gli stesse mangiando tutta la forza che la rabbia e la delusione gli avevano dato.

Camus indietreggia di un passo. Così. Di riflesso.

Perché Milo lo ha chiamato Louan. Milo non lo chiama mai così. Milo sa cosa significhi, per lui, sentire quel nome, ricordare quel nome. Per questo, da quando Anatolij lo ha chiamato Camus, lui non ha più usato il suo vero nome. E nemmeno Milo.

Milo lo usa solo quando è preoccupato. O arrabbiato.

E adesso è arrabbiato. È incazzato nero.

Ma Milo è anche stanco.

Una stanchezza che viene da dentro, dal cuore, dalle viscere. Una stanchezza che lo ha fatto trascinare fino in Bretagna, ricorrendo forse un desiderio forse un’illusione.

E Camus sente il desiderio di allungare le mani e sorreggerlo. Lo sente forte, prepotente, salire dallo stomaco fino a stringergli la gola. Perché Milo sta cadendo. È ancora ben saldo davanti a lui, eppure Camus ha la sensazione che Milo sia in piedi solo perché è sua volontà restarci. Solo perché è troppo orgoglioso per cadergli davanti in ginocchio o forse, semplicemente, la sua testa non accetta quello che il suo corpo sembra urlare.

Milo è davvero esausto. C’è qualcosa. Qualcosa di profondo, di radicato, che lo sta consumando come un cancro. E quel qualcosa c’entra con lui e con qualcosa che ha fatto. Qualcosa che Milo ha visto come un tradimento. Verso Anissa; e verso di lui.

“È per il Temenos. Per quello che è successo al Temenos. Vero?” chiede, massaggiandosi la radice del naso. “Lo sai che non c’era scelta. Non mi è piaciuto. Ma.”

“Non è per il Temenos” mormora Milo, lasciandosi cadere sulla sdraio e fissandolo. Aveva fatto male, sì. Aveva fatto male trovarsi il proprio migliore amico davanti, un’occhiata che prometteva morte e il sangue di Shaka sulle mani. Aveva fatto un male cane.

Ma lo aveva superato. Aveva dovuto superarlo. Perché se le mani di Camus avevano il sangue delle battaglie, la sua faccia era sporca del sangue della disperazione. Milo lo aveva visto, quel sangue. Ed era stato quello, a fargli più male di ogni cosa. Più delle ferite; più del pensiero del tradimento. Gli aveva fatto male vedere Camus piegare se stesso a un ruolo che lo voleva aguzzino e carnefice.

Ma no. Non era quello, il motivo. Non era stata la disperazione che aveva provato nel trovarselo davanti, a distruggerlo. Perché aveva capito. Quando Anissa si era pugnalata alla gola, Milo aveva capito. E alla rabbia e alla disperazione si erano confusi l’impotenza e il dolore. Si era sommato lo strazio di comprendere cosa davvero Camus avesse scelto di sacrificare, per il suo dovere.

“Per Hyoga, allora” tenta ancora Camus, e sente una fitta dolorosa.

Perché sì, quello che ha fatto è stata davvero una bastardata. Un colpo basso, molto sotto la cintura. E lo sa lui per primo. Ma allora. Allora gli era sembrata l’unica possibilità, l’unica scelta fattibile. Vuole bene a Hyoga, allora come adesso. E non ce la faceva a vederlo macerarsi nel dolore, vederlo incapace di trasformare il proprio lutto in una spinta. Non sopportava che vi si ancorasse, che lo cullasse come un bimbo in fasce e gli permettesse di trascinarlo a fondo.

Hyoga era tutto ciò che gli restava. Dopo che Isaak era scomparso, Hyoga era tutto ciò che aveva cui aggrapparsi. Per superate il nuovo dolore.

Ma Hyoga non era come lui. Hyoga non era in grado di andare avanti come aveva fatto lui. Oskars glielo aveva sempre detto: ognuno porta i propri lutti a modo proprio. Non c’è un sistema giusto e uno sbagliato; c’è solo un sistema che ognuno si costruisce. E questo Camus non era mai stato capace di comprenderlo.

Per questo aveva deciso di affrontare Hyoga, con ogni mezzo. Per questo era stato pronto anche ad arrivare a un passo dall’ucciderlo. Ma farsi ammazzare. Farsi ammazzare no, quello non era nei suoi piani. Non era mai stato nei suoi progetti.

Quando era sceso in battaglia, all’Undicesima, Camus era pronto allo scontro. Non era mai stato pronto a perdere la vita. Voleva solo che Hyoga dimostrasse il proprio valore. Voleva solo che gli dimostrasse che era in grado di farcela. Dimostrasse di essere cresciuto, di essere pronto a sacrificare ogni cosa, anche le proprie ancore, ad Anissa. Come aveva fatto lui. Come si era convinto lui stesso che fosse il solo modo possibile per servire Anissa. Voleva che Hyoga diventasse degno del suo nome, diventasse quello che sarebbe potuto diventare Isaak. Voleva che risvegliasse il Settimo Senso, e gli chiarisse con le sue azioni quei dubbi e quei tentennamenti che aveva instillato in lui. In lui e in Milo.

Solo che Hyoga era stato bravo. Molto più bravo di quanto si fosse mai aspettato. Ed era anche arrabbiato; molto arrabbiato e molto amareggiato. Per questo. Per questo Hyoga era riuscito a superarlo. Per questo Camus era morto. Per il dolore di un allievo che amava tanto da volerlo annientare con le proprie mani, piuttosto che vederlo distruggersi.

“È per Hyoga. Giusto?” ripete Camus. “Senti. Lo sai com’è andata. Se pensi ancora che volessi farmi ammazzare.”

“No” soffia Milo. “Cioè. Sei stato uno stronzo” precisa, alzando appena un dito per evitare che ribatta. “E io ci sono stato da cani. Ma con Hyoga ci ho parlato. Davvero. E stava da cani anche lui” continua, arruffandosi i capelli. Perché quella discussione ha dell’irreale. Perché sente le mani formicolare, e una voglia strana serpeggiargli nella lingua.

“Quindi piantala di prendermi per il culo” gli chiosa, alzandogli in faccia due occhi che promettono rabbia. “Non lo accetto. Non da te.”

Perché non riesce a capire se Camus sia serio o stia giocando con lui. Non riesce a capire perché Camus si sia ficcato in testa di rigirare la situazione a quel modo, facendo lo stoccafisso. Poi. Poi il pensiero lo sfiora in un attimo. E Milo lo ricaccia, indietro, furioso, violento. Perché Camus non è mai stato un codardo. Perché Camus non ha mai avuto problemi a prendersi le sue responsabilità, e anche quelle degli altri, se fosse servito. Perché Camus è fatto così: fuori non gli daresti un soldo, con quel suo modo che ha di guardarti, fra l’indifferenza e il supponente, ma dentro; dentro Camus è qualcosa di meraviglioso. Qualcosa di così fragile e complesso e altruista che se lo lasciasse libero, quel suo carattere lo farebbe ammazzare in un istante.

Perché Camus è sempre stato così. E Milo non riesce proprio a pensare che possa essere cambiato fino a questo punto. Fino al punto di mentirgli guardandolo in faccia.

“Ma io non ti sto prendendo per il culo.”

“Sé, come no.”

Bon sang” impreca Camus, allargando esasperato le braccia e cercando di reprimere l’impulso di afferrare Milo per la felpa e prenderlo a ceffoni. Perché quella sua ostinazione lo sta consumando; e lui, in quei giorni, non ha né la pazienza né la voglia di veder portare al limite la propria capacità di autocontrollo. “Te me rends fou” sbuffa, prima di sedersi di nuovo, accanto a Milo, le mani intrecciate a penzoloni fra le ginocchia.

“Milo.”

Checcè?” grugnisce Milo, accavallando le parole come solo nelle Cicladi fanno. Come ha imparato a fare fin da bambino. “Ti è tornata la memoria? O vuoi continuare questa assurda commedia?”

“Primo” scandisce piano Camus, piantandogli sotto il naso un dito. “Questa commedia la stai facendo tu. E secondo” continua, senza dargli subito il tempo di replicare, un secondo dito ad aggiungersi al primo. “Secondo, io davvero non lo so, di cosa stai parlando.”

“Di cosa parlo?” ringhia Milo, uno strattone alla sedia e le gambe che tremano, quando si alza in piedi per mettere quanta più distanza possibile fra lui e Camus. Perché se gli resta vicino. Dio. Se gli resto vicino, Milo è certo che arriveranno alle mani.

“Parlo di Ásgarðr, ecco di cosa!” urla, sputandogli in faccia quel nome e tutto il peso di quello che ha significato.

Quoi?”

“Ásgarðr” ripete Milo, le labbra una piega amara e un’espressione che racconta tutto un dolore. “Neve; freddo; una grande statua. Hai presente? Parlo di quando ci siamo ritrovati vivi. E tu hai deciso di girarci le spalle. Di tradire Anissa” prosegue, accaldato, concitato. “Hai scelto di tradire me!”

Camus lo fissa. Lo fissa come se fosse ammattito. Come se, all’improvviso, Milo avesse ricevuto in testa un secchio di acqua gelata e adesso stesse farfugliando in preda agli spasmi. Ma lui non gli ha rovesciato in testa nessun secchio; e Milo ha quel modo di muoversi, di camminare e di girare gli occhi verso ogni ombra e ogni tremolio della candela che Camus conosce bene. È il modo che Milo ha di cercare di tenere a freno la rabbia e il livore. Soprattutto quando sente che è ad un passo dallo scoppiare, trascinandosi in qualcosa di forse irreparabile.

Milo è serio. È maledettamente serio. E se non gli ha ancora azzannato la gola è solo perché qualcosa, dentro di lui, lo sta disperatamente pregando, lo sta supplicando, di non mandare tutto a puttane. E di cercare di salvare qualsiasi cosa sia rimasta, della loro amicizia.

“Ásgarðr?” balbetta appena Camus, smarginando gli occhi e la bocca. Una voglia improvvisa, viscerale di ridere. Come non gli capitava da tanto, tanto tempo.

“Ásgarðr, sì” ripete ancora Milo, ringhiando. “O vuoi ancora fare lo gnorri?

Oh Seigneur” gli sfugge. “Cioè. Noi non ci parliamo da quasi un anno per Ásgarðr?” sospira Camus, lasciandosi cadere all’indietro, lo schienale della sdraio ad accoglierlo e tutta la tensione e l’apprensione sciogliersi con la stessa facilità con cui il vento solleva le foglie d’autunno.

“Tutto questo casino solo per quello che è successo ad Ásgarðr?”

Milo lo guarda, fra lo sdegno e la sorpresa.

Possibile? si chiede Milo

Possibile che davvero Camus non se ne renda conto? Possibile che per Camus l’aver alzato la mano contro di lui, l’aver quasi fatto ammazzare Diego non significhi nulla? Non abbia mai significato nulla? Eppure. Eppure lui ricorda un altro Camus. Ricorda un cavaliere, un amico, battersi al suo fianco, disposto a offrigli la protezione della sua schiena e la sicurezza della sua presenza. Ricorda l’uomo cui ha scelto di raccontare tutto di se stesso: le cazzate fatte da ragazzini e le cose serie. L’indifferenza che sente quando gli chiedono se non vorrebbe sapere qualcosa, dei suoi veri genitori, e la punta di nostalgia che ancora lo prende quando ripensa a Isavros e al modo in cui è uscito dalla sua vita. A Camus Milo ha dato tutto se stesso: gli ha confidato ogni pensiero, ogni dubbio, ogni certezza.

E adesso. Adesso vedere sul viso di Camus, sul viso di quello che un tempo è stato il suo migliore amico quel sollievo, quel senso di leggerezza davanti a quella che dovrebbe essere una consapevolezza pesante come un macigno, gli fa solo salire il sangue al cervello.

Solo?” bercia, la maglia di Camus fra le mani e il suo naso a due centimetri da quello del compagno. “Tu hai cercato di ammazzarmi, e dici solo?”

Calme-toi” replica Camus, mentre Milo lo trascina in piedi e stringe ancora di più le mani. Che sono calde, e tremano. Milo ha sempre le mani calde e sudate, quando si arrabbia. E l’indice preme lì, sulla carotide. Camus lo sente. Lo sente contro il pomo d’Adamo mentre deglutisce saliva e parole che gli salgono dallo stomaco. E sa che Milo si sta costringendo; sa che Milo sta facendo appello a tutto quello che ha ancora nelle viscere per non affondare quell’indice nella sua gola e fargli sentire nella pelle lo strazio che gli vede nei tratti duri, rabbiosi. E disperati.

P’tain. Que bordel” impreca Camus, stringendo aria fra i denti. “Non hai parlato con Saga? Ad Ásgarðr. Non.”

“Non ci provare, Camus” gli soffia in faccia, una scrollata che vuole essere un ammonimento. “Non ho voglia di balle.”

“E chi te le vuole raccontare?”

“Tu, me le vuoi raccontare” ringhia Milo. “Cazzo. E io che sono anche venuto fin qui. Per.”

“Per cosa?” lo incalza Camus, sentendo le mani di Milo tremare a due centimetri dalla sua gola. Tremare come se volesse piangere. “Per cosa sei venuto, Milo?”

“Per provare a sistemare le cose” grugnisce Milo, e la presa torna salda, arrabbiata. “Per parlare.”

“E allora parliamo!” alza la voce Camus, costringendo Milo ad arretrare di un passo, anche se non molla la presa. Perché è stanco di sentirselo così addosso; perché quella situazione non piace nemmeno a lui. E perché dopo quasi un anno intravede forse uno spiraglio, una possibilità di capire cos’è successo.

“Parlare” quasi ride Milo, inghiottendo saliva e rabbia e stanchezza. “Cioè. Tu adesso vorresti parlare.”

Me lo stai chiedendo tu!”

“Appunto!” bercia Milo, costringendo Camus a indietreggiare fino a inciampare e trovarsi schiacciati sul prato, le prime foglie secche e l’odore umido di terra nel naso. “Io te lo sto chiedendo. E tu tiri fuori Saga. E. Cazzo.”

“Ma perché era Saga che doveva parlarti!”

“E di cosa? Cazzo. Camus. Di cosa doveva parlarmi?”

“Di quello che stava succedendo ad Ásgarðr!”

“Ad Ásgarðr?” ripete Milo. “Cioè tu hai chiesto a Saga di giustificarti con me per il coglione che sei stato?”

Oui! Cioè: no!” incespica Camus. “Saga dovevo solo. Mon Dieu! Milo. È un equivoco. È tutto un maledetto equivoco.”

“Stronzate!”

“No che non sono stronzate!” ribatte Camus, rovesciandolo a terra. “Ci hai parlato, con Saga? Dopo. Alla ridotta. Dopo quello che è successo. Milo. Ci hai parlato o no, con Saga?”

“No che non ci ho parlato. Perché avrei dovuto?”

"Perché ti avrebbe spiegato tutto” ringhia Camus. “Ti avrebbe spiegato tutta la storia.”

“Possibile che non ci arrivi?” urla Milo, una piega rabbiosa sulle labbra e le mani che restituiscono la pressione sulle falde della giacca. “Non me ne frega niente delle spiegazioni di Saga. Non me ne faccio niente di versioni ufficiali e stronzate varie. Cazzo. Louan! È da te che la voglio, una spiegazione! Solo da te!”

“E allora fammi parlare!”

“Col cazzo che parli, tu” sputa ancora Milo. “Fin’ora, quello che ha parlato, sono stato io. Sono sempre io! Skaze.

“Milo.”

“Tu non tiri fuori mezza parola. Mai mezza parola.”

“Milo.”

“E io come un deficiente che ci spero ancora. Che.”

“Ma te la vuoi dare una calmata, merde?”

Le mani di Camus sono fredde. Lo sono sempre.

Ma in quel momento, per Milo, quelle mani fredde sulle proprie, calde e nervose e percorse da un fremito come di elettricità, sono un porto sicuro. Sono il simbolo di una tranquillità, di una normalità che si era visto strappato a vent’anni, il dubbio a serpeggiare nella testa e il sangue di un compagno chiamato traditore sulle mani.

Per questo Milo respira. Un respiro di petto, di pancia, che gli fa tremare le vene e i polsi e lo lascia come inebetito. Perché. Perché all’improvviso c’è una possibilità. All’improvviso c’è una terza via mai immaginata, mai nemmeno paventata, che potrebbe spiegare. Potrebbe spiegare tutto; o almeno provarci. E Camus. Camus ha negli occhi i riflessi delle candele, e alle spalle la luce dello spiraglio della porta, e un’espressione che sembra promettergli che tutto andrà a posto. Che tutto può ancora andare a posto. E se non sarà proprio tutto tutto come prima, sarà comunque bello. Bello anche per loro, che vivono ogni istante di quella vita ritrovata nella consapevolezza che prima o dopo l’oro e i cosmi li ammanteranno di nuovo, per trascinarli verso una nuova battaglia, e una nuova morte.

“Louan” soffia Milo, un nome che sfugge alle labbra con una nota quasi di pianto.

Ta guele!” gli intima Camus, il respiro che martella nel petto e una voglia matta di prendere fiato. “Fut! Que casse pieds! Prima dici che vuoi parlare, e poi nemmeno me lo lasci fare” continua ancora, il tono che si distende, tornando alla solita inflessione, con quello strascicare la erre che Camus non ha mai abbandonato.

“Milo” lo chiama ancora Camus, stringendogli appena i polsi che tremano. “Milo. C’è una cosa. Una cosa che avrei dovuto dirti prima”.

“Una spiegazione.”

“Sì. Una spiegazione. Una storia” conferma Camus. “La vuoi sentire, questa storia?”

E Milo annuisce, muto come un bambino. Annuisce e si lascia accompagnare di nuovo alla sdraio. E aspetta. Aspetta che Camus ritorni, due tazze calde in mano e una coperta sotto a un braccio.

Louguivy, in quel momento, è il silenzio rotto solo dalla risacca lontana del mare, dietro la barriera di case basse dal tetto spiovente che hanno di fronte. È la luce debole del lampione che spiove pochi metri più in là e il silenzio della notte di un paesino di pescatori in Bretagna. Louguivy, in quel momento, per Milo, è il tepore della coperta che Camus gli ha messo sulle spalle e la sua voce che soffia nella notte.

È sempre stato bravo a raccontare, Camus. Con quel modo che ha di modulare la voce, adattandola al momento, al luogo, al personaggio. Per Milo, le storie migliori erano quelle che raccontava Camus, quelle poche volte che glielo concedeva. Crescendo, Camus non ha perso quel suo modo di raccontare, anche se non erano più fiabe di bambini, ma quotidianità.

Ma la voce di Camus ha conservato quella nota cantilenante, ritmata, con quel suo accento francese che nemmeno gli anni passati in Siberia sono riusciti a cancellare.

Ed è con quella voce, con quegli accenti, che Camus, in mano una tazza di caffè caldo con due gocce di latte, gli racconta di Ásgarðr. Della camera semplice, dalle caldi pareti di quercia, in cui si era risvegliato, dopo che aveva sentito il corpo e l’anima frammentarsi nella luce. C’era la sua armatura, in quella stanza sconosciuta, e le mani attente di una guaritrice a tastargli la fronte e il petto.

“Si chiama Elin. Ed è la guaritrice personale al servizio di Hilda di Polaris” gli spiega, gli occhi stretti a ricordare una ragnatela di rughe su un viso anziano, e il sorriso quieto, nella bocca sottile quasi sdentata, che biascicava in una lingua che lui aveva faticato a riconoscere. Parlava un dialetto stretto Elin, e lo aveva visitato con la cura e l’attenzione ruvida di quelle donne cui la vita ha insegnato ad essere pratiche prima ancora che amorevoli.

Ed era stata proprio Elin, appena lo aveva ritenuto abbastanza in forze per reggersi in piedi da solo e camminare, ad averlo fatto muovere per i corridoi del Valhalla, in una notte di neve che premeva contro le finestre piombate. Alla luce tremolante di una bugia, il passo claudicante e la sicurezza di una via affidata più alla memoria che alla vista, Elin lo aveva condotto fino ad una stanza. E poi se n’era andata.

“Chi c’era, in quella stanza?” chiede Milo, la bocca contro il bordo della tazza, le mani ancora fredde attorno alla ceramica calda. “Hilda?”

“No” lo smentisce Camus, nella voce una serietà che non appartiene al racconto. Nella voce, il timbro di un segreto, di una rivelazione che sembra esaurire tutti i perché. “Aioros.”

“Aioros?” ripete Milo, il caffè che scotta sulla lingua quanto quel nome che sa di colpe e responsabilità.

“Sì. Aioros” annuisce Camus, poggiando la tazza sul basso tavolino e stingendosi un braccio quasi con distrazione. “Ed era ferito. Brutte ferite.”

Camus ce l’ha impressa in fondo agli occhi la figura di Aioros con i segni di Einherjar a marchiare la carne martoriata. Il corpo di un ragazzo. Perché quello che Camus aveva avuto davanti, in quel momento, non era stato né l’uomo consegnato alla leggenda per il pianto di un neonato né il cavaliere ammantato d’oro e cosmo che aveva teso negli Inferi l’arco di Sagitter. Senza la sua armatura addosso, le grandi ali dorate a slanciarlo verso il cielo, Aioros gli era apparso per quello che era realmente: un ragazzo.

Un ragazzo con il viso deformato dalla sofferenza e negli occhi la maturità di chi è stato costretto a crescere troppo in fretta, di chi la vita l’ha giocata senza nemmeno sapere cosa significasse viverla davvero.

In quella stanza, con solo i barbagli del fuoco a proiettare luci e ombre e la neve a vorticare oltre le finestre piombiate, il ghiaccio come un sottile trina, Camus si era seduto accanto all’uomo, al ragazzino che aveva dato la vita per Anissa, e lo aveva guardato negli occhi. In quegli occhi febbricitanti e stanchi che raccontavano solo il desiderio di un’altra vita, di un’atra possibilità ancora. E aveva saputo; aveva capito.

Nei segni che cangiavano sul viso e sul petto di Aioros c’era tutta una storia.

C’era la richiesta di aiuto di un dio alleato e la necessità di bagnare di nuovo di sangue le lande innevate di Ásgarðr. In quei marchi che brillavano osceni, divorando cosmo e carne, c’era la promessa di una vita strappata per un istante alla morte. C’era la promessa di sentire di nuovo l’aria nei polmoni e il calore del sole sulla pelle. C’era la promessa di un abbraccio, di uno sguardo concesso anche alla foga della battaglia.

Ed era a quella promessa che Aioros si era aggrappato con tutto se stesso, con la risolutezza profonda, quasi blasfema, di un uomo che è disposto a rischiare tutto, pur di strappare un’ora, un minuto soltanto in più alla vita. A quella vita cui ha rinunciato a quindici anni, senza sapere nemmeno cosa davvero stesse perdendo.

Io non voglio morire. Non di nuovo. Non così gli aveva mormorato, il terrore e la determinazione mescolarsi in un sussurro. Ma combatterò. L’ho sempre fatto, un pigolio di normalità che non aveva il sapore dell’eroismo. È l’unica cosa che so fare aveva aggiunto, la testa affondata per metà nel cuscino, in una confessione che suonava come una condanna.

E Camus gli aveva guardato la mano, quella mano ruvida dei calli di un arciere esperto. Quella mano che, da bambino, gli era sembrata così grande e forte e sicura. In quel momento, aveva notato Camus, la mano di Aioros era nervosa e sottile.

E in quella mano, Camus si era accorto di una cosa. Di una banalità tanto semplice ed evidente da risultate quasi naturale. Di una stonatura che all’improvviso lo aveva trafitto come una stilettata. E che lo aveva fatto tremare. Dentro. Nelle viscere. Fino nel cosmo.

E che confermava la falsità di quella vita appena inciampata.

“Cos’avevi notato?” riesce a chiedergli Milo, la paura della risposta soffocata dalla sua stessa voce.

“Te la ricordi, questa?” gli chiede invece Camus, mostrandogli la linea sottile che gli attraversa il l’avambraccio. Una lunga linea che parte dal pollice e risale fin oltre il gomito, sotto la manica della camicia che Camus ha arrotolato.

“Sì” inghiotte Milo. “Sì, che me la ricordo. Hai quasi rischiato di perderlo, il braccio, quella volta.” Nella memoria il ricordo di una battaglia di ragazzini. Nella memoria, il ricordo dei cosmi che si incendiano contro il Drago di Perla e l’ostinazione di Camus di combattere anche per lui, fino a cadergli esausto fra le braccia. Un lungo taglio a squarciargli la carne, a mostrare l’osso nel ruscellare del sangue.

“Già” mormora Camus, risistemando la manica e scoprendosi invece un fianco. “E questa?” gli chiede ancora, mostrando un’ampia zona coperta da un’ustione da freddo.

“Hyoga. All’Undicesima” biascica Milo, abbassando gli occhi sulle proprie mani strette strette. Perché le ricorda bene, le cicatrici di Camus. Le ricorda una per una. Quelle di quando, ragazzini, erano caduti dai muretti a secco attorno al Temenos. Quelle ottenute nell’arena, negli allenamenti, e anche le altre, quelle nuove dell’addestramento, tributo di una corazza d’oro pagata con il sangue. E ancora. Quelle delle battaglia, strappate da dovere e determinazione.

Le conosce una per una, le cicatrici di Camus. Soprattutto quelle provocate dalle ustioni del ghiaccio di Hyoga. Le ha lavate lui, una ad una, quelle cicatrici, mentre lo preparava per la sepoltura. Ce le ha incise nella memoria, in modo quasi doloroso, e se le sente bruciare addosso ogni volta che le vede.

“Mh. E”

“Camus” lo ferma Milo, una mano stretta la suo braccio in quella confidenza che ricorda un legame, un qualcosa che si accavalla in fondo alle viscere, nella presa salda. “Dove vuoi arrivare?”

“Io ho le mie cicatrici” riprende Camus, stringendo le proprie dita alla mano di Milo. Scoprendola fredda. Molto fredda. “E tu hai le tue” continua, ignorando la sgradevole sensazione di disagio che gli stringe lo stomaco. “Aioros, invece, non aveva cicatrici.”

“Ma se hai detto che era ferito.”

Ya. Certo.”

Camus accavalla le parole, incespica lui per primo, e Milo si accorge che quello che Camus gli vuole dire è qualcosa di pesante e pericoloso. È qualcosa che fa paura, molta paura. Lo sa, lo vede: lo vede da come Camus si massaggia la fronte, con forza, cercando di trovare le parole esatte, il senso esatto di quello che gli vuole dire. Così facile; e così pesante.

“Era ferito. Sì” riprende, stringendosi un polso e passando e ripassando per riflesso il dito sul solco della cicatrice. “Ma erano ferite nuove. Recenti.”

“E allora? Aveva combattuto contro Andreas. Contro Loki. O come diavolo si chiamava. Giusto?”

“Certo che aveva combattuto” sospira Camus. “Ma non è questo il punto” riprende, frustando l’aria stanco. “Milo. C’erano solo quelle ferite. Sul corpo di Aioros. C’erano le ferite dello scontro con Loki.”

“L’ho capito, questo” replica Milo, stringendo gli occhi. “Ma cosa c’è di strano? L’hai detto tu: le abbiamo tutti, le nostre cicatrici.”

“Ti sei mai allenato con Aioros?”

“Ma che domande sono?”

“No. Intendo. Da quando. Da quando siamo…” e lascia in sospeso la frase, come se la parola scottasse sulla lingua. Rimanesse intrappolata fra i denti. “Siamo tornati.”

“Ah. Sì. Qualche volta” nicchia Milo. “Ma. Davvero. Cosa c’entra?”

“E gli hai visto le braccia? E il petto?”

“Sì. A volte” gli conferma Milo, annaspando dietro un ragionamento che gli balena davanti al naso senza che riesca davvero a capire verso cosa Camus lo voglia portare. “Capita. Lo sai. È normale.”

“E non hai notato niente?” lo incalza ancora Camus.

“Cosa avrei dovuto…Oh.”

“Appunto” sospira Camus. “Oh.”

Perché Aioros non ha cicatrici. Non ha nuove cicatrici, quelle dello scontro ad Ásgarðr. E non ne ha di vecchie, cicatrici. Soprattutto non ha nessuna vecchia cicatrice sbiadita dal tempo. Non le aveva quando si sono ritrovati, la neve a turbinare oltre una finestra e il calore di una fiamma a riscaldare corpi appena rinati alla vita. Non le aveva durante la battaglia, violenta, contro Loki, e non le aveva mentre svaniva, luce calda nello schiarirsi dell’alba. Non le aveva nemmeno quando lo hanno rivisto, un anno prima, ultimo di loro a ridestarsi dal sonno.

Aioros non ha cicatrici. Sul corpo dell’uomo, la pelle lucida e abbronzata è tesa, tonica, intatta. Anche se.

Negli occhi di Milo c’è lo stesso sgomento. La stessa sorpresa che Camus sa di aver provato la prima volta che ha rivisto Aioros. E forse. Forse c’è anche la stessa domanda. La stessa terribile domanda che gli grava nello stomaco.

Perché il corpo di Aioros dovrebbe essere coperto di cicatrici. Il corpo di Aioros dovrebbe portare su di sé una ragnatela di cicatrici, tagli precisi, netti e profondi. Il corpo di Aioros dovrebbe raccontare lo strazio di un duello, la disperazione alla vita e la determinazione di Diego nel colpirlo, nello squarciargli le carni, fino a renderle brandelli di sangue e dolore.

Eppure.

“Non le aveva neanche allora?” Milo inghiotte a vuoto, gli occhi che cercano lo sguardo di Camus. “Ad Ásgarðr, voglio dire.”

“No.”

Skaze” impreca Milo, stropicciandosi la faccia. “Hai capito che qualcosa non andava per quello. Perché Aioros non aveva cicatrici delle ferite che gli aveva inferto Diego.”

“Esatto.”

Aveva capito che davvero qualcosa non andava per quel dettaglio, per un particolare da nulla, che gli aveva fatto correre un brivido lungo tutto il corpo. E anche Aioros aveva capito. Perché, negli occhi di Aioros, in fondo in fondo, c’era un misto di terrore e pietà verso se stesso che. Faceva male, ecco. Faceva un male cane. Perché vedere Aioros, vedere quell’uomo con quella piega amara sulle labbra, con quell’espressione mista di impotenza e disperazione era. Era qualcosa che Camus non era pronto ad affrontare. Non lo sarebbe mai stato.

“Ma quelli erano i nostri corpi” tenta ancora Milo. “Cioè. Io avevo la ferita alla coscia. Ricordi? E quella al ginocchio. Quella che mi hai fatto tu. Da bambini. Con quel sasso. E tu”

“Io avevo le mie cicatrici, sì.”

“Quindi ho ragione. Erano i nostri corpi” incalza ancora. “E Aioros. Anche quello doveva essere il corpo di Aioros.”

“Non lo so” sospira Camus. “Davvero. Non lo so.”

“Ma allora” balbetta Milo, stringendo la lingua fra i denti. Per non bestemmiare. Per non lasciarsi sfuggire una parola che è delirio anche solo il pensare. Perché significa ipotizzare qualcosa; una cosa, che solo agli dei sarebbe concesso pensare. Perché significherebbe scoprire cosa esattamente Anissa ha pagato, in cambio del loro ritorno. Del ritorno di tutti loro. Del ritorno di Aioros.

“Allora” soffia, la voce un tremito che viene preso dal vento. “Allora Aioros. Il suo corpo. Tu. Tu pensi.”

“No, Milo” lo ferma Camus. “Io non ci voglio pensare. Davvero. Non voglio.”

“Perchè?”

Camus. Dimmi perché. Da quando hai così paura di guardare in faccia la realtà?

“Perché” espira Camus, la lingua a sfiorare le labbra, cercando nella gola le parole che se ne restano lì, incastrate senza riuscire ad uscire. “Perché poi penserei ad altro. E non voglio pensarci, a quell’altro.”

Perché penserebbe ad Oskars. E a Isaak. Penserebbe a chi ha perduto. A suo padre. A sua madre. A Nevena, a quella sorella presa in braccio per deporla in una piccola bara bianca. Penserebbe a qualcosa che ha davvero il sapore del tradimento. E allora. Allora per la prima volta. Allora davvero, per la prima volta nella sua vita, Camus sarebbe disposto a mettere in discussione se stesso e la lealtà totale, la devozione assoluta che ha scelto di esercitare nel servire Anissa.

Ma se ci penso. Se la risposta fosse quella che penso.

Se davvero quello che lui e Milo hanno immaginato fosse la realtà, allora. Allora sarebbe come morire. Di nuovo. Sarebbe come trovarsi di nuovo sulla bocca dell’Abisso, e vedersi strappare. Sentirsi riportare indietro, con la consapevolezza di non poter afferrare nessuno. Che tutto è aria fra le dita. Significherebbe essere sopravvissuti. E sentirsi addosso tutto il peso, di quella vita ritrovata per inciampo, nel sorriso spietato di Anissa.

“Perché sarebbe blasfemo?”

“Forse. Sì” soffia Camus. “O più semplicemente perché non potrei accettarlo.”

Glielo dice così, con quella semplicità disarmante che fra loro è sempre stata la confidenza. Glielo dice così, i capelli a spiovere sul viso e la candela a tremolare nel ristagno di cera liquida che è rimasto. Glielo dice con tutta la semplicità e la confidenza di cui è capace. Sapendo. Sapendo che Milo lo capirà. Sapendo; confidando in quel qualcosa. In quell’amicizia che li ha legati e che Camus sa, cocciuto, ostinato, che non può essere semplicemente infranta così. Come un cristallo sulla roccia. Perché i cristalli sono duri, sono tenaci.

“Va bene” acconsente Milo. “Non ne parleremo. Non questa sera, almeno” gli promette, le dita veloci a sugellare quella promessa. Ma sanno entrambi che è solo un discorso lasciato in sospeso; sanno entrambi che è qualcosa che hanno scoperchiato e con cui prima o dopo dovranno confrontarsi.

Ma non questa sera si ripete Milo. No. Non ce la farei. E nemmeno tu.

Perché Camus è raggomitolato su se stesso, le braccia attorno alla pancia e quell’abbandono che Milo ricorda di avergli visto quando qualcosa lo sta trascinando a fondo. E il pensare. L’ipotizzare quello che Anissa ha fatto per loro, e per Aioros. Sfiorare quel pensiero su cui nessuno di loro ha mai voluto davvero soffermarsi è. È qualcosa che non sono pronti a sostenere.

Perché se Milo ha avuto i suoi lutti e le sue tragedie, ha riavuto indietro Camus, ha riavuto l’amico più caro al fianco. Mentre Camus. Camus si è solo visto strappare uno alla volta affetti e porti sicuri. E pensare. Pensare che Anissa abbia fatto qualcosa, qualcosa che va oltre a un diritto di guerra, allo scotto richiesto dal generale trionfante sul nemico sconfitto. Milo crede che sia pericoloso, e blasfemo, il pensarlo. L’avventurarsi in un pensiero del genere. Ciò che è successo nei Cieli dovrebbe restare nei Cieli. Anche se le domande sono molte, a volte troppe. E non basta il sorriso quieto di Anissa e la durezza del suo sguardo che sa più di ordine che di invito a metter a tacere certi pensieri.

“Prima o poi il discorso salterà fuori. Lo sai anche tu. No?” riprende Milo.

“Prima o poi. Sì. Lo so” gli concede Camus. “Non questa sera però. D’accord?”

“Te l’ho promesso. E sai che quando prometto…”

“…prometti. Sì. Lo so.”

Non ci pensare si impone comunque Camus, gli occhi stretti stretti e i denti a mordere le labbra, in un dolore che rilascia nervosismo e angoscia.

Re” lo richiama Milo, raccattandogli una mano troppo fredda per essere solo dovuta alla notte umida di quel settembre avanzato.

“Hai freddo?” lo sorprende Camus, ricambiando appena la sua stretta.

“No. Non molto” mente, muovendo di riflesso le dita. Perché invece inizia davvero a sentire freddo, su quella sdraio, in quel giardino di settembre, la notte bretone ventosa nelle ossa e il richiamo del mare nelle orecchie. E avrebbe voglia di un fuoco, o almeno di una coperta. Ma sa anche che non si muoverà da quella sedia.

Dovessimo fare mattina.

“Bugiardo” sorride Camus, e in quel sorriso sottile e aperto, Milo rivede uno scampolo di infanzia.

“E perché?”

“Stai tremando” gli fa notare Camus, una mano sul suo ginocchio come a sottolineare la veridicità di quelle parole.

“Ah. Ops.”

“Già. Ops” ridacchia appena. “Aspetta.”

E Milo aspetta.

Aspetta sentendo i denti che vorrebbero sbattere fra loro e chiedendosi da quando, in Francia, faccia così freddo. O se forse. Forse non sia solo lui a sentirlo, quel freddo. Se quel freddo che sente dentro, nelle ossa, non sia il vento che soffia dal mare, ma sia paura. Paura di sentire verità e segreti che ha rincorso per un anno, contro cui è andato a sbattere per un anno intero, per scoprire di non sapere più se è davvero pronto, a quelle risposte. Perché. Perché vorrebbe dire qualcosa. Qualcosa di ancora più grande e complesso e potenzialmente devastante di quanto già non sia la consapevolezza del tradimento di Camus.

Ma ormai sono in ballo si dice, sfregandosi le mani sulle braccia e massaggiandosi la faccia. Dentro starebbero meglio. Dentro, davanti al camino, c’è un tappeto. Un tappeto dal pelo lungo e caldo. Potrebbero accendere il caminetto, e sedersi lì. Potrebbero parlare affondando la testa nei cuscini del divano, Camus seduto sulla poltrona, le gambe accavallate e quel modo che ha di mettere i gomiti sui braccioli. Quel modo quasi aristocratico che gli ha sempre deriso. E lui. Lui probabilmente si stenderebbe sul divano, la coperta di cotone spesso, quella con le righe blu e nere e bianche, e una gamba buttata sul tavolino basso. O aldilà della testata. Non gli è mai piaciuto sedersi composto, in fondo.

Sì. Dentro si starebbe meglio si ripete, mentre Camus trascina un vecchio braciere, di quelli di ferro, e lo sistema fra loro, davanti alle sdraio. Ma non sarebbe la stessa cosa considera ancora Milo, un accenno divertito sulle labbra, mentre osserva Camus piegato sulla legna soffiare per strappare una scintilla agli sterpi e alla carta.

Mat eo” sbuffa Camus, risollevandosi. “Fra un po’ starai meglio” continua, risistemandosi sulla sdraio, al suo fianco, e recuperando dalla tasca un fazzoletto per pulirsi almeno un po’ le mani sporche di cenere e nerofumo.

Milo stringe le spalle e allunga le mani verso le fiamme. No. Non sarebbe la stessa cosa si ripete, sentendo il calore riscaldare timido l’aria attorno al braciere. Lo so io. Ma lo sai anche tu riflette, nascondendo nell’ombra del cappuccio la smorfia di sorriso nello scorgere una lunga scia di fuliggine sulla guancia di Camus. È una sciocchezza, ma per Milo è qualcosa di molto semplice, e di molto umano. Qualcosa che rende Camus di nuovo l’amico di un tempo, quello che, in Siberia, quando arrivava, metteva sempre due ciocchi in più nella grande stufa in fondo all’izba, e ci sistemava sopra due polati, assieme al materasso e alle coperte, quelle pesanti foderate di pelliccia di orso o cervo.

Per questo resterà davanti a quel braciere. Per questo e per sentire il resto della storia, della verità che Camus vuole raccontargli. Perché se entrassimo. Se entrassero, Milo sa bene che starebbe più caldo e più comodo, ma sa anche che tutto cambierebbe. Sa che Camus tornerebbe rigido e compassato, e che faticherebbe a cavargli due parole di bocca. Perché Camus è fatto così. Camus è capace di parlare e chiacchierare e confidarsi meglio, quando non si riesce a vederlo bene in faccia. Quando la sua faccia è solo una danza di ombre, nella luce tremolante di un fuoco o di un temporale. O anche solo nelle ombre di una notte qualsiasi, di maggio o di novembre.

Per questo non si muoverà da quella sdraio, anche se crede di avere le dita blu e il giorno dopo avrà la bocca spaccata, per quel vento maledetto che si insinua nelle strade, portandosi dietro il profumo del mare e della pioggia.

Milo alza appena la testa al cielo.

Sono arrivati che c’era una distesa di stelle e pochi lampioni a rubarne la lucentezze; adesso, ci sono nubi dense e scure che si stanno rincorrendo dal mare, portando con sé aria umida e fredda.

“Domani pioverà” commenta Camus, il naso all’insù a seguire i suoi stessi pensieri. Per prendersi un momento, un istante da quel ricordare che Milo agogna e Camus. Camus sembra non saper bene come gestire. “Il mare si mangerà mezza spiaggia, vedrai. E se inizierà prima, sentirai la campana. Perché le barche devono essere fissate per bene” prosegue, pescando dalla tasca della field un accendino e un pacchetto di sigarette. “Ma il mare lo conosci anche tu” soffia assieme al fumo, in un respiro lungo e lento.

“Auraur lo sa?” si distrae Milo, allungando la mano al pacchetto mezzo accartocciato che Camus ha lasciato sul tavolino, fra le tazze di caffè ormai freddo e due bottiglie di sidro vuote.

“Hm?”

“Che fumi” precisa ancora Milo, prendendo una sigaretta e iniziando a piegare il cartone. Due pieghe nette, verticali, lungo l’asse centrale.

Que con” ridacchia Camus, la mano alla bocca e un puntino rosso acceso a bucare la notte, lì dove si confonde con il riverbero del fuoco. “Ma se sono le tue.”

Ara?” e Milo rigira il pacchetto, bianco con un mezzo cerchio blu. C’è un pezzo di Russia, su quel pacchetto, e la scritta Bielomor in cirillico sopra. “Ma ce le hai ancora?”

“Le avevi dimenticate” scrolla le spalle Camus, espirando piano il fumo del nuovo tiro. “E quindici rubli sono sempre quindici rubli. Che dovevo fare? Buttarle?”

“Quindi” sorride Milo. “Hai pensato bene di fumartele” alludendo al pacchetto spiegazzato e mezzo vuoto.

“Le fumava Oskars” puntualizza Camus, gettando il mozzicone nel braciere. “Poi. Dopo che è morto. Non lo so. Mi devono essere rimaste in tasca. Tutto qui.”

Tutto qui? vorrebbe chiedergli Milo, ma non lo fa.

Aspira piano invece una boccata, lento, misurato. Il tabacco è vecchio, ma ha ancora quel suo gusto strano, quasi leggero, di carta e cartone piegato. Gli ricordano la Russia e le sue fughe in Siberia, quando qualcosa non andava. Quando al Temenos la situazione si faceva tesa, o quando litigava con Kostas. O anche solo per nostalgia.

Perché è la nostalgia, ciò che li ha tenuti insieme, in quegli anni. Sotto varie forme e sotto vari aspetti, ma sanno entrambi che ciò che li lega è prima di tutto nostalgia. Di una vita mai vissuta; di una realtà mai sperimentata. Nostalgia di una normalità che hanno costruito solo camminando l’uno accanto all’altro. Anche verso la morte. Anche con un pacchetto di sigarette in tasca e un paio di occhiali da sole dimenticati in una casa sospesa sopra una caletta.

“Faccio dell’altro caffè” borbotta Camus all’improvviso, raccattando le tazze e avviandosi verso l’ingresso. “Sempre lungo. Vero?”

“Mmh” annuisce Milo, soffiando piano, gli occhi incatenati al fuoco. “Senti. Nella credenza.”

“Sì. L’avevo vista.”

“Bene” commenta Milo, dondolando appena fra loro le braccia. “Ne ho bisogno. Davvero.”

“Anch’io. Credimi.”

I tempi morti vanno bene.

I tempi morti servono per digerire le cose, per assimilarle. Quando ci sono i tempi morti, Anatolij diceva che la testa, anche quella più dura, riusciva sempre alla fine a trovare un equilibrio. Perché alle cose, a quelle importanti, a quelle che ti lasciano a terra, quando ti investono all’improvviso, ci devi arrivare piano, un passo alla volta.

Per questo i tempi morti servono. Assieme ad una tazza di caffè.

Camus è cresciuto con questa idea in testa. È cresciuto così, l’odore pungente della neve a mescolarsi con quello del caffè, rinforzato con vodka e pinoli, che riempiva l’izba, quando le provviste scarseggiavano e si doveva stringere la cinghia. O almeno la stringeva Anatolij. Chè a loro, a lui e Oskars, la cinghia ha sempre cercato di farla stringere il meno possibile, almeno fino a quando erano ancora dei bambini. E poi. Poi ha iniziato a farlo bere anche a loro, il caffè. Una caffè che a volte ricordava una brodaglia insapore e che giusto giusto otteneva quel sapore tostato accettabile grazie ai pinoli; un caffè che a volte, invece, ben filtrato, era un piacere da gustare piano, in una bella tazza grande, le mani scorticate e anchilosate dal freddo e il calore della stufa a risalire nelle ossa.

Ma il caffè è anche Louguivy. È il ricordo di mamie che macinava i chicchi, delle krampouezh che sfrigola e di un paio di calzoncini corti sulle ginocchia sbucciate.

Per questo, mentre prende lo stantuffo e controlla il bollitore sul fuoco, Camus respira a fondo. C’è un aroma particolare, in cucina: un misto di metallo riscaldato, vapore caldo e polvere di caffè. Un profumo forte, denso e speziato che lo rilassa, gli restituisce un senso di tranquillità e serenità. Di pace. Anche in quella cucina, e in quella casa.

Per questo ha deciso di prendersi il tempo necessario. Un tempo morto, appunto.

Sbircia dalla finestra. Milo è un fagotto sulla sdraio, le mani al braciere e il cappuccio in testa. Ha freddo, lo sa. Ma sa anche che non ha intenzione di schiodarsi da quella sedia finchè non avrà ricevuto tutte le risposte che vuole; e che merita di avere. E Camus sa anche che si intestardirà a restare lì fuori per lui; perché lui parla con più tranquillità, quasi con più scioltezza, nell’aria frizzante nella notte.

Non può finire così si dice, mentre allinea le tazze sul bancone e versa nella caffettiera il caffè macinato grossolanamente, un miscuglio di polvere e grani che solletica il naso. Non posso perderlo. Non così si ripete ancora, nelle mani e nello stomaco un tremore che conosce. Perché è lo stesso che ha provato quando è stato strappato da Quay e dalle braccia di mamie. A sette anni appena compiuti. Quella sottile consapevolezza di qualcosa che si sta per lasciare, senza avere la sicurezza di poterla ritrovare. Come lo strap netto e secco delle cerate gelate che coprono le barche, d’inverno. Camus lo conosce bene, quel rumore: un rumore secco, sordo, netto. Il rumore di qualcosa che si lacera, senza più poter tornare indietro.

Lo ha sentito come un’eco, mentre saliva le scale del Temenos, una surplice a vestirlo e la dedizione mascherata da tradimento. Strap. Ogni gradino era una lacerazione in più, un taglio netto che non si sarebbe mai rimarginato. Strap. Gli occhi rabbiosi, febbrili di Milo. Strap. Le mani di Milo alla sua gola, la pressione della sua delusione.

Strap. Lo ha riavvertito quella mattina, quando Milo è arrivato alla Crêperie. E lo sta risentendo adesso. Un suono lento, lento: quella esse che si sta allungando sempre di più, in uno stillicidio che preannuncia il rumore netto e secco. E Milo si trova lì, in bilico su quello strappo, portandosi appresso quello che resta della loro amicizia. E Camus, a quell’amicizia, non ha alcuna intenzione di rinunciare.

Per questo, mentre versa l’acqua bollente e preme lo stantuffo, sa che prenderà le tazze e la bottiglia di grappa dalla credenza. E tornerà fuori. Tornerà da Milo. E faranno mattino a parlare. Perché ha tutta l’intenzione di raccontarglielo, quello che è successo ad Ásgarðr. Tutto per filo e per segno, come dev’essere. Come avrei dovuto fare da subito.

E non darlo per scontato. Perché è stato quello, l’errore. È stato pensare che Milo sapesse. Che qualcuno gli avesse spiegato ogni cosa. O che. Che non servissero le spiegazioni. Ché Milo avrebbe accettato tutto senza protestare; avrebbe accettato quel suo atteggiamento assurdo senza batter ciglio. E sarebbe stato disposto a far tornare tutto come prima; come sempre.

Que bordel sospira ancora, le mani nello strofinaccio e un senso di stanchezza che gli preme nell’anima. D’accord sbuffa, afferrando le tazze e la bottiglia e due bicchierini da grappa. Questa volta tocca a me, raccattarci. È giusto così. Proviamoci.

E se lo ripete, mentre torna in giardino, il caffè caldo nelle mani e una spavalderia che fa a pungi con il terrore di perdere tutto.

Milo ha le gambe al petto e gli occhi socchiusi fissi sul fuoco, quando Camus gli allunga la tazza e stappa la bottiglia.

Tsipouro” commenta, un sorso abbondante ad allungare il caffè che Milo gli porge. “Un tuo regalo, immagino.”

“Già” scrolla le spalle Milo, facendo oscillare piano caffè e grappa. “Ninenn la voleva assaggiare” aggiunge, la lingua impastata dal freddo e dai ricordi. “Ce ne siamo bevuti mezza bottiglia, quella volta. Ninenn, Fantin e io. Ne avevamo bisogno. Tutti e tre.”

“Quella volta?” chiede Camus, una curiosità distratta.

“Sì” mormora Milo, le labbra nella tazza. “Per il funerale di Hoela” aspira, raccogliendo aria. “Per il funerale di tua madre.”

Perché c’era Milo, quando Hoela è morta. Perché c’era Milo, in quella casa, quando sua madre è morta, Camus lo sa. Sa che Milo ha fatto quello che lui non poteva più fare.

Ha stretto Auraur e il suo dolore; ha accompagnato mamie dietro alla bara; ha ascoltate i borbottii e i mugugni di Fantin. Ha raccolto il ricordo di una vita che si era consumata piano piano, nella speranza di veder tornare quel figlio che le era stato strappato di aprile, il mare che montava e la disperazione a scavare nella pancia. Ed è stato con Milo che sua madre ha trascorso gli ultimi mesi della sua vita. Con un ragazzo incontrato per caso, che le raccontava di Louan, e che di Louan voleva sentir raccontare.

Un ragazzo che si portava addosso l’odore del mare, e il profumo caldo del sole. Di quella terra che le aveva rubato Louan a sette anni, e non glielo aveva più restituito.

“Non ti ho mai ringraziato, per esserci stato.”

“Eravamo amici” nicchia Milo, un ciocco che si aggiunge agli altri in uno sfavillio di scintille.

Eravamo.

Camus sente il cuore mordergli nel petto.

“E Hoela era una donna fantastica. Davvero. Si meritava accanto qualcuno che ti rappresentasse. Anche se ti eri fatto ammazzare.”

“Me lo rinfaccerai a vita” borbotta Camus. “Vero?”

“Vero” conferma Milo. “Certi privilegi vanno esercitati.”

E restano così, il ricordo di una donna magnifica ad aleggiare nei riflessi del fuoco, il dolore per una morte mai davvero cercata e una complicità che riaffiora con la leggerezza di una farfalla d’inverno, tremula e fragile. Un qualcosa che non è ancora sparito, e non si riesce davvero a recuperare.

“Milo.”

“Mm?”

“Grazie. Davvero.”

Milo non risponde.

Perché non c’è nulla da rispondere. Perché ha un nodo alla gola, dal sapore di caffè e anice. Ed è un nodo che gli lascia addosso, di nuovo, come già altre volte in quella serata ormai diventata notte inoltrata, la sensazione di essere un funambolo.

Si sposta i capelli, in un gesto che è suo e che non sembra dire nulla. Ma è un modo comodo per osservare Camus: la bottiglia di Tsipouro a versare un sorsata generosa nel caffè saporito e corposo.

Già ride di se stesso. Proprio come due funamboli.

Perché Camus ha la sua stessa faccia. Dietro all’aria compassata e alla smorfia per il sapore forte e dolciastro dell’anice, Camus ha la sua stessa voglia di riparare ogni cosa. Anche se volesse dire passare la vita a camminare sul filo di un equilibrista, un ombrellino in mano e la speranza un po’ sciocca un po’ infantile che qualcuno, sotto, abbia per caso dimenticato un materasso.

Abbiamo rimandato troppo sembra volergli dire Camus, gli occhi sulle fiamme del braciere mentre soffia piano per raffreddare la tazza, la lingua che scatta e si ritrae in un gesto buffo, da bambino, appena prova a bere un po’.

E Milo si ritrova a ridere senza davvero spiegarsi il perché. Una risata sottile, che gli allarga le labbra e gli fa comparire due fossette che salgono a illuminargli gli occhi di una sorta di leggerezza, di spensieratezza troppo a lungo dimenticata.

Camus se ne resta così: la tazza bollente contro le labbra e due occhi smarginati che sembrano non volerci credere, a quel sorriso aperto che Milo gli sta rivolgendo. Neanche fosse una bestemmia sputata in faccia. Forse perché era da tanto che voleva vederlo, quel modo di sorridere di Milo che gli ha sempre dato la sicurezza che, in un modo o nell’altro, le cose sarebbero andate bene. Anche quando bene non andavano e alla fine di quel sorriso non c’era più traccia e a restare era solo il conto dei morti in battaglia.

O forse solo perché non ci sperava più, di vederlo di nuovo, quel sorriso. E di vederlo rivolto a lui. Quel sorriso che per Camus ha sempre significato casa, anche in mazzo all’infuriare della battaglia.

“Perché ridi?” gli chiede, sentendo a sua volta le labbra sfumare di riflesso.

“Così. Ne ho voglia” gli risponde Milo, stirando le braccia e risistemando il cappuccio della felpa. “Non ricordavo che a settembre, qui, facesse così freddo” continua, incrociando le gambe sulla seduta e raccogliendo nelle mani la tazza fumante.

“È il noroît” gli spiega Camus, allungando l’indice verso i tetti scuri delle case, aldilà della stradina. “Te l’ho detto. Sta montando dal mare, e si porta dietro una vera tempesta.”

Eis Keramion” gli replica Milo, mostrandogli il palmo della destra, le dita ben aperte con un na che si arrotola ad uno sbuffo di insofferenza e riso. “Perché devi sempre trasformare tutto in una lezione?”

“In realtà, stavo cercando di fare conversazione” puntualizza Camus, versando mezzo bicchierino di grappa e svuotandolo con una disinvoltura fluida.

“Anche di ubriacarti, mi sembra.”

“È solo il primo” sbuffa Camus, posando il bicchierino sul tavolino di plastica. “In Russia è normale. Lo sai: aiuta a scaldarsi” continua, versandosene ancora. “E aiuta anche a sciogliere la lingua”, e io ne ho bisogno, questa sera si dice, mentre svuota anche il secondo.

“Lo sai che è una cazzata?” lo ferma Milo, prendendogli la bottiglia e ridendo del modo che ha Camus di soffiargli il suo disappunto, arricciando il labbro inferiore e socchiudendo gli occhi lucidi.

“Cosa? Che riscalda o che scioglie la lingua?” sorride Camus, allungando la mano verso la bottiglia.

“La prima di certo” ride Milo, spingendolo di nuovo indietro. “E anche la seconda, nel tuo caso, non so quanto possa valere.”

“Ma non siete voi greci che dite in vino veritas?”

“Sì. Qualcosa del genere” borbotta Milo, finendo di tappare per bene lo Tsipouro. “Ma bisogna comunque restare un po’ lucidi, per parlare.”

“Ti sembro forse brillo?”

“Per ora no” concede Milo, piazzandogli davanti alla faccia la tazza di caffè tiepido e profumato. “Ma se continui così, invece che parlare ti ritroverai a biascicare.”

“Esagerato” nicchia Camus, concedendosi un lungo sorso di caffè e una scrollata di spalle. “È successo solo una volta” aggiunge poi, le gambe che si allungano e il cuscino che ha recuperato dal divano sistemato sotto le reni.

Tu te ne ricordi una sola” ride Milo, la testa gettata al cielo sempre più scuro e un tremito di leggerezza a percorrerlo. “Ma io me le ricordo tutte” prosegue, il fuoco che strappa agli occhi un luccichio di freschezza rilassata, di complicità che scorre sottopelle. “Davvero. Non capirò mai come facevi, in Russia. Anche Hyoga, a quindici anni, reggeva meglio di te.”

“Non sono poi così negato” replica Camus piccato, incrociando le braccia comunque divertito da quello scambio che sa di passato e nostalgia.

“Non ci sei neanche portato” gli risponde Milo. “Cazzo. Perfino Mur e Shaka reggono l’alcool meglio di te” continua, soffiandogli una verità che Camus non ha mai digerito e che Milo si divertiva a sottolineare ad ogni occasione.

Que bâtard” gonfia le guance Camus, affondando il naso nella tazza e affettando uno sdegno esagerato ed esasperato da essere falso come una moneta da tre franchi. “Come non ce li avessi anche tu, i tuoi punti deboli.”

Fisikà” concorda Milo, la testa che va a destra e sinistra con energia. “Ma almeno io non li faccio conoscere.”

C’è qualcosa di rassicurante, in quel modo di scherzare, di stuzzicarsi, nelle mani una tazza che va raffreddandosi e il profumo forte e salino del mare a mescolarsi con l’aroma di caffè e pinoli tostati, nel retrogusto di anice e liquore caldo.

C’è qualcosa che fa sì che si guardino, sorpresi delle loro stesse espressioni, di quell’accenno di sorriso che s’intravvede appena, nei riverberi del fuoco e del pizzicorio strano, inaspettato, di sentirsi spalla contro spalla, di riavvertire quel contatto accennato che capitava sempre, dopo ogni volta che avevano litigato.

Ed entrambi ricordano di aver litigato più di una volta; tante volte. Per i motivi più seri; e per quelli più futili. Litigato per un gatto raccattato per strada a Rodorio. Un gatto che Camus si era intestardito a voler tenere e da cui Milo riceveva solo unghiate e soffiate da leone. Ce le ha ancora le tre sottili cicatrice che quel gattaccio gli aveva rifilato al loro primo incontro, sulla pelle tesa fra pollice e indice.

Oppure quella volta che hanno litigato per il dopobarba. Quello dal profumo sofisticato e fresco che Camus centellinava come fosse acqua della vita e che Milo adorava. Glielo aveva fregato per un appuntamento, e non lo aveva centellinato, lui. Affatto.

E poi ancora. Una maglietta finita nella valigia sbagliata. Il disordine di Milo e i tentativi di Camus di rimettere tutto a posto. Le due fette di pita condite con melitzanosalata per rimediare una cena bruciata da Camus.

Hanno litigato ancora per delle stupidaggini. Delle vere stronzate sogghigna Milo, e nel sorriso di Camus indovina lo stesso pensiero.

Ma abbiano litigato anche per cose serie sembra dirgli Camus, occhieggiando al taglio sottile, a forma di virgola, che segna il mento di Milo, sotto l’ombra leggera di barba. Quella cicatrice che mostra come un vanto, ottenuta scontrandosi con Ettore, o almeno con la cristallizzazione della volontà di Ettore domatore di cavalli. Quella volta Milo aveva rischiato troppo, per onorare in battaglia un uomo nel cui mito e nelle cui leggende era cresciuto. Quella volta Milo si era spinto fin quasi al limite, lui di solito così scettico, così circospetto anche.

Avevano litigato, dopo quella battaglia. Tanto. Come solo loro riuscivano a litigare. E si erano lasciati con parole che maceravano nello stomaco, e un bel livido sotto l’occhio di Camus.

Perché Milo è così: Milo è sagace, è sottile.

Milo possiede l’anima autentica della sua terra. Milo piega il ginocchio ad Anissa, la venera e la rispetta, la serve con una devozione che non ammette concessioni. Eppure. Eppure Milo è portato alla logica, alla critica. È il primo che giura lealtà e il primo che stressa la sua fedeltà. Guarda anche sotto la superficie, Milo, in un modo che è solo suo, che ha messo in gioco anche la realtà monolitica del Temenos, con la forza di guardare in faccia i propri errori e le proprie errate convinzioni.

Camus invece.

Camus è un fascio di emotività. Un grumo di emozioni provate e mai ostentate. Camus è un uomo che ha fatto del dovere il proprio equilibrio, e che ha dedicato tutto se stesso ai suoi affetti. Costringendosi in atteggiamenti che non gli sono mai appartenuti, piegando il suo carattere alla necessità. Camus è sempre stato anche un uomo con dei rimpianti: per la vita in Bretagna strappata, per il non esser riuscito ad essere per Isaak prima e per Hyoga poi quel maestro, quella guida, che Anatolij era stato per lui. Per essere andato avanti, anche. Per aver deciso che il passato appartiene al passato, e quello su cui si sarebbe sempre dovuto concentrare è solo il futuro.

Ma Camus ha anche imparato a fidarsi, della capacità di Milo di analizzare la realtà. Ne ha apprezzato la razionalità sottile, a tratti pungente, e quella abilità che ha sempre avuto di mettere a nudo ogni azione. Di mettere a nudo lui, e le sue di azioni. Come quando era sceso alla Settima. E Milo lo aveva costretto a tirar fuori tutto il dolore e l’acredine che gli rimestava nello stomaco dopo esser stato costretto a scontrarsi con Hyoga. Dopo aver dovuto scegliere se lasciar andare avanti un ragazzo che amava o trovare un modo per proteggerlo anche da se stesso.

Milo è così.

E allora perché non hai capito gli vorrebbe chiedere Camus.

Perché il Milo che ha affrontato ad Ásgarðr. Il cavaliere con cui ha combattuto, con il cosmo che saliva alle stelle e il clangore dell’oro a fagocitare il silenzio della neve, non era lo stesso cavaliere che ha sottoposto Kanon di Gemini a un’ordalia di sangue, prima di riconoscerlo.

Il Milo che ha affrontato ad Ásgarðr era il Milo dei quindici anni, un ragazzo sottile, risoluto, ma che cedeva ancora alla passione, all’intemperanza di un sangue giovane e forse, a tratti, troppo focoso.

Il Milo di Ásgarðr era il Milo che si intestardiva a provocare e non voleva ascoltare verità troppo scomode o ingombranti, quando non era pronto ad affrontarle. Era il ragazzino che gli ha messo il broncio quando si è accorto dell’affetto forte, profondo, che aveva iniziato a provare per Isaak e per Hyoga. Era il ragazzino insofferente, quasi geloso, del legame che l’addestramento prima e la vita poi aveva creato fra lui e Oskars.

Ma era anche lo stesso cavaliere che aveva donato il proprio sangue per Hyoga e la sua armatura. Lo stesso uomo che, a pezzi, si era assunto il compito di rimettere in sesto un ragazzino in frantumi quanto lui. Accogliendolo sotto la propria protezione, facendone quel pupillo che lui, da maestro, non era mai riuscito a riconoscere.

Perché non hai provato a capire? Perché non hai avuto nemmeno un dubbio? si chiede ancora Camus, un ciocco a ravvivare il fuoco e una sigaretta recuperata per distrazione a consumarsi pigra fra le dita.

“Senti” lo richiama Milo, un fagotto sulla sdraio, le fiamme vive negli occhi e un discorso a mezza bocca che racconta la voglia di andare avanti. “Mi conosci. Lo sai che sono testardo.”

“Un vero mulo. Sì” gli riconosce Camus, strappando a se stesso e a Milo un mezzo sorriso. “Ma sei anche razionale.”

“Già” sorride appena. “Ma sai anche come reagisco, quando sono preso in contropiede. Quando vado a sbattere contro qualcosa che non mi piace.”

“Mmh.” Camus annuisce appena, la sigaretta un lungo tiro trattenuto per non rompere l’equilibrio del momento.

“Tu mi hai preso in contropiede” confessa alla fine Milo, stringendo le spalle. “Perché non me l’aspettavo. Cazzo. Non me l’aspettato proprio. E mi ha fatto male. Davvero.”

“Non era nei piani. Je le jure” mormora Camus, spegnendo il mozzicone sul bordo del braciere. “Solo. C’eri tu. E non avevo scelta.”

“Dio. Sei stato un attore perfetto. Ci ho creduto davvero. A tutto” bofonchia Milo, soffiando sulle mani chiusa a coppa. “Potevi provare a spiegarmi.”

“No, che non potevo” ribatte Camus, e muove la mano, con forza. “Era un rischio troppo grande.”

“Per quello che ti aveva detto Aioros? Per quello che vi siete raccontati?”

“Sì. Anche per quello. Sì” e gli lancia un’occhiata che vale più di mille parole, mentre riprende a raccontare.

Di Aioros. Della sua voce stanca, un rantolo strappato al soffio violento del vento. Dell’idea che gli si era formata nella testa, in quei giorni sospesi nel delirio. Di come ancora avesse gli occhi lucidi e il viso arrossato e un tremito per tutto il corpo, per la febbre che le ferite e la debolezza gli procuravano. E di come fosse convincente. Dannatamente convincente nel far tornare ogni cosa. O forse. Forse era solo lui che aveva bisogno di trovare una spiegazione valida a quello che stava accadendo, e Aioros era il primo che gliela avesse offerta. Corredata di prove, tra l’altro. Delle ferite e dei marchi che gli segnavano la carne. E di come avesse avuto a disposizione tempo, per ragionarci; da solo o con Hilda, le rare volte che la Sacerdotessa riusciva a intrattenersi con lui.

“Io in quel letto ci sono stato tre giorni” precisa Camus. “Aioros quasi una settimana.”

“Una settimana?” ripete Milo.

“Una settimana. Già.”

“Ma non ha senso! Io, Mur e Aioria siano scesi negli Inferi subito dopo che. Che tu. Che voi.”

“Che io, Saga e Diego abbiamo ucciso Anissa” completa Camus con una naturalezza che fa accapponare la pelle. “Puoi dirlo. È quello che abbiamo fatto. Non intendo negarlo.”

Milo stringe aria fra i denti, scoprendo appena le labbra che si tirano di riflesso in un digrignare che sa ancora di rabbia. Ma non è più il momento per recriminare o addossare colpe, si dice anche. Camus le sue ha scelto di portarle; e lo fa a testa alta. Senza chiedere pietà o aspettarsi perdono. Lo fa nella consapevolezza di aver agito percorrendo l’unica strada che gli si era offerta.

Quindi, decide, non sarà lui a scagliare una pietra per nascondere la mano subito dopo. Visto che ha anche lui azioni e scelte che gli pesano sulla coscienza e che non ha intenzione di ricusare nascondendosi dietro raggiri o false certezze. Peggio che farlo con un dito.

“Sì. L’avevo capito” soffia piano, lasciando a quelle parole il senso di una decisione che è un passo in avanti. “Ma una settimana comunque è troppo tempo! Non siamo rimasti tanto, laggiù.”

“Ha perfettamente senso invece.”

“E come?”

“Rifletti” lo invita Camus, le mani strette fra le ginocchia e il corpo che si inclina verso Milo, in una ricerca di complicità e confidenza che li ha sempre accomunati. “Per te erano passate poche ore. Ma ad Atene, ad Ásgarðr era trascorsa quasi una settimana. E questo può succedere solo”

“Solo se il tempo scorre diversamente” conclude per lui Milo, avvicinandosi di riflesso. “Sì. Così ha un senso. Negli Inferi è una notte eterna. Ed eterno significa in definitiva senza tempo.”

“Mmh” annuisce Camus. “Dopo. Lo sai. Dopo il Muro del Pianto, Odino ci ha riportati in vita. Ma deve essere stato possibile con tempi diversi.”

“Ecco spiegato quell’orribile pizzetto di Death” sogghigna Milo.

Ouis” sorride di riflesso Camus. “E il perché Aioros abbia avuto il tempo di farsi un’idea, di quello che stava accadendo.”

“E di parlarne con te, anche.”

“Abbiamo parlato, certo” conferma Camus. “E abbiamo anche deciso come muoverci.”

“Fregandoci tutti.”

“Te l’ho detto: non c’erano alternative” ribatte Camus, uno sbuffo di stanchezza. “Aioros era ancora ferito; e debole. Non potevamo affrontare Andreas in quel modo. E non sapevamo dove foste voi altri. O se ci foste. Se te lo sei dimenticato, non riuscivamo quasi a usare il nostro cosmo.”

“No. Non l’ho dimenticato.”

Perché sarebbe stato difficile cancellare la sensazione sgradevole e opprimente di qualcosa che si era attorcigliato al suo cosmo, come un parassita. Così diverso dall’abbraccio discreto e rassicurante di Anissa, e altrettanto potente. In un modo e in una forma da essere inquietanti. Perché si era sentito lacerare, ogni volta che aveva provato a utilizzare il suo cosmo. Era stato come se delle mani invisibili lo straziassero, riducendolo a brandelli dispersi come polvere di stelle. Era stato. Era stata una sensazione capace di strappargli il respiro; e scendere in battaglia era bruciare ogni ansito, ogni filo d’aria che strisciava fra i denti, il sudore a correre sul viso gelato dal dolore e dal clima e le membra tremare di ribellione ad ogni attacco portato, con una disperazione che bruciava il cervello e portava a un passo dalla follia.

“Quindi?” riprende Milo, cercando di scacciare il ricordo sgradevole di quella sensazione. “Qual era questo grande piano?”

“Di infiltrarmi nelle schiere di Ásgarðr” gli spiega con calma. “Avrei dovuto presentarmi ad Andreas, convincerlo che preferivo tradire che morire di nuovo e riuscire ad arrivargli tanto vicino da ucciderlo. O di fornire l’occasione ad Aioros se fosse riuscito ad attaccarlo di nuovo. A sorpresa.”

“E se uno di noi ti si fosse parato davanti? Ti avesse sfidato?” come ho fatto io?

“Lo avrei affrontato.”

“Fino alla morte?”

“Fino alla morte” ripete Camus, una solennità nella voce e negli occhi che non tentenna. “Anissa ha la priorità. L’ha sempre avuta. Lo sappiamo entrambi.” Pausa. “Pregavo non succedesse” aggiunge, stringendo la gamba che ha sollevato sulla sdraio. “Davvero. Non lo volevamo né io né Aioros.”

Sakze” bestemmia Milo, mangiandosi le sue stesse parole. “Un piano da bastardi. Davvero. Ma era un buon piano. Devo riconoscerlo” mugugna, recuperando una sigaretta e masticandone il filtro con frustrazione. “Ma era anche un piano suicida. Lo sapevate, vero?”

Camus annuisce.

Nella mente il ricordo di una determinazione folle, quasi blasfema, che si rifletteva sul viso di Aioros. C’era stato qualcosa, nel modo che aveva avuto Aioros di concepire e progettare quel piano, da far tremare Camus. Un brivido, profondo, che corre lungo tutta la colonna vertebrale e ti si riverbera nelle vene e nei polsi; e anche quando è passato ti lascia addosso una sensazione strana, né sgradevole né inaspettata. È come un fremito, la consapevolezza di aver oltrepassato una linea sottile come aria, di esserti trovato all’improvviso dall’altra parte di un muro. O forse di una barricata. Senza sapere per dove sei passato nè con una minima idea di come fare a tornare indietro. O se ancora tu possa, tornare indietro.

Parlare con Aioros era stata quella stessa sensazione.

La consapevolezza di rapportarsi con qualcuno che quella linea l’ha attraversata senza davvero averne coscienza, e che si porta dietro da sempre un miscuglio di orgoglio e di rimpianto per quel gesto giocato in una sera. Forse solo per troppa spavalderia.

E assieme la paura di vedersi frantumare davanti l’immagine di uomo bollato come traditore prima, e come eroe e martire dopo. E scoprire. Scoprire che Aioros era prima di tutto un uomo, un ragazzo come lui. Con gli stessi dubbi che aveva lui, e una decisione, un’abitudine innata alla pianificazione che lo aveva portato a rivaleggiare con Saga.

E si era chiesto cosa esattamente conoscesse, di Aioros. Cosa ricordasse, di un ragazzo visto di sfuggita, le grandi ali d’oro a rifulgere di cosmo, un mezzo sorriso di timidezza e orgoglio che sfumava nella piega spietata del soldato quando scendeva nell’arena. Si era chiesto chi fosse Aioros, e aveva avuto paura di scoprirlo.

Perché dietro al dolore delle ferite, dietro allo strazio che i marchi gli imponevano, anche nel delirio della febbre, Aioros aveva conservato una lucidità malata, quasi insana, che gli aveva concesso di analizzare, pianificare e aspettare l’occasione giusta, la persona giusta, da mettere in campo.

E quella volta il pedone ero io.

“Cos’è andato storto?”

Perchè qualcosa deve essere andato storto, pensa Milo, mentre intuisce nell’espressione di Camus una riflessione che ancora non è pronto a condividere. Perché fa paura prenderne coscienza, darle corpo. Perchè significa restituire a un eroe la statura di uomo, e accettarne le ombre e le luci di una gloria non cercata. Perché significa realizzare Aioros. E quello che era.

E Aioros non era uno sciocco, né un ingenuo. E se c’è una cosa che Milo ricorda, di quando era piccolo, di Aioros, era la capacità che aveva di pianificare le azioni, alla pari di Saga. Aioros era uno stratega nato, era quel tipo di persona che sapeva valutare la situazione più per istinto che per esperienza. E se Aioros aveva deciso che l’unica mossa da fare era quella di tentare la carta del tradimento e dell’inganno, significava che davvero era l’unica scelta possibile.

“Svartr” soffia Camus.

Perché Svartr era stato l’inaspettato. Era stato il granello di sabbia nell’ingranaggio di Aioros. Svartr era stato un passato che si era ripresentato all’improvviso, rivestito di una corazza che raccontava una storia diversa, una vita diversa rispetto ai sogni di un bambino.

Svartr era stato. Per Camus era stata la consapevolezza che, da quel momento, il ginocchio a terra e il cuore che imponeva di fingere devozione, il suo ruolo si sarebbe giocato sul filo di un rasoio. E che la vittoria o la sconfitta del piano di Aioros sarebbe dipesa da lui. Soltanto da lui.

“Avevo poche possibilità. E dovevo giocarmele bene” prosegue, alzandosi per stirare la schiena. “Capisci? Dovevo convincerlo. Dovevo riuscire a convincerlo che ero dalla sua parte.”

“E ti sei giocato la carta del rimorso.”

Ya, dres. Lo sai anche tu: una bugia è migliore se ha un fondo di verità.”

“Quindi è vera?” chiede Milo, una smorfia per l’ultimo sorso freddo di caffè. “La storia che sua sorella è morta, intendo. Per causa tua.”

“In un certo senso. Sì” riconosce Camus, nella mente il ricordo di un uomo che, bambini, chiamava amico. E che aveva visto andare in pezzi sotto i suoi occhi, il corpo della sorella fra le braccia e il livore e la rabbia a deformare le certezze. “Non l’ho uccisa io. Non materialmente, almeno. Ma è un po’ come se lo avessi fatto.”

“Ti odio quando parli così” arriccia il naso Milo. “Lo sai. Mi piace la logica, non l’enigmistica.”

“E dove starebbe il mio divertimento, altrimenti?” sorride Camus, le mani affondate nelle tasche e l’aria di chi si sta divertendo un mondo.

“Ah. E ti stai divertendo?”

E Milo si chiede se riuscirà più a riaverla anche lui, quella leggerezza che Camus sembra esser riuscito a ricostruirsi in quei mesi. Come se gli fosse stato tolto un peso dalla schiena e potesse di nuovo respirare, profondamente, completamente. Peccato che quel carico da novanta Milo se lo senta tutto sul groppone, e lo stia schiacciando come una pressa idraulica.

“Sì. Ovvio.”

No. Ma o mi lasci fare così, o non ce la faccio, a raccontarti tutto pensa invece, spezzando un mazzetto di sterpaglie e ravvivando il fuoco. È difficile anche per me, Milo. È molto difficile.

“Lieto di saperlo” mormora Milo, tirando il cappuccio fin quasi sopra agli occhi e allungando le gambe. “Ti va di spiegarmi?”

“Non c’è molto da spiegare” tergiversa Camus, mentre sul palmo danzano cristalli di ghiaccio iridescenti. “Eravamo io e lui, a. In un posto. In Russia.”

“Non a Kobotec?”

“No” mormora Camus, masticandosi di riflesso un labbro. Perché non dovrebbe parlare, di Yamal. Perchè Yamal è qualcosa che solo chi padroneggia le energie fredde, i sovrani di Siniy gorod e Anissa conoscono. E lui. Lui aveva giurato di non tradire quel segreto.

“Guarda che lo so” lo distrae Milo, uno sbuffo di indifferenza. “So di Yamal, e di quello che significa” gli spiega e aggiunge Hyoga con un tono che sembra voler contenere in quel nome ogni altra spiegazione. E Camus accetta. Accetta con la stessa semplicità con cui ha accettato che Milo lo abbia trascinato di peso nella sua vita.

“Ah. Va bene” commenta solo, spostando il peso da un piede all’altro. “Anatolij e re Pijotr volevano capire chi di noi fosse destinato a Lei” riprende, una nota di dolcezza e malinconia nella voce.

“Oskars no?”

“Oskars non c’era ancora” spiega con semplicità. “E. Ci stavamo allenando. Nella tundra alberata. A sud. Chi fosse stato degno sarebbe poi partito verso nord. Verso un luogo che Anatolij non mi voleva dire.”

“Saresti andato da Lei. Vero?”

Ya” conferma Camus. E di riflesso sul suo palmo i cristalli di neve si raggruppano a definire una figura femminile sfumata di ghiacci dai riflessi iridescenti. “O io o Svartr. Uno dei due le era destinato” conclude, e chiude il pungo, facendo dissipare in uno scintillio ghiaccio e cosmo.

“Cos’è successo?”

“È successo che non ci siamo accorti di Sunniva” espira.

Sunniva. Cinque anni appena e due guance del colore delle mele mature. Cinque anni e l’indipendenza dei bambini che caracollano per il mondo. Sunniva era l’altra parte di Svartr; dove c’era lui, c’era anche lei. Sunniva amava quel fratello tanto dolce con lei quanto risoluto negli allenamenti. Amava come il cosmo danzasse nelle sue mani, a creare forme dai riflessi dell’aurora boreale. Era ingenua, Sunniva, e del cosmo di Svartr percepiva solo la bellezza dell’incanto, la malia di uno sciamano del ghiaccio. Quando il cosmo era ancora un universo da dischiudere fra i palmi socchiusi; quando il cosmo portava con sé il sentore gelido e pungente delle nevi perenni, e non evocava ancora il ricordo del sangue dei nemici uccisi in battaglia.

“Nella foga dell’allenamento, non ci siamo resi conto che lei era lì. Lei era sempre lì. Ci seguiva ovunque” prosegue Camus, schiacciando le palpebre sotto le dita, ricacciando nella gola quella malinconia e quel rimorso che gliela hanno artigliata. “Non lo so esattamente cos’è successo. Non lo ricordo. Ricordo solo che prima eravamo lì, a combattere; e un attimo dopo stavamo cercando di sfuggire alla neve.”

“Voi ce l’avete fatta. Lei no. Giusto?”

Camus annuisce, abbassandosi vicino al braciere e rimestando le braci nel fuoco vivo.

“Ci abbiamo messo ore a ritrovarla” riprende dopo qualche minuto, il ricordo delle mani che bruciano affondando nella neve pesante e compatta; nella gola lo stesso nodo di allora, quella sensazione di dolore che graffia ogni respiro. La sensazione di gelo che stringe la carne; così diversa dal sudore che ghiaccia sulla pelle alla fine dell’allenamento o dal pungere spietato del vento di Siberia. Era un gelo che proveniva dallo stomaco e risaliva con artigliate che stringevamo sempre di più. “Non c’era più nulla da fare.”

E in quelle parole c’è ancora il rimorso e il rimpianto per una bambina che gli aveva sorriso, per una bambina che avrebbe potuto essere sua sorella.

“Forse non ho ucciso Sunniva” mormora appena, mentre torna a sedersi, le mani strette fra le ginocchia. “Ma l’ho usata. Ho usato il suo ricordo per convincere Svartr: era la sola possibilità che avevo. Che mi è venuta in mente” continua, le mani a nascondere il viso. “Mon Dieu. L’ho fatto. E. Lo vuoi sapere? Non me ne pento.”

“Tutti noi abbiamo fatto qualcosa di simile” ragiona Milo, gli occhi al fuoco che scoppietta e la memoria a rincorrere missioni e scelte fatta da ragazzini, con l’arroganza e la fiducia che il mondo sia solo bianco o nero, giusto o sbagliato. E che loro fossero nel giusto; sempre e comunque. “Siamo soldati. Non serve a nulla pentirsi. Dobbiamo solo conviverci” chiosa, stringendosi nelle spalle e cercando di ignorare il respiro pesante di Camus. Quel respiro che racconta più il peso della consapevolezza, di quanto l’essere un cavaliere, un soldato, gli sia costato.

Perché Louan non era così; perché Louan Le Blais avrebbe cercato un’altra soluzione, un qualcosa che non significasse spergiurare sul nome di una bambina morta a cinque anni, la pelle traslucida imperlata di brina e il terrore della sorpresa negli occhi vitrei.

Ma Camus di Aquarius invece. Camus di Aquarius è il cavaliere che i ghiacci della Siberia hanno plasmato; è la forza magnifica e spietata di una terra avida di concessioni che incide i propri insegnamenti nella carne con gli artigli dell’orso e i denti del lupo. Camus di Aquarius è la corazza che protegge il ricordo di un bambino nato in Bretagna e sacrificato alla gloria di Anissa.

“Ha funzionato” riprende alla fine Camus, inspirando forte dal naso. “All’inizio almeno. Svartr ha garantito per me; e Andreas ha approvato” continua, il ricordo del peso di una mano sulla spalla e il taglio spietato di un sorriso che voleva essere di cordialità. Svartr aveva un modo di sorridere strano, a tratti inquietante. Sorrideva sempre. Di ogni cosa. Sorrideva anche mentre gli aveva raccontato la sua versione del tradimento, mentre cercava di persuaderlo che preferiva rinnegare Anissa e tutto quello per cui aveva combattuto in passato, piuttosto che ritornare nelle grigie lande dell’Ade. Sorrideva anche mentre lui giurava, la corazza che cadeva a terra con un clangore, che era disposto a tutto, pur di riparare all’antico errore, a espiare la colpa della morte di Sunniva.

Camus si è chiesto se Svartr gli abbia davvero creduto; o se semplicemente avesse l’intenzione di giocare con lui, di divertirsi rigirando il coltello della memoria e del rimorso prima di consegnarlo alle spire di Yggdrasill. Si è sempre chiesto quanto di vero ci fosse, nelle parole di amicizia e perdono che Svartr concedeva con la stessa leggera solennità con cui gli riempiva il bicchiere di dolce idromele.

Perché Svartr aveva quel modo di sorridere di chi si prende gioco delle persone, anche quando era un ragazzino. Era ambizioso Svartr; di quella sana e profonda ambizione che ha il sapore del riscatto e il baluginio del successo conquistato con le proprie forze. Aveva quello che Camus, a quel tempo, non aveva: la determinazione. Una determinazione profonda, viscerale, una volontà di riuscire cui era disposto a sacrificare tutto. O quasi.

Quella volontà che Anatolij gli aveva insegnato negli anni dell’addestramento, e che il gelo della Siberia gli aveva inciso nella pelle obbligandolo ogni giorno, ogni istante, a scegliere la vita per non arrendersi alla morte nelle sue distese innevate.

“Ero comunque sotto stretto controllo. Sempre. La diffidenza è difficile da scalfire” racconta ancora, nella voce una nota di frustrazione al ricordo dell’impegno e della delusione nel vedersi sfuggire ogni giorno di più un obiettivo che si aveva davanti agli occhi, con nello stomaco la sensazione che il tempo si stesse consumando e che ogni opportunità stesse svanendo. “Non facevo progressi. Finchè.”

“Finchè sono arrivato io.”

“Già” risponde Camus, recuperando la tazza vuota per impegnare le mani. “In verità, ho scoperto che eri tu solo quando ti ho avuto davanti.”

“Svartr non ti aveva avvertito? Di chi fosse il bersaglio, intendo.”

“No” sospira. “Poteva essere chiunque. Ma immaginavo che sarebbe stato uno di noi. Sarebbe stato da stupidi non pensarlo.”

E tu non sei di certo uno stupido sorride di riflesso Milo, Skaze. Per cacciarsi in una situazione del genere stupido non lo puoi essere di sicuro.

“Avevo pensato fosse Aioria. O Death, dopo quello che era successo a Kelavi.”

“E invece ero io.”

Ya. Eri tu.”

Camus se lo rivede davanti: il vento a frustare i capelli e i vestiti e gli occhi smarginati di chi non si rassegna davanti a un’evidenza che non ha mai contemplato. C’erano state domande e c’erano state accuse, nel turbinare violento della neve, mentre Camus concentrava nelle mani il cosmo e racimolava in fondo allo stomaco l’energia per attaccare Milo. Di nuovo. Con la stessa determinazione e la medesima risolutezza di quella notte maledetta ad Atene.

“Ci sei andato pesante. Ammettilo.”

Milo si massaggia di riflesso la guancia; senta ancora il bruciore intenso del gelo di Aquarius che lo sfiora, affilato come un coltello. Di quelli che Kostas usa a Pasqua per affettare per bene l’ovelias. Gli era venuta una mezza paresi, dopo quel colpo. Che, per inciso, aveva evitato all’ultimo più per istinto che per altro.

“Che dovevo fare?” allarga le braccia Camus, sentendosi come allora con le spalle al muro. “Le fiamme di Svartr ti avrebbero incenerito. E non sto esagerando. Usare la polvere di diamanti è l’unica cosa che mi sia venuta in mente. Credimi.”

“Mi hai quasi congelato” mugugna ancora Milo. “Alla ridotta, dico. Non hai nemmeno esitato.”

“Credi che sia stato facile?” gli chiede Camus di rimando, alzandosi di nuovo in piedi. “Merde, Milo. Stavi in piedi a stento, e non ne volevi sapere di ritirarti. E Svartr mi osservava; mi osservavano tutti. Non potevo esitare. Lo capisci? Non potevo.”

“Sì; sì che lo capisco” gli fa eco Milo, una scintilla di ammirazione nella voce. Perché lui forse non ce l’avrebbe fatta, a mantenere così a lungo quella recita. Lui forse non ci sarebbe riuscito, ad attaccarlo sapendo che lo stava ingannando. O forse solo perché conosce Camus, e sa quanto odi dover mentire, sa quanta fatica e volontà gli siano servite per far violenza a se stesso e inscenare quella pantomima al limite della propria dedizione.

“Solo. Non lo so. In quel momento, c’eravamo solo noi. E tu stavi per ridurmi a un surgelato” tenta di scherzare, per alleggerire quel grumo di emozioni che si è ritrovato in gola, tanto pesante da non riuscire più a inghiottire.

“A me non stava andando meglio, se ben ricordo” gli risponde con un mezzo sorriso, una piega amara che ringrazia di quel tentativo di sdrammatizzare. “Credo di non averti mai visto così incazzato. Neanche quando ho indossato la surplice.”

“Era diverso” nicchia Milo.

“Diverso?”

“Diverso, certo” riprende. “Quella volta, all’inizio, credevo che ti avessero fatto il lavaggio del cervello. Questa volta. Come dire. Eri tu. Cioè. Non avevo dubbi che fossi tu. E.”

“E non volevi accettare che avessi fatto una scelta diversa dalla tua.”

“No, infatti” inspira forte Milo con il naso. “Non volevo combatterti.”

“Ma lo hai fatto.”

Skaze, Camus” ride Milo senza allegria. “Siamo soldati. Combattiamo da una vita. Non c’entra quello che vogliamo, ma quello che dobbiamo.”

E in quelle parole c’è la verità di una vita: c’è il giuramento prestato ancora bambini, quando la guerra era l’oro scintillante delle armature promesse e la forza del cosmo che corre prepotente nelle vene. Quando Anissa era il miraggio di una vita bruciata nell’ardore di un istante per il suo sorriso di luce e i suoi occhi di cielo.

“Stavi per farti ammazzare” gli ricorda Camus, una note greve nella voce. “Eri talmente ostinato, che ho davvero pensato di dover ricorrere allo zero assoluto, per evitare che le cose degenerassero troppo.”

“Ah. Perché? Non eravamo già andati oltre?”

“Milo” sospira Camus. “Yggdrasill ti stava risucchiando ogni forza, e tu non volevi sentire ragioni. Eri talmente arrabbiato che non mi ascoltavi.”

“Scusa tanto, eh” mugugna Milo, gonfiando le guance in uno sbuffo. “Mi sembrava che stessi solo sparando cazzate. Pensaci: ci stavi dando degli smidollati! Stavi dando dello smidollato a me!”

“E tu non hai pensato che potesse essere una specie di messaggio? Che stessi provando a farti capire qualcosa?”

“Pensavo che il manipolatore fosse Saga. O Kanon. Non tu” mugugna Milo. “Senti Camus: non sei mai stato facile da capire” aggiunge, e continua veloce, per non dargli il tempo di ribattere. “Cioè: a volte lo sei fin troppo. Ma lo sei con i gesti, non con le parole. Non ne hai mai sprecate, di parole. E soprattutto non hai mai usato i doppi sensi.”

“Non avevo altro” cerca di giustificarsi Camus. “Non ti potevo spiegare niente apertamente: o ti ammazzavo o mi facevo ammazzare. Così ho provato con le minacce: speravo che riuscissi a capire quello che ti volevo dire. Speravo di farti desistere dallo scontro. Ci stavo andando piano, e il rischio di insospettire Svartr era alto.”

“Ah” ride Milo, di un riso sarcastico. “Meno male che ci stavi andando piano. Mi hai congelato mezzo braccio. Non te ne eri accorto, per caso?”

“Mica poteva mancarti di continuo!” replica, e si chiede se Milo, per caso, non si stia divertendo nel rigirare in quel modo il discorso. Se Milo non stia provando un perverso piacere nel metterlo davanti al modo in cui ha condotto quel duello e di come la sua strategia si sia rivelata inefficacie.

E poi ti ricordo che è stata quella patina di ghiaccio a darti una chance.”

“Di’ pure che mi ha salvato il culo” sorride Milo, di un sorriso sottile che sa ancora del sollievo provato. Perché era stato come sentirsi esplodere. Quando le fiamme di Svartr lo avevano avvolto, Milo aveva sentito i polmoni liquefarsi per l’aria rovente e ogni ganglo del suo corpo ribellarsi in modo istintivo e disperato. E lo sfrigolio del ghiaccio eterno che lo ricopriva era stato un suono assieme terribile e rassicurante. Perché finchè il gelo di Camus non fosse evaporato del tutto, poteva ancora sperare. Una manciata di secondi, ma erano pur sempre una manciata di secondi. Per trovare una soluzione; per cercare una via d’uscita. Per.

Camus ci aveva sperato fin nelle viscere, in quel per.

In qualcosa che arrivasse e permettesse a Milo di salvarsi. Perché era stato terribile sentirne i mugugni e i lamenti, immaginare il dolore delle fiamme che divorano la carne e dover affettare indifferenza. Doversi costringere a guardare il proprio miglior amico avviluppato nel fuoco e non poter far nulla. Non osare far nulla per salvarlo, pur sapendo che gli sarebbe bastato solo un semplice cenno delle dita perché il ghiaccio assoluto cristallizzasse le fiamme in una grottesca scultura.

Sarebbe bastato così poco, per salvare Milo, per toglierlo da quella trappola che non aveva previsto. E sarebbe stato altrettanto rapido morire poi, tradendo la fiducia che Aioros aveva riposto in lui e nella sua capacità di mascherare le sue intenzioni.

“Almeno fino a quando non è arrivato Saga” riprende Milo. “Lo avevi previsto?”

“No” ammette Camus, gli occhi socchiusi e il respiro che esce lento, con lo stesso gusto di sollievo che aveva avuto quel giorno nelle piane di Ásgarðr. “No. Non lo avevo previsto. Non sapevo nemmeno dove fosse. Ma non lo ringrazierò mai abbastanza.”

“Già. Nemmeno io” mormora Milo, mentre dondola sulla seduta, le mani in tasca e le gambe intrecciate come un ragazzino. “Capiamoci: in quel momento l’ho odiato. Davvero.”

“Perché?”

“Primo, perché voleva ucciderti al posto mio” e nell’occhiata che gli rivolge, Camus legge tutto lo strazio della volontà che Milo si era imposto. Tutto il peso di una decisione assunta nella consapevolezza di un dovere che strazia il cuore prima ancora delle carni. “E secondo. Secondo perché mi ha portato via. Da te. Dalla battaglia.”

“L’avresti fatto di tua volontà?” gli chiede allora Camus. “Voglio dire. Se avessi potuto, avresti abbandonato il campo?”

“Mi conosci” scrolla le spalle Milo. “Penso che tu sappia già la risposta.”

“Allora Saga ha fatto bene” chiosa Camus. “Davvero: non avevamo bisogno di martiri. Avevamo bisogno di uomini.”

“Per distruggere Yggdrasill.”

“Sì. Per Yggdrasill” annuisce Camus, ravvivando le braci in uno sfavillio di scintille. “E anche per distrarre i cavalieri del Nord. Te l’ho detto: l’obiettivo mio e di Aioros era Andreas.”

“Quindi noi eravamo i diversivi” realizza Milo, un brivido di eccitazione e terrore. “Carne da macello, in sostanza.”

“Se la vuoi mettere così” nicchia Camus. “Ma sì. Era quello che Aioros voleva. Quello che sperava” prosegue, un rimescolio di disgusto nello stomaco. A ripensare fin dove era disposto a spingersi, perché il piano di Aioros funzionasse. A ripensare a come Aioros fosse stato capace di prevedere la posizione di ogni pezzo su quella scacchiera di battaglia. Accettando di sacrificare i propri compagni come un sacchetto di frattaglie in pasto ai corvi.

E nel silenzio che segue c’è il peso di una verità tanto semplice quanto spietata. Nella consapevolezza di cosa sarebbe potuto essere il Temenos, se Aioros e Saga ne avessero preso le redini dopo Shion. E l’immagine di Saga con i paramenti sacerdotali e di Aioros fulgido di Sagitter al suo fianco, schierati a difesa di Anissa, è qualcosa che fa tremare dentro, nel profondo, fin nelle viscere. Un’alchimia di diplomazia, astuzia, sagacia militare e feroce determinazione che avrebbe fatto sorridere di orgoglio Anissa, di quell’orgoglio che la rende dolcissima e spietata assieme, il bel chitone rabboccato a scoprire i cadaveri ai suoi piedi, i sacrifici che anche la sua pace chiedono.

“Saga lo sapeva?” riprende dopo un po’ Milo, aspirando piano l’aria pungente della notte, quel misto di iodio e cenere e resina bruciata. “Del piano di Aioros, intendo.”

“No” lo smentisce Camus, sulla lingua e nel naso lo stesso odore, quel misto di quotidianità che lo tiene ancorato al presente. “Non ne sapeva nulla.”

“E allora come?”

“Sapeva che io stavo fingendo. Lo aveva capito” gli spiega Camus, ricordando la piega accennata sul viso di Saga, quel gesto che gli aveva imparato, il modo che aveva di socchiudere gli occhi quando aveva colto qualcosa: un’espressione, un’esitazione, una parola che cozzava con i fatti, con la realtà. Quando Saga era accorso, splendido nel potere devastante di Gemini, Camus aveva ripreso a respirare.

“E, di grazia, come avrebbe fatto, a capirlo?” lo provoca Milo, irritato. “Da quando siete entrati tanto in confidenza ?”

Perché io, che ti sono cresciuto accanto, no che non lo avevo capito.

E gli brucia. Gli brucia non esserci stato, per sostenere Camus nel momento in cui più di ogni altro avrebbe avuto bisogno del suo appoggio. Gli brucia non esser riuscito a dominare la rabbia e la frustrazione, ed essere saltato subito alle conclusioni, lui che si è sempre vantato di riuscire a sviscerare anche la più intricata delle situazioni. E soprattutto gli brucia non aver colto quello che Camus gli cercava di far capire, con quelle mezze parole e quei gesti che sembravano raccontare un’altra storia, un altro tradimento.

“Non raggiri un dio e non arrivi a inscenare la morte della tua dea se non impari le regole e i trucchi dell’inganno” scrolla le spalle Camus, l’ovvietà di quelle parole buttata in faccia con la semplicità bruciante di una affinità costruita nella necessità dell’inganno e del tradimento. “Saga non sapeva cosa avessi in mente. Ma sapeva che c’era qualcosa. Aveva capito che stavo fingendo. Come al Temenos. Come quando dovevamo uccidere Anissa.”

“Come?” lo incalza ancora Milo. “Come, Camus? Non vi siete scambiati nemmeno mezza parola.”

“Deve aver sentito quello che ti dicevo” ipotizza Camsu, per poi stringersi nelle spalle. “Non lo so. Non gli ho mai chiesto come abbia fatto, esattamente. Ma mi ha fatto intendere che sapeva. E quando ti ha portato via, ho pensato che ti avrebbe spiegato. Che avrebbe spiegato ogni cosa. A tutti voi” finisce in un fiato, una mano a stropicciarsi il viso.

Perché raccontarlo. Dio. Raccontarlo lo rende così. Così vivido. Gli fa riprovare ogni emozione, ogni decisione presa per istinto e soppesata poi con razionalità. Gli fa comprendere quanto davvero di quel piano fosse al limite del tentativo estremo, fosse giocato completamente sulla capacità di pochi di recitare fino in fondo la propria parte. Su come io dovessi recitare la mia parte.

“Ma tu non ci hai parlato. Vero?” chiede alla fine, rilassandosi stanco contro lo schienale della sdraio.

“No” mugugna Milo, soffiando piano sulle nocche. “Credimi. Ci ha provato. A spiegarmi qualcosa, intendo. Ma io ero troppo arrabbiato. Non avevo voglia di starlo a sentire, e avevo fretta di trovarmi le mie risposte” ricorda, chiedendosi ancora perché quel suo istinto che gli aveva fatto riporre fiducia in Hyoga e nella sua folle, insana, dedizione, non gli abbia permesso di fermarsi ad ascoltare Saga, non gli abbia instillato il germe del sospetto. Anche solo un accenno.

La rabbia si risponde, sorridendo contro il pungo. Quando si tratta di te, Camus, la rabbia mi fa davvero dimenticare la ragione. È sempre stato così.

“Che idiota, sono stato” ride ancora, senza allegria, la mano affondata nella fronte e quel modo che ha gettare indietro la testa. “Sarebbero bastati cinque minuti, e avrei potuto combattere. Avrei potuto dare una mano. E invece mi sono fatto fregare da quella maledetta pianta come un coglione.”

“Un vero coglione, sì” conferma Camus, un ammiccamento di complicità verso la smorfia di Milo, con la testa appena inclinata sopra la spalla. “Però mi risulta che sei stato tu a fregarlo, Yggdrasill. Non il contrario.”

“Ah. Davvero?” chiede ironico. “E questa chi te l’avrebbe raccontata?”

“Al Temenos lo sanno tutti: se Milo di Scorpio non avesse avuto spregio del pericolo di scendere in campo anche senza la protezione di Anissa, la barriera di Yggdrasill non avrebbe ceduto” gli risponde con semplicità. “Comunque, a me l’ha raccontato Diego.”

“Bell’amico” ride Milo, sfregando fra loro le mani. “Non credevo fosse tipo da raccontare in giro le cazzate altrui”, ma c’è serenità nella sua voce. Camus lo sente. C’è quel modo leggero che Milo ha di guardare alla vita, di ironizzare sul mondo, per gustarsene ogni aspetto, ogni particolare. Da quelli più scabrosi e insipidi a quelli più profondi e intimi.

“Non lo è. Te lo posso assicurare”o tu avresti già saputo tutto.

E quell’anno consumato fra occhiate di sbieco e mugugni a mezza bocca non ci sarebbe mai stato. Quell’anno in cui entrambi si sono chiesti cosa fosse andato infranto, se la complicità e la fiducia o il fatto di scoprire che le azioni hanno un peso diverso per ciascuno di loro. Milo ha odiato Camus, in quell’anno. Ha odiato il modo in cui era stato disposto ad attaccarlo, la volontà di ucciderlo che gli aveva visto ardere abbracciata al gelo di Acquarius. E aveva odiato la semplicità con cui gli si era messo al fianco, negli ultimi istanti della battaglia. Il modo che aveva di cercare in lui quella complicità cresciuta negli anni, il fidarsi a portare un attacco sapendo che lui ci sarebbe stato, a coprirgli le spalle. Aveva odiato Camus, e aveva odiato se stesso, per essersi sorpreso a sorridere nello scorgere con la coda dell’occhio Camus accanto a sè, nel sentire la sua schiena contro la propria prima di gettarsi nella mischia. Per continuare, nonostante tutto, a essergli così affezionato da essere disposto a essere pugnato alle spalle da lui.

“Dimmi una cosa” chiede all’improvviso Milo, quando ormai le braci sono un baluginio rossastro che sfrigola alle prima gocce di pioggia, grandi e fredde. “Dimmi solo una cosa. Anche con Diego era tutta una recita?”

“Milo” si ferma Camus, le tazze e le bottiglie di una notte passata a raccontarsi fra le mani. “Sta per piovere. Continuiamo dentro. Vuoi?”

“Voglio vedere l’alba” scrolla le spalle Milo, cocciuto come solo lui sa essere. Perché si è promesso che non si sarebbe mosso da lì fin quando Camus non avesse raccontato tutto. Ma proprio tutto tutto.

“Milo. C’è un cielo orribile. E sono le sei e mezza” sbuffa Camus. “E siamo quasi a ottobre.”

“E allora?”

“Allora vuol dire che mancano ancora quasi due ore all’alba. Posto che il sole si faccia vedere, con queste nuvole.”

“Abbiamo fatto trenta. Facciamo trent’uno” replica Milo, soffiando sulle mani che adesso, nella luce livida del primo crepuscolo, vede pallide e screpolate dal freddo e dal vento della notte. “O hai paura di bagnarti?”

“Figurati” sorride Camus, mentre torna a sedersi e gli passa un paio di guanti senza dita. Di quelli di lana buona, calda, da marinai, che tiene sempre nella tasca della field quando è in Bretagna. “Vedi solo di non buscarti un malanno.”

“Se non l’ho preso fin’ora” brontola Milo, infilandosi con gratitudine i guanti e rannicchiandosi meglio sulla sdraio. “E tu? Niente guanti?” chiede ancora, occhieggiando alle mani di Camus tranquillamente abbandonate sui braccioli.

“Sai com’è” ridacchia Camus. “Non è che ne abbia particolarmente bisogno” aggiunge, lasciando che un sottile velo di aria si condensi sopra le proprie mani, aggiungendosi allo strato di nebbia umida e densa, quasi filosa, che sale dalla terra, a nascondere un po’ le cose.

A gamisu” ride Milo. “Allora? Inizi o devo pregarti in ginocchio?”

“Perché? Lo faresti?” replica pronto Camus, una punta di divertimento nella voce. Perché è bello risentire quella complicità, è bello accorgersi che nella piega che sono le labbra di Milo c’è la stessa sensazione.

“Scordatelo!” gli risponde arricciando il naso. “Sono anchilosato. Anzi: sono mezzo assiderato. Se mi inginocchiassi, non credo che riuscirei a rialzarmi, dopo.”

“Milo” lo chiama Camus, una mano sul braccio e la serietà di una promessa nella voce. “Davvero. Andiamo dentro. Non. Ti racconterò tutto lo stesso.”

Non ho intenzione di scappare. Dai, Milo. Credici.

“Oh, certo che lo farai” gli promette, ma ricambia la stretta, con quella mano che piano piano sta riacquistando un po’ di calore e sensibilità. “Ma non ho intenzione di muovermi. Te l’ho detto: voglio vedere l’alba”. Si ferma, masticando il labbro spaccato dal vento che adesso sta rinforzando dal mare, facendo galoppare le nuvole dense e nere e portandosi dietro il rumore dei cavalloni. “Comunque. Se riaccendi quel dannato braciere, mi faresti un favore.”

E Camus ride, mentre recupera alcune fascine e ciocchi e riattizza la brace che stava agonizzando, le grosse gocce che si sono trasformate in una pioggerellina sottile, quasi impalpabile.

“Vedi?” lo chiama Milo. “Sei un allarmista. C’è appena un po’ di umidità.”

“Vedrai, vedrai” cantilena Camus. “Dagli tempo un’ora, e poi qui sarà il finimondo.”

“Allora ti conviene iniziare” lo incalza Milo, trascinando la sdraio con la plastica fin quasi a contatto del ferro del braciere e allungando collo e mani. “Non ho voglia di fare una doccia fuori programma.”

E Camus inizia a raccontare.

Di come ci avesse sperato, che fosse Diego a raggiungerlo nella sala di Juchheim. E di quel misto di sollievo e rassicurazione che gli aveva stretto lo stomaco quando si era accorto che sarebbe stato proprio lui, il suo avversario.

“Cioè. Fammi capire” lo interrompe Milo. “Tu volevi che fosse Diego il tuo avversario? Perché?”

“Perché era il più adatto.”

Dopo che Andreas aveva rivelato dell’esistenza delle sette sale dell’Yggdrasill, Camus sapeva che il piano di Aioros sarebbe cambiato. Lo avevano previsto, o meglio: Aioros aveva previsto quell’eventualità. E nel caso fosse successo qualcosa, qualcosa di importante, prima che fossero riusciti ad attaccare ed eliminare Andreas, Camus aveva il compito di concentrarsi suoi nuovi sviluppi, mantenendo la sua posizione di traditore, mentre Aioros. Aioros avrebbe avuto un solo obiettivo: trovare Andreas. Nel minor tempo possibile.

E il qualcosa di inaspettato era successo: le sette sale. Camus le conosceva. Le conosceva tutte una ad una, e se la sala degli uomini era il rifugio di Andreas nel cuore di Yggdrasill e la sala degli dei era la reggia del casato di Polaris, le sette sale erano destinate ai cavalieri del nord. Sette sale per sette cavalieri. Ma una stanza era stata affidata a lui, la sala del ghiaccio, splendida e letale come i ghiacci che le conferivano i suoi colori iridescenti, i riflessi di una perpetua alba boreale. E Camus sapeva bene che quella sala non esisteva.

“Non ti seguo più” lo ferma ancora Milo. “Cosa c’entra Diego con il fatto che una sala mancasse all’appello? Cioè: al fatto che avesse cambiato nome.”

“Ti ricordi l’armatura di Aioros?”

“Certo. Ma cosa c’entra?”

“L’abbiamo mai cercata?” gli chiede Camus. “Voglio dire. Quando è apparsa a Tokyo, abbiamo pensato subito fosse un falso. Ricordi perché?”

“Certo. Perché. Oh. Cazzo” impreca Milo. “Non l’abbiamo mai cercata perché l’abbiamo vista. Al Temenos. Quando Diego è tornato.”

“Esatto” conferma Camus. “La sala che presiedevo io era la stessa cosa: un trucco. Uno specchietto per le allodole.”

“Pensi che Andreas avesse capito?”

“Chissà” scrolla le spalle Camus. “Forse era l’ultima prova. Forse non si fidava più di me; ammesso che si fosse mai fidato. Resta il fatto che dovevo distruggere quella sala, se volevo trovare l’ultima: Múspellsheimr. La stanza del fuoco.”

“E Svartr padroneggiava il fuoco” ragiona Milo a voce alta. “Sì: ha senso. Ha perfettamente senso. Ma ancora non capisco perché proprio Diego. Voglio dire:poteva andar bene chiunque di noi.”

“No. Non poteva” sospira Camus. “C’erano due motivi, per cui mi serviva proprio Diego”.

Perché è strano ripensare a quegli istanti, la concitazione del momento e l’adrenalina a pompare a mille, vivendoli da una prospettiva così lontana, quasi distaccata. Ad Ásgarðr, ogni cosa era stata frenetica, giocata sul filo dell’equilibrio, consumata in decisioni prese d’impulso, affidandosi all’istinto più che alla ragione. Un modo di agire che non appartiene a Camus, una velocità di esecuzione che non gli è propria se non accompagnata da una fredda razionalità. Camus è tanto emotivo nel privato quanto impassibile in battaglia. Anatolij gli ha insegnato bene, a scindere le due parti della sua anima: l’uomo e il guerriero. L’uomo può concedersi il lusso del tentennamento, la sottile fascinazione del dubbio. Ma il guerriero. Il guerriero non può concedersi l’esitazione. Quando scende in battaglia, Camus di Acquarius lo fa con la risolutezza nel proprio agire e la forza delle proprie convinzioni. Giuste o sbagliate che siano, sono quelle le sicurezze cui è pronto ad aggrapparsi fino alle stremo, cui ha scelto di piegare il capo. Non è solo la devozione verso Anissa; è qualcosa di più profondo, di atavico, quasi ferino. È la presa di campo del soldato che sceglie di assecondare ciò che ritiene giusto, ciò che rispecchia il suo pensiero, prima ancora che l’obbedienza a un signore.

Louan Le Blais ha conservato questo di sé, diventando Camus di Acquarius: la risoluta fedeltà alle proprie convinzioni, l’onestà di sostenere il proprio pensiero fino in fondo, solo perché assunto senza leggerezza ma in forza di lunga e ponderata riflessione.

Una sola volta la sua determinazione gli si è frantumata fra le dita: e gli è costata la scelta di violentare se stesso per cercare di preservare dal dolore l’ultimo allievo che gli era rimasto. Solo per Hyoga e per il profondo terrore di essere costretto a giustiziarlo davanti al Sacerdote o di dover rinnegare tutto quello cui si era votato, Camus ha scelto di tradire se stesso, ha scelto di combattere alle Dodici Case per qualcosa che riguardava lui, e lui solo. Per provare a essere per quel ragazzino tanto emotivo quanto lo era lui, per quel ragazzino che Camus non capiva come potesse andare avanti con la zavorra che si trascinava appresso, per quel ragazzino che lo faceva sentire in colpa, lui adulto, per esser andato oltre la morte dei suoi cari, il maestro che sempre avrebbe voluto essere.

“Per due motivi, dicevo” riprende Camus, negli occhi di Milo la consapevolezza di essersi estraniato per un istante, avviluppato del ricordo di una sensazione né sgradevole né piacevole, solo estranea. “Primo: Diego era con me, la notte che vi abbiamo attaccato. L’abbiamo pianificata assieme, quella scalata, lui, io e Saga.”

“Facevi affidamento su quello. Su quell’affiatamento” realizza Milo.

“Hmm” conferma Camus. “Non te lo riesco a spiegare. È qualcosa che abbiamo provato in quel frangente. È diverso da quello che sento quando combatto al tuo fianco, ma c’è. Ed è forte. Molto forte. O almeno speravo che lo fosse abbastanza perché Diego capisse.”

“Come aveva capito Saga.”

“Già. Come con Saga.”

C’è una nota strana, nella voce di Camus. Milo la sente bene. È una nota che non gli conosce, un’intonazione che non riesce a definire, e che sa di qualcosa di sconosciuto, di non condiviso. E accetta che ci sono cose, di Camus, che ormai non potrà più capire. Accetta che Camus abbia fatto delle scelte che lo hanno portato lontano dal cavaliere di Acquarius che ha stretto fra le braccia, alla fine della battaglia delle Case.

E si accorge che quello che voleva recuperare, quell’amicizia che si era intestardito a ricreare o distruggere per sempre non esiste più. Non è sparita, ma si è solo trasformata, è cresciuta, forse maturata. Come sono cresciuti loro.

Camus ha fatto le sue scelte, e le sue esperienze. E Milo ha fatto le proprie. Negli anni che sono stati separati, qualcosa è cambiato per entrambi, senza che lo volessero, senza che lo sapessero. Si sono solo convinti di poter ripartire dallo stesso momento in cui si erano lasciati. Ché nulla era davvero cambiato, e bastasse solo riannodare i fili, qualche sapiente tocco di ago per risistemare uno strappo fatto senza volere.

Ma lo strappo non può essere ricucito senza che i punti non si vedano. E quei punti sono gli anni della loro vita, e le loro scelte. È la complicità che Milo ha ritrovato con Mur, Aldebaran, Aioria e anche con Shaka. È il modo che ha di guardare a Hyoga, con l’affetto non solo del compagno d’arme ma anche l’orgoglio del maestro che vede il proprio allievo camminare sicuro per la propria strada. L’orgoglio per un ragazzino raccattato per inciampo, lui che non ha mai voluto allievi; l’orgoglio per un ragazzino cresciuto per egoismo, per avere accanto qualcuno con cui condividere Camus e il suo doloroso ricordo. È il modo in cui guarda Kanon, la fiducia che riesce a dargli e la sicurezza della sua fedeltà anche quando lo vede scendere negli Abissi.

Ma quei punti sono anche Camus e il nuovo rapporto, strano, che ha costruito con Diego e soprattutto con Saga. Il modo che ha di relazionarsi con lui, senza ombre e senza esitazioni. Come se sapesse qualcosa. Qualcosa del modo di agire di Saga che lui e altri non riescono a comprendere. Per Camus, Milo se n’è accorto, Saga non è più un traditore. Non è l’usurpatore che ha retto il Temenos per quindici anni e nemmeno l’attentatore alla vita di Anissa. Camus ha visto qualcosa, in Saga. Forse quello che ha portato Anissa a riammetterlo fra le sue schiere fino a innalzarlo a suo consigliere, a suo rappresentante. Fino a far di lui il generale in capo del suo esercito, destinando invece Sagitter, destinando il primo dei suoi cavalieri, a essere il suo scudo, il suo ultimo baluardo.

Se Aioros rappresenta l’egida di Anissa, allora Saga è la lancia ha sempre pensato Milo, da quando li ha visti, splendidi nell’oro delle armature, affiancare Anissa nella sala del Synagein, in quella prima e unica riunione indetta dopo il loro ritorno.

“E?” riprende Milo, raccattando la bottiglia di Tsipouro e scoccando a Camus un’occhiata più eloquente di mille parole, mentre ne prende una generosa sorsata di canna. “Sei riuscito a farti intendere da Diego, o anche lui ha avuto la testa dura quanto la mia?” chiede ancora, pulendosi la bocca con il dorso della mano.

“Non ce n’è stato bisogno” risponde con semplicità Camus, allungando la mano alla bottiglia e soppesandola un attimo fra le mani, prima di avvicinarla alle labbra per un sorso rapido. La pioggia si sta facendo un po’ più intensa e lascia sulla pelle una sensazione non solo di umido, ma anche la corposità dello iodio bagnato.

“Quando me lo sono trovato di fronte, sapeva già tutto.”

“Come?” chiede Milo. “Aspetta: non dirmelo. Saga.”

Camus si limita ad annuire.

“Lo ha intercettato, e lo ha spinto a venire a cercarmi. A dirigersi verso la Sala del Ghiaccio. Forse aveva capito qualcosa; forse era solo la stessa cosa che avrebbe fatto lui” continua. “Resta il fatto che è stato Saga a mettermi nelle condizioni di agire. E non so come ha anche spiegato a Diego che stavo recitando una parte. Una parte molto difficile.”

“Te l’ha detto Diego? Ad Ásgarðr, intendo”

“Me lo ha detto al Temenos. Quando siamo ritornati” lo contraddice Camus. “Voleva essere certo che non ci fossero fraintendimenti fra noi.”

“Ma tu lo avevi capito lo stesso.”

Ouis” ammicca “Non è stato poi così difficile: Diego ha voluto parlare, durante quello scontro. E tu sai quanto odi parlare, mentre combatte” ride Camus, una risata leggera, sottile, di tensione repressa che finalmente si libera.

“Un vero caprone, sì” ride di riflesso Milo. “Carica e basta. È inutile provare a ragionarci, quando ci si mette.”

“Quella volta, invece, sembrava non poterne fare a meno” ricorda ancora Camus. “E fra tutto quello che poteva dire, anche insultarmi, ha parlato di quando abbiamo scelto di servire l’Acheronteo, di quando abbiamo ucciso Anissa. E di come non avesse intenzione di esitare.”

“Hai capito che era dalla tua parte.”

“Ho capito che era pronto a stare al mio gioco” precisa Camus. “E che mi sarei servito di lui.”

“È il secondo motivo per cui volevi lui. Giusto?”

“Giusto” conferma Camus.

“Ma perché? Perchè ti serviva proprio Diego?”

“Non mi serviva Diego in sé” alza una spalla Camus, una mano a massaggiarsi il collo e gli occhi a spiare un cielo che sembra trattenere il fiato solo per loro. “Mi serviva Excalibur.”

“Lo zero assoluto” realizza Milo, un brivido a correre lungo tutta la spina dorsale. Un brivido più intenso di quello che il freddo, l’umidità e l’acqua che sta arrivando a ondate alterne e sempre più intense riuscirebbero mai a strappargli. Perché la ricorda in modo doloroso, la morsa di quel gelo sulla carne.

“Hyoga è stato estratto dal sarcofago con una spada” continua, la mano a stuzzicare di riflesso la mano sinistra. Quella mano che aveva allungato sul corpo esanime di Camus dopo la battaglia alle Case. Quella mano che aveva dovuto strappare all’armatura dell’amico, rovente come fuoco e quasi del tutto insensibile. Non ha più riacquistato del tutto la sensibilità ai polpastrelli di quella mano e ancora, ogni tanto, risente il dolore del gelo che gli morde la carne e la sensazione di torpore e onnubilamento provato a restare accanto al corpo di Camus fra le pareti traslucide dell’Undicesima. “Tu dovevi abbattere una colonna di ghiaccio allo zero assoluto. Ti serviva una spada capace di farlo.”

“Esatto. E quante spade conosci, capaci di tagliare un ghiaccio come il mio? Un ghiaccio allo zero assoluto?” gli chiede ancora Camus, e getta un nuovo ciocco nel braciere, mentre all’orizzonte, sopra i tetti sempre più chiari, si intravedono i riflessi dei lampi percorrere il cielo nero.

“E Diego si è prestato?” riprende Milo, quando anche l’ultimo eco di tuono si è confuso con il rombo del mare che risale lungo le strade di Louguivy. “Voglio dire: usare Excalibur in quel modo significava rimettersi alla mercè del tuo colpo. Forse di quello più potente.” Fa una pausa. “Perché immagino che non steste né recitando né trattenendovi.”

“No. Infatti” ricorda ancora Camus. “Non sapevo dove fosse, ma era certo che Svartr ci stesse osservando. Per questo non potevamo fingere, ma dovevamo usare tutta la nostra forza. E sperare di non sbagliare e ucciderci a vicenda davvero.”

Camus rammenta ancora la sensazione dell’aria farsi affilata, una percezione affascinante e spaventosa assieme. La sensazione che attorno a lui all’improvviso si fosse creato il vuoto e un sentore di metallo e affilato aumentare d’intensità fino a sfiorarlo. Se non si fosse inclinato di pochi gradi per istinto, non ci avrebbe rimesso solo qualche ciocca di capelli e un taglio sottile sulla guancia e vicino all’orecchio. Pochi millimetri, e il fendente di Diego contro la colonna glielo avrebbe mozzato di metto, l’orecchio. E forse anche la testa. Era stato un azzardo, lo sapevano entrambi, ma su quell’azzardo avevano deciso di puntare ogni cosa.

E ricorda anche lo spasmo nello stomaco, quando si era ritrovato frastornato e sanguinante, ma vivo, fra detriti di ghiaccio che sfrigolavano al calore intenso delle fiamme di Múspellsheimr.

“Non ce la facevo più” rantola Camus, nei polmoni la stessa bruciante sensazione dell’aria arroventata che gli rendeva difficile il respiro, il sapore salato del sudore e la debolezza nelle gambe che non lo reggevano quasi in piedi. “Stavo in piedi a stento, non sapevo nemmeno se avessi energia sufficiente per un ultimo colpo. E Sutrt era nel pieno del vigore”.

“Potevi chiedere di andartene” prova Milo. “Avevi provato la tua lealtà. E avevi distrutto la sala del ghiaccio. Potevi ritirarti. Andare a cercare Aioros. Andreas.”

“No” sospira Camus. “Non bastava più: l’ottava sala doveva essere distrutta, o anche la morte di Andreas non sarebbe servita.”

“Quindi era inevitabile” socchiude gli occhi Milo, rigirando fra loro le mani. “Lo scontro tuo con Surtr, intendo.”

“Aioros me lo aveva detto” annuisce Camus. “Mi aveva avvisato che sarei stato costretto a combatterlo. Ma io. Io ci speravo. Milo. Fino alla fine ci ho sperato davvero.”

“Gli eri affezionato.”

“Era l’ultima parte della mia infanzia in Siberia che mi restava” gli confida, stringendo in una mano la radice nel naso, cercando di ricacciare in gola il senso di nausea e assenza. “E ho dovuto ucciderlo. Proprio come ho ucciso Oskars” prosegue, un filo di voce che assomiglia a un rantolo di pianto. “Mi sembrava di rivivere un incubo.”

“Ma lo hai fatto lo stesso” sussurra appena Milo, una mano su quella spalla che, in quel momento, dovrebbe solo sussultare di singhiozzi.

“Sono un soldato” soffia Camus contro la mano. “E i soldati uccidono. Anche gli amici, se necessario” biascica ancora, la bocca impastata da quel pianto che non riesce a concedersi. Per rimorso, tensione e stanchezza. “Gli ho stretto la mano. Mentre se ne andava, gli ho stretto la mano” riprende, aspirando forte dal naso. “Mon Dieu. Era la mano con cui. Con cui ha quasi ucciso Diego. La mano con cui lo ha trafitto per indebolirlo e farlo assorbire. E io. Io.”

“Va bene. Va tutto bene” cantilena appena Milo, spalla contro spalla e una mano di Camus stretta nelle sue. “Era tuo amico. E stava morendo. E gli volevi bene. Hai fatto comunque la cosa giusta.”

“Lo so” lo sorprende Camus, una piega amara nel sussurro che libera. “Solo. Fa male. Merde, Milo. Fa comunque un male cane.”

E se ne restano così, il fuoco che sfrigola per la pioggia che inizia a battere e un rimescolio di emozioni a macerare nello stomaco, forte e profondo come solo può esserlo chi ha giurato la vita a qualcosa di più grande, qualcosa che costringe a sacrificare anche gli affetti, anche quelli più cari. Un qualcosa che ti mette di fronte ogni istante a scelte che o soccombi o accetti. E anche se accetti, sono comunque strade prese con sulle labbra la domanda e se invece? Perché è del soldato, una vita di rimpianti, una vita di strade scelte chiedendosi se l’alternativa sarebbe stata meglio. Anche con tutta la convinzione addosso che sì, alla fine si è fatta la cosa giusta. Che di altre scelte non ce ne potevano essere.

“Avevi ragione tu” riprende all’improvviso Milo, gli occhi al cielo che ingrossa di nuvole attraversate sempre più da fulmini e il rombo del tuono nelle orecchie. Louguivy è una serie indefinibile di ombre nella nebbia che sale dalla terra e dal mare e lo scroscio intenso, assordante dell’acqua gelida.

Gueh?

“È arrivato prima il temporale dell’alba” ride Milo, una mano a spostare i capelli lunghi zuppi di pioggia. Una risata piena, forte, di pancia. Quella risata cui Camus si aggrappa con una forza disperata per rimettersi in piedi, per convincersi che forse nulla tornerà più come prima. Perché siamo cambiati. Tu ed io. Ma che non significa che tutto è perduto; si può ricominciare. Si può creare una nuova amicizia; su altre premesse, su altre confidenze. Si può riprovare a parlare, a confidarsi, ad ascoltarsi. E si può aspettare di nuovo di scendere assieme in battaglia, anche nello strazio che uno potrebbe non tornare.

“Sai” sorride Camus, la field che pesa addosso, assieme a quella sensazione di fradicio e freddo che penetra nelle ossa. “Una volta, da ragazzino, pensavo che la mia vita sarebbe stata tutta qui” gli confida, senza nessuna fretta.

“Davvero?” lo solletica Milo, le labbra appena più esangui con un tremito sottile e la determinazione a non mollarlo comunque. “E cosa pensavi di fare?”

“Il pescatore” e c’è un’ovvietà in quelle parole pronunciate con scioltezza che fa straziare il cuore e insieme riscalda l’anima. Perché è il sapore di una normalità sparita nel tempo. “Come mio nonno. E come mio padre. Forse sarei morto in mare. O forse no. Non lo so. Ma lo pensavo. Davvero. E mi piaceva quell’idea.”

“Non mi avresti conosciuto, però.”

“Ti immagini la tranquillità?” ride Camus, restituendo una spallata leggera mentre cerca di asciugarsi gli occhi dalla pioggia martellante. “Scherzi a parte. Chissà. Chi potrebbe dirlo?”

“Io, te lo posso dire” grugnisce Milo, uno sfottò nella voce che sa di complicità. “Per quale assurdo motivo avrei dovuto venire in un posto del genere?” gli chiede ancora, legando alla meno peggio i capelli dietro la nuca e cercando di strizzare un lembo della maglia. “Se non tira vento, piove come sotto una cascata. Cosa ci trovi di così bello?”

“Ci sono sempre le crêpe di Auraur” lo provoca Camus. “E la cotriade di mamie.”

Eis Keramion. Tu giochi sporco” ride a sua volta Milo. “Torneresti indietro?” gli chiede poi.

“Tu no?” replica pronto Camus, rigirando le ultime braci che vanno agonizzando nell’acqua che si è accumulata nel braciere.

“Non lo so” nicchia Milo. “Voglio dire: sono cresciuto con Isavros, lo sai. Sono cresciuto con uno che ha sempre vestito un’armatura. Per me non c’è mai stato altro, oltre al Temenos. Ma per te.”

“Per me è diverso. Già” annuisce Camus, gettando un’occhiata fugace alla casetta alle sue spalle, gli infissi blu un po’ scrostati e i muri di sasso che raccontano gli anni. “Pensavo che avrei cresciuto qui i miei figli. E che ci sarei anche morto. Già. E che l’unica cosa che avrei davvero conosciuto sarebbe stato il mare.”

“Quanti anni avevi? Cinque?”

“Quattro. Penso” si distrae. “Ma fa lo stesso. Mi è rimasto come pensiero costante. Una specie di chiodo fisso.”

“Vuoi. Vorresti” Milo tentenna, gli occhi alle scarpe da ginnastica ormai fradice e quel gusto strano, di marcio e salato mescolati assieme nella pioggia che gli cade addosso. “Vuoi mollare tutto? È per questo che te ne sei andato alla chetichella?”

“Non voglio mollare nulla” lo rassicura Camus, un’increspatura lieve sulle labbra. “Quando hai visto quello che abbiamo visto noi, non si può tornare indietro. Solo” tentenna per un attimo, le mani che strisciano sui jeans zuppi. “Volevo provare a fare le cose in modo diverso.”

“Includendo Auraur.”

Ya” annuisce. “Lei, mamie, Fantin. Volevo. Avevo bisogno di ritrovare Louan. Quello che ero” sospira piano. “E volevo anche ricordarmi perché non ho mai mollato.”

“Potevi dirmelo” borbotta Milo.

“Non eri molto disposto a starmi a sentire, ultimamente” gli ricorda Camus.

“Puoi biasimarmi?”

“No” e c’è una nota di sicurezza che fa tremare Milo. Perché non è da Camus ammettere uno sbaglio. O almeno non è del Camus di una volta, del ragazzo fiero delle sue convinzioni tornato dalle lande della Siberia. “Hai ragione. Sono stato un coglione. Non dovevo darti per scontato. E se tu non ti fossi decise a venire, non so se saremmo mai davvero riusciti a parlare.”

“Quello che è stato è stato” riflette alla fine Milo, alzandosi in piedi e stirando la schiena. “Voglio essere sincero: non l’ho ancora digerita. Non del tutto.”

“È.” Camus esita, le parole cercate con la paura di sbagliare. “Giusto. Penso.”

“Altrochè, se è giusto” ride Milo, raccattando due tazze e la bottiglia di grappa. “Ma dammi tempo. Vedrai. Qualcosa di buono verrà fuori” gli promette, avviandosi verso la porta. Ha sonno e freddo e una voglia matta di farsi una doccia bollente. Ci sarà ancora abbastanza acqua calda? si chiede, mentre affonda nel ghiaino acquitrinoso, e considera che prima di tutto dovranno rimediare al lago che si sarà creato in ingresso. Hanno lasciato la porta aperta, e la pioggia vien giù di traverso, sbattuta sulla casa da un vento che rinforza sempre più dal mare e gli sta gelando anche l’anima.

“Ehi. Milo” lo richiama all’improvviso Camus, quando ormai ha quasi un piede in casa.

“Mmh? Che c’è?” gli chiede. “Guarda che fa freddo” lo incalza, mentre lo guarda lì, in mezzo al giardinetto, le tazze in mano e la field fradicia che gli cade addosso come un sacco. Non che io sia messo meglio, eh.

“Hai voglia di andare a pescare?”

“Adesso?!” quasi si strozza. Gli occhi che corrono a un cielo che non promette alcuna tregua e la bruttissima prospettiva di essere sballottolato sulle creste dell’Atlantico in un guscio di noce a vela.

“Ti sei accorto che sta venendo giù il finimondo?” gli grida, per sovrastare l’eco di un tuono rotolato con violenza. Questo è caduto vicino. Davvero vicino.

Met nann” ride Camus, rovesciando la testa e liberando una risata di pancia. “Domani. O dopodomani. Quando il tempo sarà migliorato, insomma” gli precisa, raggiungendolo in pochi passi veloci.

“Ah” soppesa Milo. “Ma è ancora stagione?”

“Abbastanza da prendere qualcosa per un plateaux.

“E lo cucini tu?”

“Ci inventeremo qualcosa” ride Camus, mentre lo supera e poggia le stoviglie nell’acquaio in cucina. “Il plateaux non è così difficile. O almeno mamie dice così. E tu ai fornelli te la cavi. No?”

“E per la barca?” chiede ancora Milo. Ha chiuso la porta, e si sta liberando della felpa e della maglia fradice, sgocciolando ovunque. “Non sapevo ne avessi una.”

“Me la faccio prestare” gli spiega Camus, la field abbandonata sulla sedia e un’euforia quasi infantile all’idea di quel progetto. “Fantin ha una bocq alla fonda nella baia” prosegue. “La usa quando viene qui, per il blue. È piccola, ma tiene bene” spiega ancora. “L’armiamo, ci prendiamo armadietti e lenze. Un cartoccio di croissant e stiamo in mare per alcune ore.”

Sì: decisamente ha voglia di andare a pescare. Ha voglia di stringere il vento, e risalire lungo la costa, su fino a Roc'h an Evned, sotto lo sperone punteggiato di corbezzoli. Magari riesce anche a convincere Milo a salire fino in cima, lungo il sentiero che si inerpica dalla spiaggia sassosa. Da bambino ci andava spesso: è una vista che ti fa sentire padrone del mondo. Dall’estuario del Trieux giù verso sud, in un’alternanza di scogliere e insenature, e poi ancora la striscia bianca verso Talbert e la collina di Kermouster scendere verso la spiaggia che conduce all'isola di Bois. E sulla destra Louguivy, con le sue barche che rollano piccole nell’acqua della baia.

Quella vista è ciò che si è portato via, quando è partito per Lannion; quando è partito per un mondo che gli chiedeva sangue e sacrificio. E adesso vuole che Milo la veda, vuole che Milo capisca perché la Bretagna è importante per lui, perché è e resterà sempre una parte di lui. E vuole farglielo capire come mai prima di allora, come nemmeno quando, ragazzini, si raccontavano per creare quel legame che li avrebbe sostenuti negli anni.

“Milo” lo incalza ancora “Ti va?”

Milo stringe gli occhi. Camus ha uno sguardo strano, uno sguardo da ragazzino eccitato. Glielo ricorda un’altra volta, quello stesso sguardo. In Grecia, di novembre. Quando erano andati da Kostas, e Milo lo aveva portato a vedere le syrmata a Mandrakìa. Camus non aveva detto una parola, ma Milo aveva visto nella sua espressione un misto di nostalgia e affetto, e si era divertito a osservarlo, arrampicato su uno scoglio, le gambe a un soffio dall’acqua, mentre studiava la linea delle imbarcazioni, i colori; mentre provava fra le mani l’intreccio delle reti e la porosità della roccia. E in quei gesti lenti, quasi sacri, Milo aveva intuito l’anima di Louan, quell’anima bretone di marinaio, di pescatore, che gli sarebbe tanto piaciuto che l’amico condividesse con lui.

“Allora?” lo incalza Camus. “Guarda che me lo ricordo, come si porta una barca” cerca di rassicurarlo, e poi aggiunge, un sorriso sottile che sa di provocazione. “O hai paura?”

“Ma figurati!” replica subito Milo, la pelle un brivido continuo, di freddo e. E di qualcos’altro. Qualcosa che gli ricorda il gusto per una confidenza a lungo aspettata. “Solo. Non me lo aspettavo” gli confessa sedendosi, mentre Camus inizia ad armeggiare con bricco e macinacaffè. “Però sì: ne ho voglia. Tanta” gli sorride alla fine, i gomiti sul tavolo e il pensiero sciocco che non staranno a Louguivy solo per un’altra mezza giornata.

“Perfetto allora!” sorride a sua volta Camus, un accenno da sopra la spalla, mentre recupera due tazze pulite, il cartone del latte, del pane e dell’andouille dal frigorifero.

“Per colazione ti dovrai accontentare” prosegue poi, una canzone di Jacques Brel a mezza bocca, e la camicia che si asciuga addosso. “Credo sia meglio lasciare le crêpe ad Auraur.”

“Concordo” ridacchia Milo, rabbrividendo per l’acqua che gli scivola dai capelli lungo la schiena nuda. “Faccio un salto alla boulangerie. Vuoi?”

“Ci dovrebbero essere dei kouign, in qualche armadietto. E ci sono pane e marmellata di pere o mele cotogne, se non fai troppo lo schizzinoso” gli risponde con calma, l’umido della pioggia e la polvere di caffè appena macinato a permeare l’aria. Fuori, Louguivy è una cortina d’acqua e la luce improvvisa di un temporale violento che fa entrare nella pelle le sensazioni e i ricordi di una notte passata a confessarsi.

“Fatti una doccia, invece. Sei quasi viola” lo invita alla fine, il canovaccio fra le mani e una punta di preoccupazione nello sguardo. “E stai tranquillo: ce la faccio anch’io a preparare una colazione commestibile” ironizza, raccogliendo i capelli in una coda bassa.

“Ho qualche dubbio” borbotta Milo mentre si avvia verso le scale con la felpa e la field che lasciano una scia di gocce. Dovrò metterle a mollo per bene, e pregare che la felpa non lasci colore si dice, e gli scappa un sorriso. Perché è un pensiero stupido; come è stupido voltarsi e vedere Camus armeggiare in cucina, concentrato e attento.

Sì. È stupido si ripete Milo. Ma mi piace.

Perché ha quel senso di tranquillità, di normalità, che hanno inseguito per tutta la vita, e che nell’ultimo anno era solo sparita. E anche se sanno entrambi che è solo l’illusione di un istante, è comunque qualcosa che vogliono continuare a sentire.

Re, Camus” lo chiama Milo, un piede già sul gradino per la mansarda. “Me la spieghi una cosa?”

“Cosa?” bofonchia Camus, un cucchiaio incastrato in bocca e una mano che rovista in un sacchetto. “Se è ancora la storia del perché tu sia mezzo assiderato mentre io non sento nemmeno freddo, ti giuro che.”

“Ma no!” ridacchia Milo, strofinandosi il naso a scacciare uno starnuto fastidioso. Ho bisogno di una doccia pensa. Dio. Ho decisamente bisogno di una doccia da ustione.

Quoi allor?

“I croissant.”

“I croissant?”

“Esatto” annuisce Milo. I vestiti hanno fatto una piccola pozzanghera sui primi gradini, ma non importa. Anche quello significa normalità. “Perché per pescare dobbiamo portarci dietro un involto di croissant? Non sapevo che le ostriche amassero i dolci.”

“Cioè. Fammi capire” sospira Camus, poggiando il coltello con cui sta affettando un’arancia. “Tu fin’ora hai avuto in testa i croissant?”

“Che c’entra?” ribatte Milo, una punta di indisposizione e imbarazzo. “Il tuo discorso l’ho seguito. Cosa credi? Solo. Non ho capito cosa c’entrino i croissant. Ecco tutto.”

Oh Seigneur” ride Camus, una mano alla faccia e quel modo che ha solo lui di scuotere le spalle, quando sta davvero cercando di non infierire troppo. “Sono per noi, i croissant. Per fare colazione” spiega. “Altro che esca per le ostriche.”

“E tu” soppesa Milo, un’espressione perplessa che gli arriccia la fronte. “Tu mi vuoi far credere che mangi croissant con le mani che sanno di pesce?” gli chiede.

Bien sur!

“Camus” sospira Milo, una voce affranta da far a pugni con la teatralità della faccia. “Che di cucinare non fossi capace lo sapevo, ma credevo che il palato ce l’avessi buono.”

“È ottimo, infatti” lo rassicura Camus. “Pesce e croissant. Si cresce così qui” aggiunge poi, una scrollata di spalle che vuol significare tutto.

“Tu sei cresciuto così?” chiede Milo, anche se l’istinto gli dice che è un sentiero pericoloso, quello che vuole percorrere. Perché significa costringere Camus a ricordare la propria infanzia. Significa forzarlo a condividere qualcosa di cui è sempre stato parco. Vuol dire forse forzare troppo la mano, soprattutto dopo una notte come quella, in cui si sono messi a nudo come poche volte hanno davvero fatto.

Ya” soffia Camus, e gli occhi corrono senza volerlo al timone appeso sopra il camino. Corrono al ricordo di una barca che ondeggia contro il cielo che si va schiarendo, le lenze in acqua e il sacchetto che si va raffreddando ben riposto sotto la panca. Quando suo padre e Fantin lo portavano con loro, c’era solo quello: il silenzio del mare, lo stridio dei gabbiani e il tepore dei croissant nelle mani che sanno di pesce, dopo aver gettato e ripreso le lenze fino a quando non albeggiava.

Per Camus, quel sapore, un misto di burro, di marcescente e di legno salato, è il sapore della sua infanzia, di quei gesti condivisi che gli avrebbero insegnato cosa significasse essere un uomo, a Louguivy, cosa significasse amare il mare e conoscerne le mille avventure cantate per cadenzare il lavoro o rilassarsi nelle taverne. È il sapore che risentiva nei ricordi, nelle lande innevate di Siberia, quando Anatolij gli faceva stringere fra le mani la scodella calda e gli insegnava un altro modo di essere uomo, lontano dal mare, al servizio di Anissa.

“Volevo” tentenna un attimo, increspando la voce, un labbro stretto di riflesso fra i denti. “Volevo fartelo provare. Ecco tutto” si giustifica, stringendosi nelle spalle. “Ma se non ti va.”

“Sì che mi va” si affretta a rispondere Milo, quasi inciampandosi nelle sue stesse parole, un sorriso che gli sale a illuminare gli occhi e mostra di nuovo quelle due fossette ai lati della bocca che sanno di sincerità. Di nuova, ritrovata complicità.

 

 

 

 

 

 

Alcune note sparse (per chi fosse curioso. Assolutamente non necessarie).

 

Asgard

 

Svartr

Per me, è il vero nome di Sutr di Eikthyrnir, di cui Sutr è appunto un diminutivo (che esiste, per la cronaca). Ho modificato un po’ anche il nome di sua sorella, da Sinmore a Sunniva, la versione nordica.

Infine, quando Camus giura la sua lealtà all’amico d’infanzia, ho immaginato che nel farlo si svesta della sua armatura. Questo perché, in passato, in Russia, l’atto di giurare era accompagnato dagli uomini dal gesto di denudare il petto per mostrasi senza difese all’interlocutore, a garanzia della veridicità delle proprie parole.

 

 

Francia e Bretagna

 

Saint-Quay-Portrieux

Città portuale della regione di Baie de Saint-Brieuc - Paimpol - Les Caps, sulla costa nord della Bretagna (il cui capoluogo è Rennes, dove arriva Milo, mentre il centro da cui parte Camus per recarsi in Grecia è Lannion, un piccolo paese dotato di un aeroporto di collegamento con Parigi), Saint-Quay-Portrieux, come indicato dal nome, vive al ritmo del mare e delle barche. I suoi porti e le attività di raccolta dei mitili lo confermano. Dal 19° secolo, il suo litorale punteggiato di spiagge e isole, la rende inoltre una piacevole località balneare, addossata alle scogliere rocciose della Baia di Saint-Brieuc. Nel 18° secolo, le golette dei Terre-neuvas confermavano la vocazione portuale della città. Il porto di arenamento, battezzato Portrieux o Vieux Port, e le stradine in cui si stringono le case, mostrano il tipico fascino di un porto bretone.

A Quay esistono davvero sia la Crêperie du port sul lungomare, sia i locali citati da Camus: il Poisson rouge e l’Atypic, entrambi a qualche centinaio di metri dalla Crêperie.

La città è anche considerata la capitale della Capasanta, tanto che ogni anno, a fine aprile, si organizza una festa in onore di questa “regina dei molluschi”, spesso cucinata gratinata. Questo particolare modo di servirla, molto diffuso in Bretagna, ma anche nel resto della Francia, prende nome di Conchiglie di San Giacomo, in onore del patrono dei pellegrini.

 

Louguivy-sur-la-mèr

E qui non basterebbe una pagina intera per descrivere questo piccolo villaggio di pescatori ancorato ad una baia che lo protegge dalle mareggiate e dai freddi venti atlantici.

Louguivy sono poche case nate sulla antica tradizione della pesca di molluschi, aragoste (sono famose le loro aragostiere, particolari barche a vela con il loro colore blu sullo scafo), e il bleu di Louguivy, una particolare varietà di astice della Bretagna, molto pregiato; una pesca che ancora oggi si fa con armadietti e lenze e senza nessuna rete, per non rovinare i fondali marini.

Camus è cresciuto qui, e i luoghi presenti nella storia sono tutti luoghi reali: dalla pizzeria La Frègate al Cafè du Port fino alla casa di Camus, una casetta della fine del XIX secolo a un piano con mansarda, le pareti di granito e arenaria con gli infissi blu e il tetto di ardesia. Cercatela su internet: è davvero al numero 18 di rue du Porjou, una stradina incastrata appena dietro la linea delle case che affacciano sulla baia.

La roccia degli uccelli (Roc'h an Evned in bretone) è un ex sperone di roccia pieno di corbezzoli e il primo luogo di insediamento della regione, fin dal Neolitico. Questo promontorio offre uno stupendo colpo d’occhio della zona circostante: l’estuario del fiume Trieux, a nord il Canale con la sua costa e la solitaria isola di Modez; a sud, alternando scogliere e insenature, Lézardrieux il cui campanile della chiesa si erge sopra gli alberi. Di fronte, al di là della piccola isola che proteggeva un posto di dogana, la collina di Kermouster scende verso la spiaggia che conduce all'isola di Bois. Inoltre, la strada bianca del solco di Talbert sembra essere un miraggio. Sulla destra, le barche ancorate davanti a Loguivy.

 

Aurélie Laval e la famiglia di Camus

Aurélie Laval è cugina di Camus da parte di madre e assieme a Ninenn Laval, nonna di Camus e Aurélie, e a Fantin Renard, patrigno di Aurélie, è tutto ciò che resta a Camus della sua famiglia.

Ninenn Laval, da giovane, ha prestato servizio come cuoca (ecco da cui AurAur ha preso il suo talento) presso alcune famiglie benestanti di Bretagna, e alla morte del marito è ritornata a Quay, il suo paese natale, dove ha cresciuto le due figlie: Ahez, la madre di Aurèlie, e Hoela, la madre di Camus. Entrambe le sorelle sono morte, anche se in tempi diversi, e Ninenn si è assunta l’incarico di crescere i due nipoti (tre, se tutto fosse andato bene, dal momento che Camus avrebbe dovuto avere una sorellina, nata morta pochi mesi dopo la morte in mare del padre).

 

 

Grecia e località limitrofe

 

Temenos

Letteralmente, significa “luogo tagliato” (dal verbo greco temno, appunto taglio). In antichità indicava la zona sacra “ritagliata” all’interno di un territorio e dedicata a una o più divinità. Poteva essere un luogo lasciato alla vegetazione, privo di intervento umano, ma poteva anche essere caratterizzato dalla presenza di uno o più edifici sacri. Il temenos forse più famoso in assoluto è l’Acropoli di Atene.

Per questo ho preferito usare questo termine per designare tutto il regno di Atena: il Santuario o Grande Tempio.

 

Ntelenia

Il Ntelenia è una taverna a Mikroklimao, uno dei due porti secondari del complesso del Pireo. Mikroklimao è piuttosto piccolo e tranquillo, anche se vanta una vivace presenza turistica che riempie locali e ristoranti. Il Ntelenia è uno di questi, con i tavolini e gli ombrelloni che affondano direttamente nella sabbia.

Nella mia immaginazione, è uno dei locali preferiti da Milo, quello dove recarsi quando hai voglia di non pensare e non prenderti troppo sul serio. E di ricordarti che sei anche un uomo, oltre a un cavaliere.

 

Kostas e la sua famiglia

Kostas è un vecchio amico di Isavros, l’uomo che ha cresciuto Milo.

Soldato, marinaio, taverniere, arrabatta dalla vita quello che può per la felicità della sua famiglia: di sua moglie Akylina, di sua figlia Electre (di un anno più piccola di Milo) e di suo figlio Gràvil. Per Milo, orfano fin dall’infanzia, sono ciò che più si avvicina ad una famiglia, sono la sua famiglia adottiva, quella da cui si reca ogni volta che torna sulla sua isola.

Camus li ha conosciuti a sedici anni, quando per la prima volta si è recato con Milo sull’isola di Melo.

 

Mandrakìa

Minuscolo villaggio di pescatori greco, dell’isola di Melo. Costruito lungo un promontorio roccioso con vista sullo stretto di Kimolos è caratterizzato dalla presenza delle syrmata, darsene di forma cubica scavate nella roccia da mare, vento e anche dalla mano dell’uomo, una volta usate solo come riparo per le imbarcazioni, ma successivamente anche come vere e proprie abitazioni. Dal momento che affacciano praticamente sul mare, con l’alta marea il sottile spazio di banchina viene sommerso e l’acqua filtra nelle case, con le loro caratteristiche porte colorate.

Milo ci ha portato Camus quando avevano sedici anni, la prima volta che sono andati insieme sull’isola natale di Scorpio.

 

 

La Siberia e affini

 

Anatolij

Anatolij è stato il maestro di Camus e Oskars, vero nome (per me) di quel povero personaggio tanto bistrattato che è il Maestro dei Ghiacci. E che sì, romperà il rapporto maestro-allievo fra Camus e Hyoga, ma ci sta bene. Tanto. Punto.

Comunque no, Anatolij non è morto. Ma dopo l’investitura di Camus si è ritirato a Siniy gorod (Blue Grado, nel manga), alla corte di re Pjotr, e funge da punto di contatto fra la città e il regno di Anissa in Grecia.

È stato Anatolij a dare a Camus il suo nome: quando Louan è arrivato in Siberia, Anatolij faticava a ricordare il suo nome, così diverso da quelli sovietici (perché ricordiamocelo: Camus è stato allenato nella Russia sovietica, quando il Muro di Berlino c’era ancora), ma non voleva nemmeno affibiargli un nome di comodo. E l’unica cosa che conoscesse della Francia, questo maestro che prima era stato un soldato dell’Armata Rossa, era Albert Camus. Da qui l’abitudine di chiamare Camus il suo allievo; abitudine che Louan ha conservato facendone il proprio nome dopo l’investitura.

 

L’izba

Tutti conoscete l’izba dell’anime e del manga. E penso che tutti immaginiate che prima di essere stato la casa durante l’addestramento di Hyoga, lo possa essere stata anche per Camus e Oskars.

L’izba è una piccola casa tradizionale in tronchi d’albero, con un tetto di paglia a due spioventi e finestre sul davanti, l’abitazione tipica e più diffusa presso i contadini, molto presente nel folklore locale. Tradizionale ha soltanto una grande stanza (di circa 24 metri quadrati) dove i contadini cucinano, mangiano e dormono e l’oggetto più importante è la stufa. Il nome stesso di izba deriva dalla parola stufa in russo antico: per la precisione izba significa “quella che si riscalda”. La stufa, infatti, è il cuore dell’izba: la si accende al mattino e durante tutta la giornata accumula calore che redistribuisce la notte, quando la caldaia non è alimentata. Le sue notevoli dimensioni le permettevano di fornire anche spazi per riporre stoviglie e pentolame, per accogliere un forno e anche una sala per un bagno caldo, dato che il suo spazio interno può tranquillamente contenere un uomo adulto. Inoltre, non possiede alcun fornello sulla cima, che quindi può essere riciclata come giaciglio, il migliore e il più ambito, destinato agli anziani o ai bambini. Questo giaciglio è creato grazie ai polati, delle assi che vengono sistemate proprio sulla sommità della stufa, fungendo al contempo da isolante della pietra incandescente e conduttore di un bel tepore; segue poi un pagliericcio e infine delle coperte, di solito di feltro. Nelle zone siberiane estreme, anche di pelliccia.

 

Kobotec e Yamal (e Siniy gorod, giusto per chiudere il cerchio)

Attenzione: la seconda parte di questa nota è l’unica che si potrebbe ritenere se non proprio necessaria, almeno funzionale.

Andando con ordine, Kobotec è il villaggio, il grumo di case, in Siberia dove si consuma l’addestramento di Camus prima e di Hyoga poi. E tutti quanti lo conosciamo.

Siniy gorod è il nome traslato in russo di Blue grado, la città che compare nello speciale del manga dedicato a Hyoga prima e in Lost Canvas poi; direi che ormai è canon.

Yamal invece è mia: nel senso che è per me che ha un valore particolare.

La penisola di Jamal (o Yamal) si trova a nord del Circolo Polare Artico nella Siberia occidentale, sotto l'amministrazione del Circondariato Autonomo Jamalo-Nenec, remota regione della Russia scarsamente popolata e caratterizzata da un clima polare molto rigido. La penisola è un luogo quasi "fuori dal mondo", abitata dal popolo Nenci (o Nenets), etnia indigena della Russia che vive ancora secondo tradizioni molto radicate, una vera e propria popolazione nomade che si sposta quasi di continuo seguendo la transumanza dei greggi di renne, animale al centro della loro vita e fulcro dell'economia.

La penisola Jamal è interessante soprattutto per l'aspetto etnico-culturale, ma anche per la natura estrema e per il paesaggio insolito rappresentato essenzialmente da un deserto di ghiaccio sconfinato dove, con la latitudine, si susseguono varie specie vegetali che diventano sempre più rachitiche man mano che si procede verso nord. Le renne sono talmente numerose da costituire il paesaggio stesso, mentre i mesi invernali, quando le notti sono ancora lunghe e buie, il fenomeno dell'aurora boreale farà stare tutti con il naso all'insù per osservare questo spettacolare fenomeno. La città di Salekhard, tappa obbligata in quanto punto di ingresso, merita una visita approfondita, soprattutto per l'interessante museo della storia naturale dove sono conservati numerosi reperti (inclusi mammut mummificati) che il ghiaccio ha conservato in modo strabiliante.

In questa regione remota, primitiva, ho immaginato che viva in simbiosi con la natura e il popolo Nenci Sneguročka, la figura cui Camus e Milo si riferiscono chiamandola solo Lei.

Nel mito slavo, Sneguročka è una donna/ragazzina con gli occhi blu come il ghiaccio dell’inverno, guance rosse ed un abito bianco e celeste. Ha origini da antiche leggende pre-cristiane, in cui veniva raffigurata come la figlia dell’Inverno e della Primavera. È una creatura magica che, chiamata, arriva avvolta in un vortice di neve e ha il potere di comandare i fiocchi di neve e di far prendere loro qualsiasi forma ella desideri, come delicati fiori di brina, silenziosi giardini di felci di ghiaccio e splendidi e strani animali invernali. In sostanza, la versione mitica della Regina dei ghiacci. Per questo ho immaginato che il Cavaliere che ha il dominio assoluto delle energie fredde debba esserne sciamano (Camus prima, come Acquarius. E Hyoga poi, come suo erede. Anche se non è l’armatura a definire il titolo, ma le capacità del singolo) o comunque in qualche modo ne debba ricevere la benedizione. Che si trasforma in un rapporto un po’ particolare, in cui la lealtà a lei non è assoluta né vincolante, ma necessaria per mantenere il controllo sui ghiacci eterni.

Fate come se Anissa avesse accettato di dividere il cavaliere che padroneggia i ghiacci con quest’altra divinità, per rispetto e per coesistenza.

Camus l’ha conosciuta bambino prima, e poi da uomo (oddio. Facciamo ragazzo) poco dopo la sua investitura. Hyoga ha fatto lo stesso, e infrangendo le regole che vogliono che solo chi abita le distese delle nevi eterne la conosca, l’ha fatta incontrare con Milo, poco dopo la morte di Camus alle Dodici Case.

 

 

Note linguistiche varie (sono in ordine alfabetico, non di presenza nel testo)

 

Alethina: davvero in lingua greca

Ara: espressione intraducibile dal greco, indica sorpresa e meraviglio o perplessità

Bien sur: certamente in francese

Calme-toi: calmati in francese.

Eis Keramion: vai al diavolo in modo scherzoso, in greco

Fisikà: certamente in greco

Fut! : espressione francese non traducibile; è un intercalare che indica stizza, esasperazione

Gueh: espressione francese intraducibile che indica sorpresa, meraviglia o perplessità

Kaoc'h: merda in bretone. Camus conosce l’imprecazione, ma è solito comunque usare il francese merde, usato ormai più come intercalare che come vera e propria scurrilità

Malakies: stronzate in greco

Mamie: nonna in francese, in una forma affettuosa e familiare

Mamm: mamma in lingua bretone

Mat eo: d’accordo in bretone

Met nann: ma no in bretone

Na con la mano aperta davanti: gesto tradizionale greco chiamato mountza, serve per insultare qualcuno, spesso usato assieme all’espressione na, di per sé intraducibile. Spesso si accompagna a delle imprecazioni, anche in forma scherzosa (preso da solo, invece, è parecchio offensivo, perché la mano aperta con le cinque dita ben separate indica una maledizione che deve colpire l’interlocutore e la sua famiglia per cinque generazioni).

Nann: no in bretone

Ochi: no in greco

Ouis: forma colloquiale e familiare per in francese

P’tain. Que bordel: puttana! Che casino! in francese. Un modo di esprimersi che non è strano, soprattutto fra i giovani. Soprattutto la prima parola è sentita di solito come un semplice intercalare, e non come un vero e proprio insulto (per quello, esiste una parola apposta).

Que casse pieds: che rompi scatole in francese colloquiale

Que con: letteralmente che coglione, ma può anche essere usato in forma più colloquiale e scherzosa (che idiota)

Quoi: letteralmente significa cosa in francese, ma è usato anche come esclamazione o intercalare per indicare qualcosa che non si ha ben capito

Re!: intercalare greco corrispondente più o meno al nostro ehi!

Skatà: merda in greco

Skaze: cazzo in greco

Ta guele!: stai zitto, in francese colloquiale

Tadoù: papà in lingua bretone

Ya, dres: Sì, esatto in bretone

Ya: in lingua bretone

 

 

Pochi cenni gastronomici (più per spiegare i termini sparsi)

 

Andouille: tipica salsiccia di trippa di maiale affumicata che è possibile degustare anche a colazione su una tartina farcita al burro.

Billing: una grande piastra circolare di ghisa sulla quale si stende l'impasto della crêpe, aiutandosi con un rozell, una specie di rastrellino di legno, per cuocerla.

Cotriade: ricca zuppa di pesce e crostacei, delizioso piatto della cucina bretone.

Kouign: abbreviazione di kouign amann, letteralmente tradotto come “dolce al burro“, è un dessert da pasto o da colazione semplice e gustoso a base di pasta lievitata, zucchero e burro appunto.

Krampouezh: è il nome originale bretone della crespella, la crêpe insomma, preparata dolce o solata.

Ovelias: piatto principale della tradizionale Pasqua greca, è l’agnello cotto alla brace.

Plateaux: altro piatto tradizionale bretone, il cui nome completo è plateaux des fruits de mer, un piatto composto da tutti i principali frutti di mare.

Sidro: bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione delle mele e talvolta delle pere. In Bretagna non c’è alcuna produzione di vini, mentre invece sono diffuse la produzione di birre artigianali (la Coreff è una delle più apprezzate) e appunto di sidro.

Tsipouro: nome di una grappa greca ottenuta alla distillazione di vinaccia di vitigni greci. Di solito è una grappa pura (bianca), alcune volte viene aromatizzata all'anice o anche altri frutti.

 

 

  
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