Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo,
Malinconico, Slice of live
Personaggi Principali: Camus di Acquarius; Milo di
Scorpio
Altri Personaggi: Aurélie, in una fugace
apparizione. Aioros, Saga, Shura e buona parte della combriccola dorata; Kostas
e gli altri solo nominati.
Rating: giallo/arancione
per il linguaggio
In proposito: “Milo” lo chiama Camus, le mani fra le ginocchia e l’interesse
improvviso per le ombre della notte.
“Dimmi.”
“Noi siamo ancora
amici?”
“Sinceramente?”
mormora Milo, muovendosi a disagio sulla sedia, una gamba portata al petto e il
sapore dolce del sidro all’improvviso troppo forte, quasi nauseante.
“Non lo so.”
Sullo sfondo della ventosa costa bretone è
il momento di un discorso lasciato per troppo in sospeso: il perché del
tradimento di Camus ad Asgard che ha portato ad un passo dall’infrangere il
rapporto di una vita.
Per
Francine,
senza la quale l’idea forse non sarebbe nata.
Attenzione: novel
Disclaimer: i personaggi sono
di Masami Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^
Note: novel; one shot; missing moments
Cose:Ok, questa fanfic
non è quello che qualcuno si aspettava, probabilmente. E se ho deluso o
deluderò me ne dispiace. Sinceramente.
Ma quando mi è stato gettato l’amo, io non
ho potuto esimersi di abboccare. E da subito, nella mia mente, si è formata
questa scena. Va bene, forse non proprio la scena completa della fanfic, ma gli
estremi sì. Ho immaginato Camus, e Milo e la ventosa costa bretone. Ho
recuperato un paesino, Louguivy-sul-la-mer,che
è una goccia nella mia memoria, e gliene ho affiancato un altro, Saint-Quay-Portieux, un'altra piccola
pittoresca perla di mare.
Questa storia mi ha fatto compagnia nei giorni
di influenza, con gli occhi a mezz’asta e un mal di testa da volersela
staccare. E in seguito. Perché è andata oltre quello che prevedevo, e ci sono
voluti quasi sei mesi, per finirla. Praticamente, un parto. O ci siamo andati
vicini.
Ma, come dicevo, mi ha fatto compagnia. Mi
ha fatto compagnia perché, per documentarmi come si deve, ho fatto un giro cartaceo
e informatico (che un viaggio no, non era né tempo né stagione per farlo) in
quella Francia che amo, che mi manca e in cui ho lasciato un pezzetto di me. Ho
vissuto a Parigi, e nel sud di questo magnifico paese, in paesini
dell’Occitania e dei Midi-Pirenes, e la Bretagna è stata più che altro un volo
di gabbiano fatto da bambina. Però. Però ce l’ho qui, nel cuore. Con la sua
cucina, le sue usanze e la sua lingua, che mi ricorda tanto il tedesco (o
l’olandese, se conoscessi l’olandese).
Camus, per me, è bretone; Camus è Louan Maël Le Blais, figlio e nipote di
pescatori, cresciuto in una paesino che affaccia su una baia del mare della
Manica. Ma dalla Bretagna se n’è andato presto, e per questo alla lingua madre
mescola il francese di Parigi, dove ha vissuto per alcuni anni da adolescente
(un po’ di argot e un po’ di verlan quindi). Quindi sì: francese,
dialetti francesi e bretone. Perché è in Bretagna che va a rifugiarsi, quando
le cose non vanno. E dopo Ásgarðr le cose non vanno.
Per questo ho preferito ambientare qui il
confronto- rapporto-dialogo. O quello che è. O sarà per voi. Perché qui Camus è
se stesso, o almeno prova a recuperare se stesso. Qui Camus è disposto a
parlare. Anche di quel tradimento che lo ha visto protagonista in Soul of Gold. Che, ammetto, devo ancora
decidere se mi sia piaciuto o meno. E che sì, fra le camicie improbabili, i
rovesci di carattere che manco le montagne russe, una storia d’amore (che amore
non è. Almeno per me), sarà anche l’elemento meno deterrente, ma c’è; con annesso
rinsavimento nel momento della dipartita di Shura. A seguito di epico duello
pieno di pathos, ovviamente.
Quindi: questa è la mia versione di quello che è successo, in quelle lande
desolate. E del come e del perché Camus abbia scelto di stare, fin quasi
all’ultimo, sul fronte opposto. E del come e del perché si sia arrivati allo
scontro e alla (quasi) morte di Shura; e di come ci sia rimasto Milo.
Perché sì: Milo è la seconda parte dell’equazione. E sì, sarà banale e sarà
semplicistica, come soluzione. Chè non sono la prima né sarò l’ultima a mettere
in campo questi due. Ma, oh: io non ce l’ho fatta, a resistere. Perché
nell’economia della mia testa la cosa funzionava solo con Milo. E, onestamente,
continua a funzionare solo con Milo. Almeno per quello che riguarda questo confronto.
Forse perché Milo già conosce la Bretagna e
la famiglia di Camus (nel mio fan-verse,
ha incontrato tutti loro subito dopo la morte di Camus durante la battaglia
alle Dodici case); forse perché è con Milo che c’è un rapporto particolare, non
tanto più stretto quanto solo più complice. Forse perché Shura (per me, al
secolo, Diego) è quello che è e il
tutto ha la sua spiegazione se vorrete leggere.
Non lo so.
È diversa sotto altri aspetti, rispetto al
solito: è più dialogata (e chi mi legge sa che non sono una campionessa, di
dialoghi. Sempre pochi, prediligendo il flusso di pensiero e il discorso
indiretto. Anche libero, sì), e più articolata anche nel tempo. Sono
classicista, e resto classicista, e la lezione di Aristotele sulle unità
narrative l’ho masticata e digerita, quindi luogo e tempo limitato (se non
proprio univoco). Ma sì, prende più di un fugace incontro. E. Ripeto: non lo
so.
A me piace.
Piace per l’atmosfera che ho respirato
nello scriverla, fosse anche diventato un qualcosa di troppo avulso da Saint Seiya; ma io amo Saint Seiya e amo vedere i personaggi
muoversi in un contesto di quotidianità con i loro rimandi a un’altra vita, a
un mondo che solo loro conoscono, con i suoi drammi e le sue regole
inviolabili.
Mi piace anche perché ogni angolo che ho
descritto esiste. Prendete GoogleMaps, se non mi credete, e cercate: se
le fotografie non cambiano, troverete la crêperie,
e la strada, e la casa di Camus, esattamente com’è descritta. Forse sono
pedante. Sicuramente sono ossessiva. Ma non è tanto la lezione di Flaubert a
essermi entrata nelle vene, quanto piuttosto la voglia di dare davvero uno sfondo e un tempo (siamo nei
primi anni Novanta, per la cronaca) reali a questi personaggi.
E sì: Camus regge poco l’alcool ed è un
pessimo cuoco (in barba alle sue origini, e al fandom che ho scoperto lo ritiene una specie di masterchef
occulto), mentre Milo con i liquori non ha problemi e ai fornelli se la
cavicchia (nulla si chè, per carità) ed entrambi sono legati al mare e alle sue
correnti. Non me ne vogliano i puristi.
Infine,
è lunga. Sì: è decisamente lunga. E anche se saprei benissimo dove e perché
tagliarla, per articolarla in capitoli, non
voglio farlo. È un carico da novanta, quello che si rovesciano addosso
questi due; e secondo me va letto come un carico da novanta. C’è il rischio dei
tempi narrativi, certo. E della stanchezza. Ma non importa. O meglio: mi
importa nel senso che sì, vorrei che chi ce la facesse ad arrivare in fondo in
una sola tirata si sentisse addosso quella stessa stanchezza che hanno Milo e
Camus.
Ci sono anche delle cose sott’intese, in
questa storia. Non molte, giusto qualcosina. Per alcune note eventuali se
vorrete, rimando a fino capitolo. Nulla di davvero necessario (forse solo una,
ma non è davvero fondamentale) e la storia si può benissimo leggere anche così.
Da sola. Salvo conoscere Soul fo gold,
ovviamente.
Il gusto del sidro e
del mare
“Cosa
è successo.”
Una frase del genere se l’era aspettata. E
anche quel tono, quello freddo e distaccato che usa sempre quando è in
tensione. Come il modo che ha di restare in piedi, rigido e compassato. Anche
con quel grembiule e il vassoio ancora in mano.
E vorrebbe mettersi a ridere, davvero.
Perché Camus, in quel momento, con quello
sguardo che vorrebbe ucciderlo, gli sembra completamente fuori luogo sul
lungomare di Saint-Quay-Portrieux, fra gli arredi in ferro battuto del
plateatico e le fioriere a righe azzurre e blu.
E si chiede quanto sia passato, da quando
si guardavano così. Si chiede perché, all’improvviso, tutto sia cambiato, e
nello sguardo di Camus si legga il sospetto e l’apprensione, e non quel misto
di imbarazzo e insofferenza che ci avrebbe visto una volta. Se lo avesse
pescato a fare il cameriere alla Crêperie
du port.
“Ma niente” gli risponde, scrollando appena
le spalle e decidendosi a coprire quei cinque metri scarsi tra i due
marciapiedi. “Perché deve essere successo per forza qualcosa?” continua,
appoggiando il borsone sulla botte. Blu con le doghe d’argento.
Deve
essere una mania di famiglia, il blu.
“Perché sei qui.”
E da
un bel po’, anche
vorrebbe precisargli. E no, non è stato granché piacevole restarsene in piedi
sotto il sole di settembre ad aspettare che Camus si accorgesse di lui. E
forse. Forse Camus di lui si era già accorto, solo non aveva voglia di parlare.
Tutto qui. Non aveva voglia di rientrare così, all’improvviso, in quel mondo da
cui sembra esser scappato senza dir una parola a nessuno. E allora forse. Forse
davvero aveva solo cercato di ignorarlo, sperando che se ne andasse. Scegliendo
quel mutismo che gli riesce tanto bene di mettere in pratica quando vuole
chiudere fuori tutto e tutti.
Sono proprio quei mutismi a non andargli
giù. Quel modo che ha Camus di affrontare i problemi. Rimuginandoci su fino
alla sfinimento. Una volta quel modo di fare lo divertiva, lo trovava
particolare perché gli ricordava l’ostinazione di un bambino. Con il tempo,
invece, ha iniziato a irritarlo. Come lo irrita sempre più spesso il modo che
Camus ha di voltargli le spalle senza degnarlo di una parola. Come se avesse
già tutte le risposte in tasca, lui.
Però
qui ci sono venuto. Alla fine.
E questo non può nasconderlo. Come non
riesce proprio a staccarsi dalla faccia quel mezzo sorriso che gli sta facendo,
come fosse la cosa più naturale del mondo. Mentre lo provoca. Lo provoca solo
standosene lì, in camicia e jeans, una mano sulla rastrelliera dei fiori e
l’altra nella tasca dei pantaloni. Come quando erano ragazzi. Come quando, da
ragazzi, Camus tornava e lui si ficcava in testa che dovevano parlare. Anche
solo per sentirsi mandare al diavolo prima di trovarsi a bere due birre al Ntelenia, i piedi nella sabbia e il mare
a due passi.
“Ci sei anche tu. O sbaglio?” gli risponde,
allargando ancora di più quel sorriso che, adesso, non ha più niente di
innocente. Perché ci sono troppi sottintesi, in quelle parole, perché Camus non
riesca a capire. E Camus le cose le capisce. Troppo in fretta, alle volte. E in
quel modo tutto suo che poi, chissà perché, si rivela più sbagliato che giusto.
Ma non è uno stupido, Camus, e lo ha capito, che quella non è solo una semplice
visita di cortesia. Lo ha capito e gli rode, che lo abbia raggiunto lì, in quel
paesino della Bretagna che è la sua personalissima Itaca. Quel porto sicuro e
segreto dove va a rifugiarsi quando qualcosa non va e la vuole solo
dimenticare.
E lui si chiede cosa sarebbe successo, se
Camus non fosse quello che è. Se non lo fossero entrambi, quello che sono.
Se lo sono chiesti assieme più di una
volta, in verità. Nelle serate pigre, la stanchezza degli allenamenti nelle
ossa e l’euforia di essere di nuovo assieme, anche solo per poche ore, anche
solo per una nottata consumata a chiacchierare sotto le stelle.
Se lo sono chiesto spesso, cosa sarebbe
successo, se il loro cosmo non si fosse risvegliato. Se Camus, a sei anni, nel
dolore delle lacrime e della disperazione, non fosse esploso per la prima volta
in un turbine di ghiaccio e neve. O se lui stesso non avesse avvertito sotto la
pelle il fremito elettrico di Antares incendiargli le vene come una corrente
che si propaga rapida e letale.
Già. Se lo sono chiesti spesso, in passato,
la pigrizia di immaginare una vita diversa, un futuro diverso che non fosse un
lento prepararsi alla morte.
Lui probabilmente sarebbe rimasto sulla sua
isola, forse avrebbe dato una mano a Kostas, forse adesso al mattino si
sveglierebbe con gli occhi di Electre nei suoi, e la sua bocca aperta in un
sorriso. Forse. O forse se ne sarebbe andato; forse la sua isola gli sarebbe
diventata troppo stretta e avrebbe preso il mare, come altri prima di lui.
Forse Atene non l’avrebbe mai vista o forse ci avrebbe passato tutta la vita,
chissà.
Camus invece. Camus probabilmente il mare
lo avrebbe preso per certo, come suo padre prima di lui. O forse. Forse se ne
sarebbe andato anche lui, da quel villaggio di pescatori incastrato nella baia
di Louguivy. E sì, ce lo avrebbe visto davvero, Camus, a fare il cameriere in un
bistrot, magari a Parigi. O a Lione.
E alla sera poi passeggiare lungo la promenade,
una bella francesina al braccio e tutta la vita davanti.
Sì: sarebbe stata una bella vita.
Una vita diversa, una vita in cui loro due
non si sarebbe nemmeno incontrati. Ma sarebbe stata comunque bella. O forse.
Forse è bella solo perché è un sogno, è quel sogno di normalità, di diversità,
che hanno sempre cullato, nella loro cieca devozione. Per ricordarsi che c’è
davvero un’altra vita, un altro mondo, fuori dalle mura del Temenos. Ed è per
quel mondo e per quella vita, quella vita che non è stata ma avrebbe potuto
essere, che sono sempre stati pronti a lottare e morire. Per quella vita che
non è mai stata loro, scomparsa nello scintillio del cosmo che si incendia come
una galassia.
Va
bene anche così.
“Te lo ripeto” gli soffia Camus, una mano
troppo stretta al suo braccio, mentre lo spinge verso la porta, sotto la tenda
gialla, a due passi dalla svolta della strada, a quell’angolo dove ha capito
che vuol infilarsi. “Perché sei qui.”
“Avevo del tempo libero” butta lì,
strattonando il braccio e piantandosi davanti all’ingresso, fra i clienti che
occhieggiano e il profumo di birra, sidro e vapore caldo. “E non mi andava di
restare al Temenos.”
“Potevi andare da Kostas” prova a capire
Camus, il vassoio ancora in mano e lo sguardo di chi non sa nemmeno se essere
contento o meno. “Ci vai sempre, quando puoi.”
“E invece ho preferito venire qui” sbuffa,
gli occhi che corrono veloci in giro. Come a recuperare il tempo trascorso
dall’ultima volta. “Perché? Non ti sta bene?”
No pensa Camus. Però.
Da quando hanno smesso di parlarsi con
normalità?
Milo se lo è chiesto spesso, in
quell’ultimo anno. Da quando non riesce più a parlare con Camus senza avvertire
quell’irritazione crescergli nello stomaco come una marea. Anche una volta non
era facile parlare con Camus; anche una volta c’erano volte in cui Camus lo
esasperava, con quel suo modo di fare così distaccato e imperturbabile.
Sembrava quasi indisponente, quelle volte, o altezzoso. Un vero arrogante
bastardo. Ed erano le volte in cui ci si intestardiva di più, a parlarci.
Perché lo conosceva. Perché aveva imparato a conoscerlo, e sapeva che era tutta
scena. Sapeva che dietro a quell’atteggiamento compassato, Camus era come lui:
un ragazzino con una responsabilità enorme a gravare sulle spalle e tante
domande dalle risposte paurose.
Perché non puoi dire ad un ragazzino, a un
bambino di otto anni, gli occhi spauriti e un greco che mastica appena, che è
nato per morire, è nato per esplodere in uno scintillio di polvere di stelle.
Non puoi dire ad un bambino strappato da una terra di mare e di vento che non
ci sarebbe più tornato; e che tutto quello che avrebbe visto, da quel momento
in poi, sarebbe stato il sangue nell’arena e lo strazio della battaglia.
Non puoi dirlo, non dovresti dirlo.
Ma lo avevano fatto. Lo avevano fatto che
Camus ancora non capiva bene nemmeno Kalimera
e Kalispera. Lo avevano fatto e lo
avevano consegnato all’arena. Era stato anche per questo che gli si era
avvicinato. Era stato anche per rassicurare un bambino spaurito quanto lui in
un mondo mai visto, con una lingua mai udita dai suoni duri e secchi, con
quella cadenza ritmata che sembra sempre correre sulle parole. Era stato anche
per questo che avevano iniziato a parlarsi, loro due. Con i gesti e con la
semplicità di chi sa capirsi ancora senza bisogno di parole.
Avevano iniziato così, e se anche Camus era
stato portato via presto, fra loro qualcosa era rimasto. Qualcosa di semplice,
e così complesso da essere una ricchezza da custodire. Facendola crescere anno
dopo anno nella distanza e nella separazione; rinverdendola ad ogni occasione,
ad ogni piccola possibilità. Era. Era qualcosa di così contorto e speciale, da
apparire quasi banale. Qualcosa che aveva insegnato loro a cercarsi, a fidarsi.
Ad appoggiarsi l’uno all’altro anche quando di appoggi non ce n’erano, anche
quando il dovere e la battaglia trascinavano lontano.
E allora perché? Perché, continuava a
chiedersi, quell’equilibrio fra loro si era spezzato. Perché Camus aveva deciso
di spezzarlo così, come se niente fosse. Aveva deciso di mischiare le carte in
tavola e poi, all’improvviso di abbandonare la mano. Salvo poi tornarci, al
tavolo, con la stessa faccia da giocatore con cui se ne era andato. E a lui,
questo, proprio non andava giù.
Perché quell’amicizia, quel rapporto
speciale, per lui aveva significato molto. Aveva significato tutto, in realtà.
Aveva significato un senso anche in quella vita da soldato, in cui le amicizie
sono spesso l’offerta sull’altare del dovere. Lo sapeva Camus e lo sapeva anche
lui, che quello che li legava non li avrebbe potuti proteggere, non li avrebbe
potuti salvare. E andava bene anche così. Sarebbe andato bene anche così. Forse
la loro vita si sarebbe consumata in un’esplosione di stelle; forse sarebbero
sopravvissuti entrambi. Forse uno avrebbe raccolto il corpo dell’altro, assieme
ai cocci dell’illusione di una vita e di un’amicizia nata per non soffrire
troppo. Forse. E sarebbe andata anche bene così, sì.
Ma
così no. Così non lo accetto.
Non con Camus sul fronte opposto; non con
Camus che lo fissa, negli occhi la stessa determinazione di ucciderlo che un
tempo era la volontà di salvarlo. Non con Camus che rinnega tutto: se stesso,
l’armatura e Anissa. Per poi tornare. Tornare fulgido di Acquarius, la testa
alta, fiera, e la quieta indifferenza di chi non si rammarica di nulla. Di chi
rifarebbe tutto d’accapo, convinto della propria scelta.
“Allora?” lo incalza ancora, con
quell’emergere forte, prepotente dell’accento insulare che gli colora la voce
quando è spazientito o arrabbiato. E
adesso non so cosa sono di più, dei due. “Ti dà problemi, che io sia qui?”
“Met
nann” sospira infine Camus, una mano a massaggiarsi la radice del naso.
Come fa sempre quando non sa bene se rassegnarsi o esasperarsi per quel suo
modo di fare. Così altalenante fra leggerezza e irritazione da non saper proprio
come prenderlo, perché non morda. O punga.
“È solo che non capisco. Tutto qui.”
“Tutto qui?”
“Ya.”
“Sei sparito” lo incalza Milo, piantandogli
a due centimetri dal naso tutta la sua rabbia. “E tutto quello che hai da dire
è tutto qui?”
Camus ha la faccia di quando non capisce.
Ha davvero quella faccia, e Milo vorrebbe strozzarlo seduta stante. Vorrebbe
tirargli un pugno e costringerlo a dargli una risposta, una, che sia decente. E
sensata. O forse ha solo voglia di pestarlo. Di prenderlo a pungi come quando,
da ragazzi, l’arena era la sola lingua che Camus sembrasse capire, quando si
ostinava a rinchiudersi in se stesso.
Anche se lo sa, che ci sta per provare, a
dargli una qualche spiegazione. Una che, soprattutto, motivi il perché di
quella sua faccia mezza inebetita mezza spazientita. Perché sì; perché lo ha
capito che Camus inizia a non poterne più, della sua presenza. Inizia davvero
ad essere infastidito, da quel suo modo di fare e dal fatto che si è presentato
alla crêperie.
“Louan Maël Le Blais” scandisce invece
qualcuno, interrompendolo. E Camus ingoia la riposta e Milo sente le labbra
stendersi in uno di quei sorrisi pieni, aperti, che riserva solo a chi è
davvero importante. “Stai dando spettacolo. Si può sapere cosa sta succedendo?”
Aurélie è come se la ricordava. Un uragano
di energia che ti travolge come una piena, un’euforia calda, rassicurante.
Aurélie è Aurélie, con quel sorriso che le si allarga a illuminarle gli
occhioni azzurri smarginati, quando lo vede. E lo riconosce.
“Milo” si sente chiamare, una risata di
stupore gaio nella voce e due braccia di libellula che lo stringono. “Sei
davvero tu? Quando sei arrivato?”
“Adesso, Auraur” le risponde, e se la
stringe al petto con tutto quell’affetto che solo una complicità nata nel
dolore può insegnare. Perché Aurélie l’ha conosciuta così, quando aveva
vent’anni e un buco nel petto che non sapeva come riempire. L’ha conosciuta che
Camus gli era rimasto fra le braccia, la pelle di ghiaccio e quel sorriso
strano, quell’incurvarsi appena delle labbra che gli aveva lasciato dentro,
nello stomaco, il più grande odio e il più profondo rammarico.
Perché Camus era suo amico. E gli amici non
si fanno ammazzare senza spiegarti nemmeno il perché; gli amici non rinunciano
a lottare, quando sanno che c’è una promessa da rispettare. E loro, quella
promessa, se l’erano fatta: di sopravvivere fino alla fine, di non arretrare
mai, di un solo passo.
E Camus. Camus si era lasciato ammazzare;
da quel ragazzino che lui stesso aveva cresciuto. Camus si era lasciato morire,
Milo lo aveva capito e non lo aveva accettato. Come non si era rassegato
all’angoscia e alla colpa di essere stato proprio lui a lasciar passare Hyoga.
Per un dubbio. Solo per un dubbio che lo aveva sfiorato. Ma in battaglia sono i
dubbi a far pendere l’ago della bilancia. E quando combatti per Anissa, il
dubbio è quell’increspatura che non ti puoi concedere, che non puoi permetterti
di soppesare. Perché se hai dei dubbi, allora. Allora forse non è Anissa, la
tua strada. Oppure.
Milo ci si era artigliato, a quell’oppure che gli aveva trafitto il
cervello. Ci si era avvinghiato con tutte le sue forze, azzannando quella
possibilità con la caparbia determinazione di chi all’improvviso vede il mondo
da una prospettiva nuova, da un’angolazione sconosciuta.
Aveva voluto scommettere su quel dubbio,
Milo di Scorpio: e aveva vinto la battaglia e perso un amico. Il più caro.
Aurélie l’aveva conosciuta così.
Un cappello di paglia in testa e delle
cesoia da giardinaggio in mano. Mentre a Louguivy rassettava un giardino umido
di un inverno che non se ne voleva andare. L’aveva conosciuta che non cercava
altro che ritrovare Camus e le sue scelte in quello che era stato. Per non
essere costretto a odiare Hyoga, e se stesso.
L’aveva conosciuta nella rabbia e nella
frustrazione, e con lei aveva passato ore a ricostruire l’infanzia di un amico,
sempre troppo avido di parole, sempre troppo triste per raccontare di una terra
abbandonata da bambino. Con Aurélie, Milo aveva conosciuto un altro Camus, un
Camus che non era mai arrivato al Temenos. Con Aurélie, Milo aveva conosciuto
Louan; aveva conosciuto un bambino che Camus
non sapeva nemmeno cosa significasse, e che era morto quel giorno che era
partito per Lannion, un volo verso una terra che affacciava sul caldo mare
Mediterraneo.
“Guarda che per il matrimonio sei in
anticipo” gli dice Auraur, stringendogli ancora quelle braccia che conosce così
bene. Perché è in quelle braccia che Aurélie ha trovato il conforto per la
morte di Louan, di quel cugino con cui era cresciuta, di quel bambino raccolto
in casa quando il mondo gli era crollato addosso. Perché è nelle braccia di
Milo che Aurélie, a ventitrè anni e con tanta confusione in testa, aveva
scoperto cosa fosse l’amore e cosa significasse desiderare qualcuno. Ed è fra
quelle braccia che ha ricevuto la prima delusione. Quando, impudente, lo aveva
baciato. O almeno ci aveva provato, sperando in qualcosa in più di una fronte
contro la sua e del respiro caldo di Milo nell’orecchio. Di quel mi piaci, Auraur sussurrato su un divano,
la penombra del camino e il vento a premere sulle finestre. Davvero; mi piaci molto. Ma sei sua cugina.
E io un soldato che potrebbe morire domani aveva continuato, accarezzandole
quel profilo di giovane donna, gli zigomi un po’ sporgenti come li aveva Camus.
Ho perso un amico. Il più caro. E tu un
cugino. Quasi un fratello. Non voglio che questo. Qualsiasi cosa sia questo.
Non voglio che ci facciamo del male. Non voglio perdere anche te. Non per
questo. Non così.
E per quello non l’aveva persa. Per quello
Aurélie si era asciugata le lacrime, dopo che lui se ne era andato, ed era
andata avanti con la sua vita. Accogliendolo con un sorriso e un bicchiere di
sidro ogni volta che gli capitava alla porta, per nostalgia o forse solo per
solitudine. Perché Aurélie gli ha sempre ricordato Camus. Glielo ha sempre
ricordato nel modo che ha, di piegare la testa di lato o per quello sbuffo
leggero che le solleva i capelli, la frangia sempre troppo lunga, quando è
arrabbiata.
Glielo ha ricordato, glielo ha insegnato negli
anni in cui Camus era solo il ricordo di un amico perso troppo presto; glielo
ricorda ancora adesso, che Camus è ben saldo al suo fianco, la camicia con due
bottoni slacciati e quel grembiule che sì, deve ancora decidere se gli stia
bene o no.
“Matrimonio? Ti sposi?”
“Sì. A metà ottobre. Con Benôit” gli
risponde, la sorpresa nella voce e il rossore sulle guance. “Te lo ricordi Benôit,
vero?”
E Milo se lo ricordi sì, Benôit. Due gambe
secche e un viso di lentiggini sotto una zazzera di capelli ricci. Glielo aveva
presentato proprio lì, alla crêperie,
mentre distribuiva l’impasto sulla billig.
Due anni più di lei, un diploma di perito tecnico in tasca e tanta voglia di
lavorare addosso. A Milo era piaciuto, tanto e subito. Perché per Aurélie era
il ragazzo giusto, era quello che non se ne sarebbe andato seguendo la marea e
non sarebbe nemmeno morto dando la vita per il sorriso di Anissa.
Sì: a Milo Benôit era piaciuto subito, e
gli piace ancora di più in quel momento, quando lo intravede in un saluto distratto
dentro la crêperie, le stesse
lentiggini sulla faccia e qualche muscolo in più nel corpo. Non è più il
ragazzino dinoccolato di alcuni anni prima, ma l’uomo giusto per Aurélie.
Quello che le darà sicurezza e stabilità.
“Non lo sapevi?” gli chiede ancora lei, e
Milo ammicca all’occhiataccia che Aurélie rivolge a Camus. Come fosse sua, la
colpa di quella gaffe. “Non hai
ricevuto l’invito? Te l’ho mandato all’indirizzo che mi avevi dato.”
“Ah. Non ci torno da un po’, a casa”
glissa, un gesto vago nelle spalle che sembra racchiudere tutto e niente. Milo
lo ha sempre avuto, quel modo di scrollare le spalle quando vuole aggirare un
discorso che non sa bene come prendere. E in quel momento non ha idea di cosa
dirle, o di cosa Camus le abbia detto.
“Ma me lo hai detto ora” si affretta a
continuare, per non darle il tempo di chiedersi troppi perché. “E stai
tranquilla: non me lo perderei per nulla al mondo.”
“Davvero?”
“Alethina”
le sussurra, pizzicandole il naso in quella confidenza che ha preso negli anni
e nel conoscersi. “E sai che quando prometto prometto.”
“Sì. Lo so” sorride Aurélie, risistemandosi
dietro l’orecchio un ciuffo ribelle e regalandogli lo sbuffo di inchiostro sul
polso di una triskele fatta a diciotto anni, l’euforia di un qualcosa di
proibito negli occhi. “Ma allora perché sei qui?”
E nel chiederglielo Milo sente una nota
come di tremito. Sente la paura che serpeggia e gli occhi correre a Camus. A Louan. Correre a quel cugino tanto
amato e ritrovato per inciampo, senza voler sapere i come e i perché.
Ritrovandolo per stringerselo al seno e piangere, di gioia e di sollievo e
incredulità.
“Sei venuto a prenderlo?” gli chiede
ancora, mentre si stacca da lui con il tremito sottile di un uccellino che
all’improvviso si è scoperto tra gli artigli di un falco. “Dovete. Dovete
ancora…”
Sì: Aurélie ricorda tanto un uccellino, in
questo momento. Un uccellino che arruffa le piume e prova le unghie per
scoprire se anche lei ha la forza di graffiare, mentre cerca la mano di Louan e
la stringe. La stringe forte.
“Nann.”
“Okhi.”
Forse qualcosa ancora c’è, per cui andate
d’accordo, si dice Milo, nello scoprire la stessa risposta per rassicurare la
stessa persona. E si chiede se davvero tutto è così cambiato, se davvero quello
che è successo ha potuto cancellare quello che hanno coltivato negli anni.
Perché Camus è lo stesso di allora. Perché
Camus continua a guardarlo con la stessa espressione di sempre, mentre lui,
dentro, ormai non riesce più nemmeno a capire se prova rabbia, rimorso,
delusione o forse. Forse solo tanta amarezza. Per non essere stato forse mai
quell’amico che si ostinava a voler essere.
“Nann,
ma p’tite” dice Camus,
stringendo quella mano piccola e insolitamente fredda nella sua. “Io non vado
da nessuna parte. Non oggi, almeno.”
E Milo si dice che no, non era quello che
voleva. Non era quello che si era immaginato. Ma quel che è fatto è fatto, e
l’unica cosa che gli resta è raccattare la sua borsa e andare a farsi una lunga
passeggiata per Saint-Quay-Portrieux, nell’attesa che ripassi l’autobus per
tornare a Rennes o uno per Lannion.
“Ero solo venuto per parlare” sbuffa alla
fine, una mano ad arruffarsi la testa. Perché in fondo è quella la verità: con
Camus ci voleva solo parlare. Lontano dal Temenos e da tutto il resto.
Parlargli in quel posto che sa di tranquillità per entrambi, di quieta pacifica
sicurezza.
Parlare di quello che non è ancora riuscito
a capire, di quello che ancora non riesce ad accettare. E che tutti, invece,
sembrano aver accolto con una sospetta indolenza.
Ma Camus ha combattuto con i cavalieri del
nord, ad Ásgarðr. Ha combattuto levando la mano contro di lui e Anissa che lui
rappresentava. Ha combattuto per vincere, e per vincere gli ha scatenato contro
il gelo di Acquarius. E per lo stesso motivo si è scontrato con Diego e ha
permesso. Ha permesso che.
Io
non me lo sono dimenticato ha rimuginato in quei mesi, la vita una lenta
normalità che si andava ricostruendo. Fra mezze parola masticate con imbarazzo
e vecchi gesti di mani, di occhi, di braccia che si stavano riscoprendo come la
prima volta. In quei mesi, Milo non ha dimenticato quello che è successo, e che
ancora, davvero, non riesce a capire. Come non riesce a comprendere la
disinvoltura con cui Camus e Diego parlino, quando si incontrano nei templi
profumati di incenso e olio delle lucerne. Come non riesce proprio a capire
quel parlare rilassato, disteso, che c’è fra loro. Dopo quello che è successo.
Soprattutto dopo quello che è successo: il corpo di Diego un ammasso di carne e
ghiaccio nella sala che stava crollando e Camus. Camus che, appena cosciente,
guardava un amico d’infanzia trafiggere Diego. Lì, nel petto. Trafiggerlo e
donarlo alle spire di Yggdrasill.
No.
Io non me lo sono dimenticato.
Come non ha dimenticato che è stato Camus a
rivolgere per primo contro di lui il gelo di Acquarius. È stato Camus il primo
a scendere in campo contro di lui, contro di loro, il lucore del cosmo a
incendiargli lo sguardo e quella determinazione forte, assoluta, che Milo gli
ha sempre conosciuta. Rivolta contro di lui; rivolta contro Anissa.
Eppure.
Eppure Anissa non ha fatto niente, non ha
detto niente. Eppure Anissa, quando sono rinati, la vita in membra addormentate
alla morte, li ha stretti, uno per uno, i cavalieri che erano caduti per lei,
per il suo sorriso e l’universo che brilla nei suoi occhi. Li ha stretti e ha
detto solo ricominciamo.
Ricominciare. Ritornare a quello che
sarebbe dovuto essere; ritornare ad una vita prima, ad una realtà mandata in
frantumi in una notte d’ottobre, l’ultimo tepore del sole sulle rocce apriche e
il profumo di artemisia e olive torchiate nell’aria, con le prime piogge.
Sembrava facile; sembrava bello.
Ma non è stato facile; e nemmeno bello.
Perché quindici anni hanno scavato un solco, fra ognuno di loro. Perché quindici
anni hanno costruito dei legami che sono andati in pezzi all’improvviso, nella
crudezza di battaglie che hanno scoperto amici e traditori. Nell’asprezza di un
istante solo, consumato nell’esplosione accecante dei loro cosmi uniti davvero
per la prima volta. Uniti davvero per un istante. Come non è stato con Loki.
Come non sono riusciti davvero a ricreare nelle lande innevate di Ásgarðr.
Milo lo ha avvertito, quel misto di volontà
e ritrosia aggrovigliato al proprio cosmo. Lo ha sentito e lo ha riconosciuto negli
occhi sfuggenti di Aioria, nel sorriso sghembo di Cancer. Lo ha scorto anche
nelle labbra strette e sottili di Camus, chiuse in una linea che ricordava una
cicatrice e tanta amarezza. Lo ha percepito anche nel lucore caldo, abbacinante
di Sagitter, nel fremito delle sue ali. Lo ha sentito, e lo ha ignorato. Come
lo hanno ignorato Camus, Aioria e gli altri. Come lo hanno ignorato tutti loro.
Perché era ad Anissa che dovevano rivolgere la mente e le azioni. Perché era
per Anissa che erano di nuovo pronti a offrire e cosmo e vita.
Ma anche quando erano tornati. Ma da quando
avevano di nuovo calcato la terra, quella sensazione non se n’era andata. E il
tempo l’aveva solo stratificata, complicando tutto ancora di più. Accatastando
non detti su incomprensioni e occhiate sbilenche; sommando imbarazzi e ritrosie
con qualche passo in avanti, con la cautela di chi ha di nuovo paura di
scottarsi.
“Solo per parlare? Davvero?”
C’è un’ombra di aspettativa, forse di
sospetto, in fondo agli occhi di Camus. Nel modo che ha di piegare di lato la
testa, soffiando piano fra le labbra un respiro che sembra una confessione
trattenuta.
“Age”
sbuffa Milo, gli occhi al cielo chiaro e le mani ad affondare nei pantaloni,
cercando in fondo alle tasche le parole come fossero spiccioli dimenticati.
“Sì: solo parlare. Lo facevamo una volta. Ricordi?”
“Ricordo anche che, prima di parlare, di
solito ce le davamo.”
“Nell’arena, certo. Durante gli
allenamenti.”
“Non solo durante gli allenamenti.”
“Oh, quello” nicchia Milo, le spalle che si
stringono con noncuranza. “Facciamo che questa volta passiamo. Ho già le ossa
abbastanza a pezzi dopo questo viaggio. Non occorre che rincari la dose.”
Camus annuisce piano, soppesando il peso di
quelle parole che non sa nemmeno lui se attese o inaspettate. Resta il fatto
che Milo è lì, gli occhiali da sole in testa e quell’aria da gatto randagio che
cerca solo un cantuccio dove riposarsi un po’. E gli viene da sorridere, anche.
Perché Milo è sempre stato così: Milo è sempre stato quello che lo trascinava
fuori dalla sua solitudine e lo costringeva a raccontare. Anche quando non
voleva; soprattutto quando non voleva, in verità.
“Quindi: non lo vuoi portare via” espira
Aurélie, nello stomaco una sensazione che non è ancora sollievo e non vuole
chiamare certezza.
“No. Non lo voglio portar via” le conferma,
sulle labbra un sorriso di condiscendenza che ha il sapore dell’affetto. “Non
ho avuto degli ordini. Ve l’ho detto: avevo del tempo libero. E volevo parlare”
ripete ancora, stanco, lasciandosi cadere sulla sedia accanto all’ingresso.
“Con te.”
Camus espira piano, gli occhi socchiusi e
quel vassoio ancora in mano freddo come il ghiaccio. Non se n’è accorto, ma ha
concentrato lì tutta la tensione di quegli ultimi venti minuti. E adesso dovrà
gettare il vassoio e prenderne un altro, mentre gli avventori, ormai, a loro
non ci fanno più caso e Aurélie gli è sfuggita fra le mani, un sorriso sereno
sulle labbra e due baci alla guancia di Milo, in un saluto che è solo un
arrivederci.
“L’hai spaventata.”
“Non volevo. Davvero.”
“Sì. Lo so.”
Camus si concede un sorriso, uno di quei
sorrisi lievi come un’increspatura che riserva solo a pochi, a quei pochi che
davvero lo conoscono. In qualche modo, è contento. In qualche contorno modo che
nemmeno lui capisce, è contento che Milo sia lì, le gambe allungate sotto il
tavolino e l’ombra di una barba di due giorni sul mento. Si è fatto almeno
dieci ore, fra voli, cambi e corriera da Rennes per arrivare lì. E se li è
fatti perché voleva parlare con lui, perché forse vuole provare a ricostruire
quel rapporto che è andato in pezzi. Anche se nessuno dei due capisce ancora
perché.
“Senti” lo chiama, il vassoio che produce
un suono di cristallo quando tocca il tavolino in ferro. “Fatti un giro. Vai al
porto; o al Poisson rouge. O all’Atypic. Quay la conosci, no?”
“E se andassi da Ninenn?” butta lì Milo,
gli occhi sgranati di innocenza e un sorriso che sembra cancellare la
stanchezza. “Saranno tre anni che non la vedo.”
“Vacci pure, se ti va. Le farà piacere”
sbuffa Camus, un brivido lungo la schiena al pensiero di Milo e mamie a chiacchierare da soli, magari
davanti a un bel piatto di conchiglie di Saint Jacques nel profumo della
mollica rosolata con il prezzemolo. “Ma vedi di non spaventarla, d’accord?”
“Non credo che Ninenn si spaventi per una
mia visita” borbotta Milo, gonfiando le guance come un bambino. “Quella donna
resiste a tutto.”
“Non si sa mai” mugugna Camus, una mano a
massaggiare gli occhi. “Ci vediamo qui. Questa sera. Alle otto e mezza. Ça va bien?”
“Sì sì. Va
bien” lo canzona Milo, arrotolando al francese quel suo accento cicladico
che è insieme melodia e vitalità. E se ne va. Le mani in tasca e gli occhiali
ben calcati sul naso, con quella sua camminata distesa e rilassata di chi si sa
godere una manciata di ore arrivate all’improvviso. Di chi, alla vita, non ci
ha rinunciato e non ha alcuna intenzione di farlo.
Milo è sempre stato così, Camus lo sa. Milo
è quello che, forse più di loro, è stato fregato dalla vita; e che ha scelto di
andare avanti. Milo ha sempre scelto di andare avanti, ricacciando in fondo
allo stomaco tutti i perché e i però di un bambino cresciuto solo, di un
bambino che dell’infanzia conserva molto, e non possiede forse nulla.
Forse è per quello che Milo si affeziona a
quel modo alle persone.
Forse è perché non vuole dimenticare cosa
significa avere qualcuno al fianco, anche se non ci sono legami di sangue, che
Milo ha la pericolosa abitudine di aggrapparsi a quel poco di affetto che
riesce a raccattare. Con l’ostinazione e la cocciutaggine che solo un orfano
può avere.
Perché Milo non è come Mur o Diego e
nemmeno come Aioria, o come lui. Lui una famiglia ce l’ha ancora. Ha Aurélie e mamie Ninenn, e quando non è per mare
Fantin, con la sua pipa in bocca e le mani nodose di chi la vita l’ha passata
sulle barche, a raccattare dal mare reti e pesce.
Milo invece non ha nessuno.
Milo ha una casa bianca dalle imposte blu,
sulla sua isola, sotto un arancio dalle foglie scure. Una piccola casina sopra
una caletta ritagliata fra il nero della roccia vulcanica, il rosmarino e le
ginestre. Ci è cresciuto, Milo, in quella casetta che sapeva di aglio e timo e
maggiorana, e che non aveva nemmeno una foto in una cornice. Camus se la
ricorda ancora, quella casetta arrampicata sui faraglioni. E ricorda anche
Kostas e Akylina, la spensieratezza degli otto anni di Gravil e gli occhi scuri
e caldi di Electre. Tutto quello che Milo chiama famiglia. Assieme al nome dell’uomo che lo ha cresciuto e allenato,
e che è scomparso in un’alba troppo fredda e troppo chiara per essere aprile. Isavros.
Forse è per quello che Milo gli si è
affezionato a quel modo, di un affetto quasi viscerale. Ed è per quello stesso
affetto che si è intestardito a creare fra loro quel legame, e a conservarlo
anche quando tutto sembrava andare a rotoli, anche quando tutto era contro. Lo
ha conservato anche nell’orrore della battaglia, mettendoci il cuore e le
lacrime in colpi che non avrebbe mai voluto portare, in una determinazione che
era la sola cosa che lo facesse andare avanti senza pensare.
Milo è sempre stato così.
Milo possiede quella pigra indolenza del
mare, dell’acqua che sonnecchia cheta in un ritaglio fra gli scogli,
iridescente sotto il sole. Ma che sotto è vita e frenesia e agitazione. Milo
possiede la tenacia dell’onda che scava la roccia e la rasposità della
salsedine che ti rimane sulla pelle, una crosta dura e croccante come la
corazza di uno scorpione. E come uno scorpione è pronto a difendere quei legami
che lo tengono a galla, dovesse anche distruggersi per provarci.
È per questo che ha accettato di aspettare.
È per questo che trascorrerà la giornata a bighellonare per Quay, prima di
andare da Ninenn, una rete di conchiglie di Saint Jacques in mano e il calore
di un abbraccio. È per questo che lo aspetterà, chiacchierando con mamie sotto la pergola del glicine, un
bicchiere di sidro e un piatto di galette
da spiluccare.
È per questo che lo vede arrivare, alle
otto e trentatré di quella sera, un’ombra di abbronzatura in più e la stessa
camminata indolente della mattina. Nella luce fioca dei lampioni del lungomare,
aldilà della strada, Milo sembra graffiare con quel suo mezzo sorriso
compassato e gli occhi da gatto randagio che ti vogliono sfidare.
“E questa da dove salta fuori?” gli chiede,
appoggiandosi al tettuccio della Renault rossa.
“È di Fantin. Me la presta quando serve”
gli spiega Camus, rigirandosi fra le mani le chiavi. “La tua borsa è già nel
bagagliaio. Dai. Monta.”
“E dove andiamo?”
“A casa. A Louguivy” sussurra Camus,
ingranando la marcia. “Ho promesso a Auraur di portarle una cosa.”
“Per il matrimonio?” indaga Milo, la mano
oltre il finestrino aperto e il vento una carezza piacevole sulla pelle calda.
“O è una scusa?”
“Per il matrimonio, sì” sbuffa Camus, mentre
tamburella l’indice sul volante, fermo all’angolo prima di svoltare. “Vuole il
costume bretone di mamm.”
E quella parola, quel mamm pronunciato con rimpianto, ha per Milo il sapore di una
confessione fatta una sera di sedici anni, le gambe a pendere nel vuoto e un
bottino di mele e fichi dolci da spartire. Quando ormai lo chiamava Camus, ed
era tornato dalla Siberia su ordine del Sacerdote.
Quella sera, nel raccontarsi, Camus gli
aveva detto che no, non aveva idea di come avrebbe fatto, lui ragazzino, ad
allevare due bambini. A crescere chi, di anni, ne aveva una manciata in meno di
lui. Ma lo parlano il greco? gli
aveva chiesto Milo, una mela a picchiettare fra le dita. O almeno il russo aveva aggiunto poi, mordendo il frutto.
Sì,
entrambi. Non preoccuparti aveva sorriso Camus, la memoria a poche parole
raccattate per inciampo assieme a lui prima di partire per le lande bianche
della Siberia, prima di imparare un’altra vita, un’altra lingua. Uno è russo. Ma è piccolo. Molto piccolo.
L’altro lo sta già allenando Oskars, da alcuni anni. E il russo lo masticava
già aveva spiegato Camus, il fico a sciogliersi dolce in bocca. Perché? Da dove viene? aveva chiesto
Milo, la curiosità come una pigra occasione di parlare. Finlandia aveva risposto Camus, stringendo le mani fra loro. Forte.
Gli ho promesso che non dimenticherà la
sua lingua aveva aggiunto poi, in un sussurro sottile che sapeva di
impegno. Come è successo a te? gli
aveva chiesto Milo, gli occhi al cielo pieno di stelle. Già. Come è successo a me.
Perché Camus il bretone non lo ricorda quasi
più. Di bretone raccatta nella memoria le poche parole che solo l’abitudine e
l’affetto vi avevano impresso. E Milo. Milo sa che per Camus. Per Louan. Sa che quella è stata una
delle perdite più grandi, uno degli strappi più profondi.
Per questo non ha più aggiunto nulla,
osservando la notte dal finestrino, i grappoli di luci che superavano e le note
pop di Carolin Loeb e di Guesch Patty a riempire il silenzio dell’abitacolo. La
campagna scura, con le colline che si indovinano appena e poi il cielo grande,
immenso, sopra le loro teste, che corre verso nord. A Poimpol la luce dei
lampioni e il rumore del paese, con il suo porticciolo, è stata una fitta
dolorosa dopo la quiete dell’entroterra. Ad accogliergli, dopo altra campagna e
notte e la sporadica luce dei fari sulla strada, c’è la casa cantoniera con il
suo arco di pietra per ingresso al giardino.
Louguivy non è cambiata: lo stesso grumo di
case raggruppate attorno alla baia di quattro anni prima; e della prima volta
che ci era arrivato. Alle nove e venti, La
Frègate sta chiudendo e al Cafè du
Port si sentono passando le imprecazioni e le risate forti, piene, degli
ultimi uomini che finiscono una partita a carte. Camus ha guidato in silenzio lungo
Rue de Porjou. Lo ha fatto scendere e ha proseguito fino al parcheggio pubblico
centocinquanta metri più avanti.
E Milo si è ritrovato lì, davanti alla
casetta numero 18, con il suo cancelletto di legno blu e le ortensie ormai
sfiorite lungo il muricciolo in sasso. Anche la ghiaia ha lo stesso suono di allora,
mentre Camus lo raggiunge e apre la vecchia porta, dagli infissi blu.
Davvero.
Una mania
pensa Milo, grattando appena la vernice secca e chiudendosi alle spalle il
silenzio di Louguivy.
“Fatti un doccia, se ti va” lo richiama
Camus, un sacchetto grigio fra le mani. “Non ci vengo spesso, ma Aurélie ha sempre
provveduto. E Annaïg e suo marito la tengono in ordine” prosegue poi,
sistemando nei pensili in legno chiaro i pochi viveri che ha portato. “Te la
ricordi Annaïg? O non l’hai conosciuta?”
“Oh sì. Sì che me la ricordo” ride Milo, i
gomiti sul tavolo liscio, di legno recuperato, che riempie la cucina e
l’ingresso. “Pensa. Voleva a tutti i costi farmi conoscere sua figlia.”
“Chi? Rozenn?” sorride Camus, il naso e le
mani ben affondate nel frigorifero. “L’hai scampata bella, allora.”
“Davvero” gli risponde, allungandogli
l’involto di uova e due cartoni di latte. “Sai che fine ha fatto?”
“Non so” nicchia Camus. “Te l’ho detto. Non
ci vengo spesso, qui.”
E se ne restano così, in silenzio nella
cucina di una casa che racchiude tanta infanzia, e una vita diversa, un futuro
forse diverso. Ci sono le tacche dell’altezza di Louan, nella colonna che regge
le scale verso la mansarda. Una tacca per ogni anno passato in quella casa,
fino ai sei anni. E c’è la poltrona di mamm,
nell’angolo accanto al camino, con il cesto dei ferri da calza e le riviste
patinate di moda. Ferme al 1989. E c’è la pipa di tadoù, sopra la mensola, dove la metteva sempre anche il nonno. Forse,
se avesse il coraggio di guardare, Milo troverebbe anche Louan a sorridergli
fra le cornici esposte sulla credenza in fondo alla stanza. Non c’erano, quelle
cornici, l’ultima volta che è stato in quella casa. O forse. Forse erano solo
da un'altra parte. Come era da un’altra parte, forse, il pezzo di timone appeso
sopra al camino. Auraur pensa. E sa
di aver pensato bene. Perché solo Aurélie sarebbe capace di attaccare un
vecchio timone, consunto dalla marea, al muro. A ricordare la vita di suo zio,
e il significato che da sempre il mare ha per lei, per Louan, per tutti loro,
che a Louguivy ci sono nati, e forse avevano creduto di morirci, anche.
“Un’idea di Auraur” gli spiega Camus,
raggiungendolo accanto al camino, le mani affondate nella field e le spalle
strette. “È il timone della Krog e Barz,
l’aragostiera del nonno.”
“È quella che”
“Sì” sospira Camus, gli occhi a chiudersi
su un pensiero che fa ancora male, e che lo farà sempre. “È la barca che usava
anche mio padre. Quella che è stata trovata mezza sfasciata sulla spiaggia di
Roc’h Hir. Dietro il promontorio.”
E Milo si ritrova senza parole importanti
da dire.
Perché Camus ha quello sguardo, un
luccichio negli occhi che non è solo un gioco di luci basse e riverberi. Ha
quello sguardo, lo stesso di anni prima, di quando gli ha raccontato per la
prima volta cosa fosse successo a suo padre. Di novembre, nella sua casa a
Melo, la pioggia a battere sul tetto e il letto in ferro battuto come unico
rifugio. Prima che partisse, e ritornasse in Siberia. Quella era stata la prima
volta che Camus aveva pianto davanti a lui, dopo l’addestramento nelle lande
desolate di Russia. Raccontandogli di un marzo ventoso, con i cavalloni che ti
ricacciano indietro nell’insenatura montati all’improvviso poco prima
dell’albeggiare. Era uscito in mare da solo, quella notte, il padre di Camus,
perché Fantin aveva la febbre alta, e un freddo nelle ossa che non lo lasciava
stare dritto in piedi. Quella notte, un marzo uggioso che si stava consumando, un
soffio prima di chiudere la stagione, il mare si era ingrossato senza preavviso
e la Krog e Braz era sparita dietro
il promontorio.
La barca era stata ritrovata due giorni
dopo, lo scafo e la velatura a brandelli; di Edern Le Blais, invece, del padre
di Camus, non si era più saputo nulla. Mangiato da quel mare che tanto amava.
“E a te va bene?” chiede Milo, passando la
mano sul legno lucido di pialla e olio. E chiedendosi perché Auraur si sia
ficcata in testa una cosa così. Così.
Non trova nemmeno le parole. “Voglio dire. È comunque”
“So cosa vuoi dire” lo interrompe Camus.
“La verità?” continua poi, dandogli le spalle e avviandosi verso la scala che
porta al piano superiore. “Non lo so, se mi va bene. Ma in mare non ci poteva
più stare. E comunque te l’ho detto: io qui non ci vengo quasi mai” finisce,
già a metà della rampa. “Fatti quella doccia, Milo” aggiunge alla fine. “Ci
vediamo più tardi.”
“Vuoi una mano?”
“No” quasi grida. Un grido strozzato in
gola, assieme a un sentimento misto di dolore e angoscia che strazia il cuore.
“No” ripete più calmo, sorpreso delle sue stesse sensazioni. “Solo. Ci vorrà un
po’. Scusami.”
Milo lo lascia andare.
Con quello scusami che ricorda una preghiera, una supplica che non si riesce
nemmeno a sussurrare, a riempire il silenzio, Milo lo lascia andare. Chiedendosi
se Camus ce la farà mai, ad accettare quelle sue emozioni, quel suo modo di
affrontare le cose. Chiedendosi perché Camus debba sentirsi in colpa perché ha
deciso di andare avanti. Perché è quello che Camus, che Louan ha fatto: ha
raccattato i cocci di se stesso ed è andato avanti. Ha superato il dolore, anche
se non l’ha dimenticato; solo, ha deciso di trasformarlo in qualcosa, qualcosa
di diverso, qualcosa che gli ha dato la forza di andare avanti, di dedicare ad
Anissa e al suo sorriso tutto se stesso.
Da ragazzi, hanno discusso anche di quello.
Da ragazzi, le rare volte che Milo lo raggiungeva in Siberia, discutevano anche
di quello. Dell’ostinazione di Hyoga di restare ancorato alla sua tragedia, e
della rabbia di Camus che non riusciva a estirpare quell’ossessione. E Milo ci
si ritrovava in mezzo, incapace di comprendere appieno lo strazio per quelle
perdite e chiedendosi se a Camus bruciasse di più la determinazione di Hyoga o
il dubbio di essere lui, il figlio che ha sbagliato. Perché Camus ha reagito al
dolore superandolo; perché Camus non ha costruito tombe di ghiaccio lucido e
splendente né ha racchiuso il mare in un abbraccio di neve eterna. Camus ha
accettato le onde per sepolcro di quel padre tanto amato e, bambino, ha
consegnato alla terra il corpo appena nato di Nevena Seza Le Blais, il corpo di
sua sorella.
Camus ha solo scelto di continuare a
vivere.
Rimpiangendo ogni giorno ciò che ha perso,
ma ostinandosi nel non guardare indietro. Hyoga lo aveva tacciato di
insensibilità, per quel suo modo risoluto, determinato, di non soffermarsi sul
passato, mentre lui. Lui non ha mai commentato granchè. Lui si è sempre
limitato ad accettare ciò che Camus aveva deciso di fare, della sua vita e
della sua memoria. Forse perché non sapeva come parlare, di quel lutto che lo
aveva distrutto; forse perché non riesce a immaginare cosa si provi davvero a
perdere qualcuno di così importante come un padre o una sorella. La prima
persona davvero importante che Milo ha perso è stato Camus.
E quando Camus è tornato. Quando Camus è
tornato aveva una surplice nera a rivestirlo, e negli occhi il gelo della
determinazione e sulle mani il sangue di Shaka. Quando Camus è tornato, tutto
quello che Milo ha provato è stato dolore. Un dolore tanto devastante da poter
essere solo negato, ricacciando in fondo allo stomaco ogni affetto e
convincendosi che l’uomo che aveva di fronte, l’uomo contro cui rivolgeva la
rossa Antares, era un nemico, era un avversario da falciare, e non quello
stesso compagno, quello stesso amico rimpianto.
Milo le ricorda ancora. Ricorda ancora le
sue mani strette alla gola di Camus. Quando Anissa; quando Anissa ha scelto di
sacrificare se stessa, quando Anissa si è pugnalata, la daga d’oro nella gola
sottile e il sangue denso, fluido, a sgorgare in un arabesco osceno, Milo ha
sentito rabbia e ha sentito dolore. E stringere la gola di Camus, stringere
quella gola, quel collo gelido con le vene che pulsavano furiose sotto la
pelle, quasi traslucide, è stato. Per Milo è stata tutta la sua impotenza e la
sua sconfitta. È stato lo struggimento di sentirsi di nuovo solo, di nuovo
tradito, e la sorpresa terribile, devastante, di non avercela comunque la forza
per spezzare di nuovo quel respiro. Di non riuscire comunque, anche con gli
occhi offuscarti di pianto, anche con il calore di Antares nelle vene e
l’elettricità del cosmo nella palle, anche con tutta la rabbia, l’impotenza e
la frustrazione a macerare nell’animo, Milo aveva scoperto che non ce l’avrebbe
fatta, che non sarebbe mai riuscito a togliere la vita a Camus. Nemmeno se
fosse stato lui stesso a stringere fra le mani la daga dorata o il corpo di
Anissa.
Lo aveva capito; e si era odiato anche per
quello.
Come si è odiato quando ha avvertito la
stessa esitazione, nelle lande innevate di Ásgarðr. Tutto come prima, tutto
come allora. Davanti a Camus, davanti alla sua risolutezza, davanti al suo
cosmo che cresceva, brillante come l’aurora del nord, Milo ricorda la stessa
annichilente impotenza. E la rabbia. La rabbia montare con la furia di una
mareggiata violenta. Una rabbia viscerale, animale. Una rabbia che gli ha dato
la forza di controbattere, gli ha dato la forza di attaccare dimenticando per
un istante, per un solo eterno istante, il nome e il viso dell’uomo di cui
desiderava la morte, di cui voleva annullare e cosmo e vita.
E si chiede se sia stata quella furia, quel
desiderio viscerale di dimostrare a Camus, a se stesso, di essere capace di
combattere, di essere capace di scontrarsi seriamente anche contro di lui, di
vincere lui, Camus, l’amico per cui è sempre stato disposto a morire, ad aver
mosso la sua mano e la sua volontà. Si chiede se è stato qualcosa di personale,
qualcosa di così profondo da risultare quasi blasfemo, ad averlo spinto a
combattere, ad averlo spinto a scendere in campo contro Loki.
Certo, c’era Anissa e il suo cosmo che li
riscaldava; c’era il ricordo di un istante giocato nella luce abbacinante del
sole per sfondare il muro del Pianto; c’era la consapevolezza di essere nel
giusto, anche. Eppure. Eppure Milo si chiede ancora se, quella volta, in quella
battaglia, fra l’infuriare della tempesta e i riverberi di un’aurora boreale,
lui non abbia combattuto solo per se stesso e per il proprio egoismo, per la
propria impotente delusione nello scoprire un amico, il più caro, ergersi come
avversario. Risoluto, imperturbabile, determinato. Determinato come forse Milo
non ricorda di averlo mai visto; come forse Camus non è mai stato.
Deciso a vincere; deciso a conquistarsi un
posto alla corte del nord. Risoluto di quella risolutezza che non ricorda
nemmeno quando Camus era sceso alla settima casa di Libra per concedere a Hyoga
la strada o assumersi la responsabilità di un allievo ribelle alle leggi di
Anissa. Nemmeno in quel momento; nemmeno in quel momento, le spalle rigide e il
cuore pesante, Milo ricorda negli occhi di Camus quella risoluzione ostinata,
quasi malata. Ricorda invece il dubbio che lo tormentava, quando ha deciso di
affrontare Hyoga; come ricorda la rassegnazione che leggeva nei suoi tratti,
nel modo che aveva di sfuggire lo sguardo, di accennare appena a mordersi le
labbra, quando lo ha affrontato che era deciso a prendere la testa di Anissa.
Ma quello sguardo. Lo sguardo di Camus di
Acquarius, signore dei ghiacci perenni; lo sguardo di un cavaliere che non teme
nulla perché sa di essere nel giusto. Quello sguardo Milo non lo ricorda in
Camus, almeno fino a quel loro duello davanti alla ridotta arabescata di
ghiaccio.
È anche per quello sguardo che ha deciso di
seguirlo in Bretagna; è anche per capire da dove Camus avesse preso tutta
quella risolutezza quasi arrogante, che ha scelto di affrontarlo. Anche se farà
male; e già lo sa. Perché può fare solo male porre certe domande. Ma sa che
dovrà avere il coraggio di farlo; e soprattutto la forza di restare ad
ascoltare la risposta. Lo deve a Diego, che di quella cieca risolutezza è stato
il pegno; ma lo deve anche a se stesso e a quel legame che per lui è sempre
stato importante, quasi inviolabile.
Ma non è facile; non è affatto facile.
Per questo non ha fretta. Per una volta
nella sua vita, Milo si accorge di riuscire a controllare la sua passionalità.
Si accorge che invece di precipitare gli eventi sta cercando in tutti i modi di
ritardarli.
Sa che dovranno parlare; lo sa lui come lo
sa Camus. Perché glielo ha detto, certo; e perché non si possono liquidare
quasi tremilacinquecento chilometri con un semplice attacco di nostalgia. Non
quando è quasi un anno che sono tornati e si sono quasi ignorati. O quantomeno
lui non è riuscito a parlare come un tempo, con Camus. Perché c’era qualcosa.
C’era sempre l’ombra di un non detto, l’ombra di un qualcosa di spezzato e raccattato
e riaggiustato nell’indifferenza, ad aleggiare fra loro.
Milo lo ha sentito, il crack della loro amicizia andata in pezzi assieme all’infrangersi
del ghiaccio di Ásgarðr sotto i loro colpi. Lo ha sentito come un’eco
assordante, anche nel fragore della battaglia e nella frenesia della lotta. Lo
ha sentito assieme alla consapevolezza di aver lasciato una parte di sé, in
quelle distese innevate. E non sa se qualcosa potrà essere recuperato; sa solo
che non se la sente di lasciare le cose come stanno, in una quiescenza
snervante che ha il sapore dell’inganno.
Ma sa anche che aspetterà.
Aspetterà di sentirsi abbastanza forte da
ascoltare quello che Camus gli risponderà, quella sua versione dei fatti che
vorrà dargli. Lo sa come sa che, in quel momento, Camus vorrebbe essere ovunque
tranne che in quella soffitta, ad aprile i bauli di un’infanzia che non potrà
mai tornare. Come sa che, per quando scenderà, gli ha fatto trovare un piatto
di minestra calda e la discrezione del silenzio di una cucina carica di ricordi.
“C’è anche della birra, se preferisci.”
La voce di Camus è un sussurro nel silenzio
della notte di Louguivy. Quando lo raggiunge, su quelle vecchie sedie da
giardino, nelle ombre di alcune candele e dello spiraglio di luce della porta
lasciata accostata, sono le ventitré passate e Milo ha addosso la felpa petrolio
con il cappuccio che ha lasciato lì l’ultima volta che era stato in quella
casa. Quando Camus era ancora il ricordo di un amico perso in battaglia.
“Nah” scrolla le spalle, gli occhi socchiusi
e il copro rilassato sulla seduta. “Il sidro va bene, non preoccuparti”
conclude, prendendo un lungo sorso. Farà sì e no 8°, ma gli piace il sapore,
secco e con quel retrogusto fruttato di mele mature. E poi non ha voglia di
bere, non sul serio; nemmeno ci fosse una di quelle Coreff spillata a mano, che
gli era tanto piaciuta quando Auraur gliela aveva fatta assaggiare la prima
volta.
“Ho visto che hai cucinato” continua Camus,
stappando una bottiglietta. “Mi dispiace. Ho perso la cognizione del tempo.”
“Non è un problema. Cucinare mi piace, lo
sai” nicchia Milo. “E poi era solo una zuppa di cipolle. Sarebbe riuscita anche
a te.”
“Ho i miei dubbi” ridacchia Camus, la
bottiglia che ondeggia fra le mani. “Comunque, grazie. Era. Buona. Sì.”
Milo mugugna appena, lasciando ricadere la
testa di lato.
Ha sonno, e freddo, e una voglia matta di
sdraiarsi in un letto e tirare fino a tardi il giorno dopo. Eppure non se la
sente di andarsene; non davanti agli occhi di Camus, rossi e piccoli e lucidi
come quando era bambino. C’erano delle volte, quando erano piccoli e Camus
masticava appena qualche parola in greco, che Milo lo incrociava con quegli
occhi rossi e lucidi. Sabbia borbottava
Camus, e alzava le spalle arricciando il naso. Sono lacrime ribatteva invece Milo. Mo lo dici, perché piangi?
E gli restava davanti, le mani dietro la
schiera e la bocca aperta come in attesa, fino a quando Camus non sbuffava e se
ne andava bofonchiando qualcosa in una lingua che Milo non conosceva.
Ecco: quelle erano le volte in cui Milo
proprio non se la sentiva di mollarlo, quel ragazzino scontroso e indisponente
che gli era capitato fra capo e collo come compagno di addestramento al Temenos.
Forse perché sapeva che se ne sarebbe andato presto, verso una terra gelida e
spietata; forse perché aveva sentito Isavros commentare che Camus si portava
dietro un lutto troppo fresco e troppo grande, per i suoi sette anni. Forse. O
forse semplicemente perché Milo è testardo, e curioso. E il modo che Louan, che
Camus aveva di scrollare le spalle e negare l’evidenza lo incuriosiva e lo
divertiva assieme. Per questo non si dava per vinto, e gli trotterellava dietro
per esasperarlo, anche nella consapevolezza che probabilmente non avrebbe mai
avuto una risposta vera, soddisfacente.
E anche in quel momento, anche nella
penombra tremolante della candela, Milo riconosce quegli occhi e sa che, se
glielo chiedesse, Camus rispondere solo è
stata la polvere. E forse. Forse la polvere della soffitta c’entrerà anche,
ma non basta. Milo lo sa, che non basta, come spiegazione.
E di nuovo si chiede cosa sia andato in
pezzi, fra loro. E perché. E se ha senso davvero provare a recuperarlo, quel
loro rapporto, o se è destinato a finire così, assieme al sangue versato sulle
nevi di Ásgarðr. O se è solo lui quello che si ostina a non voler accettare
quello che Camus ha fatto per quello che realmente è: un tradimento.
Anissa
però.
Anissa però ha riaccolto Saga, e anche
Death e Kelavi. Anissa ha tenuto al suo fianco per quasi quattro anni Kanon,
come ultimo dei suoi cavalieri d’oro. Anissa non ha detto loro nulla, né
rimprovero né biasimo. Li ha solo riaccolti in seno, tutti loro. E lui? Lui può
davvero contrastare la volontà di Anissa, la volontà della dea cui ha giurato
fedeltà?
Hai
dei dubbi
gli aveva detto Anissa, una sera di alcuni giorni prima, il calore di un
tramonto ancora estivo una sfumatura di arancia all’orizzonte. Glielo aveva
detto, e non era stata una domanda. Perché Anissa non chiede; Anissa ti
costringe solo ad accettare quello che già ti frulla nella testa. E lo fa con
quel sorriso dolcissimo da essere crudele.
Non gli aveva chiesto nulla di più, e Milo
si era sentito schiacciare sotto quelle semplici parole che gli suonavano di
accusa, che gli suonavano di blasfemia.
Perché non era di lei, che dubitava. Anche se. Anche se quel tarlo nella
mente, l’incapacità di accettare senza spiegarsi, senza ottenere risposte, era
un qualcosa che non gli apparteneva, era un qualcosa che non riusciva a
razionalizzare.
Milo lo aveva chiamato
ancora lei, scorgendo nelle sue labbra strette, nella testa che si ostinava a
restare piegata, una domanda, una preghiera, forse un’angoscia che non avrebbe
mai osato esprimere a parole. Milo
aveva ripetuto Anissa, inginocchiandosi davanti a lui, ricordando con un
sorriso di nostalgia il cavaliere, l’uomo che, in quelle stesse stanze, aveva
osato contraddire la sua volontà attaccando Kanon per testarne la fedeltà. Non hai bisogno del mio permesso, per
andarlo a trovare. Lo sai. Vero?
Lo aveva lasciato così Anissa, il suo
profumo di olio d’oliva nell’aria e il rassicurante abbraccio del suo cosmo
nell’anima. Due giorni dopo aveva messo alcuni vestiti in una borsa ed era
partito per la Francia. Forse per rabbia, forse per disperazione; forse solo
per scoprire davvero cosa era rimasto dell’uomo che un tempo aveva chiamato
amico. E che adesso gli sedeva accanto, una bottiglia fra le mani e
un’espressione indifferente sul viso. In quel giardino in cui era cresciuto; in
quello stesso giardino dove Milo aveva imparato un po’ della sua infanzia, per
superare il dolore della sua morte.
“Non c’era un albero lì, una volta?”
domanda pigro, ricacciando in gola parole che non è ancora pronto a
pronunciare.
“Un pero, sì” commenta Camus, sistemandosi
meglio sulla poltroncina di plastica e allungando le gambe. E ricordando un
albero verde, i bei rami nodosi con appesa un’altalena rossa, costruita da suo
nonno. Era stato tutto il suo mondo, quell’altalena: il destriero di un
cavaliere o la plancia di una nave. Erano le ali per andare oltre le siepi e le
mura quando era troppo piccolo e le prove di equilibrio per esercitarsi alle
oscillazioni del mare.
“Auraur ha dovuto farlo abbattere” mormora
ancora. “Un fortunale lo aveva sradicato.”
“Quando?”
“Saranno cinque anni.”
“Cinque anni.”
La bottiglia alle labbra, Milo si accorge
di cercare Camus, il suo sguardo e quel pensiero nato in una condivisione che
sa di silenzio e di esperienze vissute assieme. La bottiglia alle labbra, Milo
ritrova lo stesso pensiero nell’espressione di Camus, nelle ombre che la luce tremolante
della candela disegna sui loro vivi.
Cinque anni.
Un’eclissi a oscurare il sole e il mare
gonfiarsi sotto le mareggiate violente; cinque anni, e una notte di settembre
trascorsa nell’attesa della missione di una vita o della morte. Cinque anni, le
scale del Temenos devastate e il sangue di Anissa bruciare come fuoco sotto la
pelle. E poi. Poi ancora. La folle resistenza in Ade, l’annullarsi nella luce e
il risveglio, nell’abbraccio delle nevi del nord. E. E ancora.
Mentre loro combattevano; mentre loro
dilaniavano e corpo e spirito; mentre Camus bestemmiava la sua lealtà e Milo spergiurava
la sua devozione, mentre decidevano di seguire entrambi il proprio volere,
Auraur vedeva un albero della sua infanzia piegarsi alla furia degli elementi,
schiantandosi al suolo con un rumore secco di ossa spezzate.
Cos’è la consapevolezza?
Per Milo, in quel momento, è l’avvertire di
nuovo, come un tempo, una comunione di sentire che credeva non fosse più
possibile. Non è qualcosa legato al cosmo; e nemmeno dovuto al loro rapporto. È
qualcosa di più profondo, qualcosa che affonda nelle viscere, rimestando e
contorcendosi per uscire. È quella stessa cosa che ha spinto Milo a cercare la
costa di un vecchio album di fotografie, sulle mensole vicino al camino. Per rivedere
quel bambino che Auraur gli aveva insegnato, e ricordare l’affetto e la
nostalgia che aveva provato. È quella stessa cosa che ha portato Camus a
sedersi lì, in quel giardino di settembre, negli occhi ancora il dolore
dell’assenza e nel cuore la consapevolezza di non doverla davvero nascondere.
È qualcosa che hanno imparato entrambi
negli anni in cui si sono sorretti a vicenda, anche a distanza. È qualcosa che
per loro significa scoprire la stessa conclusione di pensiero pur partendo da
premesse diverse. È qualcosa che era solo loro, che definiva loro.
E adesso. Adesso è solo un’eco, un istante
che sorprende per l’ovvietà con cui si presenta e terrorizza nel riscoprirlo
estraneo nella sua normalità.
“Milo” lo chiama Camus, le mani fra le
ginocchia e l’interesse improvviso per le ombre della notte.
“Dimmi.”
“Noi siamo ancora amici?”
“Sinceramente?” mormora Milo, muovendosi a
disagio sulla sedia, una gamba portata al petto e il sapore dolce del sidro
all’improvviso troppo forte, quasi nauseante.
“Non lo so.”
Lo soffia come di singhiozzo, realizzando
lui per primo il significato di quelle stesse parole. Perché in Bretagna ci è
andato con la ferma volontà di ottenere risposte; perché in Bretagna ci è
arrivato con la determinazione di recuperare un rapporto che considerava
infrangibile, o capire perché Camus l’abbia mandato in pezzi. Eppure. Eppure si
accorge di non sapere nemmeno lui, in verità, cosa stia cercando di recuperare
o di salvare. O se semplicemente sta solo ricercando il coraggio per chiudere
davvero quel loro rapporto che rischia di trasformarsi in un cancro. Tanto
profondo e tanto devastante da mangiargli il cervello e la ragione.
Se sono ancora amici?
Milo fino a due giorni prima avrebbe avuto
la risposta pronta: no. No, perché Camus l’ha mandata al diavolo, quella loro
amicizia. No, perché Camus ha scelto di combattere contro di lui, invece di
parlargli. No, perché un amico con cui hai giurato fedeltà, il ginocchio
piegato e l’oro delle armature a rifulgere della potenza del cosmo, un amico del
genere non te la fa, la bastardata di pugnalarti alle spalle. Tradendo te, e
tutto quello cui avete deciso di sacrificare la vostra stessa vita. Un amico
non te la fa, una simile bastardata.
Anche se quell’amico è Camus. Anche se
quell’amico è lo stesso bastardo che è stato capace di farsi ammazzare del
proprio allievo pur di impartire un’ultima, fondamentale lezione. Lasciando lui
a raccattare il rimorso e il bruciare della consapevolezza di essere stato
ingannato, di non esser riuscito a intuirne le reali intenzioni.
“Ho capito” chiosa Camus, finendo in un
lungo sorso veloce la sua bottiglietta. “La notte qui è freddo. Fai attenzione”
lo saluta, un movimento fluido, forse affrettato nell’alzarsi.
Chiedendosi cosa è andato perso, e perché.
Vedendo nella testa di Milo, bassa e ostinata, nelle mani, strette, quasi
spasmodiche, attorno al collo della bottiglia, tutto il peso di quel non lo so. Tutto il peso di un rapporto
naufragato troppo in fretta perché ancora si sia in grado di rendersene conto.
Perché davvero si riesca ad accettarlo, o forse solo a realizzarlo.
Camus sa solo che, nella risposta di Milo,
è morta una parte di lui, è morta una delle cose più importanti che abbia mai
posseduto. Quello che lo ha tenuto a galla i primi mesi al Temenos; e poi ancora,
ciò che ha sempre considerato giusto, inalienabile. Ciò per cui era disposto a
morire.
E si domanda se, semplicemente, non è stato
troppo presuntuoso.
Nel considerare che Milo ci sarebbe sempre
stato; nel valutare come ovvia la presenza di Milo al suo fianco, fino
all’ultima stilla di vita e di cosmo. Si chiede se non sia stato il suo
carattere, chiuso e incline alla solitudine, ad allontanare Milo, a
costringerlo a quella scelta che li ha portati su strade diverse. E forse.
Forse era quello, ciò che Milo voleva dirgli, il motivo per cui lo ha raggiunto
in Bretagna. Perché Milo le cose gliele ha sempre dette in faccia, non ha mai
usato giri di parole. Milo è quel tipo di persona: una persona forse troppo
schietta e onesta e corretta, capace di dispiacersi anche per gli sbagli che
fanno gli altri, sentendosene addosso tutto il peso. Anche quando di pesi e
colpe non dovrebbe nemmeno sentirne parlare.
“Te ne sei andato” lo ferma Milo, un
tremito che nasconde forse rabbia forse livore. O forse solo tanta delusione.
“Hai preso e sei sparito. Così. Da un giorno all’altro” continua, la testa che
si ostina a restare incassata fra le spalle.
“Anissa lo sapeva” tenta Camus, la mano sul
pomello della porta e la sgradevole sensazione di qualcosa di sbagliato addosso.
“E anche Shion. E Saga” continua, due passi verso la testa di Milo reclinata
all’indietro. “Non sono scappato, Milo. L’ho detto anche a Diego.”
“Ma non l’hai detto a me!”
Camus prende un respiro fra i denti. Lento.
Profondo. Perché conosce quel tono; lo conosce da quando aveva sette anni e
Siberia era il nome di una terra che gli era stata paventata, con il suo gelo
perenne. Lo conosce da quando ha scoperto per la prima volta la rabbia di Milo,
una borsa appena finita sul letto e Anatolij ad aspettarlo fuori dal
dormitorio. Milo se lo era trovato davanti all’improvviso, il respiro corto e
il viso stravolto.
Quando
me lo avresti detto
gli aveva chiesto. Con una voce così dura, così ferma che Camus quasi non l’aveva
riconosciuto. Perché Milo aveva sempre una nota di riso, in quegli accenni
cicladici che gliela addolcivano. Quella volta, invece, il tono di Milo era
duro, secco, e anche se Camus ancora capiva appena il greco, il tono era stato
più che sufficiente. E significava guai. Grossi guai in arrivo. Ma tutto quello
che era stato capace di fare era chiudere la cerniera e infilarsi la giacca
nella più grande indifferenza. Anche se li sentiva, gli occhi di Milo che gli
trapassavano la nuca. Li sentiva addosso con tutta la loro rabbia e un sottile
sentore di elettrico che correva lungo la spina dorsale. Come quando sta per
scatenarsi un temporale.
Camus la conosceva bene, quella sensazione.
C’era cresciuto, a Louguivy, imparando a riconoscere il fremito elettrico
dell’aria che si porta dietro l’odore penetrante di iodio e mare che si
ingrossa. C’era cresciuto, con la consapevolezza di dover imparare a
riconoscerla, quella sensazione. Perché se sei bravo a farlo, ti può salvare la
vita, quell’intuito, quel sesto senso che solo l’abitudine ti può dare. E in quel
momento, le mani ancora sul bavaro, gli occhi stretti per non concedere una
lacrima al dispiacere, Louan aveva riconosciuto la stessa sensazione di
pericolo. E non aveva la minima idea di come fare a cavarsi d’impiccio. Perché,
dopo tutto, come poteva fare a spigare a Milo che non glielo aveva detto solo
perché non aveva idea di quali parole, anche solo quali gesti avrebbe dovuto
usare. E che non era ancora pronto. Per questo aveva continuato a dargli le
spalle, cocciuto. Ma poi. Poi si era trovato le braccia di Milo, quelle braccia
nervose e abbronzate, strette strette al petto. E la fronte di Milo sulla
schiena mentre gli diceva Mi mancherai.
Tanto.
Quella volta, era stato Milo a risolvere la
situazione, a tirarlo fuori da quella fredda indifferenza che indossava quando
non aveva la voglia, o più semplicemente il coraggio, per affrontare qualcosa.
Era fatto così, Louan. Le cose che lo spaventavano le affrontava fingendo che
non avessero valore, per lui. Per non scottarsi troppo, se qualcosa fosse
andato storto.
Con il tempo, Milo aveva imparato a
trattare Louan, aveva imparato che la sua freddezza era la sua corazza e aveva
imparato anche come fare per obbligarlo a romperla, quella corazza, e a
confidarsi con lui. O almeno aveva imparato come fare per gettargli un’esca che
Camus a volte ingoiava, amo compreso, a volte no. Anche se la vedeva lì, bella
brillante e invitante; e sapeva che ci sarebbe rimasta ancora. E ancora e
ancora.
Quando avevano sette anni, era stato Milo a
decidere cosa fare; e anche poi. Ogni volta. Ogni volta che succedeva, era Milo
che cercava un modo, una parola, un gesto, per offrire a Camus l’occasione di
parlargli, di aprirsi.
Questa volta no. Questa volta è diverso.
Lo sa Milo; e lo sa anche Camus.
Questa volta, Camus ne ha la dolorosa
consapevolezza, Milo non insisterà. Questa volta non ci saranno gesti, parole,
mezzi sorrisi incoraggianti o solo Milo che si siede vicino a lui, schiena
contro schiena, in silenzio o ciarlando di tutto e niente solo per dargli il
tempo di decidersi.
Questa volta, la testa di Milo resterà
dov’è, gli occhi fissi al cielo e tutta la rassegnazione addosso. Quella
rassegnazione che Camus ha sentito premere nelle parole di Milo con un qualcosa
che non è nemmeno rabbia. È solo. È il tono che Milo ha quando davvero rinuncia
a qualcosa; quando davvero ti vuol dire che non ce la fa più, ad andare avanti.
E basta. È meglio finirla lì, senza come e senza perché.
“Non” tenta Camus, cercando in fondo allo
stomaco, nelle mani che si sfregano nervose, le parole o forse la forza di
mettere insieme una spiegazione che non è chiara nemmeno a lui. Sa solo che, se
non vuole che davvero tutto finisca così, deve fare lui la prossima mossa. E
che Milo non ci sarà, per dargli una mano nel farlo.
“Non sapevo come dirtelo” tenta, allungando
una mano sulla spalliera della sdraio, cinque centimetri più in là della testa
di Milo.
“Malakies”
bercia Milo, piantandogli in faccia un’espressione che sembra dire non provarci nemmeno, a prendermi per il
culo. “Tu non volevi dirmelo. È diverso.”
“D’accord”
acconsente Camus. “Non volevo farlo. Ma perché credevo non ti importasse. Mi
rivolgi a stento la parola.”
“E non ti sei chiesto il perché?”
“Ouais”
sbuffa Camus, le mani nelle tasche dei pantaloni e due passi oltre la sedia, le
spalle a Milo e a quella sua aria di rassegnazione che non riesce né a capire
né ad accettare. “Sì che me lo sono chiesto. Me lo chiedo anche adesso.”
“E?”
Perché c’è un e, in quella frase che Camus ha lasciato lì. Milo ne è sicuro. Per
questo si è spostato in punta di sedia, le mani nella tasca che si ritrova
sulla felpa e nelle gambe un formicolio. Perché forse riuscirà a capire, il
perché siano finiti così, a parlarsi senza nemmeno la forza di guardarsi in
faccia.
“E niente” stringe le spalle Camus. “Non lo
so, il motivo. Davvero. Non lo so.”
“Non.” Milo inghiotte saliva, smarginando
gli occhi mentre le tempie gli martellano come un tamburo. “Non lo sai?”
“No.”
E lo dice allargando appena i gomiti, con
quell’aria di ingenuità e stupore che lo fa sembrare davvero un ragazzo, e non
tanto un cavaliere. Camus ce l’ha sempre avuta, quell’aria di ragazzo
qualunque. L’aria di chi avrebbe vissuto la propria vita senza scossoni, un
fluire sereno e tranquillo con quegli alti e bassi che fanno parte della quotidianità.
Camsu ce l’ha sempre avuta, l’aria del bravo ragazzo, e del ragazzo ingenuo.
Anche se ha imparato presto che l’ingenuità non paga. Anche se ha imparato
presto che uno sguardo affilato e poche parole ben piazzate possono far male.
Possono fare molto male.
Camus potrà sembrare un ingenuo, a volte;
di certo, però, non è uno sciocco. Camus non fa giochetti, non li ha mai fatti:
Camus la sua verità te la sbatte in faccia. E se dice no è perché davvero non la sa, la risposta che vorresti sentirti
dire.
Per questo la risata di Milo non se
l’aspettava.
Una risata bassa e gutturale, nervosa,
quasi isterica; Milo trema: nelle spalle, nella testa bassa piegata fin quasi
alle ginocchia, nelle gambe. Trema e si raggomitola su se stesso, sempre con
quel fastidioso tremolio e quel suono roco che gli gorgoglia in gola.
Camus volta la testa sopra la spalla, un
disorientamento nella pancia, nel petto che non gli piace. Perché Milo sembra
malato. Perché quella risata, bassa e roca e singhiozzante, gli ricorda troppo
il modo che ha Angelo di ridere. Una risata di gola, arrochita dal fumo e dal
tempo; una risata inquietante, di chi sputa in faccia alla vita e alla sorte.
Milo non ride così. Milo non ride come
Angelo. Milo ride di pancia, di cuore. Milo ride con la bocca aperta e due fossette
ai lati delle labbra che gli salgono fino agli occhi. Milo, quando ride, ride
anche con gli occhi. Ci vedi il divertimento, la spensieratezza; ci vedi anche
la felicità, negli occhi di Milo, quando sorride.
“Non lo sai” biascica Milo fra i denti, con
dei singulti che a tratti ricordano un singhiozzo. “Tu mandi tutto a puttane, e poi non sai il motivo per cui io non ti parlo.”
“Gueh?”
esclama Camus, la bocca aperta e una voglia matta di scrollare Milo per farsi spiegare
per bene quell’assurdità. “Cos’è che avrei fatto, moi?”
“Lo sai benissimo” nicchia Milo, piegando
la testa e arricciando appena le labbra e il naso in una smorfia.
“Kaoc'h”
impreca Camus. “No, che non lo so” ripete, mentre sente le mani farsi fredde e
la voglia matta di piazzare un pugno su quella piega sardonica che deforma la
bocca di Milo. “Se davvero è perchè me ne sono andato senza dirti nulla.”
“Skaze”
bercia Milo, quasi infastidito. “Mi credi davvero così infantile?”
No.
“E allora cos’ho fatto?”
“Non ci arrivi proprio da solo?”
“Nenn!”
“Skatà,
Louan!” ringhia Milo. “Mi hai fottuto!”
Lo butta fuori con un rigurgito, arrochito
e gutturale. Glielo sputa a due centimetri dal naso, dopo essersi alzato
trascinato per le sue stesse parole.
“Ci hai fottuti tutti. Come coglioni”
aggiunge, il tono appena più sommesso, le spalle e i pungi stretti che si
abbassano, come se il peso di quelle stesse parole lo stesse premendo a terra.
Gli stesse mangiando tutta la forza che la rabbia e la delusione gli avevano
dato.
Camus indietreggia di un passo. Così. Di
riflesso.
Perché Milo lo ha chiamato Louan. Milo non lo chiama mai così. Milo
sa cosa significhi, per lui, sentire quel nome, ricordare quel nome. Per
questo, da quando Anatolij lo ha chiamato Camus,
lui non ha più usato il suo vero nome. E nemmeno Milo.
Milo lo usa solo quando è preoccupato. O
arrabbiato.
E
adesso è arrabbiato. È incazzato nero.
Ma Milo è anche stanco.
Una stanchezza che viene da dentro, dal
cuore, dalle viscere. Una stanchezza che lo ha fatto trascinare fino in
Bretagna, ricorrendo forse un desiderio forse un’illusione.
E Camus sente il desiderio di allungare le
mani e sorreggerlo. Lo sente forte, prepotente, salire dallo stomaco fino a
stringergli la gola. Perché Milo sta cadendo. È ancora ben saldo davanti a lui,
eppure Camus ha la sensazione che Milo sia in piedi solo perché è sua volontà
restarci. Solo perché è troppo orgoglioso per cadergli davanti in ginocchio o
forse, semplicemente, la sua testa non accetta quello che il suo corpo sembra
urlare.
Milo è davvero esausto. C’è qualcosa.
Qualcosa di profondo, di radicato, che lo sta consumando come un cancro. E quel
qualcosa c’entra con lui e con qualcosa che ha fatto. Qualcosa che Milo ha
visto come un tradimento. Verso Anissa; e verso di lui.
“È per il Temenos. Per quello che è
successo al Temenos. Vero?” chiede, massaggiandosi la radice del naso. “Lo sai
che non c’era scelta. Non mi è piaciuto. Ma.”
“Non è per il Temenos” mormora Milo,
lasciandosi cadere sulla sdraio e fissandolo. Aveva fatto male, sì. Aveva fatto
male trovarsi il proprio migliore amico davanti, un’occhiata che prometteva
morte e il sangue di Shaka sulle mani. Aveva fatto un male cane.
Ma lo aveva superato. Aveva dovuto
superarlo. Perché se le mani di Camus avevano il sangue delle battaglie, la sua
faccia era sporca del sangue della disperazione. Milo lo aveva visto, quel
sangue. Ed era stato quello, a fargli più male di ogni cosa. Più delle ferite;
più del pensiero del tradimento. Gli aveva fatto male vedere Camus piegare se
stesso a un ruolo che lo voleva aguzzino e carnefice.
Ma no. Non era quello, il motivo. Non era
stata la disperazione che aveva provato nel trovarselo davanti, a distruggerlo.
Perché aveva capito. Quando Anissa si era pugnalata alla gola, Milo aveva
capito. E alla rabbia e alla disperazione si erano confusi l’impotenza e il
dolore. Si era sommato lo strazio di comprendere cosa davvero Camus avesse
scelto di sacrificare, per il suo dovere.
“Per Hyoga, allora” tenta ancora Camus, e
sente una fitta dolorosa.
Perché sì, quello che ha fatto è stata
davvero una bastardata. Un colpo basso, molto sotto la cintura. E lo sa lui per
primo. Ma allora. Allora gli era
sembrata l’unica possibilità, l’unica scelta fattibile. Vuole bene a Hyoga,
allora come adesso. E non ce la faceva a vederlo macerarsi nel dolore, vederlo
incapace di trasformare il proprio lutto in una spinta. Non sopportava che vi
si ancorasse, che lo cullasse come un bimbo in fasce e gli permettesse di
trascinarlo a fondo.
Hyoga era tutto ciò che gli restava. Dopo
che Isaak era scomparso, Hyoga era tutto ciò che aveva cui aggrapparsi. Per
superate il nuovo dolore.
Ma Hyoga non era come lui. Hyoga non era in
grado di andare avanti come aveva fatto lui. Oskars glielo aveva sempre detto:
ognuno porta i propri lutti a modo proprio. Non c’è un sistema giusto e uno
sbagliato; c’è solo un sistema che ognuno si costruisce. E questo Camus non era
mai stato capace di comprenderlo.
Per questo aveva deciso di affrontare
Hyoga, con ogni mezzo. Per questo era stato pronto anche ad arrivare a un passo
dall’ucciderlo. Ma farsi ammazzare. Farsi ammazzare no, quello non era nei suoi
piani. Non era mai stato nei suoi progetti.
Quando era sceso in battaglia,
all’Undicesima, Camus era pronto allo scontro. Non era mai stato pronto a
perdere la vita. Voleva solo che Hyoga dimostrasse il proprio valore. Voleva
solo che gli dimostrasse che era in grado di farcela. Dimostrasse di essere
cresciuto, di essere pronto a sacrificare ogni cosa, anche le proprie ancore,
ad Anissa. Come aveva fatto lui. Come si era convinto lui stesso che fosse il
solo modo possibile per servire Anissa. Voleva che Hyoga diventasse degno del
suo nome, diventasse quello che sarebbe potuto diventare Isaak. Voleva che
risvegliasse il Settimo Senso, e gli chiarisse con le sue azioni quei dubbi e quei
tentennamenti che aveva instillato in lui. In lui e in Milo.
Solo che Hyoga era stato bravo. Molto più
bravo di quanto si fosse mai aspettato. Ed era anche arrabbiato; molto
arrabbiato e molto amareggiato. Per questo. Per questo Hyoga era riuscito a superarlo.
Per questo Camus era morto. Per il dolore di un allievo che amava tanto da
volerlo annientare con le proprie mani, piuttosto che vederlo distruggersi.
“È per Hyoga. Giusto?” ripete Camus.
“Senti. Lo sai com’è andata. Se pensi ancora che volessi farmi ammazzare.”
“No” soffia Milo. “Cioè. Sei stato uno
stronzo” precisa, alzando appena un dito per evitare che ribatta. “E io ci sono
stato da cani. Ma con Hyoga ci ho parlato. Davvero. E stava da cani anche lui”
continua, arruffandosi i capelli. Perché quella discussione ha dell’irreale.
Perché sente le mani formicolare, e una voglia strana serpeggiargli nella
lingua.
“Quindi piantala di prendermi per il culo”
gli chiosa, alzandogli in faccia due occhi che promettono rabbia. “Non lo
accetto. Non da te.”
Perché non riesce a capire se Camus sia
serio o stia giocando con lui. Non riesce a capire perché Camus si sia ficcato
in testa di rigirare la situazione a quel modo, facendo lo stoccafisso. Poi.
Poi il pensiero lo sfiora in un attimo. E Milo lo ricaccia, indietro, furioso,
violento. Perché Camus non è mai stato un codardo. Perché Camus non ha mai
avuto problemi a prendersi le sue responsabilità, e anche quelle degli altri,
se fosse servito. Perché Camus è fatto così: fuori non gli daresti un soldo,
con quel suo modo che ha di guardarti, fra l’indifferenza e il supponente, ma
dentro; dentro Camus è qualcosa di meraviglioso. Qualcosa di così fragile e
complesso e altruista che se lo lasciasse libero, quel suo carattere lo farebbe
ammazzare in un istante.
Perché Camus è sempre stato così. E Milo
non riesce proprio a pensare che possa essere cambiato fino a questo punto.
Fino al punto di mentirgli guardandolo in faccia.
“Ma io non ti sto prendendo per il culo.”
“Sé, come no.”
“Bon
sang” impreca Camus, allargando esasperato le braccia e cercando di
reprimere l’impulso di afferrare Milo per la felpa e prenderlo a ceffoni.
Perché quella sua ostinazione lo sta consumando; e lui, in quei giorni, non ha
né la pazienza né la voglia di veder portare al limite la propria capacità di
autocontrollo. “Te me rends fou”
sbuffa, prima di sedersi di nuovo, accanto a Milo, le mani intrecciate a
penzoloni fra le ginocchia.
“Milo.”
“Checcè?”
grugnisce Milo, accavallando le parole come solo nelle Cicladi fanno. Come ha
imparato a fare fin da bambino. “Ti è tornata la memoria? O vuoi continuare
questa assurda commedia?”
“Primo” scandisce piano Camus, piantandogli
sotto il naso un dito. “Questa commedia la stai facendo tu. E secondo”
continua, senza dargli subito il tempo di replicare, un secondo dito ad
aggiungersi al primo. “Secondo, io davvero non lo so, di cosa stai parlando.”
“Di cosa parlo?” ringhia Milo, uno
strattone alla sedia e le gambe che tremano, quando si alza in piedi per
mettere quanta più distanza possibile fra lui e Camus. Perché se gli resta
vicino. Dio. Se gli resto vicino, Milo è certo che arriveranno alle mani.
“Parlo di Ásgarðr, ecco di cosa!” urla,
sputandogli in faccia quel nome e tutto il peso di quello che ha significato.
“Quoi?”
“Ásgarðr” ripete Milo, le labbra una piega
amara e un’espressione che racconta tutto un dolore. “Neve; freddo; una grande
statua. Hai presente? Parlo di quando ci siamo ritrovati vivi. E tu hai deciso
di girarci le spalle. Di tradire Anissa” prosegue, accaldato, concitato. “Hai
scelto di tradire me!”
Camus lo fissa. Lo fissa come se fosse
ammattito. Come se, all’improvviso, Milo avesse ricevuto in testa un secchio di
acqua gelata e adesso stesse farfugliando in preda agli spasmi. Ma lui non gli
ha rovesciato in testa nessun secchio; e Milo ha quel modo di muoversi, di
camminare e di girare gli occhi verso ogni ombra e ogni tremolio della candela
che Camus conosce bene. È il modo che Milo ha di cercare di tenere a freno la
rabbia e il livore. Soprattutto quando sente che è ad un passo dallo scoppiare,
trascinandosi in qualcosa di forse irreparabile.
Milo è serio. È maledettamente serio. E se
non gli ha ancora azzannato la gola è solo perché qualcosa, dentro di lui, lo
sta disperatamente pregando, lo sta supplicando, di non mandare tutto a
puttane. E di cercare di salvare qualsiasi cosa sia rimasta, della loro
amicizia.
“Ásgarðr?” balbetta appena Camus,
smarginando gli occhi e la bocca. Una voglia improvvisa, viscerale di ridere.
Come non gli capitava da tanto, tanto tempo.
“Ásgarðr, sì” ripete ancora Milo,
ringhiando. “O vuoi ancora fare lo gnorri?
“Oh
Seigneur” gli sfugge. “Cioè. Noi non ci parliamo da quasi un anno per Ásgarðr?”
sospira Camus, lasciandosi cadere all’indietro, lo schienale della sdraio ad
accoglierlo e tutta la tensione e l’apprensione sciogliersi con la stessa
facilità con cui il vento solleva le foglie d’autunno.
“Tutto questo casino solo per quello che è
successo ad Ásgarðr?”
Milo lo guarda, fra lo sdegno e la
sorpresa.
Possibile? si chiede Milo
Possibile che davvero Camus non se ne renda
conto? Possibile che per Camus l’aver alzato la mano contro di lui, l’aver
quasi fatto ammazzare Diego non significhi nulla? Non abbia mai significato
nulla? Eppure. Eppure lui ricorda un altro Camus. Ricorda un cavaliere, un
amico, battersi al suo fianco, disposto a offrigli la protezione della sua
schiena e la sicurezza della sua presenza. Ricorda l’uomo cui ha scelto di
raccontare tutto di se stesso: le cazzate fatte da ragazzini e le cose serie.
L’indifferenza che sente quando gli chiedono se non vorrebbe sapere qualcosa,
dei suoi veri genitori, e la punta di nostalgia che ancora lo prende quando
ripensa a Isavros e al modo in cui è uscito dalla sua vita. A Camus Milo ha
dato tutto se stesso: gli ha confidato ogni pensiero, ogni dubbio, ogni
certezza.
E adesso. Adesso vedere sul viso di Camus,
sul viso di quello che un tempo è stato il suo migliore amico quel sollievo,
quel senso di leggerezza davanti a quella che dovrebbe essere una
consapevolezza pesante come un macigno, gli fa solo salire il sangue al
cervello.
“Solo?”
bercia, la maglia di Camus fra le mani e il suo naso a due centimetri da quello
del compagno. “Tu hai cercato di ammazzarmi, e dici solo?”
“Calme-toi” replica Camus, mentre
Milo lo trascina in piedi e stringe ancora di più le mani. Che sono calde, e
tremano. Milo ha sempre le mani calde e sudate, quando si arrabbia. E l’indice
preme lì, sulla carotide. Camus lo sente. Lo sente contro il pomo d’Adamo
mentre deglutisce saliva e parole che gli salgono dallo stomaco. E sa che Milo
si sta costringendo; sa che Milo sta facendo appello a tutto quello che ha
ancora nelle viscere per non affondare quell’indice nella sua gola e fargli
sentire nella pelle lo strazio che gli vede nei tratti duri, rabbiosi. E
disperati.
“P’tain.
Que bordel” impreca Camus, stringendo aria fra i denti. “Non hai parlato
con Saga? Ad Ásgarðr. Non.”
“Non ci provare, Camus” gli soffia in
faccia, una scrollata che vuole essere un ammonimento. “Non ho voglia di
balle.”
“E chi te le vuole raccontare?”
“Tu, me le vuoi raccontare” ringhia Milo. “Cazzo.
E io che sono anche venuto fin qui. Per.”
“Per cosa?” lo incalza Camus, sentendo le
mani di Milo tremare a due centimetri dalla sua gola. Tremare come se volesse
piangere. “Per cosa sei venuto, Milo?”
“Per provare a sistemare le cose” grugnisce
Milo, e la presa torna salda, arrabbiata. “Per parlare.”
“E allora parliamo!” alza la voce Camus,
costringendo Milo ad arretrare di un passo, anche se non molla la presa. Perché
è stanco di sentirselo così addosso; perché quella situazione non piace nemmeno
a lui. E perché dopo quasi un anno intravede forse uno spiraglio, una
possibilità di capire cos’è successo.
“Parlare” quasi ride Milo, inghiottendo
saliva e rabbia e stanchezza. “Cioè. Tu adesso vorresti parlare.”
“Me lo stai
chiedendo tu!”
“Appunto!” bercia Milo, costringendo Camus
a indietreggiare fino a inciampare e trovarsi schiacciati sul prato, le prime
foglie secche e l’odore umido di terra nel naso. “Io te lo sto chiedendo. E tu tiri fuori Saga. E. Cazzo.”
“Ma perché era Saga che doveva parlarti!”
“E di cosa? Cazzo. Camus. Di cosa doveva
parlarmi?”
“Di quello che stava succedendo ad Ásgarðr!”
“Ad Ásgarðr?” ripete Milo. “Cioè tu hai chiesto a Saga di giustificarti con me per il coglione che sei stato?”
“Oui!
Cioè: no!” incespica Camus. “Saga dovevo solo. Mon Dieu! Milo. È un equivoco. È tutto un maledetto equivoco.”
“Stronzate!”
“No che non sono stronzate!” ribatte Camus,
rovesciandolo a terra. “Ci hai parlato, con Saga? Dopo. Alla ridotta. Dopo
quello che è successo. Milo. Ci hai parlato o no, con Saga?”
“No che non ci ho parlato. Perché avrei
dovuto?”
"Perché ti avrebbe spiegato tutto”
ringhia Camus. “Ti avrebbe spiegato tutta la storia.”
“Possibile che non ci arrivi?” urla Milo,
una piega rabbiosa sulle labbra e le mani che restituiscono la pressione sulle
falde della giacca. “Non me ne frega niente delle spiegazioni di Saga. Non me
ne faccio niente di versioni ufficiali e stronzate varie. Cazzo. Louan! È da te
che la voglio, una spiegazione! Solo da te!”
“E allora fammi parlare!”
“Col cazzo che parli, tu” sputa ancora
Milo. “Fin’ora, quello che ha parlato, sono stato io. Sono sempre io! Skaze.”
“Milo.”
“Tu non tiri fuori mezza parola. Mai mezza
parola.”
“Milo.”
“E io come un deficiente che ci spero
ancora. Che.”
“Ma te la vuoi dare una calmata, merde?”
Le mani di Camus sono fredde. Lo sono
sempre.
Ma in quel momento, per Milo, quelle mani
fredde sulle proprie, calde e nervose e percorse da un fremito come di
elettricità, sono un porto sicuro. Sono il simbolo di una tranquillità, di una
normalità che si era visto strappato a vent’anni, il dubbio a serpeggiare nella
testa e il sangue di un compagno chiamato traditore sulle mani.
Per questo Milo respira. Un respiro di
petto, di pancia, che gli fa tremare le vene e i polsi e lo lascia come
inebetito. Perché. Perché all’improvviso c’è una possibilità. All’improvviso
c’è una terza via mai immaginata, mai nemmeno paventata, che potrebbe spiegare.
Potrebbe spiegare tutto; o almeno provarci. E Camus. Camus ha negli occhi i riflessi
delle candele, e alle spalle la luce dello spiraglio della porta, e
un’espressione che sembra promettergli che tutto andrà a posto. Che tutto può
ancora andare a posto. E se non sarà proprio tutto tutto come prima, sarà
comunque bello. Bello anche per loro, che vivono ogni istante di quella vita
ritrovata nella consapevolezza che prima o dopo l’oro e i cosmi li ammanteranno
di nuovo, per trascinarli verso una nuova battaglia, e una nuova morte.
“Louan” soffia Milo, un nome che sfugge
alle labbra con una nota quasi di pianto.
“Ta
guele!” gli intima Camus, il respiro che martella nel petto e una voglia
matta di prendere fiato. “Fut! Que casse pieds! Prima dici che vuoi
parlare, e poi nemmeno me lo lasci fare” continua ancora, il tono che si
distende, tornando alla solita inflessione, con quello strascicare la erre che
Camus non ha mai abbandonato.
“Milo” lo chiama ancora Camus,
stringendogli appena i polsi che tremano. “Milo. C’è una cosa. Una cosa che
avrei dovuto dirti prima”.
“Una spiegazione.”
“Sì. Una spiegazione. Una storia” conferma
Camus. “La vuoi sentire, questa storia?”
E Milo annuisce, muto come un bambino.
Annuisce e si lascia accompagnare di nuovo alla sdraio. E aspetta. Aspetta che
Camus ritorni, due tazze calde in mano e una coperta sotto a un braccio.
Louguivy, in quel momento, è il silenzio
rotto solo dalla risacca lontana del mare, dietro la barriera di case basse dal
tetto spiovente che hanno di fronte. È la luce debole del lampione che spiove
pochi metri più in là e il silenzio della notte di un paesino di pescatori in
Bretagna. Louguivy, in quel momento, per Milo, è il tepore della coperta che
Camus gli ha messo sulle spalle e la sua voce che soffia nella notte.
È sempre stato bravo a raccontare, Camus.
Con quel modo che ha di modulare la voce, adattandola al momento, al luogo, al
personaggio. Per Milo, le storie migliori erano quelle che raccontava Camus,
quelle poche volte che glielo concedeva. Crescendo, Camus non ha perso quel suo
modo di raccontare, anche se non erano più fiabe di bambini, ma quotidianità.
Ma la voce di Camus ha conservato quella
nota cantilenante, ritmata, con quel suo accento francese che nemmeno gli anni
passati in Siberia sono riusciti a cancellare.
Ed è con quella voce, con quegli accenti,
che Camus, in mano una tazza di caffè caldo con due gocce di latte, gli
racconta di Ásgarðr. Della camera semplice, dalle caldi pareti di quercia, in
cui si era risvegliato, dopo che aveva sentito il corpo e l’anima frammentarsi
nella luce. C’era la sua armatura, in quella stanza sconosciuta, e le mani
attente di una guaritrice a tastargli la fronte e il petto.
“Si chiama Elin. Ed è la guaritrice
personale al servizio di Hilda di Polaris” gli spiega, gli occhi stretti a
ricordare una ragnatela di rughe su un viso anziano, e il sorriso quieto, nella
bocca sottile quasi sdentata, che biascicava in una lingua che lui aveva
faticato a riconoscere. Parlava un dialetto stretto Elin, e lo aveva visitato
con la cura e l’attenzione ruvida di quelle donne cui la vita ha insegnato ad
essere pratiche prima ancora che amorevoli.
Ed era stata proprio Elin, appena lo aveva
ritenuto abbastanza in forze per reggersi in piedi da solo e camminare, ad
averlo fatto muovere per i corridoi del Valhalla, in una notte di neve che
premeva contro le finestre piombate. Alla luce tremolante di una bugia, il
passo claudicante e la sicurezza di una via affidata più alla memoria che alla
vista, Elin lo aveva condotto fino ad una stanza. E poi se n’era andata.
“Chi c’era, in quella stanza?” chiede Milo,
la bocca contro il bordo della tazza, le mani ancora fredde attorno alla
ceramica calda. “Hilda?”
“No” lo smentisce Camus, nella voce una
serietà che non appartiene al racconto. Nella voce, il timbro di un segreto, di
una rivelazione che sembra esaurire tutti i perché. “Aioros.”
“Aioros?” ripete Milo, il caffè che scotta
sulla lingua quanto quel nome che sa di colpe e responsabilità.
“Sì. Aioros” annuisce Camus, poggiando la
tazza sul basso tavolino e stingendosi un braccio quasi con distrazione. “Ed
era ferito. Brutte ferite.”
Camus ce l’ha impressa in fondo agli occhi la
figura di Aioros con i segni di Einherjar a marchiare la carne martoriata. Il corpo di un ragazzo. Perché
quello che Camus aveva avuto davanti, in quel momento, non era stato né l’uomo
consegnato alla leggenda per il pianto di un neonato né il cavaliere ammantato
d’oro e cosmo che aveva teso negli Inferi l’arco di Sagitter. Senza la sua
armatura addosso, le grandi ali dorate a slanciarlo verso il cielo, Aioros gli
era apparso per quello che era realmente: un ragazzo.
Un ragazzo con il viso deformato dalla
sofferenza e negli occhi la maturità di chi è stato costretto a crescere troppo
in fretta, di chi la vita l’ha giocata senza nemmeno sapere cosa significasse
viverla davvero.
In quella stanza, con solo i barbagli del
fuoco a proiettare luci e ombre e la neve a vorticare oltre le finestre
piombiate, il ghiaccio come un sottile trina, Camus si era seduto accanto
all’uomo, al ragazzino che aveva dato la vita per Anissa, e lo aveva guardato
negli occhi. In quegli occhi febbricitanti e stanchi che raccontavano solo il
desiderio di un’altra vita, di un’atra possibilità ancora. E aveva saputo;
aveva capito.
Nei segni che cangiavano sul viso e sul
petto di Aioros c’era tutta una storia.
C’era la richiesta di aiuto di un dio
alleato e la necessità di bagnare di nuovo di sangue le lande innevate di Ásgarðr.
In quei marchi che brillavano osceni, divorando cosmo e carne, c’era la
promessa di una vita strappata per un istante alla morte. C’era la promessa di
sentire di nuovo l’aria nei polmoni e il calore del sole sulla pelle. C’era la
promessa di un abbraccio, di uno sguardo concesso anche alla foga della
battaglia.
Ed era a quella promessa che Aioros si era
aggrappato con tutto se stesso, con la risolutezza profonda, quasi blasfema, di
un uomo che è disposto a rischiare tutto, pur di strappare un’ora, un minuto
soltanto in più alla vita. A quella vita cui ha rinunciato a quindici anni,
senza sapere nemmeno cosa davvero stesse perdendo.
Io
non voglio morire. Non di nuovo. Non così gli aveva mormorato, il terrore e
la determinazione mescolarsi in un sussurro. Ma combatterò. L’ho sempre fatto, un pigolio di normalità che non
aveva il sapore dell’eroismo. È l’unica
cosa che so fare aveva aggiunto, la testa affondata per metà nel cuscino,
in una confessione che suonava come una condanna.
E Camus gli aveva guardato la mano, quella
mano ruvida dei calli di un arciere esperto. Quella mano che, da bambino, gli
era sembrata così grande e forte e sicura. In quel momento, aveva notato Camus,
la mano di Aioros era nervosa e sottile.
E in quella mano, Camus si era accorto di
una cosa. Di una banalità tanto semplice ed evidente da risultate quasi
naturale. Di una stonatura che all’improvviso lo aveva trafitto come una
stilettata. E che lo aveva fatto tremare. Dentro. Nelle viscere. Fino nel
cosmo.
E che confermava la falsità di quella vita
appena inciampata.
“Cos’avevi notato?” riesce a chiedergli
Milo, la paura della risposta soffocata dalla sua stessa voce.
“Te la ricordi, questa?” gli chiede invece
Camus, mostrandogli la linea sottile che gli attraversa il l’avambraccio. Una
lunga linea che parte dal pollice e risale fin oltre il gomito, sotto la manica
della camicia che Camus ha arrotolato.
“Sì” inghiotte Milo. “Sì, che me la
ricordo. Hai quasi rischiato di perderlo, il braccio, quella volta.” Nella
memoria il ricordo di una battaglia di ragazzini. Nella memoria, il ricordo dei
cosmi che si incendiano contro il Drago di Perla e l’ostinazione di Camus di
combattere anche per lui, fino a cadergli esausto fra le braccia. Un lungo
taglio a squarciargli la carne, a mostrare l’osso nel ruscellare del sangue.
“Già” mormora Camus, risistemando la manica
e scoprendosi invece un fianco. “E questa?” gli chiede ancora, mostrando
un’ampia zona coperta da un’ustione da freddo.
“Hyoga. All’Undicesima” biascica Milo,
abbassando gli occhi sulle proprie mani strette strette. Perché le ricorda
bene, le cicatrici di Camus. Le ricorda una per una. Quelle di quando,
ragazzini, erano caduti dai muretti a secco attorno al Temenos. Quelle ottenute
nell’arena, negli allenamenti, e anche le altre, quelle nuove
dell’addestramento, tributo di una corazza d’oro pagata con il sangue. E
ancora. Quelle delle battaglia, strappate da dovere e determinazione.
Le conosce una per una, le cicatrici di
Camus. Soprattutto quelle provocate dalle ustioni del ghiaccio di Hyoga. Le ha
lavate lui, una ad una, quelle cicatrici, mentre lo preparava per la sepoltura.
Ce le ha incise nella memoria, in modo quasi doloroso, e se le sente bruciare
addosso ogni volta che le vede.
“Mh. E”
“Camus” lo ferma Milo, una mano stretta la
suo braccio in quella confidenza che ricorda un legame, un qualcosa che si
accavalla in fondo alle viscere, nella presa salda. “Dove vuoi arrivare?”
“Io ho le mie cicatrici” riprende Camus,
stringendo le proprie dita alla mano di Milo. Scoprendola fredda. Molto fredda.
“E tu hai le tue” continua, ignorando la sgradevole sensazione di disagio che
gli stringe lo stomaco. “Aioros, invece, non aveva cicatrici.”
“Ma se hai detto che era ferito.”
“Ya.
Certo.”
Camus accavalla le parole, incespica lui
per primo, e Milo si accorge che quello che Camus gli vuole dire è qualcosa di
pesante e pericoloso. È qualcosa che fa paura, molta paura. Lo sa, lo vede: lo
vede da come Camus si massaggia la fronte, con forza, cercando di trovare le
parole esatte, il senso esatto di quello che gli vuole dire. Così facile; e
così pesante.
“Era ferito. Sì” riprende, stringendosi un
polso e passando e ripassando per riflesso il dito sul solco della cicatrice.
“Ma erano ferite nuove. Recenti.”
“E allora? Aveva combattuto contro Andreas.
Contro Loki. O come diavolo si chiamava. Giusto?”
“Certo che aveva combattuto” sospira Camus.
“Ma non è questo il punto” riprende, frustando l’aria stanco. “Milo. C’erano
solo quelle ferite. Sul corpo di Aioros. C’erano le ferite dello scontro con
Loki.”
“L’ho capito, questo” replica Milo,
stringendo gli occhi. “Ma cosa c’è di strano? L’hai detto tu: le abbiamo tutti,
le nostre cicatrici.”
“Ti sei mai allenato con Aioros?”
“Ma che domande sono?”
“No. Intendo. Da quando. Da quando siamo…”
e lascia in sospeso la frase, come se la parola scottasse sulla lingua.
Rimanesse intrappolata fra i denti. “Siamo tornati.”
“Ah. Sì. Qualche volta” nicchia Milo. “Ma.
Davvero. Cosa c’entra?”
“E gli hai visto le braccia? E il petto?”
“Sì. A volte” gli conferma Milo, annaspando
dietro un ragionamento che gli balena davanti al naso senza che riesca davvero
a capire verso cosa Camus lo voglia portare. “Capita. Lo sai. È normale.”
“E non hai notato niente?” lo incalza
ancora Camus.
“Cosa avrei dovuto…Oh.”
“Appunto” sospira Camus. “Oh.”
Perché Aioros non ha cicatrici. Non ha
nuove cicatrici, quelle dello scontro ad Ásgarðr. E non ne ha di vecchie, cicatrici.
Soprattutto non ha nessuna vecchia cicatrice sbiadita dal tempo. Non le aveva
quando si sono ritrovati, la neve a turbinare oltre una finestra e il calore di
una fiamma a riscaldare corpi appena rinati alla vita. Non le aveva durante la
battaglia, violenta, contro Loki, e non le aveva mentre svaniva, luce calda
nello schiarirsi dell’alba. Non le aveva nemmeno quando lo hanno rivisto, un
anno prima, ultimo di loro a ridestarsi dal sonno.
Aioros non ha cicatrici. Sul corpo
dell’uomo, la pelle lucida e abbronzata è tesa, tonica, intatta. Anche se.
Negli occhi di Milo c’è lo stesso sgomento.
La stessa sorpresa che Camus sa di aver provato la prima volta che ha rivisto
Aioros. E forse. Forse c’è anche la stessa domanda. La stessa terribile domanda
che gli grava nello stomaco.
Perché il corpo di Aioros dovrebbe essere
coperto di cicatrici. Il corpo di Aioros dovrebbe portare su di sé una
ragnatela di cicatrici, tagli precisi, netti e profondi. Il corpo di Aioros
dovrebbe raccontare lo strazio di un duello, la disperazione alla vita e la determinazione
di Diego nel colpirlo, nello squarciargli le carni, fino a renderle brandelli
di sangue e dolore.
Eppure.
“Non le aveva neanche allora?” Milo
inghiotte a vuoto, gli occhi che cercano lo sguardo di Camus. “Ad Ásgarðr,
voglio dire.”
“No.”
“Skaze”
impreca Milo, stropicciandosi la faccia. “Hai capito che qualcosa non andava
per quello. Perché Aioros non aveva cicatrici delle ferite che gli aveva
inferto Diego.”
“Esatto.”
Aveva capito che davvero qualcosa non
andava per quel dettaglio, per un particolare da nulla, che gli aveva fatto
correre un brivido lungo tutto il corpo. E anche Aioros aveva capito. Perché,
negli occhi di Aioros, in fondo in fondo, c’era un misto di terrore e pietà
verso se stesso che. Faceva male, ecco. Faceva un male cane. Perché vedere
Aioros, vedere quell’uomo con quella piega amara sulle labbra, con
quell’espressione mista di impotenza e disperazione era. Era qualcosa che Camus
non era pronto ad affrontare. Non lo sarebbe mai stato.
“Ma quelli erano i nostri corpi” tenta
ancora Milo. “Cioè. Io avevo la ferita alla coscia. Ricordi? E quella al
ginocchio. Quella che mi hai fatto tu. Da bambini. Con quel sasso. E tu”
“Io avevo le mie cicatrici, sì.”
“Quindi ho ragione. Erano i nostri corpi”
incalza ancora. “E Aioros. Anche quello doveva essere il corpo di Aioros.”
“Non lo so” sospira Camus. “Davvero. Non lo
so.”
“Ma allora” balbetta Milo, stringendo la
lingua fra i denti. Per non bestemmiare. Per non lasciarsi sfuggire una parola
che è delirio anche solo il pensare. Perché significa ipotizzare qualcosa; una
cosa, che solo agli dei sarebbe concesso pensare. Perché significherebbe
scoprire cosa esattamente Anissa ha pagato, in cambio del loro ritorno. Del
ritorno di tutti loro. Del ritorno di Aioros.
“Allora” soffia, la voce un tremito che
viene preso dal vento. “Allora Aioros. Il suo corpo. Tu. Tu pensi.”
“No, Milo” lo ferma Camus. “Io non ci
voglio pensare. Davvero. Non voglio.”
“Perchè?”
Camus.
Dimmi perché. Da quando hai così paura di guardare in faccia la realtà?
“Perché” espira Camus, la lingua a sfiorare
le labbra, cercando nella gola le parole che se ne restano lì, incastrate senza
riuscire ad uscire. “Perché poi penserei ad altro. E non voglio pensarci, a
quell’altro.”
Perché penserebbe ad Oskars. E a Isaak.
Penserebbe a chi ha perduto. A suo padre. A sua madre. A Nevena, a quella
sorella presa in braccio per deporla in una piccola bara bianca. Penserebbe a
qualcosa che ha davvero il sapore del tradimento. E allora. Allora per la prima
volta. Allora davvero, per la prima volta nella sua vita, Camus sarebbe
disposto a mettere in discussione se stesso e la lealtà totale, la devozione
assoluta che ha scelto di esercitare nel servire Anissa.
Ma se
ci penso. Se la risposta fosse quella che penso.
Se davvero quello che lui e Milo hanno
immaginato fosse la realtà, allora. Allora sarebbe come morire. Di nuovo.
Sarebbe come trovarsi di nuovo sulla bocca dell’Abisso, e vedersi strappare.
Sentirsi riportare indietro, con la consapevolezza di non poter afferrare
nessuno. Che tutto è aria fra le dita. Significherebbe essere sopravvissuti. E
sentirsi addosso tutto il peso, di quella vita ritrovata per inciampo, nel
sorriso spietato di Anissa.
“Perché sarebbe blasfemo?”
“Forse. Sì” soffia Camus. “O più
semplicemente perché non potrei accettarlo.”
Glielo dice così, con quella semplicità
disarmante che fra loro è sempre stata la confidenza. Glielo dice così, i
capelli a spiovere sul viso e la candela a tremolare nel ristagno di cera
liquida che è rimasto. Glielo dice con tutta la semplicità e la confidenza di
cui è capace. Sapendo. Sapendo che Milo lo capirà. Sapendo; confidando in quel
qualcosa. In quell’amicizia che li ha legati e che Camus sa, cocciuto,
ostinato, che non può essere semplicemente infranta così. Come un cristallo
sulla roccia. Perché i cristalli sono duri, sono tenaci.
“Va bene” acconsente Milo. “Non ne
parleremo. Non questa sera, almeno” gli promette, le dita veloci a sugellare
quella promessa. Ma sanno entrambi che è solo un discorso lasciato in sospeso;
sanno entrambi che è qualcosa che hanno scoperchiato e con cui prima o dopo
dovranno confrontarsi.
Ma non
questa sera
si ripete Milo. No. Non ce la farei. E
nemmeno tu.
Perché Camus è raggomitolato su se stesso,
le braccia attorno alla pancia e quell’abbandono che Milo ricorda di avergli
visto quando qualcosa lo sta trascinando a fondo. E il pensare. L’ipotizzare
quello che Anissa ha fatto per loro, e per Aioros. Sfiorare quel pensiero su
cui nessuno di loro ha mai voluto davvero soffermarsi è. È qualcosa che non
sono pronti a sostenere.
Perché se Milo ha avuto i suoi lutti e le
sue tragedie, ha riavuto indietro Camus, ha riavuto l’amico più caro al fianco.
Mentre Camus. Camus si è solo visto strappare uno alla volta affetti e porti
sicuri. E pensare. Pensare che Anissa abbia fatto qualcosa, qualcosa che va
oltre a un diritto di guerra, allo scotto richiesto dal generale trionfante sul
nemico sconfitto. Milo crede che sia pericoloso, e blasfemo, il pensarlo.
L’avventurarsi in un pensiero del genere. Ciò che è successo nei Cieli dovrebbe
restare nei Cieli. Anche se le domande sono molte, a volte troppe. E non basta
il sorriso quieto di Anissa e la durezza del suo sguardo che sa più di ordine
che di invito a metter a tacere certi pensieri.
“Prima o poi il discorso salterà fuori. Lo
sai anche tu. No?” riprende Milo.
“Prima o poi. Sì. Lo so” gli concede Camus.
“Non questa sera però. D’accord?”
“Te l’ho promesso. E sai che quando
prometto…”
“…prometti. Sì. Lo so.”
Non
ci pensare
si impone comunque Camus, gli occhi stretti stretti e i denti a mordere le
labbra, in un dolore che rilascia nervosismo e angoscia.
“Re”
lo richiama Milo, raccattandogli una mano troppo fredda per essere solo dovuta
alla notte umida di quel settembre avanzato.
“Hai freddo?” lo sorprende Camus,
ricambiando appena la sua stretta.
“No. Non molto” mente, muovendo di riflesso
le dita. Perché invece inizia davvero a sentire freddo, su quella sdraio, in
quel giardino di settembre, la notte bretone ventosa nelle ossa e il richiamo
del mare nelle orecchie. E avrebbe voglia di un fuoco, o almeno di una coperta.
Ma sa anche che non si muoverà da quella sedia.
Dovessimo
fare mattina.
“Bugiardo” sorride Camus, e in quel sorriso
sottile e aperto, Milo rivede uno scampolo di infanzia.
“E perché?”
“Stai tremando” gli fa notare Camus, una
mano sul suo ginocchio come a sottolineare la veridicità di quelle parole.
“Ah. Ops.”
“Già. Ops”
ridacchia appena. “Aspetta.”
E Milo aspetta.
Aspetta sentendo i denti che vorrebbero
sbattere fra loro e chiedendosi da quando, in Francia, faccia così freddo. O se
forse. Forse non sia solo lui a sentirlo, quel freddo. Se quel freddo che sente
dentro, nelle ossa, non sia il vento che soffia dal mare, ma sia paura. Paura
di sentire verità e segreti che ha rincorso per un anno, contro cui è andato a sbattere
per un anno intero, per scoprire di non sapere più se è davvero pronto, a
quelle risposte. Perché. Perché vorrebbe dire qualcosa. Qualcosa di ancora più
grande e complesso e potenzialmente devastante di quanto già non sia la
consapevolezza del tradimento di Camus.
Ma
ormai sono in ballo
si dice, sfregandosi le mani sulle braccia e massaggiandosi la faccia. Dentro
starebbero meglio. Dentro, davanti al camino, c’è un tappeto. Un tappeto dal
pelo lungo e caldo. Potrebbero accendere il caminetto, e sedersi lì. Potrebbero
parlare affondando la testa nei cuscini del divano, Camus seduto sulla
poltrona, le gambe accavallate e quel modo che ha di mettere i gomiti sui
braccioli. Quel modo quasi aristocratico che gli ha sempre deriso. E lui. Lui
probabilmente si stenderebbe sul divano, la coperta di cotone spesso, quella
con le righe blu e nere e bianche, e una gamba buttata sul tavolino basso. O
aldilà della testata. Non gli è mai piaciuto sedersi composto, in fondo.
Sì.
Dentro si starebbe meglio si ripete, mentre Camus trascina un vecchio braciere,
di quelli di ferro, e lo sistema fra loro, davanti alle sdraio. Ma non sarebbe la stessa cosa considera
ancora Milo, un accenno divertito sulle labbra, mentre osserva Camus piegato
sulla legna soffiare per strappare una scintilla agli sterpi e alla carta.
“Mat
eo” sbuffa Camus, risollevandosi. “Fra un po’ starai meglio” continua,
risistemandosi sulla sdraio, al suo fianco, e recuperando dalla tasca un
fazzoletto per pulirsi almeno un po’ le mani sporche di cenere e nerofumo.
Milo stringe le spalle e allunga le mani
verso le fiamme. No. Non sarebbe la
stessa cosa si ripete, sentendo il calore riscaldare timido l’aria attorno
al braciere. Lo so io. Ma lo sai anche tu
riflette, nascondendo nell’ombra del cappuccio la smorfia di sorriso nello
scorgere una lunga scia di fuliggine sulla guancia di Camus. È una sciocchezza,
ma per Milo è qualcosa di molto semplice, e di molto umano. Qualcosa che rende
Camus di nuovo l’amico di un tempo, quello che, in Siberia, quando arrivava, metteva
sempre due ciocchi in più nella grande stufa in fondo all’izba, e ci sistemava sopra
due polati, assieme al materasso e alle coperte, quelle pesanti foderate di
pelliccia di orso o cervo.
Per questo resterà davanti a quel braciere.
Per questo e per sentire il resto della storia, della verità che Camus vuole
raccontargli. Perché se entrassimo.
Se entrassero, Milo sa bene che starebbe più caldo e più comodo, ma sa anche
che tutto cambierebbe. Sa che Camus tornerebbe rigido e compassato, e che
faticherebbe a cavargli due parole di bocca. Perché Camus è fatto così. Camus è
capace di parlare e chiacchierare e confidarsi meglio, quando non si riesce a
vederlo bene in faccia. Quando la sua faccia è solo una danza di ombre, nella
luce tremolante di un fuoco o di un temporale. O anche solo nelle ombre di una
notte qualsiasi, di maggio o di novembre.
Per questo non si muoverà da quella sdraio,
anche se crede di avere le dita blu e il giorno dopo avrà la bocca spaccata,
per quel vento maledetto che si insinua nelle strade, portandosi dietro il
profumo del mare e della pioggia.
Milo alza appena la testa al cielo.
Sono arrivati che c’era una distesa di
stelle e pochi lampioni a rubarne la lucentezze; adesso, ci sono nubi dense e
scure che si stanno rincorrendo dal mare, portando con sé aria umida e fredda.
“Domani pioverà” commenta Camus, il naso
all’insù a seguire i suoi stessi pensieri. Per prendersi un momento, un istante
da quel ricordare che Milo agogna e Camus. Camus sembra non saper bene come
gestire. “Il mare si mangerà mezza spiaggia, vedrai. E se inizierà prima,
sentirai la campana. Perché le barche devono essere fissate per bene” prosegue,
pescando dalla tasca della field un accendino e un pacchetto di sigarette. “Ma
il mare lo conosci anche tu” soffia assieme al fumo, in un respiro lungo e
lento.
“Auraur lo sa?” si distrae Milo, allungando
la mano al pacchetto mezzo accartocciato che Camus ha lasciato sul tavolino,
fra le tazze di caffè ormai freddo e due bottiglie di sidro vuote.
“Hm?”
“Che fumi” precisa ancora Milo, prendendo
una sigaretta e iniziando a piegare il cartone. Due pieghe nette, verticali,
lungo l’asse centrale.
“Que
con” ridacchia Camus, la mano alla bocca e un puntino rosso acceso a bucare
la notte, lì dove si confonde con il riverbero del fuoco. “Ma se sono le tue.”
“Ara?”
e Milo rigira il pacchetto, bianco con un mezzo cerchio blu. C’è un pezzo di
Russia, su quel pacchetto, e la scritta Bielomor in cirillico sopra. “Ma ce le
hai ancora?”
“Le avevi dimenticate” scrolla le spalle
Camus, espirando piano il fumo del nuovo tiro. “E quindici rubli sono sempre
quindici rubli. Che dovevo fare? Buttarle?”
“Quindi” sorride
Milo. “Hai pensato bene di fumartele” alludendo al pacchetto spiegazzato e
mezzo vuoto.
“Le fumava Oskars”
puntualizza Camus, gettando il mozzicone nel braciere. “Poi. Dopo che è morto.
Non lo so. Mi devono essere rimaste in tasca. Tutto qui.”
Tutto qui? vorrebbe chiedergli Milo, ma non lo fa.
Aspira piano invece
una boccata, lento, misurato. Il tabacco è vecchio, ma ha ancora quel suo gusto
strano, quasi leggero, di carta e cartone piegato. Gli ricordano la Russia e le
sue fughe in Siberia, quando qualcosa non andava. Quando al Temenos la
situazione si faceva tesa, o quando litigava con Kostas. O anche solo per
nostalgia.
Perché è la
nostalgia, ciò che li ha tenuti insieme, in quegli anni. Sotto varie forme e
sotto vari aspetti, ma sanno entrambi che ciò che li lega è prima di tutto
nostalgia. Di una vita mai vissuta; di una realtà mai sperimentata. Nostalgia
di una normalità che hanno costruito solo camminando l’uno accanto all’altro.
Anche verso la morte. Anche con un pacchetto di sigarette in tasca e un paio di
occhiali da sole dimenticati in una casa sospesa sopra una caletta.
“Faccio dell’altro
caffè” borbotta Camus all’improvviso, raccattando le tazze e avviandosi verso
l’ingresso. “Sempre lungo. Vero?”
“Mmh” annuisce
Milo, soffiando piano, gli occhi incatenati al fuoco. “Senti. Nella credenza.”
“Sì. L’avevo
vista.”
“Bene” commenta
Milo, dondolando appena fra loro le braccia. “Ne ho bisogno. Davvero.”
“Anch’io. Credimi.”
I tempi morti vanno
bene.
I tempi morti
servono per digerire le cose, per assimilarle. Quando ci sono i tempi morti,
Anatolij diceva che la testa, anche quella più dura, riusciva sempre alla fine
a trovare un equilibrio. Perché alle cose, a quelle importanti, a quelle che ti
lasciano a terra, quando ti investono all’improvviso, ci devi arrivare piano,
un passo alla volta.
Per questo i tempi
morti servono. Assieme ad una tazza di caffè.
Camus è cresciuto
con questa idea in testa. È cresciuto così, l’odore pungente della neve a
mescolarsi con quello del caffè, rinforzato con vodka e pinoli, che riempiva
l’izba, quando le provviste scarseggiavano e si doveva stringere la cinghia. O
almeno la stringeva Anatolij. Chè a loro, a lui e Oskars, la cinghia ha sempre
cercato di farla stringere il meno possibile, almeno fino a quando erano ancora
dei bambini. E poi. Poi ha iniziato a farlo bere anche a loro, il caffè. Una
caffè che a volte ricordava una brodaglia insapore e che giusto giusto otteneva
quel sapore tostato accettabile grazie ai pinoli; un caffè che a volte, invece,
ben filtrato, era un piacere da gustare piano, in una bella tazza grande, le
mani scorticate e anchilosate dal freddo e il calore della stufa a risalire
nelle ossa.
Ma il caffè è anche
Louguivy. È il ricordo di mamie che
macinava i chicchi, delle krampouezh che sfrigola e di un paio di calzoncini corti sulle ginocchia sbucciate.
Per questo, mentre
prende lo stantuffo e controlla il bollitore sul fuoco, Camus respira a fondo.
C’è un aroma particolare, in cucina: un misto di metallo riscaldato, vapore
caldo e polvere di caffè. Un profumo forte, denso e speziato che lo rilassa,
gli restituisce un senso di tranquillità e serenità. Di pace. Anche in quella
cucina, e in quella casa.
Per questo ha
deciso di prendersi il tempo necessario. Un tempo morto, appunto.
Sbircia dalla
finestra. Milo è un fagotto sulla sdraio, le mani al braciere e il cappuccio in
testa. Ha freddo, lo sa. Ma sa anche che non ha intenzione di schiodarsi da
quella sedia finchè non avrà ricevuto tutte le risposte che vuole; e che merita
di avere. E Camus sa anche che si intestardirà a restare lì fuori per lui;
perché lui parla con più tranquillità, quasi con più scioltezza, nell’aria
frizzante nella notte.
Non può finire così si dice, mentre allinea le tazze
sul bancone e versa nella caffettiera il caffè macinato grossolanamente, un
miscuglio di polvere e grani che solletica il naso. Non posso perderlo. Non così si ripete ancora, nelle mani e nello
stomaco un tremore che conosce. Perché è lo stesso che ha provato quando è
stato strappato da Quay e dalle braccia di mamie.
A sette anni appena compiuti. Quella sottile consapevolezza di qualcosa che si
sta per lasciare, senza avere la sicurezza di poterla ritrovare. Come lo strap netto e secco delle cerate gelate
che coprono le barche, d’inverno. Camus lo conosce bene, quel rumore: un rumore
secco, sordo, netto. Il rumore di qualcosa che si lacera, senza più poter
tornare indietro.
Lo ha sentito come
un’eco, mentre saliva le scale del Temenos, una surplice a vestirlo e la
dedizione mascherata da tradimento. Strap.
Ogni gradino era una lacerazione in più, un taglio netto che non si sarebbe mai
rimarginato. Strap. Gli occhi
rabbiosi, febbrili di Milo. Strap. Le
mani di Milo alla sua gola, la pressione della sua delusione.
Strap. Lo ha riavvertito quella mattina, quando
Milo è arrivato alla Crêperie. E lo
sta risentendo adesso. Un suono lento, lento: quella esse che si sta allungando sempre di più, in uno stillicidio che
preannuncia il rumore netto e secco. E Milo si trova lì, in bilico su quello
strappo, portandosi appresso quello che resta della loro amicizia. E Camus, a
quell’amicizia, non ha alcuna intenzione di rinunciare.
Per questo, mentre
versa l’acqua bollente e preme lo stantuffo, sa che prenderà le tazze e la
bottiglia di grappa dalla credenza. E tornerà fuori. Tornerà da Milo. E faranno
mattino a parlare. Perché ha tutta l’intenzione di raccontarglielo, quello che
è successo ad Ásgarðr. Tutto per filo e per segno, come dev’essere. Come avrei dovuto fare da subito.
E non darlo per
scontato. Perché è stato quello, l’errore. È stato pensare che Milo sapesse.
Che qualcuno gli avesse spiegato ogni cosa. O che. Che non servissero le
spiegazioni. Ché Milo avrebbe accettato tutto senza protestare; avrebbe
accettato quel suo atteggiamento assurdo senza batter ciglio. E sarebbe stato
disposto a far tornare tutto come prima; come sempre.
Que bordel sospira ancora, le mani nello strofinaccio
e un senso di stanchezza che gli preme nell’anima. D’accord sbuffa, afferrando le tazze e la bottiglia e due
bicchierini da grappa. Questa volta tocca
a me, raccattarci. È giusto così. Proviamoci.
E se lo ripete,
mentre torna in giardino, il caffè caldo nelle mani e una spavalderia che fa a
pungi con il terrore di perdere tutto.
Milo ha le gambe al
petto e gli occhi socchiusi fissi sul fuoco, quando Camus gli allunga la tazza
e stappa la bottiglia.
“Tsipouro” commenta, un sorso abbondante
ad allungare il caffè che Milo gli porge. “Un tuo regalo, immagino.”
“Già” scrolla le
spalle Milo, facendo oscillare piano caffè e grappa. “Ninenn la voleva
assaggiare” aggiunge, la lingua impastata dal freddo e dai ricordi. “Ce ne
siamo bevuti mezza bottiglia, quella volta. Ninenn, Fantin e io. Ne avevamo
bisogno. Tutti e tre.”
“Quella volta?” chiede
Camus, una curiosità distratta.
“Sì” mormora Milo,
le labbra nella tazza. “Per il funerale di Hoela” aspira, raccogliendo aria. “Per
il funerale di tua madre.”
Perché c’era Milo,
quando Hoela è morta. Perché c’era Milo, in quella casa, quando sua madre è
morta, Camus lo sa. Sa che Milo ha fatto quello che lui non poteva più fare.
Ha stretto Auraur e
il suo dolore; ha accompagnato mamie
dietro alla bara; ha ascoltate i borbottii e i mugugni di Fantin. Ha raccolto
il ricordo di una vita che si era consumata piano piano, nella speranza di
veder tornare quel figlio che le era stato strappato di aprile, il mare che
montava e la disperazione a scavare nella pancia. Ed è stato con Milo che sua
madre ha trascorso gli ultimi mesi della sua vita. Con un ragazzo incontrato
per caso, che le raccontava di Louan, e che di Louan voleva sentir raccontare.
Un ragazzo che si
portava addosso l’odore del mare, e il profumo caldo del sole. Di quella terra
che le aveva rubato Louan a sette anni, e non glielo aveva più restituito.
“Non ti ho mai
ringraziato, per esserci stato.”
“Eravamo amici”
nicchia Milo, un ciocco che si aggiunge agli altri in uno sfavillio di
scintille.
Eravamo.
Camus sente il
cuore mordergli nel petto.
“E Hoela era una
donna fantastica. Davvero. Si meritava accanto qualcuno che ti rappresentasse.
Anche se ti eri fatto ammazzare.”
“Me lo rinfaccerai
a vita” borbotta Camus. “Vero?”
“Vero” conferma
Milo. “Certi privilegi vanno esercitati.”
E restano così, il
ricordo di una donna magnifica ad aleggiare nei riflessi del fuoco, il dolore
per una morte mai davvero cercata e una complicità che riaffiora con la
leggerezza di una farfalla d’inverno, tremula e fragile. Un qualcosa che non è
ancora sparito, e non si riesce davvero a recuperare.
“Milo.”
“Mm?”
“Grazie. Davvero.”
Milo non risponde.
Perché non c’è
nulla da rispondere. Perché ha un nodo alla gola, dal sapore di caffè e anice.
Ed è un nodo che gli lascia addosso, di nuovo, come già altre volte in quella
serata ormai diventata notte inoltrata, la sensazione di essere un funambolo.
Si sposta i
capelli, in un gesto che è suo e che non sembra dire nulla. Ma è un modo comodo
per osservare Camus: la bottiglia di Tsipouro
a versare un sorsata generosa nel caffè saporito e corposo.
Già ride di se stesso. Proprio
come due funamboli.
Perché Camus ha la
sua stessa faccia. Dietro all’aria compassata e alla smorfia per il sapore
forte e dolciastro dell’anice, Camus ha la sua stessa voglia di riparare ogni
cosa. Anche se volesse dire passare la vita a camminare sul filo di un
equilibrista, un ombrellino in mano e la speranza un po’ sciocca un po’
infantile che qualcuno, sotto, abbia per caso dimenticato un materasso.
Abbiamo rimandato troppo sembra volergli
dire Camus, gli occhi sulle fiamme del braciere mentre soffia piano per
raffreddare la tazza, la lingua che scatta e si ritrae in un gesto buffo, da
bambino, appena prova a bere un po’.
E Milo si ritrova a
ridere senza davvero spiegarsi il perché. Una risata sottile, che gli allarga
le labbra e gli fa comparire due fossette che salgono a illuminargli gli occhi
di una sorta di leggerezza, di spensieratezza troppo a lungo dimenticata.
Camus se ne resta
così: la tazza bollente contro le labbra e due occhi smarginati che sembrano
non volerci credere, a quel sorriso aperto che Milo gli sta rivolgendo. Neanche
fosse una bestemmia sputata in faccia. Forse perché era da tanto che voleva
vederlo, quel modo di sorridere di Milo che gli ha sempre dato la sicurezza
che, in un modo o nell’altro, le cose sarebbero andate bene. Anche quando bene
non andavano e alla fine di quel sorriso non c’era più traccia e a restare era
solo il conto dei morti in battaglia.
O forse solo perché
non ci sperava più, di vederlo di nuovo, quel sorriso. E di vederlo rivolto a
lui. Quel sorriso che per Camus ha sempre significato casa, anche in mazzo all’infuriare della battaglia.
“Perché ridi?” gli
chiede, sentendo a sua volta le labbra sfumare di riflesso.
“Così. Ne ho voglia”
gli risponde Milo, stirando le braccia e risistemando il cappuccio della felpa.
“Non ricordavo che a settembre, qui, facesse così freddo” continua, incrociando
le gambe sulla seduta e raccogliendo nelle mani la tazza fumante.
“È il noroît” gli spiega Camus, allungando l’indice verso i
tetti scuri delle case, aldilà della stradina. “Te l’ho detto. Sta montando dal
mare, e si porta dietro una vera tempesta.”
“Eis Keramion” gli replica Milo, mostrandogli il palmo della
destra, le dita ben aperte con un na che si arrotola ad uno sbuffo di
insofferenza e riso. “Perché devi sempre trasformare tutto in una lezione?”
“In realtà, stavo cercando di fare conversazione” puntualizza Camus,
versando mezzo bicchierino di grappa e svuotandolo con una disinvoltura fluida.
“Anche di ubriacarti, mi sembra.”
“È solo il primo” sbuffa Camus, posando il bicchierino sul tavolino di
plastica. “In Russia è normale. Lo sai: aiuta a scaldarsi” continua,
versandosene ancora. “E
aiuta anche a sciogliere la lingua”, e io ne ho bisogno, questa sera si dice, mentre svuota anche il secondo.
“Lo sai che è una cazzata?” lo ferma Milo, prendendogli la bottiglia e
ridendo del modo che ha Camus di soffiargli il suo disappunto, arricciando il
labbro inferiore e socchiudendo gli occhi lucidi.
“Cosa? Che riscalda o che scioglie la lingua?” sorride Camus,
allungando la mano verso la bottiglia.
“La prima di certo” ride Milo, spingendolo di nuovo indietro. “E anche
la seconda, nel tuo caso, non so quanto possa valere.”
“Ma non siete voi greci che dite in vino veritas?”
“Sì. Qualcosa del genere” borbotta Milo, finendo di tappare per bene lo
Tsipouro. “Ma bisogna comunque restare un
po’ lucidi, per parlare.”
“Ti sembro forse
brillo?”
“Per ora no”
concede Milo, piazzandogli davanti alla faccia la tazza di caffè tiepido e
profumato. “Ma se continui così, invece che parlare ti ritroverai a
biascicare.”
“Esagerato” nicchia
Camus, concedendosi un lungo sorso di caffè e una scrollata di spalle. “È
successo solo una volta” aggiunge poi, le gambe che si allungano e il cuscino
che ha recuperato dal divano sistemato sotto le reni.
“Tu te ne ricordi una sola” ride Milo, la
testa gettata al cielo sempre più scuro e un tremito di leggerezza a
percorrerlo. “Ma io me le ricordo tutte” prosegue, il fuoco che strappa agli
occhi un luccichio di freschezza rilassata, di complicità che scorre
sottopelle. “Davvero. Non capirò mai come facevi, in Russia. Anche Hyoga, a
quindici anni, reggeva meglio di te.”
“Non sono poi così
negato” replica Camus piccato, incrociando le braccia comunque divertito da quello
scambio che sa di passato e nostalgia.
“Non ci sei neanche
portato” gli risponde Milo. “Cazzo. Perfino Mur e Shaka reggono l’alcool meglio
di te” continua, soffiandogli una verità che Camus non ha mai digerito e che
Milo si divertiva a sottolineare ad ogni occasione.
“Que bâtard” gonfia le guance Camus,
affondando il naso nella tazza e affettando uno sdegno esagerato ed esasperato
da essere falso come una moneta da tre franchi. “Come non ce li avessi anche
tu, i tuoi punti deboli.”
“Fisikà” concorda Milo, la testa che va a
destra e sinistra con energia. “Ma almeno io non li faccio conoscere.”
C’è qualcosa di
rassicurante, in quel modo di scherzare, di stuzzicarsi, nelle mani una tazza
che va raffreddandosi e il profumo forte e salino del mare a mescolarsi con
l’aroma di caffè e pinoli tostati, nel retrogusto di anice e liquore caldo.
C’è qualcosa che fa
sì che si guardino, sorpresi delle loro stesse espressioni, di quell’accenno di
sorriso che s’intravvede appena, nei riverberi del fuoco e del pizzicorio
strano, inaspettato, di sentirsi spalla contro spalla, di riavvertire quel
contatto accennato che capitava sempre, dopo ogni volta che avevano litigato.
Ed entrambi
ricordano di aver litigato più di una volta; tante volte. Per i motivi più
seri; e per quelli più futili. Litigato per un gatto raccattato per strada a
Rodorio. Un gatto che Camus si era intestardito a voler tenere e da cui Milo
riceveva solo unghiate e soffiate da leone. Ce le ha ancora le tre sottili
cicatrice che quel gattaccio gli aveva rifilato al loro primo incontro, sulla
pelle tesa fra pollice e indice.
Oppure quella volta
che hanno litigato per il dopobarba. Quello dal profumo sofisticato e fresco che
Camus centellinava come fosse acqua della vita e che Milo adorava. Glielo aveva
fregato per un appuntamento, e non lo aveva centellinato, lui. Affatto.
E poi ancora. Una
maglietta finita nella valigia sbagliata. Il disordine di Milo e i tentativi di
Camus di rimettere tutto a posto. Le due fette di pita condite con melitzanosalata per rimediare una cena bruciata da Camus.
Hanno litigato ancora per delle stupidaggini. Delle vere stronzate sogghigna Milo, e nel sorriso di Camus
indovina lo stesso pensiero.
Ma abbiano litigato anche per
cose serie sembra dirgli Camus, occhieggiando al taglio
sottile, a forma di virgola, che segna il mento di Milo, sotto l’ombra leggera
di barba. Quella cicatrice che mostra come un vanto, ottenuta scontrandosi con
Ettore, o almeno con la cristallizzazione della volontà di Ettore domatore di
cavalli. Quella volta Milo aveva rischiato troppo, per onorare in battaglia un
uomo nel cui mito e nelle cui leggende era cresciuto. Quella volta Milo si era
spinto fin quasi al limite, lui di solito così scettico, così circospetto
anche.
Avevano litigato, dopo quella battaglia. Tanto. Come solo loro riuscivano
a litigare. E si erano lasciati con parole che maceravano nello stomaco, e un
bel livido sotto l’occhio di Camus.
Perché Milo è così: Milo è sagace, è sottile.
Milo possiede l’anima autentica della sua terra. Milo piega il ginocchio
ad Anissa, la venera e la rispetta, la serve con una devozione che non ammette
concessioni. Eppure. Eppure Milo è portato alla logica, alla critica. È il
primo che giura lealtà e il primo che stressa la sua fedeltà. Guarda anche sotto
la superficie, Milo, in un modo che è solo suo, che ha messo in gioco anche la
realtà monolitica del Temenos, con la forza di guardare in faccia i propri
errori e le proprie errate convinzioni.
Camus invece.
Camus è un fascio di emotività. Un grumo di emozioni provate e mai
ostentate. Camus è un uomo che ha fatto del dovere il proprio equilibrio, e che
ha dedicato tutto se stesso ai suoi affetti. Costringendosi in atteggiamenti
che non gli sono mai appartenuti, piegando il suo carattere alla necessità.
Camus è sempre stato anche un uomo con dei rimpianti: per la vita in Bretagna
strappata, per il non esser riuscito ad essere per Isaak prima e per Hyoga poi
quel maestro, quella guida, che Anatolij era stato per lui. Per essere andato
avanti, anche. Per aver deciso che il passato appartiene al passato, e quello
su cui si sarebbe sempre dovuto concentrare è solo il futuro.
Ma Camus ha anche imparato a fidarsi, della capacità di Milo di
analizzare la realtà. Ne ha apprezzato la razionalità sottile, a tratti
pungente, e quella abilità che ha sempre avuto di mettere a nudo ogni azione.
Di mettere a nudo lui, e le sue di azioni. Come quando era sceso alla Settima.
E Milo lo aveva costretto a tirar fuori tutto il dolore e l’acredine che gli
rimestava nello stomaco dopo esser stato costretto a scontrarsi con Hyoga. Dopo
aver dovuto scegliere se lasciar andare avanti un ragazzo che amava o trovare un
modo per proteggerlo anche da se stesso.
Milo è così.
E allora perché non hai
capito gli vorrebbe chiedere Camus.
Perché il Milo che ha affrontato ad Ásgarðr. Il cavaliere con cui ha
combattuto, con il cosmo che saliva alle stelle e il clangore dell’oro a
fagocitare il silenzio della neve, non era lo stesso cavaliere che ha
sottoposto Kanon di Gemini a un’ordalia di sangue, prima di riconoscerlo.
Il Milo che ha affrontato ad Ásgarðr era il Milo dei quindici anni, un
ragazzo sottile, risoluto, ma che cedeva ancora alla passione, all’intemperanza
di un sangue giovane e forse, a tratti, troppo focoso.
Il Milo di Ásgarðr era il Milo che si intestardiva a provocare e non
voleva ascoltare verità troppo scomode o ingombranti, quando non era pronto ad
affrontarle. Era il ragazzino che gli ha messo il broncio quando si è accorto
dell’affetto forte, profondo, che aveva iniziato a provare per Isaak e per
Hyoga. Era il ragazzino insofferente, quasi geloso, del legame che
l’addestramento prima e la vita poi aveva creato fra lui e Oskars.
Ma era anche lo stesso cavaliere che aveva donato il proprio sangue per
Hyoga e la sua armatura. Lo stesso uomo che, a pezzi, si era assunto il compito
di rimettere in sesto un ragazzino in frantumi quanto lui. Accogliendolo sotto
la propria protezione, facendone quel pupillo che lui, da maestro, non era mai
riuscito a riconoscere.
Perché non hai provato a capire?
Perché non hai avuto nemmeno un dubbio? si chiede ancora
Camus, un ciocco a ravvivare il fuoco e una sigaretta recuperata per
distrazione a consumarsi pigra fra le dita.
“Senti” lo richiama Milo, un fagotto sulla sdraio, le fiamme vive negli
occhi e un discorso a mezza bocca che racconta la voglia di andare avanti. “Mi
conosci. Lo sai che sono testardo.”
“Un vero mulo. Sì” gli riconosce Camus, strappando a se stesso e a Milo
un mezzo sorriso. “Ma sei anche razionale.”
“Già” sorride appena. “Ma sai anche come reagisco, quando sono preso in
contropiede. Quando vado a sbattere contro qualcosa che non mi piace.”
“Mmh.” Camus annuisce appena, la sigaretta un lungo tiro trattenuto per
non rompere l’equilibrio del momento.
“Tu mi hai preso in contropiede” confessa alla fine Milo, stringendo le
spalle. “Perché non me l’aspettavo. Cazzo. Non me l’aspettato proprio. E mi ha
fatto male. Davvero.”
“Non era nei piani. Je le jure”
mormora Camus, spegnendo il mozzicone sul bordo del braciere. “Solo. C’eri tu.
E non avevo scelta.”
“Dio. Sei stato un attore perfetto. Ci ho creduto davvero. A tutto”
bofonchia Milo, soffiando sulle mani chiusa a coppa. “Potevi provare a
spiegarmi.”
“No, che non potevo” ribatte Camus, e muove la mano, con forza. “Era un
rischio troppo grande.”
“Per quello che ti aveva detto Aioros? Per quello che vi siete
raccontati?”
“Sì. Anche per quello. Sì” e gli lancia un’occhiata che vale più di mille
parole, mentre riprende a raccontare.
Di Aioros. Della sua voce stanca, un rantolo strappato al soffio violento
del vento. Dell’idea che gli si era formata nella testa, in quei giorni sospesi
nel delirio. Di come ancora avesse gli occhi lucidi e il viso arrossato e un
tremito per tutto il corpo, per la febbre che le ferite e la debolezza gli
procuravano. E di come fosse convincente. Dannatamente convincente nel far
tornare ogni cosa. O forse. Forse era solo lui che aveva bisogno di trovare una
spiegazione valida a quello che stava accadendo, e Aioros era il primo che
gliela avesse offerta. Corredata di prove, tra l’altro. Delle ferite e dei
marchi che gli segnavano la carne. E di come avesse avuto a disposizione tempo,
per ragionarci; da solo o con Hilda, le rare volte che la Sacerdotessa riusciva
a intrattenersi con lui.
“Io in quel letto ci sono stato tre giorni” precisa Camus. “Aioros quasi
una settimana.”
“Una settimana?” ripete Milo.
“Una settimana. Già.”
“Ma non ha senso! Io, Mur e Aioria siano scesi negli Inferi subito dopo
che. Che tu. Che voi.”
“Che io, Saga e Diego abbiamo ucciso Anissa” completa Camus con una
naturalezza che fa accapponare la pelle. “Puoi dirlo. È quello che abbiamo
fatto. Non intendo negarlo.”
Milo stringe aria fra i denti, scoprendo appena le labbra che si tirano
di riflesso in un digrignare che sa ancora di rabbia. Ma non è più il momento
per recriminare o addossare colpe, si dice anche. Camus le sue ha scelto di
portarle; e lo fa a testa alta. Senza chiedere pietà o aspettarsi perdono. Lo
fa nella consapevolezza di aver agito percorrendo l’unica strada che gli si era
offerta.
Quindi, decide, non sarà lui a scagliare una pietra per nascondere la
mano subito dopo. Visto che ha anche lui azioni e scelte che gli pesano sulla
coscienza e che non ha intenzione di ricusare nascondendosi dietro raggiri o
false certezze. Peggio che farlo con un dito.
“Sì. L’avevo capito” soffia piano, lasciando a quelle parole il senso di
una decisione che è un passo in avanti. “Ma una settimana comunque è troppo
tempo! Non siamo rimasti tanto, laggiù.”
“Ha perfettamente senso invece.”
“E come?”
“Rifletti” lo invita Camus, le mani strette fra le ginocchia e il corpo
che si inclina verso Milo, in una ricerca di complicità e confidenza che li ha
sempre accomunati. “Per te erano passate poche ore. Ma ad Atene, ad Ásgarðr era
trascorsa quasi una settimana. E questo può succedere solo”
“Solo se il tempo scorre diversamente” conclude per lui Milo, avvicinandosi
di riflesso. “Sì. Così ha un senso. Negli Inferi è una notte eterna. Ed eterno
significa in definitiva senza tempo.”
“Mmh” annuisce Camus. “Dopo. Lo sai. Dopo il Muro del Pianto, Odino ci ha
riportati in vita. Ma deve essere stato possibile con tempi diversi.”
“Ecco spiegato quell’orribile pizzetto di Death” sogghigna Milo.
“Ouis” sorride di riflesso
Camus. “E il perché Aioros abbia avuto il tempo di farsi un’idea, di quello che
stava accadendo.”
“E di parlarne con te, anche.”
“Abbiamo parlato, certo” conferma Camus. “E abbiamo anche deciso come
muoverci.”
“Fregandoci tutti.”
“Te l’ho detto: non c’erano alternative” ribatte Camus, uno sbuffo di
stanchezza. “Aioros era ancora ferito; e debole. Non potevamo affrontare
Andreas in quel modo. E non sapevamo dove foste voi altri. O se ci foste. Se te
lo sei dimenticato, non riuscivamo quasi a usare il nostro cosmo.”
“No. Non l’ho dimenticato.”
Perché sarebbe stato difficile cancellare la sensazione sgradevole e
opprimente di qualcosa che si era attorcigliato al suo cosmo, come un
parassita. Così diverso dall’abbraccio discreto e rassicurante di Anissa, e
altrettanto potente. In un modo e in una forma da essere inquietanti. Perché si
era sentito lacerare, ogni volta che aveva provato a utilizzare il suo cosmo.
Era stato come se delle mani invisibili lo straziassero, riducendolo a
brandelli dispersi come polvere di stelle. Era stato. Era stata una sensazione
capace di strappargli il respiro; e scendere in battaglia era bruciare ogni
ansito, ogni filo d’aria che strisciava fra i denti, il sudore a correre sul
viso gelato dal dolore e dal clima e le membra tremare di ribellione ad ogni
attacco portato, con una disperazione che bruciava il cervello e portava a un
passo dalla follia.
“Quindi?” riprende Milo, cercando di scacciare il ricordo sgradevole di
quella sensazione. “Qual era questo grande piano?”
“Di infiltrarmi nelle schiere di Ásgarðr” gli spiega con calma. “Avrei
dovuto presentarmi ad Andreas, convincerlo che preferivo tradire che morire di
nuovo e riuscire ad arrivargli tanto vicino da ucciderlo. O di fornire l’occasione
ad Aioros se fosse riuscito ad attaccarlo di nuovo. A sorpresa.”
“E se uno di noi ti si fosse parato davanti? Ti avesse sfidato?” come ho fatto io?
“Lo avrei affrontato.”
“Fino alla morte?”
“Fino alla morte” ripete Camus, una solennità nella voce e negli occhi
che non tentenna. “Anissa ha la priorità. L’ha sempre avuta. Lo sappiamo
entrambi.” Pausa. “Pregavo non succedesse” aggiunge, stringendo la gamba che ha
sollevato sulla sdraio. “Davvero. Non lo volevamo né io né Aioros.”
“Sakze” bestemmia Milo,
mangiandosi le sue stesse parole. “Un piano da bastardi. Davvero. Ma era un
buon piano. Devo riconoscerlo” mugugna, recuperando una sigaretta e
masticandone il filtro con frustrazione. “Ma era anche un piano suicida. Lo
sapevate, vero?”
Camus annuisce.
Nella mente il ricordo di una determinazione folle, quasi blasfema, che
si rifletteva sul viso di Aioros. C’era stato qualcosa, nel modo che aveva
avuto Aioros di concepire e progettare quel piano, da far tremare Camus. Un
brivido, profondo, che corre lungo tutta la colonna vertebrale e ti si
riverbera nelle vene e nei polsi; e anche quando è passato ti lascia addosso
una sensazione strana, né sgradevole né inaspettata. È come un fremito, la
consapevolezza di aver oltrepassato una linea sottile come aria, di esserti
trovato all’improvviso dall’altra parte di un muro. O forse di una barricata.
Senza sapere per dove sei passato nè con una minima idea di come fare a tornare
indietro. O se ancora tu possa, tornare indietro.
Parlare con Aioros era stata quella stessa sensazione.
La consapevolezza di rapportarsi con qualcuno che quella linea l’ha
attraversata senza davvero averne coscienza, e che si porta dietro da sempre un
miscuglio di orgoglio e di rimpianto per quel gesto giocato in una sera. Forse
solo per troppa spavalderia.
E assieme la paura di vedersi frantumare davanti l’immagine di uomo
bollato come traditore prima, e come eroe e martire dopo. E scoprire. Scoprire
che Aioros era prima di tutto un uomo, un ragazzo come lui. Con gli stessi
dubbi che aveva lui, e una decisione, un’abitudine innata alla pianificazione
che lo aveva portato a rivaleggiare con Saga.
E si era chiesto cosa esattamente conoscesse, di Aioros. Cosa ricordasse,
di un ragazzo visto di sfuggita, le grandi ali d’oro a rifulgere di cosmo, un
mezzo sorriso di timidezza e orgoglio che sfumava nella piega spietata del
soldato quando scendeva nell’arena. Si era chiesto chi fosse Aioros, e aveva
avuto paura di scoprirlo.
Perché dietro al dolore delle ferite, dietro allo strazio che i marchi
gli imponevano, anche nel delirio della febbre, Aioros aveva conservato una
lucidità malata, quasi insana, che gli aveva concesso di analizzare,
pianificare e aspettare l’occasione giusta, la persona giusta, da mettere in
campo.
E quella volta il pedone ero
io.
“Cos’è andato storto?”
Perchè qualcosa deve essere
andato storto, pensa Milo, mentre intuisce nell’espressione di
Camus una riflessione che ancora non è pronto a condividere. Perché fa paura
prenderne coscienza, darle corpo. Perchè significa restituire a un eroe la
statura di uomo, e accettarne le ombre e le luci di una gloria non cercata.
Perché significa realizzare Aioros. E quello che era.
E Aioros non era uno sciocco, né un ingenuo. E se c’è una cosa che Milo
ricorda, di quando era piccolo, di Aioros, era la capacità che aveva di
pianificare le azioni, alla pari di Saga. Aioros era uno stratega nato, era
quel tipo di persona che sapeva valutare la situazione più per istinto che per
esperienza. E se Aioros aveva deciso che l’unica mossa da fare era quella di
tentare la carta del tradimento e dell’inganno, significava che davvero era
l’unica scelta possibile.
“Svartr” soffia Camus.
Perché Svartr era stato l’inaspettato. Era stato il granello di sabbia
nell’ingranaggio di Aioros. Svartr era stato un passato che si era ripresentato
all’improvviso, rivestito di una corazza che raccontava una storia diversa, una
vita diversa rispetto ai sogni di un bambino.
Svartr era stato. Per Camus era stata la consapevolezza che, da quel
momento, il ginocchio a terra e il cuore che imponeva di fingere devozione, il
suo ruolo si sarebbe giocato sul filo di un rasoio. E che la vittoria o la
sconfitta del piano di Aioros sarebbe dipesa da lui. Soltanto da lui.
“Avevo poche possibilità. E dovevo giocarmele bene” prosegue, alzandosi
per stirare la schiena. “Capisci? Dovevo convincerlo. Dovevo riuscire a
convincerlo che ero dalla sua parte.”
“E ti sei giocato la carta del rimorso.”
“Ya, dres. Lo sai anche tu: una
bugia è migliore se ha un fondo di verità.”
“Quindi è vera?” chiede Milo, una smorfia per l’ultimo sorso freddo di
caffè. “La storia che sua sorella è morta, intendo. Per causa tua.”
“In un certo senso. Sì” riconosce Camus, nella mente il ricordo di un
uomo che, bambini, chiamava amico. E che aveva visto andare in pezzi sotto i
suoi occhi, il corpo della sorella fra le braccia e il livore e la rabbia a
deformare le certezze. “Non l’ho uccisa io. Non materialmente, almeno. Ma è un
po’ come se lo avessi fatto.”
“Ti odio quando parli così” arriccia il naso Milo. “Lo sai. Mi piace la
logica, non l’enigmistica.”
“E dove starebbe il mio divertimento, altrimenti?” sorride Camus, le mani
affondate nelle tasche e l’aria di chi si sta divertendo un mondo.
“Ah. E ti stai divertendo?”
E Milo si chiede se riuscirà più a riaverla anche lui, quella leggerezza
che Camus sembra esser riuscito a ricostruirsi in quei mesi. Come se gli fosse
stato tolto un peso dalla schiena e potesse di nuovo respirare, profondamente,
completamente. Peccato che quel carico da novanta Milo se lo senta tutto sul
groppone, e lo stia schiacciando come una pressa idraulica.
“Sì. Ovvio.”
No. Ma o mi lasci fare così,
o non ce la faccio, a raccontarti tutto pensa invece,
spezzando un mazzetto di sterpaglie e ravvivando il fuoco. È difficile anche per me, Milo. È molto difficile.
“Lieto di saperlo” mormora Milo, tirando il cappuccio fin quasi sopra
agli occhi e allungando le gambe. “Ti va di spiegarmi?”
“Non c’è molto da spiegare” tergiversa Camus, mentre sul palmo danzano
cristalli di ghiaccio iridescenti. “Eravamo io e lui, a. In un posto. In
Russia.”
“Non a Kobotec?”
“No” mormora Camus, masticandosi di riflesso un labbro. Perché non
dovrebbe parlare, di Yamal. Perchè Yamal è qualcosa che solo chi padroneggia le
energie fredde, i sovrani di Siniy gorod e Anissa conoscono. E lui. Lui aveva
giurato di non tradire quel segreto.
“Guarda che lo so” lo distrae Milo, uno sbuffo di indifferenza. “So di Yamal,
e di quello che significa” gli spiega e aggiunge Hyoga con un tono che sembra voler contenere in quel nome ogni
altra spiegazione. E Camus accetta. Accetta con la stessa semplicità con cui ha
accettato che Milo lo abbia trascinato di peso nella sua vita.
“Ah. Va bene” commenta solo, spostando il peso da un piede all’altro.
“Anatolij e re Pijotr volevano capire chi di noi fosse destinato a Lei” riprende, una nota di dolcezza e
malinconia nella voce.
“Oskars no?”
“Oskars non c’era ancora” spiega con semplicità. “E. Ci stavamo
allenando. Nella tundra alberata. A sud. Chi fosse stato degno sarebbe poi
partito verso nord. Verso un luogo che Anatolij non mi voleva dire.”
“Saresti andato da Lei. Vero?”
“Ya” conferma Camus. E di riflesso
sul suo palmo i cristalli di neve si raggruppano a definire una figura femminile
sfumata di ghiacci dai riflessi iridescenti. “O io o Svartr. Uno dei due le era
destinato” conclude, e chiude il pungo, facendo dissipare in uno scintillio
ghiaccio e cosmo.
“Cos’è successo?”
“È successo che non ci siamo accorti di Sunniva” espira.
Sunniva. Cinque anni appena e due guance del colore delle mele mature.
Cinque anni e l’indipendenza dei bambini che caracollano per il mondo. Sunniva
era l’altra parte di Svartr; dove c’era lui, c’era anche lei. Sunniva amava
quel fratello tanto dolce con lei quanto risoluto negli allenamenti. Amava come
il cosmo danzasse nelle sue mani, a creare forme dai riflessi dell’aurora
boreale. Era ingenua, Sunniva, e del cosmo di Svartr percepiva solo la bellezza
dell’incanto, la malia di uno sciamano del ghiaccio. Quando il cosmo era ancora
un universo da dischiudere fra i palmi socchiusi; quando il cosmo portava con
sé il sentore gelido e pungente delle nevi perenni, e non evocava ancora il
ricordo del sangue dei nemici uccisi in battaglia.
“Nella foga dell’allenamento, non ci siamo resi conto che lei era lì. Lei
era sempre lì. Ci seguiva ovunque” prosegue Camus, schiacciando le palpebre
sotto le dita, ricacciando nella gola quella malinconia e quel rimorso che
gliela hanno artigliata. “Non lo so esattamente cos’è successo. Non lo ricordo.
Ricordo solo che prima eravamo lì, a combattere; e un attimo dopo stavamo
cercando di sfuggire alla neve.”
“Voi ce l’avete fatta. Lei no. Giusto?”
Camus annuisce, abbassandosi vicino al braciere e rimestando le braci nel
fuoco vivo.
“Ci abbiamo messo ore a ritrovarla” riprende dopo qualche minuto, il
ricordo delle mani che bruciano affondando nella neve pesante e compatta; nella
gola lo stesso nodo di allora, quella sensazione di dolore che graffia ogni
respiro. La sensazione di gelo che stringe la carne; così diversa dal sudore
che ghiaccia sulla pelle alla fine dell’allenamento o dal pungere spietato del
vento di Siberia. Era un gelo che proveniva dallo stomaco e risaliva con
artigliate che stringevamo sempre di più. “Non c’era più nulla da fare.”
E in quelle parole c’è ancora il rimorso e il rimpianto per una bambina
che gli aveva sorriso, per una bambina che avrebbe potuto essere sua sorella.
“Forse non ho ucciso Sunniva” mormora appena, mentre torna a sedersi, le
mani strette fra le ginocchia. “Ma l’ho usata. Ho usato il suo ricordo per
convincere Svartr: era la sola possibilità che avevo. Che mi è venuta in mente”
continua, le mani a nascondere il viso. “Mon
Dieu. L’ho fatto. E. Lo vuoi sapere? Non me ne pento.”
“Tutti noi abbiamo fatto qualcosa di simile” ragiona Milo, gli occhi al
fuoco che scoppietta e la memoria a rincorrere missioni e scelte fatta da
ragazzini, con l’arroganza e la fiducia che il mondo sia solo bianco o nero,
giusto o sbagliato. E che loro fossero nel giusto; sempre e comunque. “Siamo
soldati. Non serve a nulla pentirsi. Dobbiamo solo conviverci” chiosa,
stringendosi nelle spalle e cercando di ignorare il respiro pesante di Camus.
Quel respiro che racconta più il peso della consapevolezza, di quanto l’essere
un cavaliere, un soldato, gli sia costato.
Perché Louan non era così; perché Louan Le Blais avrebbe cercato un’altra
soluzione, un qualcosa che non significasse spergiurare sul nome di una bambina
morta a cinque anni, la pelle traslucida imperlata di brina e il terrore della
sorpresa negli occhi vitrei.
Ma Camus di Aquarius invece. Camus di Aquarius è il cavaliere che i
ghiacci della Siberia hanno plasmato; è la forza magnifica e spietata di una
terra avida di concessioni che incide i propri insegnamenti nella carne con gli
artigli dell’orso e i denti del lupo. Camus di Aquarius è la corazza che
protegge il ricordo di un bambino nato in Bretagna e sacrificato alla gloria di
Anissa.
“Ha funzionato” riprende alla fine Camus, inspirando forte dal naso.
“All’inizio almeno. Svartr ha garantito per me; e Andreas ha approvato”
continua, il ricordo del peso di una mano sulla spalla e il taglio spietato di
un sorriso che voleva essere di cordialità. Svartr aveva un modo di sorridere
strano, a tratti inquietante. Sorrideva sempre. Di ogni cosa. Sorrideva anche
mentre gli aveva raccontato la sua versione del tradimento, mentre cercava di
persuaderlo che preferiva rinnegare Anissa e tutto quello per cui aveva
combattuto in passato, piuttosto che ritornare nelle grigie lande dell’Ade.
Sorrideva anche mentre lui giurava, la corazza che cadeva a terra con un
clangore, che era disposto a tutto, pur di riparare all’antico errore, a
espiare la colpa della morte di Sunniva.
Camus si è chiesto se Svartr gli abbia davvero creduto; o se
semplicemente avesse l’intenzione di giocare con lui, di divertirsi rigirando
il coltello della memoria e del rimorso prima di consegnarlo alle spire di Yggdrasill.
Si è sempre chiesto quanto di vero ci fosse, nelle parole di amicizia e perdono
che Svartr concedeva con la stessa leggera solennità con cui gli riempiva il
bicchiere di dolce idromele.
Perché Svartr aveva quel modo di sorridere di chi si prende gioco delle persone,
anche quando era un ragazzino. Era ambizioso Svartr; di quella sana e profonda
ambizione che ha il sapore del riscatto e il baluginio del successo conquistato
con le proprie forze. Aveva quello che Camus, a quel tempo, non aveva: la
determinazione. Una determinazione profonda, viscerale, una volontà di riuscire
cui era disposto a sacrificare tutto. O quasi.
Quella volontà che Anatolij gli aveva insegnato negli anni
dell’addestramento, e che il gelo della Siberia gli aveva inciso nella pelle
obbligandolo ogni giorno, ogni istante, a scegliere la vita per non arrendersi
alla morte nelle sue distese innevate.
“Ero comunque sotto stretto controllo. Sempre. La diffidenza è difficile
da scalfire” racconta ancora, nella voce una nota di frustrazione al ricordo
dell’impegno e della delusione nel vedersi sfuggire ogni giorno di più un
obiettivo che si aveva davanti agli occhi, con nello stomaco la sensazione che
il tempo si stesse consumando e che ogni opportunità stesse svanendo. “Non
facevo progressi. Finchè.”
“Finchè sono arrivato io.”
“Già” risponde Camus, recuperando la tazza vuota per impegnare le mani.
“In verità, ho scoperto che eri tu solo quando ti ho avuto davanti.”
“Svartr non ti aveva avvertito? Di chi fosse il bersaglio, intendo.”
“No” sospira. “Poteva essere chiunque. Ma immaginavo che sarebbe stato
uno di noi. Sarebbe stato da stupidi non pensarlo.”
E tu non sei di certo uno
stupido sorride di riflesso Milo, Skaze. Per cacciarsi in una situazione del genere stupido non lo puoi
essere di sicuro.
“Avevo pensato fosse Aioria. O Death, dopo quello che era successo a Kelavi.”
“E invece ero io.”
“Ya. Eri tu.”
Camus se lo rivede davanti: il vento a frustare i capelli e i vestiti e
gli occhi smarginati di chi non si rassegna davanti a un’evidenza che non ha
mai contemplato. C’erano state domande e c’erano state accuse, nel turbinare
violento della neve, mentre Camus concentrava nelle mani il cosmo e racimolava
in fondo allo stomaco l’energia per attaccare Milo. Di nuovo. Con la stessa
determinazione e la medesima risolutezza di quella notte maledetta ad Atene.
“Ci sei andato pesante. Ammettilo.”
Milo si massaggia di riflesso la guancia; senta ancora il bruciore
intenso del gelo di Aquarius che lo sfiora, affilato come un coltello. Di
quelli che Kostas usa a Pasqua per affettare per bene l’ovelias. Gli era venuta una mezza paresi, dopo quel colpo. Che, per
inciso, aveva evitato all’ultimo più per istinto che per altro.
“Che dovevo fare?” allarga le braccia Camus, sentendosi come allora con
le spalle al muro. “Le fiamme di Svartr ti avrebbero incenerito. E non sto
esagerando. Usare la polvere di diamanti è l’unica cosa che mi sia venuta in
mente. Credimi.”
“Mi hai quasi congelato” mugugna ancora Milo. “Alla ridotta, dico. Non
hai nemmeno esitato.”
“Credi che sia stato facile?” gli chiede Camus di rimando, alzandosi di
nuovo in piedi. “Merde, Milo. Stavi
in piedi a stento, e non ne volevi sapere di ritirarti. E Svartr mi osservava;
mi osservavano tutti. Non potevo esitare. Lo capisci? Non potevo.”
“Sì; sì che lo capisco” gli fa eco Milo, una scintilla di ammirazione
nella voce. Perché lui forse non ce l’avrebbe fatta, a mantenere così a lungo
quella recita. Lui forse non ci sarebbe riuscito, ad attaccarlo sapendo che lo
stava ingannando. O forse solo perché conosce Camus, e sa quanto odi dover
mentire, sa quanta fatica e volontà gli siano servite per far violenza a se
stesso e inscenare quella pantomima al limite della propria dedizione.
“Solo. Non lo so. In quel momento, c’eravamo solo noi. E tu stavi per
ridurmi a un surgelato” tenta di scherzare, per alleggerire quel grumo di
emozioni che si è ritrovato in gola, tanto pesante da non riuscire più a
inghiottire.
“A me non stava andando meglio, se ben ricordo” gli risponde con un mezzo
sorriso, una piega amara che ringrazia di quel tentativo di sdrammatizzare. “Credo
di non averti mai visto così incazzato. Neanche quando ho indossato la
surplice.”
“Era diverso” nicchia Milo.
“Diverso?”
“Diverso, certo” riprende. “Quella volta, all’inizio, credevo che ti
avessero fatto il lavaggio del cervello. Questa volta. Come dire. Eri tu. Cioè.
Non avevo dubbi che fossi tu. E.”
“E non volevi accettare che avessi fatto una scelta diversa dalla tua.”
“No, infatti” inspira forte Milo con il naso. “Non volevo combatterti.”
“Ma lo hai fatto.”
“Skaze, Camus” ride Milo senza
allegria. “Siamo soldati. Combattiamo da una vita. Non c’entra quello che
vogliamo, ma quello che dobbiamo.”
E in quelle parole c’è la verità di una vita: c’è il giuramento prestato
ancora bambini, quando la guerra era l’oro scintillante delle armature promesse
e la forza del cosmo che corre prepotente nelle vene. Quando Anissa era il
miraggio di una vita bruciata nell’ardore di un istante per il suo sorriso di
luce e i suoi occhi di cielo.
“Stavi per farti ammazzare” gli ricorda Camus, una note greve nella voce.
“Eri talmente ostinato, che ho davvero pensato di dover ricorrere allo zero
assoluto, per evitare che le cose degenerassero troppo.”
“Ah. Perché? Non eravamo già andati oltre?”
“Milo” sospira Camus. “Yggdrasill ti stava risucchiando ogni forza, e tu
non volevi sentire ragioni. Eri talmente arrabbiato che non mi ascoltavi.”
“Scusa tanto, eh” mugugna Milo, gonfiando le guance in uno sbuffo. “Mi
sembrava che stessi solo sparando cazzate. Pensaci: ci stavi dando degli
smidollati! Stavi dando dello smidollato a me!”
“E tu non hai pensato che potesse essere una specie di messaggio? Che
stessi provando a farti capire qualcosa?”
“Pensavo che il manipolatore fosse Saga. O Kanon. Non tu” mugugna Milo.
“Senti Camus: non sei mai stato facile da capire” aggiunge, e continua veloce,
per non dargli il tempo di ribattere. “Cioè: a volte lo sei fin troppo. Ma lo
sei con i gesti, non con le parole. Non ne hai mai sprecate, di parole. E
soprattutto non hai mai usato i doppi sensi.”
“Non avevo altro” cerca di giustificarsi Camus. “Non ti potevo spiegare
niente apertamente: o ti ammazzavo o mi facevo ammazzare. Così ho provato con
le minacce: speravo che riuscissi a capire quello che ti volevo dire. Speravo
di farti desistere dallo scontro. Ci stavo andando piano, e il rischio di
insospettire Svartr era alto.”
“Ah” ride Milo, di un riso sarcastico. “Meno male che ci stavi andando
piano. Mi hai congelato mezzo braccio. Non te ne eri accorto, per caso?”
“Mica poteva mancarti di continuo!” replica, e si chiede se Milo, per
caso, non si stia divertendo nel rigirare in quel modo il discorso. Se Milo non
stia provando un perverso piacere nel metterlo davanti al modo in cui ha
condotto quel duello e di come la sua strategia si sia rivelata inefficacie.
“E poi ti ricordo che è stata quella patina di ghiaccio a darti una
chance.”
“Di’ pure che mi ha salvato il culo” sorride Milo, di un sorriso sottile
che sa ancora del sollievo provato. Perché era stato come sentirsi esplodere.
Quando le fiamme di Svartr lo avevano avvolto, Milo aveva sentito i polmoni
liquefarsi per l’aria rovente e ogni ganglo del suo corpo ribellarsi in modo
istintivo e disperato. E lo sfrigolio del ghiaccio eterno che lo ricopriva era
stato un suono assieme terribile e rassicurante. Perché finchè il gelo di Camus
non fosse evaporato del tutto, poteva ancora sperare. Una manciata di secondi,
ma erano pur sempre una manciata di secondi. Per trovare una soluzione; per
cercare una via d’uscita. Per.
Camus ci aveva sperato fin nelle viscere, in quel per.
In qualcosa che arrivasse e permettesse a Milo di salvarsi. Perché era
stato terribile sentirne i mugugni e i lamenti, immaginare il dolore delle
fiamme che divorano la carne e dover affettare indifferenza. Doversi
costringere a guardare il proprio miglior amico avviluppato nel fuoco e non
poter far nulla. Non osare far nulla per salvarlo, pur sapendo che gli sarebbe
bastato solo un semplice cenno delle dita perché il ghiaccio assoluto
cristallizzasse le fiamme in una grottesca scultura.
Sarebbe bastato così poco, per salvare Milo, per toglierlo da quella
trappola che non aveva previsto. E sarebbe stato altrettanto rapido morire poi,
tradendo la fiducia che Aioros aveva riposto in lui e nella sua capacità di
mascherare le sue intenzioni.
“Almeno fino a quando non è arrivato Saga” riprende Milo. “Lo avevi
previsto?”
“No” ammette Camus, gli occhi socchiusi e il respiro che esce lento, con
lo stesso gusto di sollievo che aveva avuto quel giorno nelle piane di Ásgarðr.
“No. Non lo avevo previsto. Non sapevo nemmeno dove fosse. Ma non lo
ringrazierò mai abbastanza.”
“Già. Nemmeno io” mormora Milo, mentre dondola sulla seduta, le mani in
tasca e le gambe intrecciate come un ragazzino. “Capiamoci: in quel momento
l’ho odiato. Davvero.”
“Perché?”
“Primo, perché voleva ucciderti al posto mio” e nell’occhiata che gli
rivolge, Camus legge tutto lo strazio della volontà che Milo si era imposto.
Tutto il peso di una decisione assunta nella consapevolezza di un dovere che
strazia il cuore prima ancora delle carni. “E secondo. Secondo perché mi ha
portato via. Da te. Dalla battaglia.”
“L’avresti fatto di tua volontà?” gli chiede allora Camus. “Voglio dire.
Se avessi potuto, avresti abbandonato il campo?”
“Mi conosci” scrolla le spalle Milo. “Penso che tu sappia già la
risposta.”
“Allora Saga ha fatto bene” chiosa Camus. “Davvero: non avevamo bisogno
di martiri. Avevamo bisogno di uomini.”
“Per distruggere Yggdrasill.”
“Sì. Per Yggdrasill” annuisce Camus, ravvivando le braci in uno sfavillio
di scintille. “E anche per distrarre i cavalieri del Nord. Te l’ho detto:
l’obiettivo mio e di Aioros era Andreas.”
“Quindi noi eravamo i diversivi” realizza Milo, un brivido di eccitazione
e terrore. “Carne da macello, in sostanza.”
“Se la vuoi mettere così” nicchia Camus. “Ma sì. Era quello che Aioros
voleva. Quello che sperava” prosegue, un rimescolio di disgusto nello stomaco.
A ripensare fin dove era disposto a spingersi, perché il piano di Aioros
funzionasse. A ripensare a come Aioros fosse stato capace di prevedere la
posizione di ogni pezzo su quella scacchiera di battaglia. Accettando di
sacrificare i propri compagni come un sacchetto di frattaglie in pasto ai
corvi.
E nel silenzio che segue c’è il peso di una verità tanto semplice quanto
spietata. Nella consapevolezza di cosa sarebbe potuto essere il Temenos, se
Aioros e Saga ne avessero preso le redini dopo Shion. E l’immagine di Saga con
i paramenti sacerdotali e di Aioros fulgido di Sagitter al suo fianco,
schierati a difesa di Anissa, è qualcosa che fa tremare dentro, nel profondo,
fin nelle viscere. Un’alchimia di diplomazia, astuzia, sagacia militare e
feroce determinazione che avrebbe fatto sorridere di orgoglio Anissa, di
quell’orgoglio che la rende dolcissima e spietata assieme, il bel chitone
rabboccato a scoprire i cadaveri ai suoi piedi, i sacrifici che anche la sua
pace chiedono.
“Saga lo sapeva?” riprende dopo un po’ Milo, aspirando piano l’aria
pungente della notte, quel misto di iodio e cenere e resina bruciata. “Del
piano di Aioros, intendo.”
“No” lo smentisce Camus, sulla lingua e nel naso lo stesso odore, quel
misto di quotidianità che lo tiene ancorato al presente. “Non ne sapeva nulla.”
“E allora come?”
“Sapeva che io stavo fingendo.
Lo aveva capito” gli spiega Camus, ricordando la piega accennata sul viso di
Saga, quel gesto che gli aveva imparato, il modo che aveva di socchiudere gli
occhi quando aveva colto qualcosa: un’espressione, un’esitazione, una parola
che cozzava con i fatti, con la realtà. Quando Saga era accorso, splendido nel
potere devastante di Gemini, Camus aveva ripreso a respirare.
“E, di grazia, come avrebbe fatto, a capirlo?” lo provoca Milo, irritato.
“Da quando siete entrati tanto in confidenza ?”
Perché io, che ti sono
cresciuto accanto, no che non lo avevo capito.
E gli brucia. Gli brucia non esserci stato, per sostenere Camus nel
momento in cui più di ogni altro avrebbe avuto bisogno del suo appoggio. Gli
brucia non esser riuscito a dominare la rabbia e la frustrazione, ed essere
saltato subito alle conclusioni, lui che si è sempre vantato di riuscire a
sviscerare anche la più intricata delle situazioni. E soprattutto gli brucia
non aver colto quello che Camus gli cercava di far capire, con quelle mezze
parole e quei gesti che sembravano raccontare un’altra storia, un altro
tradimento.
“Non raggiri un dio e non arrivi a inscenare la morte della tua dea se
non impari le regole e i trucchi dell’inganno” scrolla le spalle Camus,
l’ovvietà di quelle parole buttata in faccia con la semplicità bruciante di una
affinità costruita nella necessità dell’inganno e del tradimento. “Saga non
sapeva cosa avessi in mente. Ma sapeva che c’era qualcosa. Aveva capito che
stavo fingendo. Come al Temenos. Come quando dovevamo uccidere Anissa.”
“Come?” lo incalza ancora Milo. “Come, Camus? Non vi siete scambiati
nemmeno mezza parola.”
“Deve aver sentito quello che ti dicevo” ipotizza Camsu, per poi
stringersi nelle spalle. “Non lo so. Non gli ho mai chiesto come abbia fatto,
esattamente. Ma mi ha fatto intendere che sapeva. E quando ti ha portato via,
ho pensato che ti avrebbe spiegato. Che avrebbe spiegato ogni cosa. A tutti voi”
finisce in un fiato, una mano a stropicciarsi il viso.
Perché raccontarlo. Dio. Raccontarlo lo rende così. Così vivido. Gli fa
riprovare ogni emozione, ogni decisione presa per istinto e soppesata poi con
razionalità. Gli fa comprendere quanto davvero di quel piano fosse al limite
del tentativo estremo, fosse giocato completamente sulla capacità di pochi di
recitare fino in fondo la propria parte. Su
come io dovessi recitare la mia parte.
“Ma tu non ci hai parlato. Vero?” chiede alla fine, rilassandosi stanco
contro lo schienale della sdraio.
“No” mugugna Milo, soffiando piano sulle nocche. “Credimi. Ci ha provato.
A spiegarmi qualcosa, intendo. Ma io ero troppo arrabbiato. Non avevo voglia di
starlo a sentire, e avevo fretta di trovarmi le mie risposte” ricorda,
chiedendosi ancora perché quel suo istinto che gli aveva fatto riporre fiducia
in Hyoga e nella sua folle, insana, dedizione, non gli abbia permesso di fermarsi
ad ascoltare Saga, non gli abbia instillato il germe del sospetto. Anche solo
un accenno.
La rabbia si risponde, sorridendo contro il pungo. Quando si tratta di te, Camus, la rabbia mi fa davvero dimenticare la
ragione. È sempre stato così.
“Che idiota, sono stato” ride ancora, senza allegria, la mano affondata
nella fronte e quel modo che ha gettare indietro la testa. “Sarebbero bastati
cinque minuti, e avrei potuto combattere. Avrei potuto dare una mano. E invece
mi sono fatto fregare da quella maledetta pianta come un coglione.”
“Un vero coglione, sì” conferma Camus, un ammiccamento di complicità
verso la smorfia di Milo, con la testa appena inclinata sopra la spalla. “Però
mi risulta che sei stato tu a fregarlo, Yggdrasill. Non il contrario.”
“Ah. Davvero?” chiede ironico. “E questa chi te l’avrebbe raccontata?”
“Al Temenos lo sanno tutti: se Milo di Scorpio non avesse avuto spregio
del pericolo di scendere in campo anche senza la protezione di Anissa, la
barriera di Yggdrasill non avrebbe ceduto” gli risponde con semplicità.
“Comunque, a me l’ha raccontato Diego.”
“Bell’amico” ride Milo, sfregando fra loro le mani. “Non credevo fosse
tipo da raccontare in giro le cazzate altrui”, ma c’è serenità nella sua voce.
Camus lo sente. C’è quel modo leggero che Milo ha di guardare alla vita, di
ironizzare sul mondo, per gustarsene ogni aspetto, ogni particolare. Da quelli
più scabrosi e insipidi a quelli più profondi e intimi.
“Non lo è. Te lo posso assicurare”o
tu avresti già saputo tutto.
E quell’anno consumato fra occhiate di sbieco e mugugni a mezza bocca non
ci sarebbe mai stato. Quell’anno in cui entrambi si sono chiesti cosa fosse
andato infranto, se la complicità e la fiducia o il fatto di scoprire che le
azioni hanno un peso diverso per ciascuno di loro. Milo ha odiato Camus, in
quell’anno. Ha odiato il modo in cui era stato disposto ad attaccarlo, la
volontà di ucciderlo che gli aveva visto ardere abbracciata al gelo di
Acquarius. E aveva odiato la semplicità con cui gli si era messo al fianco,
negli ultimi istanti della battaglia. Il modo che aveva di cercare in lui
quella complicità cresciuta negli anni, il fidarsi a portare un attacco sapendo
che lui ci sarebbe stato, a coprirgli le spalle. Aveva odiato Camus, e aveva
odiato se stesso, per essersi sorpreso a sorridere nello scorgere con la coda
dell’occhio Camus accanto a sè, nel sentire la sua schiena contro la propria
prima di gettarsi nella mischia. Per continuare, nonostante tutto, a essergli
così affezionato da essere disposto a essere pugnato alle spalle da lui.
“Dimmi una cosa” chiede all’improvviso Milo, quando ormai le braci sono
un baluginio rossastro che sfrigola alle prima gocce di pioggia, grandi e
fredde. “Dimmi solo una cosa. Anche con Diego era tutta una recita?”
“Milo” si ferma Camus, le tazze e le bottiglie di una notte passata a
raccontarsi fra le mani. “Sta per piovere. Continuiamo dentro. Vuoi?”
“Voglio vedere l’alba” scrolla le spalle Milo, cocciuto come solo lui sa
essere. Perché si è promesso che non si sarebbe mosso da lì fin quando Camus
non avesse raccontato tutto. Ma proprio
tutto tutto.
“Milo. C’è un cielo orribile. E sono le sei e mezza” sbuffa Camus. “E
siamo quasi a ottobre.”
“E allora?”
“Allora vuol dire che mancano ancora quasi due ore all’alba. Posto che il
sole si faccia vedere, con queste nuvole.”
“Abbiamo fatto trenta. Facciamo trent’uno” replica Milo, soffiando sulle
mani che adesso, nella luce livida del primo crepuscolo, vede pallide e
screpolate dal freddo e dal vento della notte. “O hai paura di bagnarti?”
“Figurati” sorride Camus, mentre torna a sedersi e gli passa un paio di
guanti senza dita. Di quelli di lana buona, calda, da marinai, che tiene sempre
nella tasca della field quando è in Bretagna. “Vedi solo di non buscarti un
malanno.”
“Se non l’ho preso fin’ora” brontola Milo, infilandosi con gratitudine i
guanti e rannicchiandosi meglio sulla sdraio. “E tu? Niente guanti?” chiede
ancora, occhieggiando alle mani di Camus tranquillamente abbandonate sui
braccioli.
“Sai com’è” ridacchia Camus. “Non è che ne abbia particolarmente bisogno”
aggiunge, lasciando che un sottile velo di aria si condensi sopra le proprie
mani, aggiungendosi allo strato di nebbia umida e densa, quasi filosa, che sale
dalla terra, a nascondere un po’ le cose.
“A gamisu” ride Milo. “Allora? Inizi
o devo pregarti in ginocchio?”
“Perché? Lo faresti?” replica pronto Camus, una punta di divertimento
nella voce. Perché è bello risentire quella complicità, è bello accorgersi che
nella piega che sono le labbra di Milo c’è la stessa sensazione.
“Scordatelo!” gli risponde arricciando il naso. “Sono anchilosato. Anzi:
sono mezzo assiderato. Se mi inginocchiassi, non credo che riuscirei a
rialzarmi, dopo.”
“Milo” lo chiama Camus, una mano sul braccio e la serietà di una promessa
nella voce. “Davvero. Andiamo dentro. Non. Ti racconterò tutto lo stesso.”
Non ho intenzione di
scappare. Dai, Milo. Credici.
“Oh, certo che lo farai” gli promette, ma ricambia la stretta, con quella
mano che piano piano sta riacquistando un po’ di calore e sensibilità. “Ma non
ho intenzione di muovermi. Te l’ho detto: voglio vedere l’alba”. Si ferma,
masticando il labbro spaccato dal vento che adesso sta rinforzando dal mare,
facendo galoppare le nuvole dense e nere e portandosi dietro il rumore dei
cavalloni. “Comunque. Se riaccendi quel dannato braciere, mi faresti un
favore.”
E Camus ride, mentre recupera alcune fascine e ciocchi e riattizza la
brace che stava agonizzando, le grosse gocce che si sono trasformate in una
pioggerellina sottile, quasi impalpabile.
“Vedi?” lo chiama Milo. “Sei un allarmista. C’è appena un po’ di
umidità.”
“Vedrai, vedrai” cantilena Camus. “Dagli tempo un’ora, e poi qui sarà il
finimondo.”
“Allora ti conviene iniziare” lo incalza Milo, trascinando la sdraio con
la plastica fin quasi a contatto del ferro del braciere e allungando collo e
mani. “Non ho voglia di fare una doccia fuori programma.”
E Camus inizia a raccontare.
Di come ci avesse sperato, che fosse Diego a raggiungerlo nella sala di
Juchheim. E di quel misto di sollievo e rassicurazione che gli aveva stretto lo
stomaco quando si era accorto che sarebbe stato proprio lui, il suo avversario.
“Cioè. Fammi capire” lo interrompe Milo. “Tu volevi che fosse Diego il
tuo avversario? Perché?”
“Perché era il più adatto.”
Dopo che Andreas aveva rivelato dell’esistenza delle sette sale dell’Yggdrasill,
Camus sapeva che il piano di Aioros sarebbe cambiato. Lo avevano previsto, o
meglio: Aioros aveva previsto quell’eventualità. E nel caso fosse successo
qualcosa, qualcosa di importante, prima che fossero riusciti ad attaccare ed
eliminare Andreas, Camus aveva il compito di concentrarsi suoi nuovi sviluppi,
mantenendo la sua posizione di traditore, mentre Aioros. Aioros avrebbe avuto
un solo obiettivo: trovare Andreas. Nel minor tempo possibile.
E il qualcosa di inaspettato era successo: le sette sale. Camus le
conosceva. Le conosceva tutte una ad una, e se la sala degli uomini era il
rifugio di Andreas nel cuore di Yggdrasill e la sala degli dei era la reggia
del casato di Polaris, le sette sale erano destinate ai cavalieri del nord.
Sette sale per sette cavalieri. Ma una stanza era stata affidata a lui, la sala
del ghiaccio, splendida e letale come i ghiacci che le conferivano i suoi
colori iridescenti, i riflessi di una perpetua alba boreale. E Camus sapeva bene
che quella sala non esisteva.
“Non ti seguo più” lo ferma ancora Milo. “Cosa c’entra Diego con il fatto
che una sala mancasse all’appello? Cioè: al fatto che avesse cambiato nome.”
“Ti ricordi l’armatura di Aioros?”
“Certo. Ma cosa c’entra?”
“L’abbiamo mai cercata?” gli chiede Camus. “Voglio dire. Quando è apparsa
a Tokyo, abbiamo pensato subito fosse un falso. Ricordi perché?”
“Certo. Perché. Oh. Cazzo” impreca Milo. “Non l’abbiamo mai cercata
perché l’abbiamo vista. Al Temenos. Quando Diego è tornato.”
“Esatto” conferma Camus. “La sala che presiedevo io era la stessa cosa:
un trucco. Uno specchietto per le allodole.”
“Pensi che Andreas avesse capito?”
“Chissà” scrolla le spalle Camus. “Forse era l’ultima prova. Forse non si
fidava più di me; ammesso che si fosse mai fidato. Resta il fatto che dovevo
distruggere quella sala, se volevo trovare l’ultima: Múspellsheimr. La stanza del fuoco.”
“E Svartr padroneggiava il fuoco” ragiona Milo a voce alta. “Sì: ha
senso. Ha perfettamente senso. Ma ancora non capisco perché proprio Diego.
Voglio dire:poteva andar bene chiunque di noi.”
“No. Non poteva” sospira Camus. “C’erano due motivi, per cui mi serviva
proprio Diego”.
Perché è strano ripensare a quegli istanti, la concitazione del momento e
l’adrenalina a pompare a mille, vivendoli da una prospettiva così lontana,
quasi distaccata. Ad Ásgarðr, ogni cosa era stata frenetica, giocata sul filo
dell’equilibrio, consumata in decisioni prese d’impulso, affidandosi
all’istinto più che alla ragione. Un modo di agire che non appartiene a Camus,
una velocità di esecuzione che non gli è propria se non accompagnata da una
fredda razionalità. Camus è tanto emotivo nel privato quanto impassibile in
battaglia. Anatolij gli ha insegnato bene, a scindere le due parti della sua
anima: l’uomo e il guerriero. L’uomo può concedersi il lusso del tentennamento,
la sottile fascinazione del dubbio. Ma il guerriero. Il guerriero non può
concedersi l’esitazione. Quando scende in battaglia, Camus di Acquarius lo fa
con la risolutezza nel proprio agire e la forza delle proprie convinzioni.
Giuste o sbagliate che siano, sono quelle le sicurezze cui è pronto ad
aggrapparsi fino alle stremo, cui ha scelto di piegare il capo. Non è solo la
devozione verso Anissa; è qualcosa di più profondo, di atavico, quasi ferino. È
la presa di campo del soldato che sceglie di assecondare ciò che ritiene
giusto, ciò che rispecchia il suo pensiero, prima ancora che l’obbedienza a un
signore.
Louan Le Blais ha conservato questo di sé, diventando Camus di Acquarius:
la risoluta fedeltà alle proprie convinzioni, l’onestà di sostenere il proprio
pensiero fino in fondo, solo perché assunto senza leggerezza ma in forza di
lunga e ponderata riflessione.
Una sola volta la sua determinazione gli si è frantumata fra le dita: e
gli è costata la scelta di violentare se stesso per cercare di preservare dal
dolore l’ultimo allievo che gli era rimasto. Solo per Hyoga e per il profondo
terrore di essere costretto a giustiziarlo davanti al Sacerdote o di dover
rinnegare tutto quello cui si era votato, Camus ha scelto di tradire se stesso,
ha scelto di combattere alle Dodici Case per qualcosa che riguardava lui, e lui
solo. Per provare a essere per quel ragazzino tanto emotivo quanto lo era lui,
per quel ragazzino che Camus non capiva come potesse andare avanti con la
zavorra che si trascinava appresso, per quel ragazzino che lo faceva sentire in
colpa, lui adulto, per esser andato oltre la morte dei suoi cari, il maestro
che sempre avrebbe voluto essere.
“Per due motivi, dicevo” riprende Camus, negli occhi di Milo la
consapevolezza di essersi estraniato per un istante, avviluppato del ricordo di
una sensazione né sgradevole né piacevole, solo estranea. “Primo: Diego era con
me, la notte che vi abbiamo attaccato. L’abbiamo pianificata assieme, quella
scalata, lui, io e Saga.”
“Facevi affidamento su quello. Su quell’affiatamento” realizza Milo.
“Hmm” conferma Camus. “Non te lo riesco a spiegare. È qualcosa che
abbiamo provato in quel frangente. È diverso da quello che sento quando
combatto al tuo fianco, ma c’è. Ed è forte. Molto forte. O almeno speravo che
lo fosse abbastanza perché Diego capisse.”
“Come aveva capito Saga.”
“Già. Come con Saga.”
C’è una nota strana, nella voce di Camus. Milo la sente bene. È una nota
che non gli conosce, un’intonazione che non riesce a definire, e che sa di
qualcosa di sconosciuto, di non condiviso. E accetta che ci sono cose, di
Camus, che ormai non potrà più capire. Accetta che Camus abbia fatto delle
scelte che lo hanno portato lontano dal cavaliere di Acquarius che ha stretto
fra le braccia, alla fine della battaglia delle Case.
E si accorge che quello che voleva recuperare, quell’amicizia che si era
intestardito a ricreare o distruggere per sempre non esiste più. Non è sparita,
ma si è solo trasformata, è cresciuta, forse maturata. Come sono cresciuti
loro.
Camus ha fatto le sue scelte, e le sue esperienze. E Milo ha fatto le
proprie. Negli anni che sono stati separati, qualcosa è cambiato per entrambi,
senza che lo volessero, senza che lo sapessero. Si sono solo convinti di poter
ripartire dallo stesso momento in cui si erano lasciati. Ché nulla era davvero
cambiato, e bastasse solo riannodare i fili, qualche sapiente tocco di ago per
risistemare uno strappo fatto senza volere.
Ma lo strappo non può essere ricucito senza che i punti non si vedano. E
quei punti sono gli anni della loro vita, e le loro scelte. È la complicità che
Milo ha ritrovato con Mur, Aldebaran, Aioria e anche con Shaka. È il modo che
ha di guardare a Hyoga, con l’affetto non solo del compagno d’arme ma anche
l’orgoglio del maestro che vede il proprio allievo camminare sicuro per la
propria strada. L’orgoglio per un ragazzino raccattato per inciampo, lui che
non ha mai voluto allievi; l’orgoglio per un ragazzino cresciuto per egoismo,
per avere accanto qualcuno con cui condividere Camus e il suo doloroso ricordo.
È il modo in cui guarda Kanon, la fiducia che riesce a dargli e la sicurezza
della sua fedeltà anche quando lo vede scendere negli Abissi.
Ma quei punti sono anche Camus e il nuovo rapporto, strano, che ha
costruito con Diego e soprattutto con Saga. Il modo che ha di relazionarsi con lui,
senza ombre e senza esitazioni. Come se sapesse qualcosa. Qualcosa del modo di
agire di Saga che lui e altri non riescono a comprendere. Per Camus, Milo se
n’è accorto, Saga non è più un traditore. Non è l’usurpatore che ha retto il Temenos
per quindici anni e nemmeno l’attentatore alla vita di Anissa. Camus ha visto
qualcosa, in Saga. Forse quello che ha portato Anissa a riammetterlo fra le sue
schiere fino a innalzarlo a suo consigliere, a suo rappresentante. Fino a far
di lui il generale in capo del suo esercito, destinando invece Sagitter,
destinando il primo dei suoi cavalieri, a essere il suo scudo, il suo ultimo
baluardo.
Se Aioros rappresenta l’egida
di Anissa, allora Saga è la lancia ha sempre
pensato Milo, da quando li ha visti, splendidi nell’oro delle armature,
affiancare Anissa nella sala del Synagein, in quella prima e unica riunione
indetta dopo il loro ritorno.
“E?” riprende Milo, raccattando la bottiglia di Tsipouro e scoccando a Camus un’occhiata più
eloquente di mille parole, mentre ne prende una generosa sorsata di canna. “Sei
riuscito a farti intendere da Diego, o anche lui ha avuto la testa dura quanto
la mia?” chiede ancora, pulendosi la bocca con il dorso della mano.
“Non ce n’è stato
bisogno” risponde con semplicità Camus, allungando la mano alla bottiglia e
soppesandola un attimo fra le mani, prima di avvicinarla alle labbra per un
sorso rapido. La pioggia si sta facendo un po’ più intensa e lascia sulla pelle
una sensazione non solo di umido, ma anche la corposità dello iodio bagnato.
“Quando me lo sono
trovato di fronte, sapeva già tutto.”
“Come?” chiede
Milo. “Aspetta: non dirmelo. Saga.”
Camus si limita ad
annuire.
“Lo ha
intercettato, e lo ha spinto a venire a cercarmi. A dirigersi verso la Sala del
Ghiaccio. Forse aveva capito qualcosa; forse era solo la stessa cosa che
avrebbe fatto lui” continua. “Resta il fatto che è stato Saga a mettermi nelle
condizioni di agire. E non so come ha anche spiegato a Diego che stavo
recitando una parte. Una parte molto difficile.”
“Te l’ha detto
Diego? Ad Ásgarðr, intendo”
“Me lo ha detto al Temenos.
Quando siamo ritornati” lo contraddice Camus. “Voleva essere certo che non ci
fossero fraintendimenti fra noi.”
“Ma tu lo avevi
capito lo stesso.”
“Ouis” ammicca “Non è stato poi così
difficile: Diego ha voluto parlare, durante quello scontro. E tu sai quanto odi
parlare, mentre combatte” ride Camus, una risata leggera, sottile, di tensione
repressa che finalmente si libera.
“Un vero caprone,
sì” ride di riflesso Milo. “Carica e basta. È inutile provare a ragionarci,
quando ci si mette.”
“Quella volta,
invece, sembrava non poterne fare a meno” ricorda ancora Camus. “E fra tutto
quello che poteva dire, anche insultarmi, ha parlato di quando abbiamo scelto
di servire l’Acheronteo, di quando abbiamo ucciso Anissa. E di come non avesse
intenzione di esitare.”
“Hai capito che era
dalla tua parte.”
“Ho capito che era
pronto a stare al mio gioco” precisa Camus. “E che mi sarei servito di lui.”
“È il secondo
motivo per cui volevi lui. Giusto?”
“Giusto” conferma
Camus.
“Ma perché? Perchè
ti serviva proprio Diego?”
“Non mi serviva Diego
in sé” alza una spalla Camus, una mano a massaggiarsi il collo e gli occhi a
spiare un cielo che sembra trattenere il fiato solo per loro. “Mi serviva
Excalibur.”
“Lo zero assoluto”
realizza Milo, un brivido a correre lungo tutta la spina dorsale. Un brivido
più intenso di quello che il freddo, l’umidità e l’acqua che sta arrivando a
ondate alterne e sempre più intense riuscirebbero mai a strappargli. Perché la
ricorda in modo doloroso, la morsa di quel gelo sulla carne.
“Hyoga è stato
estratto dal sarcofago con una spada” continua, la mano a stuzzicare di
riflesso la mano sinistra. Quella mano che aveva allungato sul corpo esanime di
Camus dopo la battaglia alle Case. Quella mano che aveva dovuto strappare
all’armatura dell’amico, rovente come fuoco e quasi del tutto insensibile. Non
ha più riacquistato del tutto la sensibilità ai polpastrelli di quella mano e
ancora, ogni tanto, risente il dolore del gelo che gli morde la carne e la
sensazione di torpore e onnubilamento provato a restare accanto al corpo di
Camus fra le pareti traslucide dell’Undicesima. “Tu dovevi abbattere una
colonna di ghiaccio allo zero assoluto. Ti serviva una spada capace di farlo.”
“Esatto. E quante
spade conosci, capaci di tagliare un ghiaccio come il mio? Un ghiaccio allo zero
assoluto?” gli chiede ancora Camus, e getta un nuovo ciocco nel braciere,
mentre all’orizzonte, sopra i tetti sempre più chiari, si intravedono i
riflessi dei lampi percorrere il cielo nero.
“E Diego si è
prestato?” riprende Milo, quando anche l’ultimo eco di tuono si è confuso con
il rombo del mare che risale lungo le strade di Louguivy. “Voglio dire: usare
Excalibur in quel modo significava rimettersi alla mercè del tuo colpo. Forse
di quello più potente.” Fa una pausa. “Perché immagino che non steste né
recitando né trattenendovi.”
“No. Infatti”
ricorda ancora Camus. “Non sapevo dove fosse, ma era certo che Svartr ci stesse
osservando. Per questo non potevamo fingere, ma dovevamo usare tutta la nostra
forza. E sperare di non sbagliare e ucciderci a vicenda davvero.”
Camus rammenta
ancora la sensazione dell’aria farsi affilata, una percezione affascinante e
spaventosa assieme. La sensazione che attorno a lui all’improvviso si fosse
creato il vuoto e un sentore di metallo e affilato aumentare d’intensità fino a
sfiorarlo. Se non si fosse inclinato di pochi gradi per istinto, non ci avrebbe
rimesso solo qualche ciocca di capelli e un taglio sottile sulla guancia e
vicino all’orecchio. Pochi millimetri, e il fendente di Diego contro la colonna
glielo avrebbe mozzato di metto, l’orecchio. E forse anche la testa. Era stato
un azzardo, lo sapevano entrambi, ma su quell’azzardo avevano deciso di puntare
ogni cosa.
E ricorda anche lo
spasmo nello stomaco, quando si era ritrovato frastornato e sanguinante, ma
vivo, fra detriti di ghiaccio che sfrigolavano al calore intenso delle fiamme
di Múspellsheimr.
“Non ce la facevo
più” rantola Camus, nei polmoni la stessa bruciante sensazione dell’aria
arroventata che gli rendeva difficile il respiro, il sapore salato del sudore e
la debolezza nelle gambe che non lo reggevano quasi in piedi. “Stavo in piedi a
stento, non sapevo nemmeno se avessi energia sufficiente per un ultimo colpo. E
Sutrt era nel pieno del vigore”.
“Potevi chiedere di
andartene” prova Milo. “Avevi provato la tua lealtà. E avevi distrutto la sala
del ghiaccio. Potevi ritirarti. Andare a cercare Aioros. Andreas.”
“No” sospira Camus.
“Non bastava più: l’ottava sala doveva essere distrutta, o anche la morte di
Andreas non sarebbe servita.”
“Quindi era
inevitabile” socchiude gli occhi Milo, rigirando fra loro le mani. “Lo scontro
tuo con Surtr, intendo.”
“Aioros me lo aveva
detto” annuisce Camus. “Mi aveva avvisato che sarei stato costretto a
combatterlo. Ma io. Io ci speravo. Milo. Fino alla fine ci ho sperato davvero.”
“Gli eri
affezionato.”
“Era l’ultima parte
della mia infanzia in Siberia che mi restava” gli confida, stringendo in una
mano la radice nel naso, cercando di ricacciare in gola il senso di nausea e
assenza. “E ho dovuto ucciderlo. Proprio come ho ucciso Oskars” prosegue, un
filo di voce che assomiglia a un rantolo di pianto. “Mi sembrava di rivivere un
incubo.”
“Ma lo hai fatto lo
stesso” sussurra appena Milo, una mano su quella spalla che, in quel momento,
dovrebbe solo sussultare di singhiozzi.
“Sono un soldato”
soffia Camus contro la mano. “E i soldati uccidono. Anche gli amici, se
necessario” biascica ancora, la bocca impastata da quel pianto che non riesce a
concedersi. Per rimorso, tensione e stanchezza. “Gli ho stretto la mano. Mentre
se ne andava, gli ho stretto la mano” riprende, aspirando forte dal naso. “Mon Dieu. Era la mano con cui. Con cui
ha quasi ucciso Diego. La mano con cui lo ha trafitto per indebolirlo e farlo
assorbire. E io. Io.”
“Va bene. Va tutto
bene” cantilena appena Milo, spalla contro spalla e una mano di Camus stretta
nelle sue. “Era tuo amico. E stava morendo. E gli volevi bene. Hai fatto
comunque la cosa giusta.”
“Lo so” lo
sorprende Camus, una piega amara nel sussurro che libera. “Solo. Fa male. Merde, Milo. Fa comunque un male cane.”
E se ne restano
così, il fuoco che sfrigola per la pioggia che inizia a battere e un rimescolio
di emozioni a macerare nello stomaco, forte e profondo come solo può esserlo
chi ha giurato la vita a qualcosa di più grande, qualcosa che costringe a
sacrificare anche gli affetti, anche quelli più cari. Un qualcosa che ti mette
di fronte ogni istante a scelte che o soccombi o accetti. E anche se accetti,
sono comunque strade prese con sulle labbra la domanda e se invece? Perché è del soldato, una vita di rimpianti, una vita
di strade scelte chiedendosi se l’alternativa sarebbe stata meglio. Anche con
tutta la convinzione addosso che sì, alla fine si è fatta la cosa giusta. Che
di altre scelte non ce ne potevano essere.
“Avevi ragione tu”
riprende all’improvviso Milo, gli occhi al cielo che ingrossa di nuvole
attraversate sempre più da fulmini e il rombo del tuono nelle orecchie.
Louguivy è una serie indefinibile di ombre nella nebbia che sale dalla terra e
dal mare e lo scroscio intenso, assordante dell’acqua gelida.
“Gueh?”
“È arrivato prima
il temporale dell’alba” ride Milo, una mano a spostare i capelli lunghi zuppi
di pioggia. Una risata piena, forte, di pancia. Quella risata cui Camus si
aggrappa con una forza disperata per rimettersi in piedi, per convincersi che
forse nulla tornerà più come prima. Perché
siamo cambiati. Tu ed io. Ma che non significa che tutto è perduto; si può
ricominciare. Si può creare una nuova amicizia; su altre premesse, su altre
confidenze. Si può riprovare a parlare, a confidarsi, ad ascoltarsi. E si può
aspettare di nuovo di scendere assieme in battaglia, anche nello strazio che
uno potrebbe non tornare.
“Sai” sorride
Camus, la field che pesa addosso, assieme a quella sensazione di fradicio e
freddo che penetra nelle ossa. “Una volta, da ragazzino, pensavo che la mia
vita sarebbe stata tutta qui” gli confida, senza nessuna fretta.
“Davvero?” lo solletica
Milo, le labbra appena più esangui con un tremito sottile e la determinazione a
non mollarlo comunque. “E cosa pensavi di fare?”
“Il pescatore” e
c’è un’ovvietà in quelle parole pronunciate con scioltezza che fa straziare il
cuore e insieme riscalda l’anima. Perché è il sapore di una normalità sparita
nel tempo. “Come mio nonno. E come mio padre. Forse sarei morto in mare. O
forse no. Non lo so. Ma lo pensavo. Davvero. E mi piaceva quell’idea.”
“Non mi avresti
conosciuto, però.”
“Ti immagini la
tranquillità?” ride Camus, restituendo una spallata leggera mentre cerca di
asciugarsi gli occhi dalla pioggia martellante. “Scherzi a parte. Chissà. Chi
potrebbe dirlo?”
“Io, te lo posso
dire” grugnisce Milo, uno sfottò nella voce che sa di complicità. “Per quale
assurdo motivo avrei dovuto venire in un posto del genere?” gli chiede ancora,
legando alla meno peggio i capelli dietro la nuca e cercando di strizzare un
lembo della maglia. “Se non tira vento, piove come sotto una cascata. Cosa ci
trovi di così bello?”
“Ci sono sempre le crêpe di Auraur” lo provoca Camus. “E la
cotriade di mamie.”
“Eis Keramion. Tu giochi sporco” ride a
sua volta Milo. “Torneresti indietro?” gli chiede poi.
“Tu no?” replica
pronto Camus, rigirando le ultime braci che vanno agonizzando nell’acqua che si
è accumulata nel braciere.
“Non lo so” nicchia
Milo. “Voglio dire: sono cresciuto con Isavros, lo sai. Sono cresciuto con uno
che ha sempre vestito un’armatura. Per me non c’è mai stato altro, oltre al Temenos.
Ma per te.”
“Per me è diverso.
Già” annuisce Camus, gettando un’occhiata fugace alla casetta alle sue spalle,
gli infissi blu un po’ scrostati e i muri di sasso che raccontano gli anni.
“Pensavo che avrei cresciuto qui i miei figli. E che ci sarei anche morto. Già.
E che l’unica cosa che avrei davvero conosciuto sarebbe stato il mare.”
“Quanti anni avevi?
Cinque?”
“Quattro. Penso” si
distrae. “Ma fa lo stesso. Mi è rimasto come pensiero costante. Una specie di
chiodo fisso.”
“Vuoi. Vorresti”
Milo tentenna, gli occhi alle scarpe da ginnastica ormai fradice e quel gusto
strano, di marcio e salato mescolati assieme nella pioggia che gli cade
addosso. “Vuoi mollare tutto? È per questo che te ne sei andato alla
chetichella?”
“Non voglio mollare
nulla” lo rassicura Camus, un’increspatura lieve sulle labbra. “Quando hai
visto quello che abbiamo visto noi, non si può tornare indietro. Solo” tentenna
per un attimo, le mani che strisciano sui jeans zuppi. “Volevo provare a fare
le cose in modo diverso.”
“Includendo
Auraur.”
“Ya” annuisce. “Lei, mamie, Fantin. Volevo. Avevo bisogno di ritrovare Louan. Quello che
ero” sospira piano. “E volevo anche ricordarmi perché non ho mai mollato.”
“Potevi dirmelo”
borbotta Milo.
“Non eri molto
disposto a starmi a sentire, ultimamente” gli ricorda Camus.
“Puoi biasimarmi?”
“No” e c’è una nota
di sicurezza che fa tremare Milo. Perché non è da Camus ammettere uno sbaglio.
O almeno non è del Camus di una volta, del ragazzo fiero delle sue convinzioni
tornato dalle lande della Siberia. “Hai ragione. Sono stato un coglione. Non
dovevo darti per scontato. E se tu non ti fossi decise a venire, non so se
saremmo mai davvero riusciti a parlare.”
“Quello che è stato
è stato” riflette alla fine Milo, alzandosi in piedi e stirando la schiena.
“Voglio essere sincero: non l’ho ancora digerita. Non del tutto.”
“È.” Camus esita,
le parole cercate con la paura di sbagliare. “Giusto. Penso.”
“Altrochè, se è
giusto” ride Milo, raccattando due tazze e la bottiglia di grappa. “Ma dammi
tempo. Vedrai. Qualcosa di buono verrà fuori” gli promette, avviandosi verso la
porta. Ha sonno e freddo e una voglia matta di farsi una doccia bollente. Ci sarà ancora abbastanza acqua calda?
si chiede, mentre affonda nel ghiaino acquitrinoso, e considera che prima di
tutto dovranno rimediare al lago che si sarà creato in ingresso. Hanno lasciato
la porta aperta, e la pioggia vien giù di traverso, sbattuta sulla casa da un
vento che rinforza sempre più dal mare e gli sta gelando anche l’anima.
“Ehi. Milo” lo
richiama all’improvviso Camus, quando ormai ha quasi un piede in casa.
“Mmh? Che c’è?” gli
chiede. “Guarda che fa freddo” lo incalza, mentre lo guarda lì, in mezzo al
giardinetto, le tazze in mano e la field fradicia che gli cade addosso come un
sacco. Non che io sia messo meglio, eh.
“Hai voglia di
andare a pescare?”
“Adesso?!” quasi si
strozza. Gli occhi che corrono a un cielo che non promette alcuna tregua e la bruttissima
prospettiva di essere sballottolato sulle creste dell’Atlantico in un guscio di
noce a vela.
“Ti sei accorto che
sta venendo giù il finimondo?” gli grida, per sovrastare l’eco di un tuono
rotolato con violenza. Questo è caduto
vicino. Davvero vicino.
“Met nann” ride Camus, rovesciando la
testa e liberando una risata di pancia. “Domani. O dopodomani. Quando il tempo
sarà migliorato, insomma” gli precisa, raggiungendolo in pochi passi veloci.
“Ah” soppesa Milo.
“Ma è ancora stagione?”
“Abbastanza da
prendere qualcosa per un plateaux.”
“E lo cucini tu?”
“Ci inventeremo
qualcosa” ride Camus, mentre lo supera e poggia le stoviglie nell’acquaio in
cucina. “Il plateaux non è così
difficile. O almeno mamie dice così.
E tu ai fornelli te la cavi. No?”
“E per la barca?”
chiede ancora Milo. Ha chiuso la porta, e si sta liberando della felpa e della
maglia fradice, sgocciolando ovunque. “Non sapevo ne avessi una.”
“Me la faccio
prestare” gli spiega Camus, la field abbandonata sulla sedia e un’euforia quasi
infantile all’idea di quel progetto. “Fantin ha una bocq alla fonda nella baia” prosegue. “La usa quando viene qui, per
il blue. È piccola, ma tiene bene”
spiega ancora. “L’armiamo, ci prendiamo armadietti e lenze. Un cartoccio di
croissant e stiamo in mare per alcune ore.”
Sì: decisamente ha
voglia di andare a pescare. Ha voglia di stringere il vento, e risalire lungo
la costa, su fino a Roc'h an Evned, sotto lo sperone punteggiato di corbezzoli.
Magari riesce anche a convincere Milo a salire fino in cima, lungo il sentiero
che si inerpica dalla spiaggia sassosa. Da bambino ci andava spesso: è una
vista che ti fa sentire padrone del mondo. Dall’estuario del Trieux giù verso
sud, in un’alternanza di scogliere e insenature, e poi ancora la striscia
bianca verso Talbert e la collina di Kermouster scendere verso la spiaggia che
conduce all'isola di Bois. E sulla destra Louguivy, con le sue barche che
rollano piccole nell’acqua della baia.
Quella vista è ciò
che si è portato via, quando è partito per Lannion; quando è partito per un
mondo che gli chiedeva sangue e sacrificio. E adesso vuole che Milo la veda,
vuole che Milo capisca perché la Bretagna è importante per lui, perché è e
resterà sempre una parte di lui. E vuole farglielo capire come mai prima di
allora, come nemmeno quando, ragazzini, si raccontavano per creare quel legame
che li avrebbe sostenuti negli anni.
“Milo” lo incalza
ancora “Ti va?”
Milo stringe gli
occhi. Camus ha uno sguardo strano, uno sguardo da ragazzino eccitato. Glielo
ricorda un’altra volta, quello stesso sguardo. In Grecia, di novembre. Quando
erano andati da Kostas, e Milo lo aveva portato a vedere le syrmata a Mandrakìa. Camus non aveva
detto una parola, ma Milo aveva visto nella sua espressione un misto di
nostalgia e affetto, e si era divertito a osservarlo, arrampicato su uno
scoglio, le gambe a un soffio dall’acqua, mentre studiava la linea delle
imbarcazioni, i colori; mentre provava fra le mani l’intreccio delle reti e la
porosità della roccia. E in quei gesti lenti, quasi sacri, Milo aveva intuito l’anima
di Louan, quell’anima bretone di marinaio, di pescatore, che gli sarebbe tanto
piaciuto che l’amico condividesse con lui.
“Allora?” lo
incalza Camus. “Guarda che me lo ricordo, come si porta una barca” cerca di
rassicurarlo, e poi aggiunge, un sorriso sottile che sa di provocazione. “O hai
paura?”
“Ma figurati!”
replica subito Milo, la pelle un brivido continuo, di freddo e. E di
qualcos’altro. Qualcosa che gli ricorda il gusto per una confidenza a lungo
aspettata. “Solo. Non me lo aspettavo” gli confessa sedendosi, mentre Camus
inizia ad armeggiare con bricco e macinacaffè. “Però sì: ne ho voglia. Tanta”
gli sorride alla fine, i gomiti sul tavolo e il pensiero sciocco che non
staranno a Louguivy solo per un’altra mezza giornata.
“Perfetto allora!”
sorride a sua volta Camus, un accenno da sopra la spalla, mentre recupera due
tazze pulite, il cartone del latte, del pane e dell’andouille dal frigorifero.
“Per colazione ti
dovrai accontentare” prosegue poi, una canzone di Jacques Brel a mezza bocca, e
la camicia che si asciuga addosso. “Credo sia meglio lasciare le crêpe ad Auraur.”
“Concordo”
ridacchia Milo, rabbrividendo per l’acqua che gli scivola dai capelli lungo la
schiena nuda. “Faccio un salto alla boulangerie.
Vuoi?”
“Ci dovrebbero
essere dei kouign, in qualche
armadietto. E ci sono pane e marmellata di pere o mele cotogne, se non fai
troppo lo schizzinoso” gli risponde con calma, l’umido della pioggia e la
polvere di caffè appena macinato a permeare l’aria. Fuori, Louguivy è una
cortina d’acqua e la luce improvvisa di un temporale violento che fa entrare
nella pelle le sensazioni e i ricordi di una notte passata a confessarsi.
“Fatti una doccia,
invece. Sei quasi viola” lo invita alla fine, il canovaccio fra le mani e una
punta di preoccupazione nello sguardo. “E stai tranquillo: ce la faccio anch’io
a preparare una colazione commestibile” ironizza, raccogliendo i capelli in una
coda bassa.
“Ho qualche dubbio”
borbotta Milo mentre si avvia verso le scale con la felpa e la field che
lasciano una scia di gocce. Dovrò
metterle a mollo per bene, e pregare che la felpa non lasci colore si dice,
e gli scappa un sorriso. Perché è un pensiero stupido; come è stupido voltarsi
e vedere Camus armeggiare in cucina, concentrato e attento.
Sì. È stupido si ripete Milo. Ma mi piace.
Perché ha quel
senso di tranquillità, di normalità, che hanno inseguito per tutta la vita, e
che nell’ultimo anno era solo sparita. E anche se sanno entrambi che è solo
l’illusione di un istante, è comunque qualcosa che vogliono continuare a
sentire.
“Re, Camus” lo chiama Milo, un piede già
sul gradino per la mansarda. “Me la spieghi una cosa?”
“Cosa?” bofonchia
Camus, un cucchiaio incastrato in bocca e una mano che rovista in un sacchetto.
“Se è ancora la storia del perché tu sia mezzo assiderato mentre io non sento
nemmeno freddo, ti giuro che.”
“Ma no!” ridacchia
Milo, strofinandosi il naso a scacciare uno starnuto fastidioso. Ho bisogno di una doccia pensa. Dio. Ho decisamente bisogno di una doccia da
ustione.
“Quoi allor?”
“I croissant.”
“I croissant?”
“Esatto” annuisce
Milo. I vestiti hanno fatto una piccola pozzanghera sui primi gradini, ma non
importa. Anche quello significa normalità. “Perché per pescare dobbiamo portarci
dietro un involto di croissant? Non
sapevo che le ostriche amassero i dolci.”
“Cioè. Fammi
capire” sospira Camus, poggiando il coltello con cui sta affettando un’arancia.
“Tu fin’ora hai avuto in testa i croissant?”
“Che c’entra?”
ribatte Milo, una punta di indisposizione e imbarazzo. “Il tuo discorso l’ho
seguito. Cosa credi? Solo. Non ho capito cosa c’entrino i croissant. Ecco tutto.”
“Oh Seigneur” ride Camus, una mano alla
faccia e quel modo che ha solo lui di scuotere le spalle, quando sta davvero
cercando di non infierire troppo. “Sono per noi, i croissant. Per fare colazione” spiega. “Altro che esca per le
ostriche.”
“E tu” soppesa
Milo, un’espressione perplessa che gli arriccia la fronte. “Tu mi vuoi far
credere che mangi croissant con le
mani che sanno di pesce?” gli chiede.
“Bien sur!”
“Camus” sospira
Milo, una voce affranta da far a pugni con la teatralità della faccia. “Che di cucinare
non fossi capace lo sapevo, ma credevo che il palato ce l’avessi buono.”
“È ottimo, infatti”
lo rassicura Camus. “Pesce e croissant. Si cresce così qui” aggiunge poi, una
scrollata di spalle che vuol significare tutto.
“Tu sei cresciuto
così?” chiede Milo, anche se l’istinto gli dice che è un sentiero pericoloso,
quello che vuole percorrere. Perché significa costringere Camus a ricordare la
propria infanzia. Significa forzarlo a condividere qualcosa di cui è sempre
stato parco. Vuol dire forse forzare troppo la mano, soprattutto dopo una notte
come quella, in cui si sono messi a nudo come poche volte hanno davvero fatto.
“Ya” soffia Camus, e gli occhi corrono
senza volerlo al timone appeso sopra il camino. Corrono al ricordo di una barca
che ondeggia contro il cielo che si va schiarendo, le lenze in acqua e il
sacchetto che si va raffreddando ben riposto sotto la panca. Quando suo padre e
Fantin lo portavano con loro, c’era solo quello: il silenzio del mare, lo
stridio dei gabbiani e il tepore dei croissant
nelle mani che sanno di pesce, dopo aver gettato e ripreso le lenze fino a
quando non albeggiava.
Per Camus, quel
sapore, un misto di burro, di marcescente e di legno salato, è il sapore della
sua infanzia, di quei gesti condivisi che gli avrebbero insegnato cosa
significasse essere un uomo, a Louguivy, cosa significasse amare il mare e
conoscerne le mille avventure cantate per cadenzare il lavoro o rilassarsi
nelle taverne. È il sapore che risentiva nei ricordi, nelle lande innevate di
Siberia, quando Anatolij gli faceva stringere fra le mani la scodella calda e
gli insegnava un altro modo di essere uomo, lontano dal mare, al servizio di
Anissa.
“Volevo” tentenna
un attimo, increspando la voce, un labbro stretto di riflesso fra i denti. “Volevo
fartelo provare. Ecco tutto” si giustifica, stringendosi nelle spalle. “Ma se
non ti va.”
“Sì che mi va” si
affretta a rispondere Milo, quasi inciampandosi nelle sue stesse parole, un
sorriso che gli sale a illuminare gli occhi e mostra di nuovo quelle due
fossette ai lati della bocca che sanno di sincerità. Di nuova, ritrovata
complicità.
Alcune note sparse
(per chi fosse curioso. Assolutamente non necessarie).
Asgard
Svartr
Per me, è il vero nome di Sutr di Eikthyrnir,
di cui Sutr è appunto un diminutivo (che esiste, per la cronaca). Ho modificato
un po’ anche il nome di sua sorella, da Sinmore
a Sunniva, la versione nordica.
Infine, quando Camus giura la sua
lealtà all’amico d’infanzia, ho immaginato che nel farlo si svesta della sua
armatura. Questo perché, in passato, in Russia, l’atto di giurare era
accompagnato dagli uomini dal gesto di denudare il petto per mostrasi senza
difese all’interlocutore, a garanzia della veridicità delle proprie parole.
Francia e Bretagna
Saint-Quay-Portrieux
Città portuale della regione di Baie de Saint-Brieuc - Paimpol - Les
Caps,
sulla costa nord della Bretagna (il cui capoluogo è Rennes, dove arriva Milo, mentre il centro da cui parte Camus per
recarsi in Grecia è Lannion, un
piccolo paese dotato di un aeroporto di collegamento con Parigi),
Saint-Quay-Portrieux, come indicato dal nome, vive al ritmo del mare e delle
barche. I suoi porti e le attività di raccolta dei mitili lo confermano. Dal
19° secolo, il suo litorale punteggiato di spiagge e isole, la rende inoltre
una piacevole località balneare, addossata alle scogliere rocciose della Baia
di Saint-Brieuc. Nel 18° secolo, le golette dei Terre-neuvas confermavano la
vocazione portuale della città. Il porto di arenamento, battezzato Portrieux o
Vieux Port, e le stradine in cui si stringono le case, mostrano il tipico
fascino di un porto bretone.
A Quay esistono davvero sia la Crêperie du port sul lungomare, sia i
locali citati da Camus: il Poisson rouge
e l’Atypic, entrambi a qualche centinaio
di metri dalla Crêperie.
La città è anche considerata la
capitale della Capasanta, tanto che ogni anno, a fine aprile, si organizza una
festa in onore di questa “regina dei molluschi”, spesso cucinata gratinata.
Questo particolare modo di servirla, molto diffuso in Bretagna, ma anche nel
resto della Francia, prende nome di Conchiglie
di San Giacomo, in onore del patrono dei pellegrini.
Louguivy-sur-la-mèr
E qui non basterebbe una pagina
intera per descrivere questo piccolo villaggio di pescatori ancorato ad una
baia che lo protegge dalle mareggiate e dai freddi venti atlantici.
Louguivy sono poche case nate sulla
antica tradizione della pesca di molluschi, aragoste (sono famose le loro
aragostiere, particolari barche a vela con il loro colore blu sullo scafo), e
il bleu di Louguivy, una particolare
varietà di astice della Bretagna, molto pregiato; una pesca che ancora oggi si
fa con armadietti e lenze e senza nessuna rete, per non rovinare i fondali
marini.
Camus è cresciuto qui, e i luoghi
presenti nella storia sono tutti luoghi reali: dalla pizzeria La Frègate al Cafè du Port fino alla casa di Camus, una casetta della fine del
XIX secolo a un piano con mansarda, le pareti di granito e arenaria con gli
infissi blu e il tetto di ardesia. Cercatela su internet: è davvero al numero
18 di rue du Porjou, una stradina incastrata appena dietro la linea delle case
che affacciano sulla baia.
La roccia degli uccelli (Roc'h an Evned in bretone) è un ex sperone di
roccia pieno di corbezzoli e il primo luogo di insediamento della regione, fin
dal Neolitico. Questo promontorio offre uno stupendo colpo d’occhio della zona
circostante: l’estuario del fiume Trieux, a nord il Canale con la sua costa e
la solitaria isola di Modez; a sud, alternando scogliere e insenature,
Lézardrieux il cui campanile della chiesa si erge sopra gli alberi. Di fronte,
al di là della piccola isola che proteggeva un posto di dogana, la collina di
Kermouster scende verso la spiaggia che conduce all'isola di Bois. Inoltre, la
strada bianca del solco di Talbert sembra essere un miraggio. Sulla destra, le
barche ancorate davanti a Loguivy.
Aurélie
Laval e la famiglia di Camus
Aurélie Laval è cugina di Camus da
parte di madre e assieme a Ninenn Laval, nonna di Camus e Aurélie, e a Fantin
Renard, patrigno di Aurélie, è tutto ciò che resta a Camus della sua famiglia.
Ninenn Laval, da giovane, ha
prestato servizio come cuoca (ecco da cui AurAur ha preso il suo talento) presso
alcune famiglie benestanti di Bretagna, e alla morte del marito è ritornata a Quay,
il suo paese natale, dove ha cresciuto le due figlie: Ahez, la madre di
Aurèlie, e Hoela, la madre di Camus. Entrambe le sorelle sono morte, anche se
in tempi diversi, e Ninenn si è assunta l’incarico di crescere i due nipoti
(tre, se tutto fosse andato bene, dal momento che Camus avrebbe dovuto avere
una sorellina, nata morta pochi mesi dopo la morte in mare del padre).
Grecia
e località limitrofe
Temenos
Letteralmente, significa “luogo
tagliato” (dal verbo greco temno,
appunto taglio). In antichità indicava la zona sacra “ritagliata” all’interno di
un territorio e dedicata a una o più divinità. Poteva essere un luogo lasciato
alla vegetazione, privo di intervento umano, ma poteva anche essere
caratterizzato dalla presenza di uno o più edifici sacri. Il temenos forse più
famoso in assoluto è l’Acropoli di Atene.
Per questo ho preferito usare questo
termine per designare tutto il regno di Atena: il Santuario o Grande Tempio.
Ntelenia
Il Ntelenia è una taverna a
Mikroklimao, uno dei due porti secondari del complesso del Pireo. Mikroklimao è
piuttosto piccolo e tranquillo, anche se vanta una vivace presenza turistica
che riempie locali e ristoranti. Il Ntelenia è uno di questi, con i tavolini e
gli ombrelloni che affondano direttamente nella sabbia.
Nella mia immaginazione, è uno dei
locali preferiti da Milo, quello dove recarsi quando hai voglia di non pensare
e non prenderti troppo sul serio. E di ricordarti che sei anche un uomo, oltre
a un cavaliere.
Kostas
e la sua famiglia
Kostas è un vecchio amico di
Isavros, l’uomo che ha cresciuto Milo.
Soldato, marinaio, taverniere,
arrabatta dalla vita quello che può per la felicità della sua famiglia: di sua
moglie Akylina, di sua figlia Electre (di un anno più piccola di Milo) e di suo
figlio Gràvil. Per Milo, orfano fin dall’infanzia, sono ciò che più si avvicina
ad una famiglia, sono la sua famiglia adottiva, quella da cui si reca ogni
volta che torna sulla sua isola.
Camus li ha conosciuti a sedici
anni, quando per la prima volta si è recato con Milo sull’isola di Melo.
Mandrakìa
Minuscolo
villaggio di pescatori greco,
dell’isola di Melo. Costruito lungo un promontorio roccioso con
vista sullo stretto di Kimolos
è caratterizzato dalla presenza delle syrmata, darsene di forma cubica scavate
nella roccia da mare, vento e anche dalla mano dell’uomo, una volta usate solo
come riparo per le imbarcazioni, ma successivamente anche come vere e proprie
abitazioni. Dal momento che affacciano praticamente sul mare, con l’alta marea
il sottile spazio di banchina viene sommerso e l’acqua filtra nelle case, con
le loro caratteristiche porte colorate.
Milo ci ha portato Camus quando
avevano sedici anni, la prima volta che sono andati insieme sull’isola natale
di Scorpio.
La
Siberia e affini
Anatolij
Anatolij è stato il maestro di Camus
e Oskars, vero nome (per me) di quel
povero personaggio tanto bistrattato che è il Maestro dei Ghiacci. E che sì,
romperà il rapporto maestro-allievo fra Camus e Hyoga, ma ci sta bene. Tanto.
Punto.
Comunque no, Anatolij non è morto.
Ma dopo l’investitura di Camus si è ritirato a Siniy gorod (Blue Grado, nel
manga), alla corte di re Pjotr, e funge da punto di contatto fra la città e il
regno di Anissa in Grecia.
È stato Anatolij a dare a Camus il
suo nome: quando Louan è arrivato in Siberia, Anatolij faticava a ricordare il
suo nome, così diverso da quelli sovietici (perché ricordiamocelo: Camus è
stato allenato nella Russia sovietica, quando il Muro di Berlino c’era ancora),
ma non voleva nemmeno affibiargli un nome di comodo. E l’unica cosa che
conoscesse della Francia, questo maestro che prima era stato un soldato
dell’Armata Rossa, era Albert Camus. Da qui l’abitudine di chiamare Camus il
suo allievo; abitudine che Louan ha conservato facendone il proprio nome dopo
l’investitura.
L’izba
Tutti conoscete l’izba dell’anime e
del manga. E penso che tutti immaginiate che prima di essere stato la casa
durante l’addestramento di Hyoga, lo possa essere stata anche per Camus e
Oskars.
L’izba è una piccola casa
tradizionale in tronchi d’albero, con un tetto di paglia a due spioventi e
finestre sul davanti, l’abitazione tipica e più diffusa presso i contadini,
molto presente nel folklore locale. Tradizionale ha soltanto una grande stanza
(di circa 24 metri quadrati) dove i contadini cucinano, mangiano e dormono e
l’oggetto più importante è la stufa. Il nome stesso di izba deriva dalla parola
stufa in russo antico: per la precisione izba significa “quella che si
riscalda”. La stufa, infatti, è il cuore dell’izba: la si accende al mattino e
durante tutta la giornata accumula calore che redistribuisce la notte, quando
la caldaia non è alimentata. Le sue notevoli dimensioni le permettevano di
fornire anche spazi per riporre stoviglie e pentolame, per accogliere un forno
e anche una sala per un bagno caldo, dato che il suo spazio interno può
tranquillamente contenere un uomo adulto. Inoltre, non possiede alcun fornello
sulla cima, che quindi può essere riciclata come giaciglio, il migliore e il
più ambito, destinato agli anziani o ai bambini. Questo giaciglio è creato
grazie ai polati, delle assi che vengono
sistemate proprio sulla sommità della stufa, fungendo al contempo da isolante
della pietra incandescente e conduttore di un bel tepore; segue poi un
pagliericcio e infine delle coperte, di solito di feltro. Nelle zone siberiane
estreme, anche di pelliccia.
Kobotec
e Yamal (e Siniy gorod, giusto per chiudere il cerchio)
Attenzione: la seconda parte di questa nota è l’unica
che si potrebbe ritenere se non proprio necessaria, almeno funzionale.
Andando con ordine, Kobotec è il villaggio, il grumo di
case, in Siberia dove si consuma l’addestramento di Camus prima e di Hyoga poi.
E tutti quanti lo conosciamo.
Siniy
gorod
è il nome traslato in russo di Blue
grado, la città che compare nello speciale del manga dedicato a Hyoga prima
e in Lost Canvas poi; direi che ormai è canon.
Yamal invece è mia: nel
senso che è per me che ha un valore particolare.
La penisola di Jamal (o Yamal) si
trova a nord del Circolo Polare Artico nella Siberia occidentale, sotto
l'amministrazione del Circondariato Autonomo Jamalo-Nenec, remota
regione della Russia scarsamente popolata e caratterizzata da un clima
polare molto rigido. La penisola è un luogo quasi "fuori dal mondo", abitata
dal popolo Nenci (o Nenets), etnia indigena della Russia che vive ancora
secondo tradizioni molto radicate, una vera e propria popolazione nomade che si
sposta quasi di continuo seguendo la transumanza dei greggi di renne, animale
al centro della loro vita e fulcro dell'economia.
La penisola Jamal è interessante
soprattutto per l'aspetto etnico-culturale, ma anche per la natura
estrema e per il paesaggio insolito rappresentato essenzialmente da un
deserto di ghiaccio sconfinato dove, con la latitudine, si susseguono varie
specie vegetali che diventano sempre più rachitiche man mano che si procede
verso nord. Le renne sono talmente numerose da costituire il paesaggio
stesso, mentre i mesi invernali, quando le notti sono ancora lunghe e buie, il
fenomeno dell'aurora boreale farà stare tutti con il naso all'insù per
osservare questo spettacolare fenomeno. La città di Salekhard, tappa
obbligata in quanto punto di ingresso, merita una visita approfondita,
soprattutto per l'interessante museo della storia naturale dove sono conservati
numerosi reperti (inclusi mammut mummificati) che il ghiaccio ha conservato in
modo strabiliante.
In questa regione remota, primitiva,
ho immaginato che viva in simbiosi con la natura e il popolo Nenci Sneguročka, la figura cui Camus e
Milo si riferiscono chiamandola solo Lei.
Nel mito slavo, Sneguročka è
una donna/ragazzina con gli occhi blu come il ghiaccio dell’inverno, guance
rosse ed un abito bianco e celeste. Ha origini da antiche leggende
pre-cristiane, in cui veniva raffigurata come la figlia dell’Inverno e della
Primavera. È una creatura magica che, chiamata, arriva avvolta in un vortice di
neve e ha il potere di comandare i fiocchi di neve e di far prendere loro
qualsiasi forma ella desideri, come delicati fiori di brina, silenziosi
giardini di felci di ghiaccio e splendidi e strani animali invernali. In
sostanza, la versione mitica della Regina
dei ghiacci. Per questo ho immaginato che il Cavaliere che ha il dominio
assoluto delle energie fredde debba esserne sciamano (Camus prima, come
Acquarius. E Hyoga poi, come suo erede. Anche se non è l’armatura a definire il
titolo, ma le capacità del singolo) o comunque in qualche modo ne debba
ricevere la benedizione. Che si trasforma in un rapporto un po’ particolare, in
cui la lealtà a lei non è assoluta né vincolante, ma necessaria per mantenere
il controllo sui ghiacci eterni.
Fate come se Anissa avesse accettato
di dividere il cavaliere che padroneggia i ghiacci con quest’altra divinità,
per rispetto e per coesistenza.
Camus l’ha conosciuta bambino prima,
e poi da uomo (oddio. Facciamo ragazzo) poco dopo la sua investitura. Hyoga ha
fatto lo stesso, e infrangendo le regole che vogliono che solo chi abita le
distese delle nevi eterne la conosca, l’ha fatta incontrare con Milo, poco dopo
la morte di Camus alle Dodici Case.
Note
linguistiche varie (sono in ordine alfabetico, non di presenza nel testo)
Alethina: davvero in lingua greca
Ara: espressione
intraducibile dal greco, indica sorpresa e meraviglio o perplessità
Bien
sur:
certamente in francese
Calme-toi: calmati
in francese.
Eis
Keramion:
vai al diavolo in modo scherzoso, in
greco
Fisikà: certamente in greco
Fut! : espressione
francese non traducibile; è un intercalare che indica stizza, esasperazione
Gueh: espressione
francese intraducibile che indica sorpresa, meraviglia o perplessità
Kaoc'h: merda in bretone. Camus conosce
l’imprecazione, ma è solito comunque usare il francese merde, usato ormai più come intercalare che come vera e propria
scurrilità
Malakies: stronzate in greco
Mamie: nonna in francese, in una forma
affettuosa e familiare
Mamm: mamma in lingua bretone
Mat
eo:
d’accordo in bretone
Met
nann:
ma no in bretone
Na
con la mano aperta davanti: gesto tradizionale greco chiamato mountza, serve per insultare qualcuno,
spesso usato assieme all’espressione na,
di per sé intraducibile. Spesso si accompagna a delle imprecazioni, anche in
forma scherzosa (preso da solo, invece, è parecchio offensivo, perché la mano
aperta con le cinque dita ben separate indica una maledizione che deve colpire
l’interlocutore e la sua famiglia per cinque generazioni).
Nann: no in bretone
Ochi: no in greco
Ouis: forma colloquiale
e familiare per sì in francese
P’tain.
Que bordel:
puttana! Che casino! in francese. Un
modo di esprimersi che non è strano, soprattutto fra i giovani. Soprattutto la
prima parola è sentita di solito come un semplice intercalare, e non come un
vero e proprio insulto (per quello, esiste una parola apposta).
Que
casse pieds:
che rompi scatole in francese
colloquiale
Que
con:
letteralmente che coglione, ma può anche
essere usato in forma più colloquiale e scherzosa (che idiota)
Quoi: letteralmente
significa cosa in francese, ma è
usato anche come esclamazione o intercalare per indicare qualcosa che non si ha
ben capito
Re!: intercalare greco
corrispondente più o meno al nostro ehi!
Skatà: merda in greco
Skaze:
cazzo in greco
Ta
guele!:
stai zitto, in francese colloquiale
Tadoù: papà in lingua bretone
Ya, dres: Sì, esatto in bretone
Ya: sì in lingua bretone
Pochi
cenni gastronomici (più per spiegare
i termini sparsi)
Andouille: tipica salsiccia
di trippa di maiale affumicata che è possibile degustare anche a colazione su
una tartina farcita al burro.
Billing: una grande piastra
circolare di ghisa sulla quale si stende l'impasto della crêpe, aiutandosi con un rozell, una specie di rastrellino
di legno, per cuocerla.
Cotriade: ricca zuppa di pesce e crostacei, delizioso
piatto della cucina bretone.
Kouign: abbreviazione di kouign
amann, letteralmente tradotto come “dolce al burro“, è un dessert da
pasto o da colazione semplice e gustoso a base di pasta lievitata, zucchero e
burro appunto.
Krampouezh: è il nome originale bretone della crespella, la crêpe insomma, preparata dolce o solata.
Ovelias: piatto principale della tradizionale Pasqua greca, è l’agnello cotto
alla brace.
Plateaux: altro piatto tradizionale bretone, il cui
nome completo è plateaux des fruits de mer, un piatto composto da tutti
i principali frutti di mare.
Sidro: bevanda alcolica
ottenuta dalla fermentazione delle mele e talvolta delle pere. In Bretagna non
c’è alcuna produzione di vini, mentre invece sono diffuse la produzione di birre
artigianali (la Coreff è una delle
più apprezzate) e appunto di sidro.
Tsipouro: nome di una grappa greca ottenuta alla
distillazione di vinaccia di vitigni greci. Di solito è una grappa pura
(bianca), alcune volte viene aromatizzata all'anice o anche altri frutti.