Libri > The Black Magician
Ricorda la storia  |      
Autore: Mari Lace    16/08/2018    6 recensioni
Rasha osservò mentre gli altri schiavi spogliavano e rivestivano lo straniero con stracci simili ai loro. Ciò che aveva temuto vedendolo arrivare si era puntualmente avverato: il suo padrone aveva aggiunto il visitatore alle sue fonti d’energia. [...]
Tentare di fuggire era stata una mossa incredibilmente stupida, eppure lei aveva provato ammirazione per l’ardire del mago fatto schiavo. Ogni suo gesto sottolineava la differenza esistente tra loro, e al contempo l’affascinava.
Vederlo frustare le fece male, ma cercò di controllare il suo sentimento.
Non c’era nulla che potesse fare per distogliere il padrone dall’infliggere la giusta punizione allo schiavo disubbidiente.
Alla fine, Dakova lo gettò a terra e si rivolse proprio a lei: «Impediscigli di morire», le ordinò con un ghigno. Prima di tornare alla sua tenda, rivolse un ultimo sguardo alla schiena – ormai ammasso informe di carne sanguinolenta – dell'uomo a terra e dichiarò, con voce abbastanza alta da risuonare in tutto l’accampamento, che addomesticarlo sarebbe stato divertente.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Vita d'una schiava









Rasha osservò mentre gli altri schiavi spogliavano e rivestivano lo straniero con stracci simili ai loro. Ciò che aveva temuto vedendolo arrivare si era puntualmente avverato: il suo padrone aveva aggiunto il visitatore alle sue fonti d’energia.

La donna sospirò. Quel giovane sembrava così sconvolto. Gli si avvicinò.

«Ti abituerai», gli disse.

Lui alzò lo sguardo e lei sussultò, scorgendo il vuoto dei suoi occhi.

Poi il padrone la chiamò e lei lo raggiunse, lasciando il nuovo arrivato alle cure degli altri.

~

«Quindi voi siete tutti… schiavi?» lo vide tremare, nel pronunciare l’ultima parola.

Gli rivolse un sorriso triste. «Anche tu lo sei, ora».

«Non può farlo» fu la debole risposta mormorata, ma Rasha dubitava lo credesse davvero. La realtà, per quanto crudele, doveva ormai essergli fin troppo chiara.

«Non è così male» replicò. «La mia gente considera onorevole servire un mago».

Lui la fissò, poi le sfiorò il braccio, cogliendola di sorpresa. Lo vide concentrarsi per qualche secondo. «Hai forti potenzialità» affermò infine. «Se fossi nata a Kyralia, saresti potuta divenire una potente maga. Una guaritrice, magari».

Il suo sguardo si velò. «Ma non sono nata a Kyralia», commentò soltanto.

«Non mi hai detto come chiamarti».

Rasha lo guardò stupita. «Ha difficilmente importanza».

«Potrebbe averla per me», la contraddisse lui. «Per favore».

Era il suo disperato tentativo di aggrapparsi a qualcosa e renderlo familiare, per sopportare meglio la nuova situazione, a spingere quella richiesta? Un po’ le faceva piacere che qualcuno le desse valore, nonostante le circostanze.

«Rasha», sussurrò. «Il mio nome è Rasha».

Dopo quella rivelazione lo vide assorto, intento ad assaporare l’informazione. Temeva forse di dimenticarlo? La fece sorridere.

Poi lui si riscosse e cercò i suoi occhi. «Io sono Akkarin» asserì. «Spero di rimanerlo».

L’ultima frase fu poco più d’un bisbiglio, ma lei la sentì ugualmente. Lo guardò con compassione. «Eri un mago potente?»

Akkarin fece una smorfia. «Credevo di esserlo».

Rasha annuì. «Cambieranno molte cose» gli disse. «Ma noi schiavi siamo preziosi per i padroni: se non disobbedirai agli ordini, ti tratterà bene. Avrai compiti semplici e dovrai solo fornirgli la tua energia, come facciamo noi. Non ti ha ucciso».

Aveva tentato d’essere incoraggiante, ma dentro di sé Rasha intuiva che le motivazioni di Dakova per lasciare in vita il mago non derivavano da bontà. Considerava un onore che lui l’avesse scelta, ma l’aveva visto compiere azioni crudeli.

Sapeva bene che era possibile uccidesse i suoi preziosi schiavi, in caso di necessità, ma scelse di non dirlo ad Akkarin. Probabilmente, rifletté, l’immaginerà da solo.

«Forse sarebbe stato meglio se l’avesse fatto» fu l’amara risposta di lui.

~

Rasha non poté far altro che osservare, mentre la frusta di Dakova si abbatteva ripetutamente sulla schiena di Akkarin lacerandogli la pelle.

Tentare di fuggire era stata una mossa incredibilmente stupida, eppure lei aveva provato ammirazione per l’ardire del mago fatto schiavo. Ogni suo gesto sottolineava la differenza esistente tra loro, e al contempo l’affascinava.

Vederlo frustare le fece male, ma cercò di controllare il suo sentimento.

Non c’era nulla che potesse fare per distogliere il padrone dall’infliggere la giusta punizione allo schiavo disubbidiente.

Alla fine, Dakova lo gettò a terra e si rivolse proprio a lei: «Impediscigli di morire», le ordinò con un ghigno. Prima di tornare alla sua tenda, rivolse un ultimo sguardo alla schiena – ormai ammasso informe di carne sanguinolenta – dell'uomo a terra e dichiarò, a voce abbastanza alta da risuonare in tutto l’accampamento, che addomesticarlo sarebbe stato divertente.

Quando fu andato via, Rasha si accostò ad Akkarin e lo trascinò al suo giaciglio con l’aiuto di due schiavi.

Non era un caso che il padrone si fosse rivolto a lei per quel compito; come la maggior parte degli altri schiavi, anche lei era stata una contadina, ma sua madre le aveva insegnato a riconoscere le rare erbe curative che era possibile trovare nelle Terre Desolate.

Ne teneva una scorta nell’eventualità che il padrone si ferisse, e vi attinse per plasmare un impacco da stendere con delicatezza sulla schiena di Akkarin. Le ci volle grande autocontrollo per continuare nonostante l’uomo sussultasse per il dolore ogni volta che lei gli sfiorava quel che rimaneva della sua schiena.

«Non saresti dovuto scappare» gli mormorò quando riprese conoscenza. «Il padrone non poteva non punirti, o molti altri avrebbero tentato».

Dalle labbra di Akkarin sfuggì un riso strozzato, o almeno lei l’interpretò così: qualsiasi cosa fosse, suonò più come un gemito. «Sei dalla sua parte» constatò debolmente.

Non era una domanda; a Rasha sembrò un’accusa. Rispose con la verità.

«Non voglio che ti faccia male».

Passò una settimana, prima che Akkarin riuscisse nuovamente a muoversi; il padrone andava da lui ogni sera a sottrargli tutta l’energia e, Rasha lo scoprì sbirciando una volta, leggergli la mente.

Dopo quelle visite, nella sua tenda, Dakova la guardava in un modo che lei non riusciva a decifrare.

~

«Guarda il mio mago addomesticato della Corporazione, fratello! Non lo trovi patetico?»

Rasha si trovava fuori dalla tenda di Dakova; era corsa lì non appena l’avevano avvertita che Akkarin vi era stato portato, quella mattina presto. Il padrone non avrebbe dovuto, aveva pensato, il giovane non era ancora guarito del tutto…

La schiava si pietrificò. Era indignazione, quella che aveva percepito per un attimo?

Aveva, anche se solo con sé stessa, contestato una decisione di Dakova?

Come aveva potuto? Poteva fare qualsiasi cosa volesse, lei non era nessuno per mettere bocca nelle sue scelte. Il padrone sapeva cos’era giusto per lui, era un mago! Inoltre, Akkarin era solo uno schiavo, come lei e gli altri. Non aveva diritti, anzi, doveva essere riconoscente per essere stato guarito: in un’altra situazione, non sarebbe stato strano se lo schiavo frustato fosse stato lasciato a morire. Le erbe mediche scarseggiavano, non si potevano usare per tutti.

Si lasciò cadere vicino all’entrata della tenda e si prese la testa tra le mani.

Cosa le stava facendo Akkarin?

Lo straniero aveva uno strano effetto su di lei; non aveva mai osato giudicare le azioni del suo padrone, prima. Questo la terrorizzava.

«Perché non lo uccidi, Dakova? Ti darà solo guai». La voce profonda, crudele di Kariko l’agghiacciò.

Crudele? No, si corresse Rasha, solo logica.

Akkarin aveva già dimostrato di non accettare la vita da schiavo.

«Sciocchezze» sentì dire al suo padrone. «La Corporazione è debole. Per questo l’ho tenuto; leggigli la mente, Kariko, vedrai come sono patetici!»

Non passò molto prima che le risate dei due fratelli risuonassero nell’accampamento.

Rasha trattenne il fiato sentendo qualcuno gemere; non aveva dubbi, riconobbe Akkarin.

Osò affacciarsi per vedere cosa stesse succedendo. Lo schiavo era a terra, in preda al dolore.

«Così ridicolo», stava ridendo Kariko a qualche passo da lui.

Rasha intravide un luccichio nell’aria, poi sentì Akkarin urlare.

Anche Dakova rideva; poi rivolse un’occhiata accigliata al suo mago addomesticato e si accigliò. «Se lo colpissimo ancora potrebbe davvero morire», disse al fratello. «È così debole».

«Cosa vuoi farne?» domandò Kariko, ghignando.

Lo sguardo di Dakova si accese d’una luce folle. «Lo mostreremo agli altri Ichani. Li convinceremo a unirsi a noi per conquistare la Corporazione e vendicarci di quei dannati Kyraliani!» spiegò.

Rasha si ritrasse bruscamente. Ad Akkarin non farà piacere, pensò allontanandosi.

~

Era infine successo: mesi di schiavitù avevano piegato Akkarin, ormai totalmente soggiogato. Ogni traccia di sicurezza era svanita dal suo sguardo, che ora teneva basso come tutti i loro compagni. Non rispondeva al padrone, qualsiasi cosa gli dicesse.

Rasha pensò, osservandolo eseguire l’ennesimo ordine, che l’aggettivo che Dakova tanto amava riferirgli, addomesticato, fosse tristemente adatto.

Lo vide inciampare e cadere sotto il peso del suo carico; lui era l’unico cui l’energia venisse tolta ogni sera, e la sua efficienza ne risentiva. Avrebbe voluto raggiungerlo, aiutarlo ad alzarsi, dargli una mano con i bagagli, ma non poteva.

Ancora una volta, poté solo osservare mentre Akkarin trovava in qualche modo la forza di rialzarsi da solo. Notò poi che Dakova la stava osservando; chinò lo sguardo e superò il mago, rassegnata. Gli ordini del padrone non potevano essere sbagliati.

Era successo alcuni mesi prima: si era avvicinata ad Akkarin per controllare la sua schiena, ormai quasi guarita. Aveva teso una mano per scostargli la casacca e lui si era ritratto; nei suoi occhi aveva riconosciuto un profondo terrore.

Aveva abbassato la mano, senza osare chiedere perché.

Il silenzio si era protratto, mentre il suo sguardo si addolciva. Le era sembrato in lotta con sé stesso: da una parte, c’era la tenerezza che da sempre le riservava, dall’altra una paura viscerale. Rasha, non capendo, aveva preferito non dire nulla.

Era stato lui a spezzare il silenzio. «Lui lo sa». La voce gli tremava. «L’ha visto. Sapevo che sarebbe successo, ma non avevo pensato…» si bloccò. «Se ti tocco, ti ucciderà».

Da allora, avevano dovuto limitare i contatti. Le capitava spesso di avvertire lo sguardo del padrone incombere su di lei, sentendosi stranamente a disagio.

Se ne assumeva la colpa: non avrebbe dovuto affezionarsi troppo ad Akkarin. Non era libera; ogni suo pensiero doveva andare a Dakova, e a nessun altro. Era giusto, normale, che lui la reclamasse. Non poteva pensare altrimenti.

Akkarin non lo capiva, o non lo accettava: più volte le aveva confessato d’aver sognato la sua morte. Lei gli aveva sorriso ogni volta. «Se dovessi morire per essere utile al mio padrone, lo farei», aveva detto. L’aveva pensato davvero, anche quella volta credeva di pensarlo: eppure, qualcosa le era stonato in quella frase, ancora di più vedendo l’espressione affranta di Akkarin nel sentirla pronunciare.

Aveva sperato che non lo notasse, e così era stato.

«Ti sembra tanto strano?» gli aveva chiesto allora.

«È ingiusto», aveva risposto lui, un’eco dell’antico rancore negli occhi.

Subiva umiliazioni tutti i giorni, ma aveva smesso di ribellarsi, cessato ogni resistenza.

E tuttavia si scaldava così quando si trattava di lei. Rasha, nonostante in cuor suo sapesse quanto fosse sbagliato, non riusciva a non sentirsi felice, lusingata. Ogni allegria le passava, però, accorgendosi del dolore che quell’affetto gli provocava.

«Hai fatto un buon lavoro, legandolo a te» aveva affermato, ridendo, Dakova, una notte. Lei aveva sussultato: il padrone non le parlava mai, mentre lei assolveva al suo compito.

«Rende tutto più divertente», aveva continuato lui. «Ma ricorda sempre a chi appartieni. Se quel patetico maghetto ti sfiora anche solo con un dito, la pagherete entrambi».

Dopodiché l’aveva presa con più forza del solito, facendole male. Le era sfuggito un gemito, e Dakova aveva riso.

~

«Troverò il modo di distrarlo. Devi scappare!»

Rasha lo guardò con occhi velati di tristezza. «Resisti ancora», mormorò. «Pensavo ti fossi arreso».

La sua passività lo faceva arrabbiare, se ne accorgeva. Possibile che non capisse che non poteva agire diversamente? Lei, semplicemente, era così. Appartenevano a due mondi troppo diversi.

«Se non scappi, ti ucciderà! Gli impedirò di raggiungerti, perciò…»

Lei scosse la testa, senza rispondergli. Alzò lo sguardo: la luna era ormai alta. Silenziosamente, gli scivolò accanto, diretta alla tenda di Dakova.

Era suo dovere, e nonostante tutte le parole e i folli piani di Akkarin, lei sarebbe sempre tornata ad assolverlo.

~

Rasha seguì lo scontro con vaga apprensione. Ben presto, infatti, Dakova perse terreno, indietreggiando in evidente difficoltà. Con un trucco, riuscì a bloccare momentaneamente l’avversario, e fu allora che chiamò a raccolta tutti gli schiavi. Richiedeva il loro potere, per poter vincere quello scontro.

Mosse un passo verso di lui, imitata da molti altri. Il rito d’estrazione dell’energia iniziò.

Mentre Dakova passava da uno schiavo all’altro, Rasha incrociò lo sguardo di Akkarin. Il mago la fissava sgomento. Era un’implorazione a non andare, quella che leggeva nei suoi occhi, o un’illusione della sua mente?

Non aveva importanza, si ricordò decisa. Se anche le avesse chiesto di rifiutarsi d’aiutare il padrone, ovviamente non l’avrebbe ascoltato. Sono solo una schiava, e sono fedele.

Tenne lo sguardo fisso su di lui, mentre avanzava verso Dakova. Era così strano che tenesse alla sua vita più di quanto non facesse lei stessa.

Strano… ma dolce.

Tutte le piccole attenzioni, gli sguardi rubati e le folli proposte di quegli anni le tornarono alla mente.

Fu su quelle che si concentrò mentre l’energia prendeva a fluire fuori dal suo corpo.

Sentiva ancora gli occhi di Akkarin su di sé, e si chiese se non stesse sognando. Perché era ancora lì? Se avesse voluto ancora scappare, quello poteva essere un buon momento…

Sorrise a quel pensiero, senza trovare la forza di rimproverarsi. Lei era una schiava, quello era il suo giusto destino: ma aveva sempre saputo che il mago, al contrario, non era fatto per quella vita. Tuttavia, era così felice d’averlo incontrato! Non se n’era davvero resa conto prima. Le aveva cambiato la vita, regalandole tante piccole gioie.

Le tornò in mente il timido bacio che si erano scambiati, alla luce di un’alba ormai troppo lontana. Quella sera stessa, Dakova li aveva scoperti, e non avevano più potuto sfiorarsi. Quel bacio, che le aveva parlato di nuove possibilità, era così diventato l’ultimo.

Il mago nero assorbì l’ultimo briciolo della sua energia e il suo corpo cadde a terra per mai più muoversi. Gli occhi rimasero puntati in quelli d’uno schiavo poco distante, che aveva osservato tutta la scena con occhi pieni d’orrore.

Akkarin sapeva bene che non l’avrebbe mai dimenticata.

Grazie, per avermi fatta sentire speciale.

  
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > The Black Magician / Vai alla pagina dell'autore: Mari Lace