Vita d'una schiava
Rasha
osservò mentre gli
altri schiavi spogliavano e rivestivano lo straniero con stracci simili
ai
loro. Ciò che aveva temuto vedendolo arrivare si era
puntualmente avverato: il
suo padrone aveva aggiunto il visitatore alle sue fonti
d’energia.
La donna
sospirò. Quel
giovane sembrava così sconvolto. Gli si avvicinò.
«Ti
abituerai», gli
disse.
Lui
alzò lo sguardo e lei
sussultò, scorgendo il vuoto dei suoi occhi.
Poi il padrone
la chiamò
e lei lo raggiunse, lasciando il nuovo arrivato alle cure degli altri.
~
«Quindi
voi siete tutti…
schiavi?» lo vide tremare, nel pronunciare l’ultima
parola.
Gli rivolse un
sorriso
triste. «Anche tu lo sei, ora».
«Non
può farlo» fu la
debole risposta mormorata, ma Rasha dubitava lo credesse davvero. La
realtà,
per quanto crudele, doveva ormai essergli fin troppo chiara.
«Non
è così male»
replicò. «La mia gente considera onorevole servire
un mago».
Lui la
fissò, poi le
sfiorò il braccio, cogliendola di sorpresa. Lo vide
concentrarsi per qualche
secondo. «Hai forti potenzialità»
affermò infine. «Se fossi nata a Kyralia,
saresti potuta divenire una potente maga. Una guaritrice,
magari».
Il suo sguardo
si velò.
«Ma non sono nata a Kyralia», commentò
soltanto.
«Non
mi hai detto come
chiamarti».
Rasha lo
guardò stupita.
«Ha difficilmente importanza».
«Potrebbe
averla per me»,
la contraddisse lui. «Per favore».
Era il suo
disperato
tentativo di aggrapparsi a qualcosa e renderlo familiare, per
sopportare meglio
la nuova situazione, a spingere quella richiesta? Un po’ le
faceva piacere che
qualcuno le desse valore, nonostante le circostanze.
«Rasha»,
sussurrò. «Il
mio nome è Rasha».
Dopo quella
rivelazione
lo vide assorto, intento ad assaporare l’informazione. Temeva
forse di dimenticarlo?
La fece sorridere.
Poi lui si
riscosse e
cercò i suoi occhi. «Io sono Akkarin»
asserì. «Spero di rimanerlo».
L’ultima
frase fu poco
più d’un bisbiglio, ma lei la sentì
ugualmente. Lo guardò con compassione. «Eri
un mago potente?»
Akkarin fece una
smorfia.
«Credevo di esserlo».
Rasha
annuì. «Cambieranno
molte cose» gli disse. «Ma noi schiavi siamo
preziosi per i padroni: se non
disobbedirai agli ordini, ti tratterà bene. Avrai compiti
semplici e dovrai
solo fornirgli la tua energia, come facciamo noi. Non ti ha
ucciso».
Aveva tentato
d’essere
incoraggiante, ma dentro di sé Rasha intuiva che le
motivazioni di Dakova per
lasciare in vita il mago non derivavano da bontà.
Considerava un onore che lui
l’avesse scelta, ma l’aveva visto compiere azioni
crudeli.
Sapeva bene che
era
possibile uccidesse i suoi preziosi schiavi, in caso di
necessità, ma scelse di
non dirlo ad Akkarin. Probabilmente,
rifletté, l’immaginerà
da solo.
«Forse
sarebbe stato
meglio se l’avesse fatto» fu l’amara
risposta di lui.
~
Rasha non
poté far altro
che osservare, mentre la frusta di Dakova si abbatteva ripetutamente
sulla
schiena di Akkarin lacerandogli la pelle.
Tentare di
fuggire era
stata una mossa incredibilmente stupida, eppure lei aveva provato
ammirazione
per l’ardire del mago fatto schiavo. Ogni suo gesto
sottolineava la differenza
esistente tra loro, e al contempo l’affascinava.
Vederlo frustare
le fece
male, ma cercò di controllare il suo sentimento.
Non
c’era nulla che
potesse fare per distogliere il padrone dall’infliggere la
giusta punizione
allo schiavo disubbidiente.
Alla fine,
Dakova lo
gettò a terra e si rivolse proprio a lei:
«Impediscigli di morire», le ordinò
con un ghigno. Prima di tornare alla sua tenda, rivolse un ultimo
sguardo alla
schiena – ormai ammasso informe di carne sanguinolenta
– dell'uomo a terra e dichiarò, a voce
abbastanza alta da risuonare in tutto l’accampamento, che
addomesticarlo
sarebbe stato divertente.
Quando fu andato
via,
Rasha si accostò ad Akkarin e lo trascinò al suo
giaciglio con l’aiuto di due schiavi.
Non era un caso
che il
padrone si fosse rivolto a lei per quel compito; come la maggior parte
degli
altri schiavi, anche lei era stata una contadina, ma sua madre le aveva
insegnato a riconoscere le rare erbe curative che era possibile trovare
nelle
Terre Desolate.
Ne teneva una
scorta nell’eventualità
che il padrone si ferisse, e vi attinse per plasmare un impacco da
stendere con
delicatezza sulla schiena di Akkarin. Le ci volle grande autocontrollo
per
continuare nonostante l’uomo sussultasse per il dolore ogni
volta che lei gli
sfiorava quel che rimaneva della sua schiena.
«Non
saresti dovuto
scappare» gli mormorò quando riprese conoscenza.
«Il padrone non poteva non
punirti, o molti altri avrebbero tentato».
Dalle labbra di
Akkarin
sfuggì un riso strozzato, o almeno lei
l’interpretò così: qualsiasi cosa
fosse,
suonò più come un gemito. «Sei dalla
sua parte» constatò debolmente.
Non era una
domanda; a
Rasha sembrò un’accusa. Rispose con la
verità.
«Non
voglio che ti faccia
male».
Passò
una settimana,
prima che Akkarin riuscisse nuovamente a muoversi; il padrone andava da
lui
ogni sera a sottrargli tutta l’energia e, Rasha lo
scoprì sbirciando una
volta, leggergli la mente.
Dopo quelle
visite, nella
sua tenda, Dakova la guardava in un modo che lei non riusciva a
decifrare.
~
«Guarda
il mio mago
addomesticato della Corporazione, fratello! Non lo trovi
patetico?»
Rasha si trovava
fuori
dalla tenda di Dakova; era corsa lì non appena
l’avevano avvertita che Akkarin
vi era stato portato, quella mattina presto. Il padrone non avrebbe
dovuto,
aveva pensato, il giovane non era ancora guarito del tutto…
La schiava si
pietrificò.
Era indignazione, quella che aveva percepito per un attimo?
Aveva, anche se
solo con sé
stessa, contestato una decisione di Dakova?
Come aveva
potuto? Poteva
fare qualsiasi cosa volesse, lei non era nessuno per mettere bocca
nelle sue
scelte. Il padrone sapeva cos’era giusto per lui, era un
mago! Inoltre,
Akkarin era solo uno schiavo, come lei e gli altri. Non aveva diritti,
anzi, doveva
essere riconoscente per essere stato guarito: in un’altra
situazione, non
sarebbe stato strano se lo schiavo frustato fosse stato lasciato a
morire. Le
erbe mediche scarseggiavano, non si potevano usare per tutti.
Si
lasciò cadere vicino
all’entrata della tenda e si prese la testa tra le mani.
Cosa le stava
facendo
Akkarin?
Lo straniero
aveva uno
strano effetto su di lei; non aveva mai osato giudicare le azioni del
suo
padrone, prima. Questo la terrorizzava.
«Perché
non lo uccidi, Dakova?
Ti darà solo guai». La voce profonda, crudele di
Kariko l’agghiacciò.
Crudele? No, si corresse Rasha, solo
logica.
Akkarin aveva
già
dimostrato di non accettare la vita da schiavo.
«Sciocchezze»
sentì dire
al suo padrone. «La Corporazione è debole. Per
questo l’ho tenuto; leggigli la
mente, Kariko, vedrai come sono patetici!»
Non
passò molto prima che
le risate dei due fratelli risuonassero nell’accampamento.
Rasha trattenne
il fiato
sentendo qualcuno gemere; non aveva dubbi, riconobbe Akkarin.
Osò
affacciarsi per
vedere cosa stesse succedendo. Lo schiavo era a terra, in preda al
dolore.
«Così
ridicolo», stava
ridendo Kariko a qualche passo da lui.
Rasha intravide
un
luccichio nell’aria, poi sentì Akkarin urlare.
Anche Dakova
rideva; poi
rivolse un’occhiata accigliata al suo mago
addomesticato e si accigliò. «Se lo
colpissimo ancora potrebbe davvero
morire», disse al fratello. «È
così debole».
«Cosa
vuoi farne?»
domandò Kariko, ghignando.
Lo sguardo di
Dakova si
accese d’una luce folle. «Lo mostreremo agli altri
Ichani. Li convinceremo a
unirsi a noi per conquistare la Corporazione e vendicarci di quei
dannati
Kyraliani!» spiegò.
Rasha si
ritrasse
bruscamente. Ad Akkarin non farà
piacere,
pensò allontanandosi.
~
Era infine
successo: mesi
di schiavitù avevano piegato Akkarin, ormai totalmente
soggiogato. Ogni traccia
di sicurezza era svanita dal suo sguardo, che ora teneva basso come
tutti i
loro compagni. Non rispondeva al padrone, qualsiasi cosa gli dicesse.
Rasha
pensò, osservandolo
eseguire l’ennesimo ordine, che l’aggettivo che
Dakova tanto amava riferirgli, addomesticato,
fosse tristemente adatto.
Lo vide
inciampare e
cadere sotto il peso del suo carico; lui era l’unico cui
l’energia venisse
tolta ogni sera, e la sua efficienza ne risentiva. Avrebbe voluto
raggiungerlo,
aiutarlo ad alzarsi, dargli una mano con i bagagli, ma non
poteva.
Ancora una
volta, poté
solo osservare mentre Akkarin trovava in qualche modo la forza di
rialzarsi da
solo. Notò poi che Dakova la stava osservando;
chinò lo sguardo e superò il
mago, rassegnata. Gli ordini del padrone
non potevano essere sbagliati.
Era successo
alcuni mesi
prima: si era avvicinata ad Akkarin per controllare la sua schiena,
ormai quasi
guarita. Aveva teso una mano per scostargli la casacca e lui si era
ritratto;
nei suoi occhi aveva riconosciuto un profondo terrore.
Aveva abbassato
la mano,
senza osare chiedere perché.
Il silenzio si
era
protratto, mentre il suo sguardo si addolciva. Le era sembrato in lotta
con sé stesso:
da una parte, c’era la tenerezza che da sempre le riservava,
dall’altra una
paura viscerale. Rasha, non capendo, aveva preferito non dire nulla.
Era stato lui a
spezzare
il silenzio. «Lui lo sa». La voce gli tremava.
«L’ha visto. Sapevo che sarebbe
successo, ma non avevo pensato…» si
bloccò. «Se ti tocco, ti
ucciderà».
Da allora,
avevano dovuto
limitare i contatti. Le capitava spesso di avvertire lo sguardo del
padrone
incombere su di lei, sentendosi stranamente a disagio.
Se ne assumeva
la colpa:
non avrebbe dovuto affezionarsi troppo ad Akkarin. Non era libera; ogni
suo
pensiero doveva andare a Dakova, e a nessun altro. Era giusto, normale,
che lui
la reclamasse. Non poteva pensare
altrimenti.
Akkarin non lo
capiva, o
non lo accettava: più volte le aveva confessato
d’aver sognato la sua morte.
Lei gli aveva sorriso ogni volta. «Se dovessi morire per
essere utile al mio padrone,
lo farei», aveva detto. L’aveva pensato davvero,
anche quella volta credeva di
pensarlo: eppure, qualcosa le era stonato in quella frase, ancora di
più
vedendo l’espressione affranta di Akkarin nel sentirla
pronunciare.
Aveva sperato
che non lo
notasse, e così era stato.
«Ti
sembra tanto strano?»
gli aveva chiesto allora.
«È
ingiusto», aveva
risposto lui, un’eco dell’antico rancore negli
occhi.
Subiva
umiliazioni tutti
i giorni, ma aveva smesso di ribellarsi, cessato ogni resistenza.
E tuttavia si
scaldava
così quando si trattava di lei.
Rasha, nonostante in cuor suo sapesse quanto fosse sbagliato, non
riusciva a non
sentirsi felice, lusingata. Ogni
allegria le passava, però, accorgendosi del dolore che
quell’affetto gli
provocava.
«Hai
fatto un buon
lavoro, legandolo a te» aveva affermato, ridendo, Dakova, una
notte. Lei aveva
sussultato: il padrone non le parlava mai, mentre lei assolveva al suo
compito.
«Rende
tutto più
divertente», aveva continuato lui. «Ma ricorda
sempre a chi appartieni. Se quel
patetico maghetto ti sfiora anche solo con un dito, la pagherete
entrambi».
Dopodiché
l’aveva presa
con più forza del solito, facendole male. Le era sfuggito un
gemito, e Dakova
aveva riso.
~
«Troverò
il modo di
distrarlo. Devi scappare!»
Rasha lo
guardò con occhi
velati di tristezza. «Resisti ancora»,
mormorò. «Pensavo ti fossi arreso».
La sua
passività lo
faceva arrabbiare, se ne accorgeva. Possibile che non capisse che non
poteva
agire diversamente? Lei, semplicemente, era così.
Appartenevano a due mondi
troppo diversi.
«Se
non scappi, ti
ucciderà! Gli impedirò di raggiungerti,
perciò…»
Lei scosse la
testa,
senza rispondergli. Alzò lo sguardo: la luna era ormai alta.
Silenziosamente,
gli scivolò accanto, diretta alla tenda di Dakova.
Era suo dovere,
e
nonostante tutte le parole e i folli piani di Akkarin, lei
sarebbe sempre tornata ad assolverlo.
~
Rasha
seguì lo scontro
con vaga apprensione. Ben presto, infatti, Dakova perse terreno,
indietreggiando in evidente difficoltà. Con un trucco,
riuscì a bloccare
momentaneamente l’avversario, e fu allora che
chiamò a raccolta tutti gli
schiavi. Richiedeva il loro potere, per poter vincere quello scontro.
Mosse un passo
verso di
lui, imitata da molti altri. Il rito d’estrazione
dell’energia iniziò.
Mentre Dakova
passava da
uno schiavo all’altro, Rasha incrociò lo sguardo
di Akkarin. Il mago la fissava
sgomento. Era un’implorazione a non andare, quella che
leggeva nei suoi occhi,
o un’illusione della sua mente?
Non aveva
importanza, si
ricordò decisa. Se anche le avesse chiesto di rifiutarsi
d’aiutare il padrone,
ovviamente non l’avrebbe ascoltato. Sono
solo una schiava, e sono fedele.
Tenne lo sguardo
fisso su
di lui, mentre avanzava verso Dakova. Era così strano che
tenesse alla sua
vita più di quanto non facesse lei stessa.
Strano…
ma dolce.
Tutte le piccole
attenzioni, gli sguardi rubati e le folli proposte di quegli anni le
tornarono
alla mente.
Fu su quelle
che si
concentrò mentre l’energia prendeva a fluire fuori
dal suo corpo.
Sentiva ancora
gli occhi
di Akkarin su di sé, e si chiese se non stesse sognando.
Perché era ancora lì? Se
avesse voluto ancora scappare, quello poteva essere un buon
momento…
Sorrise a quel
pensiero,
senza trovare la forza di rimproverarsi. Lei era una schiava, quello
era il suo
giusto destino: ma aveva sempre saputo che il mago, al contrario, non
era fatto
per quella vita. Tuttavia, era così felice
d’averlo incontrato! Non se n’era
davvero resa conto prima. Le aveva cambiato la vita, regalandole tante
piccole
gioie.
Le
tornò in mente il timido
bacio che si erano scambiati, alla luce di un’alba ormai
troppo lontana. Quella
sera stessa, Dakova li aveva scoperti, e non avevano più
potuto sfiorarsi. Quel
bacio, che le aveva parlato di nuove possibilità, era
così diventato l’ultimo.
Il mago nero
assorbì l’ultimo
briciolo della sua energia e il suo corpo cadde a terra per mai
più muoversi.
Gli occhi rimasero puntati in quelli d’uno schiavo poco
distante, che aveva
osservato tutta la scena con occhi pieni d’orrore.
Akkarin sapeva
bene che
non l’avrebbe mai dimenticata.
Grazie,
per avermi fatta sentire speciale.