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Autore: Subutai Khan    20/08/2018    1 recensioni
La storia procede come al solito. Tranne che per un piccolo, insignificante particolare.
Particolare che qualcuno si è portato sul groppone per decenni.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mukuro Ikusaba
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Non riesco a credere a quanto sto vedendo.
Sto appoggiata alla porta della sua stanza d’ospedale, un po’ discostata dalla frotta di gente che circonda il suo letto.
Il marito Satoshi, i loro quattro figli e sua nipote piccola in braccio al papà.
Ci sono persino i Naegi.
Sono rimasti in contatto per tutto questo tempo, sin da quando loro si sono sposati subito dopo il diploma. Saranno almeno trent’anni che fanno le vacanze assieme.
Ok, con calma. Devo riavvolgere e contestualizzare un po’ di cose per giustificare quella frase d’apertura.
Mi chiamo Mukuro Ikusaba.
Super Soldato, almeno un tempo. Ma è uno di quei titoli che non se ne va mai via per tutto il resto della tua vita.
Quella di cui sto parlando dall’inizio è mia sorella gemella Junko. Una volta si faceva chiamare Enoshima di cognome.
È in un letto d’ospedale perché sta morendo.
Stroncata a quarantasei anni da una strana malattia fulminante con un nome troppo complicato per me.
“E allora cosa stai lì a fare l’asociale, atteggiandoti a ribelle della situazione, invece di essere al suo capezzale negli ultimi momenti? Fila, lavativa!”.
No, mio caro pezzente senza volto. Non lo farò. Per un semplicissimo motivo.
Quella non è mia sorella.
Quella è un impostore.
E io la odio.
Io e Junko siamo state abbandonate in tenerissima età da quei due pezzi di merda dei nostri genitori. Siamo campate d’espedienti, andando a rovistare nei bidoni dell’immondizia e facendo lavoretti di bassissima lega pericolosi e mal pagati. Anche portare panetti d’eroina da un posto all’altro. Tutto per sopravvivere.
Poi la botta di fortuna: io vengo presa nella brigata Fenrir, un gruppo di mercenari; lei viene notata da uno scout e diventa una modella.
Sin da piccola ho adorato le armi e ho sempre avuto una spiccata predisposizione nel maneggiarle. Al contrario lei sapeva sbattere gli occhi come una zoccola d’alto bordo in maniera impareggiabile.
Facciamo esperienza. Nel suo caso anche una discreta fortuna.
A sedici anni riceviamo entrambe l’invito a frequentare la Kibougamine, la scuola per geni da cui esce l’elite del mondo politico, industriale e platinato. Riconoscevano i nostri pregi e volevano che li sviluppassimo al meglio.
Accettiamo.
L’ho rivista dopo anni passati in giro per i campi di battaglia di tutto il mondo. Una volta salite sulla sua limousine, mi ha accolta esattamente nel modo in cui mi aspettavo: ha cercato di cavarmi gli occhi con uno stiletto.
Dovete sapere che Junko, a suo dire sin dal preciso momento in cui è nata, ha vissuto in uno stato di disperazione totale. E ha deciso che, non appena le condizioni sarebbero state ottimali, l’avrebbe condivisa col mondo intero, il quale le sarebbe stato grato del regalo.
Ammetto che ho avuto qualche dubbio in proposito, non mi sembrava una cosa sanissima… ma si parlava della mia gemella, della mia metà. Era l’unica che davvero mi capisce e io ero l’unica che davvero capisce lei. Le sono andata dietro. Mi sono data anima e corpo.
Aveva un maestoso piano di devastazione. Voleva prima far crollare l’accademia sulle ginocchia, dopo averla piagata di colpi alla sua stessa base. Poi quel grumo di putridume sarebbe filtrato fuori dalle mura, andando pian piano a infettare tutto ciò che da esso veniva toccato.
Per farla breve aveva progettato la fine del mondo.
Ma, proprio il giorno in cui si sarebbe dovuto svolgere il Killing Game del consiglio studentesco (primo reale passo della prima metà del progetto), è successo quel maledettissimo incidente.
Una cosa davvero banale, ma che ancora oggi ha delle conseguenze.
Junko Enoshima, il cuore pulsante dell’Ultimate Despair, ha battuto la testa uscendo dalla doccia.
E da lì è cambiata.
Da ora in avanti non la chiamerò più con quel nome. Solo la Junko pre-botta si può fregiare del titolo di Vera.
Quella che respira con fatica nel letto a un metro da me è la Falsa.
È diventata… normale.
Diceva di non sentire disperazione, neanche un grammo. Ha scombussolato tutto, cancellando il Killing Game e ciò che ne sarebbe conseguito.
Non avete idea del disprezzo che ho provato.
Chi era l’alieno che avevo davanti mentre, con lo sguardo placido e un sorriso beota, mi diceva che non voleva far del male a nessuno?
No no no no no no no no. Esci da quel corpo deforme, non entrare in me e vattene via.
Schifosa blatta parassita, libera mia sorella.
Come se non bastasse, la Falsa ha ben pensato di diventare un agnellino timido e amichevole. Sparite la baldanza, la gradasseria e l’incredibile faccia come il culo che l’avevano sempre contraddistinta.
Non so come ha fatto, ma è persino sfuggita alla ritorsione di Izuru Kamukura. Quell’uomo artificiale era venuto a cercarla un giorno, rinfacciandole il suo averlo fatto uscire dalla prigione nelle viscere dell’accademia dopo avergli prospettato la gloriosa strada della disperazione. Se l’è cavata in qualche modo e l’ha convinto a non tirarle il collo. Cosa per cui non lo perdonerò mai.
Ho rimpianto come mai avevo fatto prima l’assenza di Matsuda. Lui sarebbe sicuramente riuscito a riportarla al suo stato naturale.
La faccenda col corso di riserva è stata in qualche modo tenuta a bada dalle alte sfere della scuola, venendo ricondotta su dei binari gestibili.
Tutto in fumo. Diciassette anni della sua, e della mia, vita svaniti nel nulla da un giorno all’altro.
Così, senza motivo.
Odio. Odio immenso e inestinguibile.
L’ho odiata anche in vece della Vera.
Ma, per tutta una serie di motivi, mi conveniva far finta di nulla. Anzi, ho persino dovuto fingere di essere contenta quando la vedevo socializzare con i nostri compagni di classe come se fosse stata un’insensata modella con la testa vuota e la bocca piena. Sì, occasionalmente anche di peni maschili.
Cinque anni è durato questo supplizio. Cinque infiniti, logoranti anni.
Per cinque anni ho vissuto sotto lo stesso tetto con una persona che ogni singola mattina, puntualmente, avrei voluto affogare nel latte e cereali che consumava per colazione.
Anche solo questo dettaglio. Junko non faceva MAI colazione con latte e cereali, non era una di quelle figurine di cartapesta che a volte capita di vedere in televisione.
Lo ripeto, io non ero sicura che l’ideale della disperazione a tutto campo fosse poi ‘sta gran figata. Ma persino quello era decine di volte meglio di ciò che ho dovuto sopportare, di questa fintissima ochetta dai buoni sentimenti. Lo dico per due motivi: il primo è che sono una persona cinica e ‘sta gente non fa altro che irritarmi; il secondo è che, comunque la si volesse girare, quella semplicemente non era la fu Junko Enoshima.
Mi vien da ridere a vedere la gente che la sta circondando or ora. Nessuno di loro ne ha la minima idea, sa cosa ho dovuto ingoiare, sa che la loro adorata moglie/madre/amica non è realmente chi pensano che sia.
Io sono l’unica degna di portare quel peso. Peso che, per fortuna, sta per smettere di ingobbirmi la schiena.
I Naegi si voltano verso di me, facendomi lievi cenni con la testa di avvicinarmi. Mi vorranno rendere partecipe degli ultimi istanti di vita della Falsa.
Rifiuto sdegnata.
La mia risata mentale aumenta. La signora Naegi non ha mai neanche sospettato che la persona con cui faceva il bagno al mare, con cui andava dal parrucchiere e con cui si scambiava pettegolezzi di ogni genere… no, non ha mai pensato per un solo secondo che quella persona, tempo addietro, avrebbe goduto nel vederla morta. Nonostante il titolo con cui era entrata alla Kibougamine. Dilettante.
Ma vedo che l’argomento di questa storia dovrebbe essere il lieto fine. Chiedo scusa per la parentesi da Deadpool.
Qualcuno di ingenuo potrebbe pensare che si sarebbe parlato del lieto fine di Junko.
Oh no, per nulla.
Questo è il mio lieto fine.
Finalmente la Falsa pagherà per l’occupazione abusiva del corpo di mia sorella.
Anzi no, non è esatto.
È il lieto fine anche di Junko. Tralasciando gli scarti che ora le stanno attorno, sono sicura che una conclusione del genere non le sarebbe poi dispiaciuta. Lo diceva sempre, prima di quella doccia fatale: “Dovresti aver capito, cretina di una Mukuro, che non mi importa se la disperazione viene dagli altri o da me. Ma cosa mi devo aspettare dalla più disastrosa delle sorelle?”.
C’è forse disperazione più grande della morte? Io non credo.
Quindi gioisci, mia cara gemella. Stai avendo quello che hai sempre voluto, anche se non sei nelle condizioni di apprezzarlo come meriterebbe.

   
 
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