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Autore: Arwen297    22/08/2018    5 recensioni
One-shot dedicata alle vittime del Ponte Morandi "di Brooklyn". Del 14.08.2018 a Genova.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Ami/Amy, Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Usagi/Bunny | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessuna serie
- Questa storia fa parte della serie 'In memoria degli angeli '
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Il ponte di Brooklyn

Idea di Arwen297 – Personaggi di Naoko Takeuchi

 

 

Dedicata alle vittime del Ponte Morandi

14.08.2018

Genova

 

 

 

«Chibiusa, tesoro forza! E’ tardi, rischiamo di perdere la nave se non fai veloce». La voce di Usagi riempì il silenzio della loro abitazione, Mamoru era già in macchina ad aspettarle, mentre invece la bambina ancora assonnata mescolava pigramente con il cucchiaio il latte tiepido della sua colazione.

Aveva otto anni ed essendo in vacanza per l’estate, alla sera riempiva il suo tempo con tutto ciò che le servisse per non dormire: suo sport preferito era quello di non lasciare dormire i suoi genitori, poco importava - alla piccola – se loro il mattino dopo avrebbero dovuto svegliarsi presto per andare a lavorare.

«Ho quasi finito». Mormorò dopo un sonoro sbadiglio prima di prendere la tazza tra le mani e berne un lungo sorso. Volse lo sguardo verso sua madre e la sua buffa acconciatura giapponese ereditata dalle sue origini nipponiche.

Usagi prese velocemente la tazza sporca dalle mani della bambina e si voltò verso il lavandino per darle una lavata veloce prima di staccare definitivamente l’acqua.

Stavano per partire per la Sardegna come ogni anno. Era ormai una tradizione di famiglia trascorrere li le ultime due settimane di Agosto tutti insieme, fin da quando sua figlia era piccola. Lei e Mamoru amavano quell’isola da sempre, si erano conosciuti li anni prima durante una vacanza con gli amici e poi successivamente avevano scoperto che entrambi erano del capoluogo. Da quel momento in poi non si erano più lasciati, avevano deciso di costruirsi una famiglia e questo avevano fatto fino a quel momento.

Nonostante i loro rispettivi lavori molto diversi e le difficoltà di prendere le ferie nello stesso periodo ogni anno, non erano mai venuti meno a quella tradizione di famiglia.

L’acqua cristallina e la tranquillità che si respirava in alcune piccole insenature nascoste valeva ogni fatica.

A Chibiusa, poi, sembravano piacere il mare e la sabbia sardi, anche se la parte che le era sempre piaciuta di più era quella del viaggio in traghetto. Sarebbero arrivati a destinazione quella sera stessa dopo cena.

La giovane donna mise al loro posto sia la tazza che il cucchiaino, poi si voltò verso la bambina e la spinse fuori davanti a se stessa dopo aver preso borsa e chiavi di casa. Indirizzò la piccola verso la macchina che aveva già uno sportello aperto dietro, poi chiuse la casa e raggiunse Mamoru al volante.

«Finalmente! Speriamo di non fare particolarmente tardi, se becchiamo traffico rischiamo di arrivare al Terminal Traghetti proprio a filo». Commentò l’uomo, bruno dai profondi occhi blu e dall’espressione seria.

«Riusciremo vedrai Mamo-chan». Amava chiamarlo così, con quel “chan” finale che richiamava così tanto la cultura giapponese.

«Lo spero vivamente». Disse lui prima di schiacciare il tasto per aprire il cancello automatico e immettersi nella strada principale. Il viaggio verso il capoluogo non era in se molto lungo, ma l’unico raccordo che avrebbero dovuto attraversare era spesso bloccato per il traffico, per non parlare poi delle macchine in città.

I suoi occhi spiarono la figlia nel sedile dietro, la videro guardare fuori felice e sorrise a sua volta prima di stringere la mano alla moglie appoggiandola sulla sua.

Sarebbero state due settimane bellissime, come ogni anno. Ne era più che sicuro.

«Minako! Ciao sono Usagi, volevo solo avvisarti che stiamo partendo, ti chiamo quando arrivo». La voce della biondina irruppe nell’abitacolo.

«Mamma! Mamma! Voglio salutare anche io la zia Mina». La vocina di Chibiusa irruppe a diversi decibel superiori alla norma.

Con la coda dell’occhio vide la moglie passare il cellulare alla figlia dietro.

«Ciaoooooo zia Minaaaaa, noi stiamo partendooooooo». Gridò la piccola all’interno della cornetta e lui, poté giurarci, sentì chiaramente la cognata ridere a quell’urlo improvviso.

«Tesoro dai, dammi il telefono, la zia è al lavoro non può parlare tanto come quando è a casa». Disse subito sua madre voltandosi nella sua direzione.

 

 

Gli occhi azzurri di Usagi si posarono sulla prima uscita autostradale che indicava che erano finalmente entrati nel territorio del capoluogo, avevano scelto la Riviera di Ponente per vivere per non far crescere la bambina nel clima caotico cittadino.

L’ora di viaggio era passata velocemente grazie – anche – alla musica per bambini che aveva inserito appositamente per cantare e rendere il viaggio più piacevole, nonostante fossero infantili quelle canzoni piacevano anche a lei, ben lontane dai toni più seri e grigi di quelle per adulti, si adattavano perfettamente al clima vacanziero che si respirava all’interno della loro macchina a discapito delle nuvole nere che al contrario ricoprivano la volta celeste donando una luce scura e quasi infausta alla pioggia che scendeva accompagnata da diversi tuoni.

«Chibiusa stai pronta che tra un po' passiamo sul ponte che ti piace tanto». Disse Mamoru a un certo punto, erano ormai quasi vicino all’uscita dell’aereoporto, dopo la quale ci sarebbe stato il raccordo di regola bloccato ogni giorno dal traffico.

Da una parte sperava ci fosse un po’ di coda come tantissime altre volte, in modo da dover rallentare e permettere alla bambina di guardarsi intorno, dall’altra sapeva che con l’allerta meteo e le trombe d’aria del giorno prima nessuno si era mosso per andare al mare e sarebbe stato dunque più scorrevole del solito il traffico.

Dopotutto fino a quel punto non avevano trovato rallentamenti significativi sul percorso. Erano, a discapito delle previsioni, in perfetto orario e probabilmente sarebbero arrivati proprio nell’ora in cui avrebbero dovuto per non fare tutto di corsa.

Il chiarore dell’uscita della galleria illuminò i loro occhi, istintivamente rallentò appena non sapendo che quantità di pioggia avrebbe investito la macchina appena usciti dalla galleria, certamente non minima vista l’allerta diramata il giorno prima.

«Ecco tesoro, guarda». Usagi si voltò anche lei a guardare il panorama di Genova vista dall’alto, la velocità dell’auto leggermente più lenta di pochi istanti prima a causa dell’acquazzone.

Inizio del ponte.

Un quarto.

Due quarti.

Un tuono.

Un fragore improvviso colpì le loro orecchie quando erano alla metà esatta del viadotto.

Una luce bianca dietro la loro macchina illuminò il panorama.

Persero immediatamente aderenza. La visuale si inclinò troppo per essere solamente uno sbandamento.

«Mammaaaa che sta succedendo». A Usagi arrivò solamente l’urlo spaventato della figlia, mentre il terreno si avvicinava sempre di più senza che lei ne capisse la causa.

Ma non seppe darle risposta.

Non ebbe tempo a sufficienza.

Buio.

 

***

 

Michiru guardò l’orologio appeso al muro azzurrino del suo studio situato nel reparto di Psicologia dell’ospedale principale cittadino. Segnava mezzogiorno meno venti. Da li a mezz’ora avrebbe finalmente portato a termine il turno, quel mattino era stato più impegnativo del solito a causa di alcuni casi particolarmente impegnativi che stava seguendo da qualche mese.

Solitamente cercava di distribuirsi i pazienti più complessi in giornate diverse, o se proprio non era possibile li distribuiva sia sul pomeriggio che nella mattinata.

Quel giorno non le era stato possibile, uno di loro – infatti – doveva svolgere altri esami importanti per accertare il suo stato di salute psico-fisica e aveva tutto il pomeriggio ormai strutturato. L’altro, invece non aveva voluto spostare per motivi personali l’appuntamento.

Guardò il telefono, Haruka non le aveva scritto niente, probabilmente aveva avuto particolarmente da fare quel mattino in Caserma.

Sospirò appena riordinando le carte, mise poi il registratore su cui aveva appena finito di appuntare le sue prime impressioni sulle sedute di psicoterapia di quel giorno, sperava con tutta se stessa che non arrivasse qualche caso da valutare immediatamente in quell’ultima mezz’ora.

La notte precedente non aveva dormito molto e la stanchezza iniziava a farsi sentire. Stese le braccia dietro di se come a sgranchirsi la schiena per poi alzarsi e osservare il mondo dalla finestra del suo studio.

Il polo universitario era sempre frequentato da un sacco di ragazzi, fino a qualche anno prima anche lei aveva transitato qualche volta per gli edifici universitari, specialmente durante la stesura della tesi. Sorrise. Al pensiero del suo primo incontro con Haruka, avvenuto proprio a causa di un suo intervento con la squadra per salvare uno dei gatti che circolavano in quella zona, arrampicatosi su un albero troppo alto da cui poi non era stato in grado di scendere.

Il caso aveva voluto che lei passasse di li proprio in quel momento. E la sua compagna aveva saputo fare il resto.

Il silenzio fu interrotto dal suono del interofono dell’ospedale, solitamente usato dal direttore generale per allertare tutta la struttura e il personale presente in caso di emergenza.

Cosa sarà successo adesso. Fu il suo immediato pensiero prima che la voce dell’uomo raggiungesse le sue orecchie.

«A tutto il personale, ripeto comunicazione rivolta a tutto il personale, siamo in stato di emergenza. Grave crollo del viadotto dell’autostrada conosciuto come Ponte Morandi. Tutto il personale stia pronto ad accogliere tutti i feriti al pronto soccorso».

Non appena il suono di fine comunicazione interruppe il segnale, si mosse velocemente per raggiungere il corridoio, come direttrice del reparto era suo compito organizzare il lavoro del’equipe di psicoterapeuti che collaboravano con lei ogni giorno.

Dopo aver aperto la porta li vide spuntare allarmati da diversi punti del corridoio, quel giorno in turno ve ne erano solamente tre oltre a lei, avrebbe chiesto all’Ospedale di chiamare tutti in servizio, non conoscendo l’entità della tragedia, capire a priori quanti professionisti sarebbero serviti era impossibile.

«Venite tutti qui, veloci». Esclamò con un tono che non ammetteva repliche. «Esigo da voi la massima lucidità e voglio che tiriate fuori tutte le vostre competenze in materia. Sapete bene quale è il nostro compito quando succedono emergenze simili, ci divideremo tra i familiari che aspettano notizie dei propri cari e chi è sopravvissuto al crollo. Chiederò il rientro in servizio di tutto il reparto di psicologia e psichiatria, intanto voglio tutti gli psicologi pronti per entrare in azione. Io convoco il personale assente e vi raggiungo immediatamente». Disse guardando i colleghi uno per uno. «Avete ben chiaro il protocollo da utilizzare in questi casi?». In molti di loro annuirono. «Ok, allora al pronto soccorso e alla sala di accoglienza, veloci».

Li vide muoversi diretti prima nel loro studio, probabilmente per prendere il cellulare con cui avvisare la famiglia, poi li osservò dirigersi verso gli ascensori che portavano al piano terra e successivamente al pronto-soccorso.

Lei, invece, si diresse all’accoglienza del reparto per parlare con l’infermiera.

«Chiara scusami, voglio che chiami tutti i colleghi assenti, compresi quelli che sarebbero in ferie». Le spiegò velocemente, guardando lo schermo dell’iphone.

Ancora nessun messaggio di Haruka, ma vista la tragedia era prevedibile il fatto che era sul luogo della catastrofe.

«Certo, chiamo immediatamente tutti». Sorrise.

«Se qualcuno dei pazienti ricoverati da in escandescenze per favore chiami me, non gli psicoterapeuti di riferimento, come direttore del reparto sono a conoscenza di tutti i casi, posso darle indicazioni io su come comportarsi, voglio che tutta la concentrazione dei ragazzi sia rivolta alle vittime del ponte».

«Mi sembra il minimo dottoressa Kaioh, sperò vivamente che non ci siano troppi feriti».

«Spero anche io, ora scusami ma il dovere mi chiama». Si congedò dalla ragazza diretta dai colleghi che l’avevano preceduta.

 

La dottoressa Mizuno era in silenzio in quello che era il punto di arrivo delle ambulanze nella struttura ospedaliera, intorno a lei erano quasi un centinaio tra medici, primari, infermieri, operatori socio-sanitari, specializzandi, volontari delle ambulanze, anestesisti.

Nell’ampia stanza si respirava un clima di attesa e tensione, era passata mezz’ora dalla comunicazione arrivata improvvisamente, ma ancora nessuna ambulanza a sirene spiegate si era palesata, nessun elicottero dei soccorsi era volato sui tetti cittadini.

Per lei che era relativamente con pochi anni di servizio alle spalle era la prima emergenza di questo tipo, la tensione e il mutismo dei colleghi era quasi insopportabile.

Dentro di se sperava che nelle ore successive ci fosse molto da fare, che i feriti non smettessero mai di arrivare perché voleva dire che c’erano pochi decessi in loco e avrebbero potuto tentarle tutte per salvare più vite possibili.

Le sembrava tutto così surreale, così frutto della fantasia di qualche autore macabro ma era tutto vero.

I suoi occhi blu, si posarono sui suoi colleghi e dalle loro espressioni poté giurare che anche loro provavano esattamente le stesse emozioni, gli stessi pensieri che giravano nella sua mente. Vide il reparto di Psicologia raggiungerli, pochi minuti dopo anche il Primario del reparto. La dottoressa Michiru Kaioh con cui aveva da subito cucito un buonissimo rapporto, la stimava molto sia come collega, sia come persona. Le rivolse un cenno di saluto a cui la donna rispose quasi subito, con un sorriso.

Nonostante la preoccupazione, la psicologa riusciva comunque a sorridere. Forse era merito del corso di studi che aveva frequentato. Forse era una tecnica per rassicurare comunque le vittime e i loro parenti.

Non ne aveva idea, ma quel sorriso muto - un poco - rincuorò anche lei.

 

***

 

«Sei un cazzone Paolo!». Esclamò sorridendo beffarda. «Non mi dire che ti devo spiegare come stare tra le gambe di una donna cazzo». Haruka tuonò nel silenzio della caserma. «Devi farla godere una donna, non devi mica giocarci a briscola porca puttana!». Era incredula, il suo collega erano mesi che ci provava con una ragazza che, a detta sua gli piaceva. Ma ancora, non era riuscito a scoparsela. Per lei tutto ciò era inconcepibile.

«Tenoh cristo dio non sono mica tutti come te, che basta che schioccano le dita e trovano quintali di figa dietro la porta di casa». Maurizio, Max per la squadra, piombò in difesa del collega.

«Sono mesi che si frequentano e ancora non è arrivato in tana, penso che abbia proprio bisogno di qualche manuale d’uso». Scoppiò a ridere senza potersi trattenere all’occhiataccia che arrivò in risposta dal diretto interessato. Per quanto volesse bene ai suoi colleghi, i loro discorsi erano ben fuori dalla sua portata e dal suo modo di ragionare.

Il suono dell’allarme che dichiarava un’urgenza su cui intervenire interruppe il loro discorso improvvisamente, fu lei la prima a scattare per andare a raggiungere il telefono interno con cui comunicavano all’interno della Caserma dei Pompieri.

«Sono Ruka, cosa succede?». Disse veloce, anche se il suo istinto le suggeriva che non era in arrivo niente di buono, anzi.

«Diversi cittadini hanno chiamato per segnalare il crollo del ponte Morandi, serve intervento immediato di tutte le squadre disponibili sul territorio cittadino». L’uomo al di la della cornetta spiegò velocemente.

«Benissimo interveniamo subito». Tagliò corto lei, prima di chiudere e rivolgersi agli altri componenti del gruppo, improvvisamente seri.

«E’ crollato il viadotto dell’autostrada sul Polcevera. Intervento immediato. Servono almeno due Autoscale e tutta la strumentazione del caso». Negli occhi dei colleghi lesse solo sgomento. «Cazzo fate?!? Muovete il culo, non è il momento di fare le donnicciole sconvolte, c’è gente che è sotto le macerie e ha i minuti contati». Tuonò bruscamente, gli altri a quelle parole sembrarono ridestarsi da un lungo sonno e iniziarono a muoversi per adempiere ciascuno al proprio dovere.

Haruka si mosse a sua volta per indossare tutta l’attrezzatura necessaria per questo tipo di interventi, come caposquadra esperto toccava a lei dirigere gli altri e mantenere i contatti con i capi reparti per coordinarsi.

Sentì i movimenti e le urla degli altri in caserma che iniziavano a prepararsi esattamente come loro, avevano davanti ore estenuanti sia a livello psichico che fisico. Ne erano tutti pienamente consapevoli.

Prima di salire sui mezzi controllò velocemente il telefono con il pensiero a Michiru che sicuramente era stata bloccata in ospedale perché già partita l’allerta. Non si sarebbero riuscite a vedere per chissà quanti giorni a causa dei loro turni.

Un suo collega prese posto al volante, mentre lei si limitò a salire sul posto accanto, una chiamata dal caporeparto che stava seguendo gli interventi le fece squillare il telefono che utilizzava solamente per il lavoro.

«Mi dica». Rispose immediatamente. Pronta a comunicare i nuovi ordini alla squadra.

«Stanno per partire degli elicotteri da fuori regione con le unità cinofile di ricerca sotto le macerie per i vigili del fuoco. Il tempo di organizzare la partenza e decollano, saranno in loco tra un’ora massimo due per darvi una mano».

«Bene, noi stiamo per uscire dalla caserma, tutti, saremo li tra mezz’ora massimo». Spiegò velocemente.

«Massima attenzione quando siete li Tenoh, non dimenticate mai la vostra sicurezza personale». Ribattè l’uomo. «Ci vediamo li, se ho aggiornamenti utili prima del mio arrivo chiamo prima».

«Si a dopo». Si limitò a dire la bionda, prima di chiudere la comunicazione, prendere il suo telefono e digitare un messaggio per Michiru.

Avvisarla, anche se la sua compagna sicuramente già sapeva e immaginava, le sembrava la cosa più giusta da fare.

 

Quando il mezzo su cui viaggiava svoltò per la strada che costeggiava il fiume i suoi occhi verdi si posarono sul vuoto visivo causato dalla parte crollata, corse velocemente con lo sguardo al sottoponte per valutare velocemente la quantità di detriti che erano caduti portando con se le macchine che stavano percorrendo il tratto in quell’istante.

Pochissimi istanti più tardi arrivarono a destinazione, il suo collega spense immediatamente il motore e aprirono gli sportelli.

Gli occhi di lei si posarono proprio sul camion che aveva notato poco prima. L’autista era ancora presente all’interno dell’abitacolo, forse c’era speranza che fosse ancora vivo.

«Ragazzi! Muoversi! Bisogna arrivare immediatamente al camion, l’autista è ancora dentro, forza!». Urlò agli altri prima di muoversi a prendere l’attrezzatura. «Metà squadra si occupi del camionista l’altra metà inizi con me a occuparsi delle ricerche sotto le macerie».

I suoi uomini si mossero senza dire una parola, lo sgomento iniziale per la notizia aveva lasciato spazio durante il tragitto alla lucidità necessaria per intervenire senza mettere in pericolo se stessi.

Sebbene nel cuore di ognuno di loro albergava la paura di trovare qualche parente o amico li sotto durante le ricerche di salvataggio.

Un’altra squadra arrivata sul lato opposto del fiume stava già passando in rassegna una macchina caduta giù, il paraurti schizzato molti metri più avanti. Il suono delle ambulanze pronte a portare i feriti negli ospedali giunsero alle sue orecchie mentre si avvicinava alle macerie, era necessario assicurarsi che non ci fosse pericolo imminente di crollo per le parti già crollate.
 

***
 

Ami guardò l’orologio che portava al polso, era passata un’ora dall’allerta ricevuta da parte del direttore generale, eppure nel pronto-soccorso regnava ancora il silenzio.

Non erano ancora stati portati feriti, nessuna ambulanza aveva fatto il suo ingresso e per loro che di queste cose se ne intendevano. Non era buon segno.

Quel silenzio sapeva di morte, se nessuno veniva portato per le cure, voleva dire che ancora non erano state trovate persone vive sotto al ponte.

Era li in attesa come tutti, probabilmente facendo gli stessi pensieri delle altre persone. Non erano ancora arrivati nemmeno i parenti alla ricerca dei propri cari, il reparto di psicologia era in attesa quanto loro per offrire la prima accoglienza.

Sembravano minuti eterni, come se ogni istante durasse in realtà un giorno intero. Non vi era mai stata attesa più logorante di quella che stava vivendo in quel preciso istante.

Dopo un tempo imprecisato quel cupo silenzio fu interrotto da un elicottero che volava sopra l’ospedale e il rumore inconfondibile di un’ambulanza che si avvicinava a loro a grande velocità.

Ci siamo, finalmente. Speriamo non sia l’unico.

Fu il pensiero della donna. Gli sguardi di tutti gli altri illuminati dalla voglia di fare, aiutare e credere fino in fondo che ne avrebbero salvati tanti.

«E’ un codice rosso». Il direttore del pronto-soccorso irruppe qualche istante più tardi dopo aver messo giù a chi era all’interno dell’ambulanza.

A quelle parole due infermiere prepararono già la barella, sapevano per certo che erano state attivate tutte le sale operatorie disponibili nella struttura e tutti i macchinari per eventuali esami specifici. Compresi i tecnici che si occupavano del loro utilizzo ogni giorno.

Ami si fece avanti seguendo il primario del suo reparto a un suo gesto, toccava a loro agire.

Improvvisamente ciò che era surreale divenne reale. Tangibile. Portandosi dietro lo scuotimento emotivo di ciò che era realmente successo.

L’atmosfera ovattata che si era momentaneamente creata nell’attesa esplose immediatamente come una bolla di sapone troppo fragile.

Ora la prima vittima dell’incidente era li, sotto i loro occhi. Ricoperta di polvere e sangue, con lesioni gravi a giudicare dallo stato generale del paziente.

Sarebbe dovuto andare in sala operatoria immediatamente, sperando di poterlo salvare. Era pienamente d’accordo con il Primario del suo reparto.

«Preparate la sala operatoria immediatamente». Disse l’uomo. «Mizuno lei viene con me, ho bisogno delle sue competenze anche durante l’intervento». Le venne ordinato, poi egli volse l’attenzione a una delle infermiere. «Mentre lo trasferite nella sala operatoria al primo piano interrato per prepararlo all’anestesia ho bisogno che gli venga fatto l’emocromo e il biochimico, mi serve valutare lo stato generale. Voglio i risultati immediatamente».

«Si dottore». Fu la pronta risposta dell’infermiera davanti a loro mentre preparava laccio emostatico e siringa per il prelievo.

«Dottore vado a prepararmi per la sala operatoria». Esclamò Ami.

«Si dottoressa, sia veloce però, bisogna intervenire immediatamente se vogliamo cercare di salvargli la vita». Si rivolse a una seconda infermiera. «Voglio anche un ecografia per valutare gli organi interni, abbiamo sicuramente un’emorragia interna in atto».

Ami si mosse immediatamente verso l’ascensore per scendere al piano di sotto. Ormai conosceva quell’ospedale come le sue tasche, lavorava li da anni.

Arrivo dopo cinque minuti nel corridoio delle sale operatorie, erano già presenti gli anestesisti.

«Arrivato il primo codice rosso, serve immediatamente un intervento state pronti, io mi devo vestire, ma tra massimo una ventina di minuti arriverà qui il paziente e bisogna iniziare subito se vogliamo provare a salvargli la vita». Diede disposizioni ai colleghi. Poi si diresse nella stanza preposta al cambio dei vestiti, per indossare i pantaloni e la maglia verde, corredati di mascherina e cuffia.

 

***

 

Erano passate ormai quattro ore da quando erano giunti sul luogo del disastro. Il caldo delle ore di punta era stato pesante da sopportare durante i primi lavori per le ricerche. Haruka passo una mano sulla fronte per asciugarsi il sudore che le bagnava la fronte, erano state ore di lavoro senza sosta. Due ore prima erano arrivate le unità cinofile dei vigili del fuoco e le ricerche avevano iniziato a procedere in modo più preciso, fino a quel momento, però la maggior parte delle vittime era stata trovata già deceduta.

Probabilmente il colpo preso era stato troppo forte per sopravvivere. Ma nessuno di loro si dava per vinto, anche se man mano che il tempo passava sarebbe stato sempre più difficile trovare qualcuno ancora in vita.

Uno dei cani da ricerca le passò veloce il muso vicino alla sua faccia scodinzolando prima di tornare ad annusare le macerie seguito dal suo compagno di lavoro e di vita.

Bevve velocemente un sorso di acqua fresca portatele gentilmente da un collega giunto da fuori per sopperire all’emergenza e permettere comunque a tutti di rispettare dei turni di riposo.

Il sorso si trasformò ben preso in un finire tutta la bottiglietta. La buttò dietro le sue spalle per non perdere tempo a portarla di sotto. Avrebbero poi ripulito tutto in un secondo momento.

L’ unità cinofila che l’aveva appena superata per scendere dalle macerie e perlustrare la zona in basso, vicino alla base dei detriti, in un punto in cui i pezzi erano molto più piccoli ma ben incastrati iniziò ad abbaiare puntando un punto ben preciso.

«Ragazzi! Ragazzi! Il cane ha segnalato la presenza di una persona, alzate il culo. Bisogna agire velocemente». Richiamò subito i colleghi nelle vicinanze, mentre il cane veniva tirato via dal proprio compagno in divisa.

Tenoh scese immediatamente nella zona indicata dal cane, sembrava essersi formato uno spazio tra due detriti, i suoi occhi verdi fissarano bene l’interno dello spazio creatosi. Nessun lamento umano giungeva dal suo interno.

Non è positivo questo silenzio, spero siano ancora vivi ma non mi fa ben sperare tutto questo.

Pensò. Mentre i suoi occhi scorsero chiaramente delle lamiere di auto accartocciate, ma libere da massi. Alcuni punti erano sporchi di sangue. Iniziò a spostare le pietre più piccole in modo da liberare il passaggio, un secondo collega si mise a darle una mano.

Parecchio tempo più tardi erano riusciti a spostare tutti i detriti che chiudevano il passaggio di quello spazio che si era venuto a creare.

Quelle camere d’aria che a volte salvavano le persone da morte certa.

«Tenoh, cazzo! Stai attenta è pericoloso». La voce di Max piombò dietro di lei nel momento in cui si introdusse nello spazio ristretto.

L’odore della polvere e della ruggine dei tondelli di acciaio la colpì in pieno non appena iniziò a camminare, susseguiti da quello che aveva imparato a riconoscere come l’odore del sangue.

Strisciò tranquillamente sulle braccia, facendo attenzione a non scontrare troppa roba per non provocare un crollo.

Era ormai sotto con quasi la maggior parte del corpo quando davanti ai suoi occhi si palesò il piccolo corpo di una bambina di sette o otto anni a vederla. Bianco, il piccolo viso sporco di sangue.

Si affrettò subito verso la piccola, per accertarsi che non ci fosse davvero più nulla da fare, deglutì più volte per cacciare indietro la rabbia per quella giovane vittima.

Ciò che temeva di più era vero: la fanciulla non respirava più.

«Vaffanculo mondo di merda!!! Se c’è un Dio non capisce proprio un cazzo di come dovrebbero andare le cose in questo fottuto pianeta».

Si, doveva rimanere lucida, il suo lavoro le chiedeva di farlo in momenti critici come quello che stava vivendo in prima persona.

Ma la rabbia era forte, trovare una bambina così piccola, trovarla deceduta, sapere che probabilmente avrebbero trovato nell’automobile anche i genitori era qualcosa di straziante. A cui tutta la preparazione professionale non ti preparava. Lei ne aveva già visti parecchi di decessi nel corso della sua carriera, ma in quel momento si sentiva toccata profondamente da quel corpicino inerme.

«Caposquadra tutto bene?». Era sempre Max a parlarle da fuori. Si limitò a non rispondere, afferrò solamente il corpicino della bambina.

«Tiratemi fuori...tiratemi fuori da qui per favore». Disse cercando di mantenere la voce ferma, sentì le mani dei colleghi prenderla per le caviglie, come volevano le procedure in quei casi e tirarla piano piano fuori.

Vide la luce del sole con la bambina tra le braccia. «Avvisate i medici dell’ambulanza. Abbiamo trovato una famiglia intera, i genitori sono ancora sotto, credo che siano morti tutti. Voglio che vengano portati in ospedale tutti insieme quindi mettiamoci al lavoro per estrarre quei corpi da quelle lamiere, questa bambina non merita di andarsene via senza la sua mamma e il suo papà».

Mormorò con la voce tremante, aveva bisogna di una ventina di minuti di pausa, doveva riprendersi da quel piccolo shock che le aveva provocato il ritrovamento.

Non riusciva a rendersi conto di come il destino poteva essere così crudele anche con delle piccole vite innocenti, arrivate al mondo da pochissimi anni.

«Io ho bisogno di qualche minuto di pausa, scusatemi». Disse ai colleghi.

«Si capo». Disse uno. Prima che lei scese a consegnare la piccola a uno dei medici che aspettava di sotto per prenderla in consegna e aggiungerla ai decessi.

Si sedette su un pezzo del ponte alto il giusto per farle da sgabello. No, non trovava un senso a quel ritrovamento, perché strappare alla vita chi era così in tenera età e aveva un mondo da scoprire?

Il viso della bambina senza nome le tornò in mente non appena chiuse gli occhi per qualche istante, non poté fare a meno di sovrapporre il visino impolverato a quello di Hotaru, la nipote di Michiru, figlia di una sorella acquisita. Era già capitato che la sua compagna la dovesse tenere quando erano insieme.

A pensare che potevano esserci loro sotto quel ponte attraversato un milione di volte sentì una rabbia quasi cieca salirle da dentro.

«Vaffanculo». Sibilò tra i denti. «Vaffanculo». Il piede destro che andò a colpire una delle pietre del greto del fiume in cui era in quel momento. «Vita di merda».

«Tenoh!». La voce del Capo Reparto la chiamò da uno dei margini del fiume. La bionda si girò a guardarlo e vide chiaramente che la stava chiamando, probabilmente doveva avvisarla di qualcosa.

«Cazzo, un attimo di respiro non si può». Ringhiò tra i denti, avviandosi dal suo superiore, lo raggiunse in pochi minuti. «Mi dica».

«Servono due tre squadre che si occupino di far abbandonare le abitazioni alle persone che abitano sotto ai monconi del ponte, potete occuparvene voi?». Si sentì chiedere.

«Con tutto il rispetto, ma abbiamo appena trovato una bambina deceduta, e credo che li sotto ci sono ancora i suoi genitori. Finché non estraiamo anche i loro corpi la mia squadra non lascerà il campo, non voglio mandare la bambina all’obitorio da sola». Disse lei senza quasi ammettere tono di replica, sono cose che non tollerava quelle.

Se era così urgente avrebbero mandato un’altra squadra a far uscire gli abitanti dalle loro case.

«Si Tenoh, ho visto mi hanno avvisato i medici, d’accordo manderò un’altra squadra che non abbia già individuato delle vittime sotto a questo inferno».

«Ha detto bene, questo è un inferno in terra». Tagliò corto lei. «Con tutto il permesso torno dai miei uomini, ci sono delle vite da salvare». Odiava le chiacchiere senza uno scopo quando erano impegnati sul campo. Le aveva sempre odiate e in quel momento non sarebbe stato diversamente.

 

***

 

Minako era ancora al lavoro quando aveva sentito della notizia del crollo del viadotto, teoricamente sarebbe dovuta rimanere al lavoro fino a quel pomeriggio. Dopo aver provato a chiamare la sorella, trovando un cellulare che squillava a vuoto senza risposta aveva chiesto al suo datore di lavoro di lasciarla uscire.

Aveva successivamente chiamato anche Mamoru, trovando però la segreteria telefonica, cosa a dir poco strana dato che l’uomo non spegneva mai il cellulare, nemmeno quando era in vacanza.

Erano ormai ore che provava a rintracciarli, senza risultati. Trovò il primo parcheggio libero nei posteggi interni all’ospedale. Raggiungere la struttura principale, dove sapeva avrebbero portato le vittime le era sembrata la cosa più facile da fare.

Aveva con se una delle ultime foto fatte con sua sorella, il cognato e sua nipote ancora sul cellulare. L’ansia era tremendamente aumentata con il passare delle ore senza notizie.

Doveva sapere.

Aveva diritto di sapere.

Sospirò profondamente nel tentativo di ritrovare la calma che ormai aveva lasciato non sapeva nemmeno lei dove. Raggiunse l’ingresso dell’ospedale, e si piombò in quello che era l’ingresso dell’ospedale.

«Signorina, posso esserle d’aiuto?». Un infermiera alla reception la fermò immediatamente, consapevole che poteva avere davanti un parente di qualche vittima.

«Sto cercando notizie di mia sorella, dovevano arrivare qui in città per prendere il traghetto ma non mi rispondono al telefono e avrebbero dovuto passare sul ponte che è venuto giù circa a quell’orario». Spiegò velocemente cercando di mantenere la calma.

«Ok, si accomodi nel corridoio che vede li di fronte, ci sono persone qualificate a gestire questi casi». Le fu indicato con lo sguardo il corridoio da prendere.

«Ma si sa già qualcosa? Ci sono delle vittime?». Si pentì quasi di quella domanda impulsiva, sapere che erano stati trovati dei corpi, avrebbe solo aumentato la sua ansia.

«Non posso dirle nulla io, mi dispiace. Vada dove le ho indicato stanno gestendo li l’emergenza». Fu la risposta che ottenne. Da una parte ne fu quasi sollevata, dall’altra la rabbia di non poter sapere subito la fece innervosire.

La innervosì anche la tranquillità dell’infermiera, possibile che con tutto ciò che stava succedendo in città quella donna fosse così tranquilla e serena? Ma parenti lei non ne aveva?

Si diresse a passo svelto nel corridoio che le era stato indicato.

Una volta arrivata a destinazione fu accolta da una giovane dottoressa dagli strani capelli verde acqua e dagli occhi blu.

«Buona sera, posso aiutarla in qualche modo?». Si sentì chiedere dalla donna.

«Sono Minako, sto cercando di avere notizie di mia sorella, mia nipote e mio cognato...dovevano partire oggi per le vacanze ed erano in zona viadotto al momento del crollo, in teoria. Ho provato a chiamarli a ogni semaforo ma lui ha il telefono irraggiungibile e lei non mi risponde». Spiegò una seconda volta nella speranza di avere notizie certe.

«Ok, intanto io sono la dottoressa Michiru Kaioh, sono la direttrice del reparto di Psicologia dell’ospedale, io e i miei colleghi ci occupiamo dell’accoglienza dei familiari delle vittime. Può darmi i nomi dei suoi parenti? Appena avremo notizie certe le faremo sapere sicuramente qualcosa intanto si accomodi qui».

«Si certo, Marzio Chiba, Usagi Tsukino e Chibiusa Chiba». Disse. «Non c’è modo di sapere qualcosa già? Sono molto in ansia, non so più a chi chiedere o cosa fare».

«Stia tranquilla, le autorità competenti hanno tutto sotto controllo, man mano che trovano dei feriti o dei deceduti e hanno i nominativi certi avvisano tutti gli ospedali, bisogna solo avere un po’ di pazienza e far fare a tutti il loro lavoro». Michiru sorrise dolcemente sedendosi accanto alla ragazza, poteva solamente immaginare il suo stato d’animo in quel momento. «Parlare di loro può farla sentire meglio? Sono qui ad ascoltarla».

«Dottoressa, la bambina ha solo otto anni, capisce? Se le fosse successo qualcosa di grave, se non ci fosse più. Ha solo otto anni, era la mia gioia. Anche mia sorella, sa, siamo gemelle ci assomigliamo molto siamo sempre state molto unite. Il pensiero che non ci sia più...io». La voce le si ruppe per il forte nodo alla gola.

Perché, si. Improvvisamente aveva quasi la certezza che almeno sua sorella non ci fosse più.

Aveva sempre sentito parlare del legame tra gemelli.

Tra loro si era manifestato in diverse occasioni.

Nel momento esatto in cui aveva pronunciato quelle frasi però, aveva avuto come la sensazione che qualcosa dentro di lei si rompesse.

«Certo, se eravate sorelle gemelle eravate molto unite, è comprensibile. I gemelli hanno un legame quasi viscerale». Continuò la psicologa, senza smettere di valutare anche la più minima reazione.

«Dottoressa se mia sorella fosse morta..io non so come faccio a superare questo dolore, non ho la minima idea di come fare...lei, la bambina..era la nostra forza». Continuò a parlare dopo qualche istante.

«Io e i miei colleghi siamo qui appositamente per aiutare in queste situazioni». Si alzò dalla sedia. «Vado a comunicare i nomi dei suoi familiari a chi di dovere». Disse dopo qualche istante. «Ha una foto da farmi vedere così do un minimo di identikit ai carabinieri che sono qui in reparto e si stanno occupando di incrociare le informazioni date dagli eventuali parenti con ciò che arriva da chi sta facendo le ricerche?».

«Si certo, eccola». La biondina fece vedere subito lo schermo del cellulare, tirando su con il naso, non voleva crollare. Non era il momento, magari erano ancora vivi, ed era solo una casualità il fatto che non rispondessero.

«Posso chiederle il cellulare qualche minuto? Faccio vedere la foto ai carabinieri». Le fu chiesto dalla dottoressa.

«Certo si, faccia tutto ciò che ritenga giusto fare, voglio solo notizie certe della mia famiglia». Rispose con la voce tremante. Erano già passate troppe ore per quanto la riguardava, ogni minuto che passava sembrava lungo un’eternità. Ogni minuto che passava in cuor suo sapeva che era sempre più deboli le speranze di ricevere buone notizie.

Con lei in corsia altri familiari che aspettavano le sorti del loro destino. Vide Michiru allontanarsi per sparire in fondo alla corsia, impiegò poco a dare i nominativi alle forze dell’ordine, la vide tornare con un caffè caldo tra le mani.

«Credo ne possa avere bisogno». Si sentì dire, una volta che la donna le fu vicina.

«Grazie dottoressa». Prese con piacere il bicchierino, a causa dell’ansia non aveva nemmeno mangiato a pranzo, il suo stomaco si era totalmente chiuso.

«Dovere». La donna le sorrise. «Vado a sentire le altre persone, per qualsiasi cosa mi chiami pure anche solo per scambiare un discorso o qualche parola se ha bisogno e ne sente la necessità, non si preoccupi di disturbare. Io e i miei colleghi siamo qui per questo. Ci siamo divisi i familiari in gruppi per seguirvi meglio, altri sono rimasti liberi per assistere psicologicamente i feriti».

 

 

Erano passate altre tre ore durante le quali nessuno le aveva ancora comunicato nulla, sentiva di essere sull’orlo di una crisi di nervi, specialmente dopo aver assistito ad altri familiari ricevere notizie non felici.

La dottoressa che l’aveva accolta era passata più volte a chiederle se aveva bisogno di qualcosa, domanda alla quale si era limitare il capo in segno di negazione. Non voleva nient’altro che notizie certe. Anche se dentro di se in fondo sapeva che più passavano le ore e più il verdetto sarebbe stato infausto.

I suoi occhi azzurri si posarono per l’ennesima volta sui due carabinieri che avevano fatto la loro comparsa dall’altro lato del corridoio, vicino all’ingresso più esterno.

Che fosse la volta buona? Probabilmente si!

«Chi stava cercando Marzio Chiba, Usagi Tsukino e Chibiusa Chiba?». Uno dei due membri delle forze dell’ordine pronunciò quei nomi, con l’espressione di chi non promette nessuna buona notizia.

«Vuole che venga anche io?». La dottoressa Kaioh si fece avanti per darle un po' di sostegno morale, ma alla fine cosa sarebbe cambiato se lei ci fosse stata o meno? Se davvero i due uomini le avrebbero confermato le sue sensazioni?

«Se vuole dottoressa...non credo cambi poi molto….in fin dei conti». Mormorò sottovoce con la voce tremante, la distanza che la dividevano dalle divise le sembrò lunga un centinaio di chilometri anziché qualche metro.

Una parte di lei avrebbe voluto scappare lontano, sebbene era pronta a una brutta notizia, il suo istinto le diceva di andare via di li. Ma erano ormai ore e ore che era li, non avrebbe avuto senso. E poi doveva per forza rimanere, doveva avvisare i loro genitori. Non voleva lo venissero a sapere dalle televisioni.

Sospirò profondamente una volta giunta dove era stata chiamata, la presenza della psicologa al suo fianco, discreta ma comunque attenta.

Si, forse non aveva sbagliato a permetterle di averla li. Improvvisamente sentiva che la presenza di qualcuno sarebbe stata fondamentale, estraneo o meno era poco rilevante.

«Buona sera, mi dica agente». Chiese una volta arrivata li vicino.

«Meglio parlarne in privato signorina se non le dispiace». Le rispose egli. Prima di indicarle uno degli studi del reparto lasciato libero appositamente quel giorno.

La bionda si limitò ad annuire prima di entrare in quella stanza dalle mura bianchissime e dall’arredamento ridotto all’essenziale, la trovò molto fredda e asettica rispetto al corridoio esterno.

Una volta che tutti e quattro si furono accomodati all’interno di quelle quattro mura, fu proprio il carabiniere che aveva parlato poco prima a riprendere la parola.

«Che grado di parentela ha con le persone che sta cercando?». Si sentì chiedere.

«Usagi è mia sorella gemella, i nostri genitori sono fuori regione, arriveranno qui il prima possibile, io lavoro in città sono stata la prima a poter venire qui». Spiegò. Quando le avrebbero detto qualcosa? Possibile che ci volesse così tanto prima di riuscire ad avere notizie? Perché la stavano tirando tanto per le lunghe.

«Signorina, forse è meglio che si sieda». E lei seguì il consiglio, sentì che i suoi nervi non avrebbero retto ancora per molto. Dovevano dirle qualcosa, immediatamente.

«Ci dispiace darle questa notizia, ma sua nipote, sua sorella e suo cognato sono deceduti nel crollo del ponte. Tre ore fa è stato trovato il corpo della bambina e solo una quarantina di minuti fa i pompieri sono riusciti a estrarre il corpo dei genitori dalle lamiere dell’automobile su cui viaggiavano». Disse l’uomo. «Verranno portati il prima possibile nell’obitorio dell’ospedale, appena i mezzi lo consentiranno. Condoglianze signorina». Aggiunse il secondo carabiniere prima di uscire seguito dal collega.

La sua mente impiegò qualche istante a capire il vero significato delle parole che le erano state rivolte. No non era possibile, era uno scherzo.

Doveva esserlo.

«Ciaoooooo zia Minaaaaa, noi stiamo partendooooooo».

Le parole di poche ore prima di sua nipote le risuonarono nella testa.

No! Non poteva crederci.

«Minako ti senti bene?». La voce di Michiru ruppe il silenzio della stanza, il chiudersi era una reazione molto frequente in queste situazioni, ma la sua professione non le permetteva di ignorarne le reazioni.

«No, non può essere. Mia sorella...la bambina...otto anni dottoressa, otto anni e ora non la rivedrò più, non rivedrò più nessuno di loro tre». Le lacrime iniziarono a scorrere copiose, un po' per la tragedia annunciata, un po’ per la tensione di tutte quelle ore.

Lacrime salate a rigarle il volto senza che lei riuscisse a fermarle, e poco importava che davanti a lei in quel momento ci fosse una perfetta estranea.

Poco importava che lei quella donna l’avesse conosciuta solo qualche ora prima.

«Tutto questo dolore è insopportabile, mia sorella. Mia sorella gemella io...». La voce le morì in gola per il forte pianto.

I ricordi che la univano ad Usagi si affacciarono prepotentemente alla sua mente. Ricordava come se fosse ieri il giorno in cui la sorella le aveva confidato di essere incinta. Dopo aver fatto il test di gravidanza proprio nel bagno della casa in cui lei viveva ancora.

Era stata la prima a saperlo, ancor prima del padre. Perché tra loro due era sempre stato così il legame, si erano sempre dette tutto.

E, ancora, emerse alla mente il giorno del loro matrimonio, lei agitata ancor più della sposa anche se era solamente uno dei testimoni. Sua sorella eternamente in ritardo, Marzio preoccupato che avesse cambiato idea all’ultimo.

No! Era troppo tutto questo, si sentiva soffocare da tutti quei ricordi che stavano emergendo, tirandole ulteriori pugnalate.

La prima volta che Chibiusa l’aveva chiamata zia, con la sua vocina incerta mentre la faceva giocare sul tappeto della casa dove loro tre abitavano. Dopo una cena organizzata per stare un po' insieme.

Il primo giorno di scuola, a cui lei non aveva voluto mancare, perché era comunque una tappa importante ed era l’unica zia della piccola.

Le lacrime aumentarono al pensiero che non ci sarebbe più stato nessun primo giorno di scuola, nessun esame di terza media, nessun esame di maturità.

Non ci sarebbe stata una laurea. Non avrebbe più potuto accompagnarla nel percorso di crescita , sorreggendola dopo le prime delusioni.

Niente di niente! Era tutto finito. Eppure aveva promessa di proteggerla, di occuparsi di lei e non era riuscita a farlo.

«Lo so, cerca di non tenere tutto dentro, tutto questo dolore che senti e ti sta trapassando. Vuoi che avviso io i tuoi genitori?». Chiese la Kaioh, posandole la mano destra su una spalla. Le sembrava la cosa più utile da fare.

«No...». Minako tirò su con il naso asciugandosi le lacrime. «Voglio...voglio farlo io..mi serve solo qualche minuto per riprendermi...io». Non seppe dire altro.

I pomeriggi negli anni del liceo, passati tra una pila di libri da studiare e a confidarsi riguardo ai ragazzi che frequentavano all’epoca.

Le prime confessioni da parte di Usagi, riguardo a Marzio, un ragazzo conosciuto al primo anno di Università.

La notizia dopo cinque anni del matrimonio, quando ormai tutti l’aspettavano ansiosi, perché quella coppia era davvero destinata ad esistere.

Era anche destinata a morire così?

Era davvero destinata a morire per una motivazione ancora non ben chiara? Quel ponte doveva cadere proprio in quel momento?
Proprio quando stavano passando loro? Perché? Non riusciva a trovare un senso a tutto ciò.

Il punto è che un senso era introvabile. Doveva solo rassegnarsi all’evidenza del vuoto che stava sentendo dentro. E decise che, forse, era meglio aspettare di avere sua madre e suo padre li, in ospedale, anziché chiamarli mentre erano in viaggio.

Percepì la dottoressa spostarsi, sentì dell’acqua scendere da un punto imprecisato intorno a lei, la vide poi ricomparire.

«Tieni bevi un bicchiere d’acqua, ti farà senz’altro bene». La disse cercando di rincuorarla un minimo. «Tieni anche questi». Le porse dei fazzoletti. «Ho sensazione che possano esserti utili».

Minako sorrise leggermente a quelle parole, nonostante tutto.

«Dottoressa, lei ha dei bambini? Ha delle persone a cui vuole bene?». La domanda le uscì a bruciapelo, senza nemmeno capirne la ragione.

«No bambini no, mia sorella ha una figlia e ogni tanto me l’affida quando non sono a lavorare quello si». Spiegò. «Si chiama Hotaru, ha cinque anni e mezzo, illumina le giornate a me e alla mia compagna». Mormorò con lo sguardo che le si addolcì appena.

«Compagna?». Chiese curiosa la bionda, qualche secondo dopo si rese conto di quanto fosse impertinente, in realtà quella domanda. «Mi scusi, non volevo farmi gli affari suoi».

«Non te li stai facendo, dammi del tu ti prego. Vista la situazione è assurdo darsi del lei». La corresse subito. «Si, la mia compagna, sto con una donna. La donna più forte che io conosca, sicuramente è impegnata nel crollo del ponte. E’ una capo-squadra dei vigili del fuoco, non la sento da quando l’ho salutata a colazione».

«Deve essere davvero brava, ne deve essere orgogliosa dottoressa». Mormorò l’altra.

«Lo sono infatti, certo la paura che non torni quando scoppia qualche incendio particolarmente impegnativo c’è, ma per ora è sempre andato tutto bene». Si sedette di fronte alla sua “paziente”.

«Dottoressa? Non si dimentichi mai di dirle quanto la ama...alla sua compagna ma anche a sua nipote..perché poi basta un attimo e non avrà più tempo per farlo». Tirò su con il naso. «Mi guardi, poche ore fa mia nipote mi salutava felice al telefono, non le ho nemmeno detto che sua zia le voleva un mondo di bene, ora non posso più farlo. E mia sorella lo stesso, troppo impegnata dalla vita di tutti i giorni per scriverle spesso un ti voglio bene».

«Sono certa che entrambe sanno quanto gli volevi bene, le persone lo sentono, lo percepiscono dai gesti, dalle parole, da anche un minimo regalo». Rispose allora Michiru. «E dal poco che posso vedere di te, credo che non avrai mancato a niente come zia e come sorella. Non pentirti di nulla Minako, per quanto sia difficile».

La biondina si limitò ad annuire senza dire alcuna parola.

 

***

 

Haruka si sistemò la divisa alla perfezione davanti allo specchio di casa, aveva chiesto e ottenuto di poter prendere parte ai funerali tra la rappresentanza dei pompieri che hanno partecipato nelle ricerche.

Dopo il ritrovamento di quella famiglia di cui ricordava ormai a stento i nomi vista la mole di lavoro estenuante da cui si era vista travolgere nelle ore e nei giorni successivi.

Michiru l’attendeva nell’ingresso del loro appartamento, vestita con un tailleur nero con una gonna che arrivava al ginocchio, giacca e sotto una camicetta bianca a mezze maniche.

Ai piedi dei sandali con un tacco non troppo alto, lei quel giorno era di riposo. Passate le ore più critiche dell’emergenza durante le quali si era rifiutata di riposarsi, le avevano dato tutto il fine-settimana libero. Così aveva deciso di accompagnare la sua compagna ai funerali che si sarebbero tenuto da li a poco più di un’ora e mezza.

«Amore, sei pronta?Rischiamo di far tardi altrimenti». La chiamò da lì, negli impegni di rappresentanza la bionda era davvero meticolosa con la divisa. Non doveva avere proprio nulla fuori posto.

«Eccomi». Fece capolino l’altra da sotto la porta sorridendo, non aveva ancora raccontato del ritrovamento della famiglia sotto le macerie, ma aveva bisogno di parlarne con qualcuno. E sapeva che l’altra era la persona migliore con cui farlo, vista la sua preparazione. Si mosse verso l’ingresso dell’appartamento per prendere le chiavi dalla giacca in pelle appesa vicino alla porta di casa.

«Guido io oggi, miss». Le fece l’occhiolino, facendole cenno di uscire prima di seguirla e chiudere a piena mandata la porta di casa.

 

Una ventina di minuti più tardi erano in coda poco lontane dal luogo delle celebrazioni, il traffico era notevolmente rallentato a causa delle code nel lato ponente cittadino che facevano risentire del crollo anche in centro.

Sarebbero stati dei lunghi mesi, pensò Haruka, anche dal punto di vista lavorativo dato che dovevano misurarsi con il traffico ogni giorno se venivano chiamati per delle emergenze.

«Michi, senti...io volevo parlarti di una cosa… vedi ne ho trovati tanti di corpi sotto le macere e anche qualche sopravvissuto, ma i primi che ho trovato erano una famiglia. Ho trovato la bambina esanime, non riesco a togliermi il visino di quella creatura da davanti agli occhi. Non riesco a non sovrapporla a Hotaru». Le disse senza distogliere i suoi occhi verdi dalla macchina davanti a loro.

La dottoressa sentendola parlare così la guardò attentamente, non potendo far a meno di collegare ciò che la bionda le stava raccontando a ciò che aveva vissuto lei, in ospedale quel giorno insieme a quella ragazza bionda… Minako?!?Si! Doveva essere quello il suo nome, aveva perso la sorella gemella, il cognato e la nipotina di otto anni.

«Marzio Chiba, Usagi Tsukino e Chibiusa Chiba..». Mormorò Michiru, voltandosi a guardarla.

«...i loro nomi erano questi, la bimba aveva dei capelli di un ramato tendente al rosa, un colore molto particolare. La madre bionda e il padre bruno».

«Si come fai a...». Era sorpresa, molto sorpresa di sapere che la violinista sapeva di chi stesse parlando.

«Sono stati avvisati i carabinieri che erano in ospedale, mentre tu li liberavi dalle macerie, io avevo la sorella di lei al pronto-soccorso tra i familiari che attendevano notizie. L’ho seguita dall’arrivo a quando ha appreso la notizia e mi ha fatto vedere una loro foto mentre ne facevo vedere una ai carabinieri per incrociare le informazioni dei parenti con quelle che arrivavano da voi». Spiegò dolcemente, spostando la mano su quella dell’altra appoggiata a sua volta sul cambio della macchina.

«Michi, potevi esserci tu su quel ponte, io non so come avrei fatto se ti fosse successo qualcosa..poteva esserci Hotaru con sua madre...ti rendi conto? Se eri li, sarebbe finito tutto di punto in bianco, al mattino ti avevo salutata come ogni giorno e alla sera non ci saresti più stata e così per tua sorella e la bambina». Mise la freccia per svoltare e immettersi nel parcheggio della Fiera per trovare un posto in cui lasciare la macchina per poi entrare nel padiglione.

«Potevamo esserci tutti, potevi esserci anche tu e per me sarebbe stato esattamente la stessa cosa, siamo tutti dei miracolati, lo abbiamo percorso ogni giorno tutti. Abbiamo solamente la fortuna che evidentemente non era destino che la nostra vita si spezzasse qualche giorno fa in quel modo. Ci differenzia questo dalle vittime e da tutte le persone sfollate che non si sa se riavranno ancora una casa». Commentò lei, mentre la macchina si fermava e veniva spenta. Scese poi dal mezzo, prendendo la giacca del tailleur per mettersela durante la celebrazione.

Attese che il pompiere chiudesse la loro macchina e poi si avviò dietro a lei.

Aveva intenzione di riuscire a trovare quella ragazza bionda che aveva aiutato in ospedale, voleva chiederle come stava, porgerle le sue condoglianze e sopratutto avrebbe voluto farle conoscere Haruka.

Gliene aveva parlato, dopo tutto. E se la donna che amava aveva trovato proprio i parenti di uno dei familiari seguiti da lei, forse un motivo in tutto ciò che era successo c’era.

O forse era solamente un caso, Genova è piccola in fin dei conti.

 

***

 

«Haruka!». Esclamò richiamando l’attenzione di Tenoh, impegnata alla fine della cerimonia a parlare con due colleghi, aveva intravisto tra i parenti delle vittime proprio colei che stava cercando. Si avvicinò alla bionda, prendendola per mano. «Scusatemi, ve la riporto subito, promesso è questione di pochi minuti». Disse sorridendo ai due uomini. L’altra che la guardava incuriosita da quell’intromissione improvvisa. «Seguimi». Le spiegò rispondendo alla muta domanda che le era stata rivolta, prima di farle guida in mezzo alla folla senza perdere di vista la ragazza da raggiungere.

Intento che rubò più tempo del necessario vista la folla che si muoveva dopo che gli esponenti politici avevano lasciato il padiglione.

«Minako?!?». Chiamò la ragazza in compagnia di quelli che pensò essere i suoi genitori. La vide voltarsi indietro nella sua direzione, il viso pallido e gli occhi di chi aveva pianto molto negli ultimi giorni. I suoi occhi blu si posarono sulle due persone in sua compagnia.

«Ci conosciamo scusi?». Mormorò la bionda osservando attentamente la donna, le sembrava familiare ma con tutti gli avvenimenti da cui era stata travolta nell’ultima settimana le era davvero difficile capire chi fosse. I suoi occhi celesti si posarono sul pompiere poco più indietro, molto più alto di entrambe. Lo sguardo di lui di un verde profondo e quasi magnetico.

«Certo che ci conosciamo, sono la Direttrice del reparto di Psicologia dell’ospedale, la dottoressa Michiru Kaioh». Rispose lei sorridendole, senza badare al fatto che l’altra non si ricordasse.

«Dottoressa! Mi scusi, con tutto ciò che ho dovuto passare non ricordavo proprio, le presento i miei genitori, quando sono arrivati lei non era presente e non ho potuto farlo». Si spostò appena per farglieli vedere.

«Piacere di conoscervi, vi porgo le mie condoglianze». Rispose la Psicologa. «Anche io ho da farti conoscere una persona, mi sembrava giusto farlo, ti ho parlato di lei e poi è stata la prima a trovare la famiglia di tua sorella». Mormorò spostando i suoi occhi blu dalle due persone più grandi alla più giovane. «Lei è Haruka, la mia compagna».

«Piacere di conoscerti». Mormorò Tenoh facendo un passo più avanti porgendo la mano alla ragazza e poi ai genitori. «Anche io vi faccio le mie condoglianze, non avrei mai voluto trovare i loro corpi, ho sperato fino all’ultimo che qualcuno si salvasse». Mormorò impacciata, lei con le parole non era brava, tanto meno in quelle situazioni. Perché Michiru la cacciava sempre in situazioni che non sapeva molto gestire? Era un mistero tutto quel talento.

«Grazie infinite allora Haruka, almeno abbiamo un qualcuno su cui piangere, te ne sono immensamente grata e anche i miei genitori». Rispose l’altra, stringendole la mano con le proprie. «Siete bellissime insieme e tu sei molto coraggiosa per fare il lavoro che fai».

Haruka nascose pienamente l’imbarazzo, ma per la dottoressa che la conosceva bene fu un tentativo andato a monte ancor prima di iniziare.

«Ho svolto solo il mio dovere, niente di più, nulla di meno». Sorrise lievemente.

«Amatevi, non date nulla per scontato, perché avete visto può finire tutto da un momento all’altro. Non aspettate il dopo per dirvi quanto vi amate, non aspettate la sera per chiarirvi quando litigate perché potrebbe essere già troppo tardi».

«Hai ragione, è così non bisogna mai aspettare un dopo perché potrebbe non arrivare mai». Disse Haruka.

«Vi lasciamo andare ora, mi ha fatto piacere conoscerti Minako». Si intromise la ragazza dai capelli verde acqua.

«Anche a me dottoressa, grazie davvero di tutto». Disse lei, accennando un sorriso sul viso addolorato. Prima di raggiungere i genitori che si erano leggermente allontanati lasciandole a parlare. Le altre due sorrisero in rimando osservandola allontanarsi.

Haruka,allora fece passare il braccio sulle spalle di Michiru stringendola leggermente a se.

«Andiamo?». Si era fortunata ad averla ancora li.

«Non dovevi tornare dai tuoi colleghi? Ti staranno aspettando..». La guardò incuriosita.

«Faccio il turno di ricerca notturna stanotte, voglio passare la giornata in tua compagnia». Le spiegò, prima di farle strada verso l’uscita del padiglione. «Non voglio perdermi nemmeno un istante del tempo che posso trascorrere con te, non voglio perdermi più nulla». Mormorò non appena furono fuori. «Ti amo Michiru».

 

 

 

«Papà, ma quanto dura questo ponte?»

«Una vita intera»

cit.

 

   
 
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