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Autore: metalmarsh97    24/08/2018    1 recensioni
Carter Morris è un giovane texano impegnato a compiere un viaggio "on the road" lungo le infinite vie degli States. Dopo sette anni di lungo cammino, terminata una lunga permanenza a New York, egli decide di puntare verso nord, in direzione di Boston, alla ricerca di avventure e incontri. In una sera di temporale, giunge presso la cittadina di Sleepy Hollow. Qui, sulle strade di questo sonnolento paesino di provincia, farà la conoscenza di un terrificante automobilista.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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AUTOSTOP A SLEEPY HOLLOW
 
Il camionista, un omone dal doppio mento e perennemente grondante sudore di nome Tim, mise la freccia a destra, accostando e fermandosi in una piazzola di sosta posta lungo la statale.
“Bene ragazzo – disse leccandosi le labbra ancora unte dalla salsa con cui aveva farcito il panino a pranzo – ci siamo. Mi dispiace dover farti scendere, ma oltre non posso proprio andare, devo tornare verso New York.”
Carter Morris, giovane ed avvenente texano di venticinque anni, annuì con un  sorriso.
“Nessun problema Tim. Anzi, ti ringrazio della cortesia, mi hai risparmiato una bella scarpinata. Quanto ti devo?”
“Nah, nulla figliolo. Lo hai detto tu stesso, si è trattato di una cortesia. In gamba eh, e buona fortuna per tutto.”
“Grazie mille amico, stammi bene” replicò stringendogli la mano grassoccia, felice di aver incontrato quel pittoresco personaggio e ancora di più per aver risparmiato qualcosa delle sue già rosicate finanze.
Dopo aver preso il compatto zaino da viaggio contenente le sue cose, aprì la portiera dalla sua parte e, spiccato un balzo, atterrò sull’asfalto sollevando una piccola nuvola d polvere. Tim chiuse la porta allungandosi sul sedile del passeggero, la ciccia della pancia premuta contro il freno a mano, dopodiché fece un’ampia inversione ad U e si ritornò sulla strada. Prima di andarsene, il camionista suonò il clacson per salutarlo. Carter levò un braccio e agitò la mano in direzione del bestione per ricambiare. Aspettò che il veicolo scomparisse oltre una curva, poi, con un grande sorriso , dopo essersi spazzato i pantaloni da trekking, si aggiustò sulle spalle le bretelle delle zaino e si mise in cammino.
 
Aveva sempre detestato la minuscola e insignificante cittadina del Texas in cui era nato e cresciuto, un anonimo paesello sperduto fra ettari di prateria. Il suo vecchio, un bastardo razzista e conservatore, gli era stato sulle palle sin da quando era diventato adolescente, e aveva mal sopportato anche l’atteggiamento della madre, mai oppostasi alle decisioni prese da quel gran coglione che aveva sposato per paura di prenderle.
Suo padre era un maestro a dare cinghiate quando qualcuno decideva di fare qualcosa che non gli andava a genio, oppure quando tornava a casa ubriaco marcio. Allora picchiava per il gusto di farlo, Carter ne era certo, poteva ancora vedere davanti a se quegli occhi indemoniati luccicare nella penombra della loro casa, mentre attendeva il sibilo minaccioso di un’altra scudisciata in arrivo.
Divenuto maggiorenne, aveva raccolto i suoi pochi averi e aveva messo tutto nel medesimo zaino che ora pesava sulle sue spalle ed era scappato. Non aveva più ricevuto notizie  dei suoi e non aveva mai cercato di rimettersi in contatto con loro. Detto sinceramente, meglio così. Non voleva più avere a che fare con quella gente che aveva sempre reputato rozza e meschina, ed era sicuro che se fosse tornato, il padre lo avrebbe ammazzato di botte o gli avrebbe sparato. Non si sarebbe aspettato nulla di meno da quello stronzo.
Era rinato. Aveva girato tutti gli States, esplorandone gli angoli più remoti e segreti. Si era spostato sulle strade d’America su treni, autobus, chiedendo passaggi o, in mancanza di altro, affidandosi ai suoi soli piedi. Non pretendeva do conoscere la vera anima del suo paese, non ancora almeno, ma dopo tutti gli incontri fatti lungo la via, i paesaggi ammirati, i volti e gli sguardi incrociati, le parole scambiate e i momenti condivisi con perfetti sconosciuti, credeva di averne intravisto uno spiraglio. Era una nazione difficile, complessa, contraddittoria, ma in fin dei conti era la sua terra d’origine, e stava iniziando ad amarla ed apprezzarla per ciò che realmente era.
Dopo essere stato a Miami, Los Angeles, San Francisco, Denver e tutta una serie di grandi città, l’ultima delle quali la gigantesca e cosmopolita New York, guadagnandosi da vivere con lavori saltuari e stagionali e alloggiando dove capitava, più di una volta sotto le stelle, aveva deciso di puntare verso nord, in direzione di Boston, alla ricerca di nuove avventure e incontri. Tim, che aveva conosciuto in una stazione di servizio, si era dimostrato essere uno di questi, un ottimo compagno di viaggio, seppure un po’ troppo chiacchierone e maleodorante, tanto gentile da dargli uno strappo sino lì. Dovunque fosse .
Trasse fuori dalle tasche dei pantaloni una sgualcita cartina stradale chiave acquistato per un quarto di dollaro ad un mercatino dell’usato. I bordi erano rosicchiati e c’erano numerose tracce di unto e sudiciume, ma le strade dello Stato del New York erano ben visibili, e questo era ciò che contava. Mentre controllava la mappa, si tolse il capellino da baseball che indossava e si grattò la testa incorniciata da lunghi capelli biondi con fare meditabondo, passando poi alla rada e ispida barba che gli ricopriva guance e mento.
Stando a quanto affermava lo stradario, la cittadina più vicina alla sua attuale posizione pareva essere un paesello dal nome quantomeno buffo, Sleepy Hollow. Chissà come fosse venuto in mente a qualcuno di chiamare un posto in quel modo. Da quel che sapeva, i centri minori della costa nord-est degli States erano quasi tutti di fondazione seicentesca, risalenti ai tempi della migrazione degli europei in America. A quanto pare, i coloni dell’epoca dovevano essere stati dotati di uno strano senso dell’umorismo.
“Dici miglia, forse qualcosa di più. Mmmh, non dovrebbe essere un problema. In tre orette dovrei esserci.”
Era intento a fare i suoi calcoli, quando, alle sue spalle, da qualche parte, un tuono borbottò minaccioso. Si guardò intorno, levando lo sguardo dalla cartina alla ricerca di nuvole nere e gravide di pioggia, ma non vide nulla. Non ancora, si corresse.
Per esperienza sapeva come una situazione tranquilla quale un passeggiatina serale potesse trasformarsi in un’odissea dovuta ad un micidiale quanto improvviso acquazzone. Aveva già camminato sotto la poggia battente per lunghi tratti, ma era un’esperienza che non intendeva ripetere, almeno non quella sera. L’estate stava volgendo verso l’autunno, e faceva ancora abbastanza caldo, ma i temporali potevano essere ancora molto violenti e capaci di far crollare le temperature.
Decise che si sarebbe messo lo stesso in cammino verso questa Sleepy Hollow, rimanere fermi in attesa di un miracolo o di un disastro era da sciocchi. Meglio macinare qualche miglio, nel frattempo avrebbe giocato la carta dell’autostop. Un generoso automobilista stile Tim si sarebbe di certo fermato a soccorrere un viandante in difficoltà.
In qualche modo, la sua solita fortuna gli sarebbe venuta in aiuto.
 
Non fu un temporale, si trattò piuttosto di un fottuto nubifragio. Nembi enormi e del colore dell’ebano fecero capolino oltre le cime degli alberi non appena Carter ripartì, cavalcando i venti della tempesta e riversando secchiate di pioggia gelida su tutto il New York meridionale mentre i tuoni rombavano nel ventre del cielo e i lampi, baluginando, squarciavano l’atmosfera cupa e crepuscolare. Il vento ruggiva rabbioso, facendo scuotere violentemente le frasche e sollevando mulinelli di polvere e foglie. Marciò con caparbia e texana determinazione per più di un’ora sotto quello scrosciare ininterrotto, l’acqua che gli gocciolava dal frontino del cappello e che gli scorreva in lunghi e fastidiosi rivoli lungo la schiena.
Come previsto, non appena la pioggia cessò si levò un vento freddo che lo fece rabbrividire. Siccome non aveva nessuna intenzione si prendersi un malanno, si fermò qualche istante, tirò fuori dallo zaino abiti asciutti e caldi e, utilizzando alcuni cespugli posti poco oltre il bordo della strada quali camerino, si cambiò. Completata tale operazione, riprese a camminare, ma seppe come le sue energie non lo avrebbero sorretto ancora a lungo.
Era tutto il giorno che viaggiava, e ormai era calata la sera, e a pranzo era riuscito a rimediare solo un bisunto hamburger che continuava a sobbalzargli nelle budella. Non aveva nulla da mangiare per cena, tranne alcune barrette energetiche che voleva conservare in caso di emergenza. Inoltre, nonostante la resistenza accumulata in quegli anni di cammino, iniziava a sentirsi stanco sul serio, e questo non era mai un buon segno.
Più di una volta gli era capitato di accasciarsi da qualche parte lungo la strada, stravolto, solo per risvegliarsi, il giorno seguente, miracolosamente con ancora addosso tutti i suoi abiti e, soprattutto, vivo e vegeto. Era ora di trovare un passaggio che lo conducesse presso il più vicino ostello disponibile. Si sarebbe accontentato anche di un sudicio pagliericcio, gli bastava qualcosa di abbastanza morbido su cui far riposare la carcassa.
Iniziò a sporgere il pollice alzato verso l’alto non appena udiva il suono di un’auto in avvicinamento alle sue spalle, ma tutte le macchine lo sorpassavano, facendo finta non esistesse o ignorandolo. In effetti, anche lui ci avrebbe pensato un paio di volte prima di caricare a bordo quello che sembrava un derelitto. Americani, tanto generosi quanto diffidenti. Che contraddizione.
Camminava ormai da parecchio, anche se non sapeva da quanto poiché aveva iniziato a perdere la cognizione del tempo non appena si era fatto buio, quando, svoltata una curva, si ritrovò dinanzi ad un enorme cartello illuminati da alcuni fari posto ai suoi piedi.
 
Sleepy Hollow
New York
5 miglia
 
Mmmh, cinque miglia. Ho fatto più strada di quanto pensassi, si disse, soddisfatto per l’andatura mantenuta anche durante l’inconveniente dell’acquazzone.
Superò il cartellone, ritrovandosi a precorrere un largo ponte di cemento sui cui continuava a correre la strada. Sotto di esso gorgogliava, allegro e borbottante, un fiumiciattolo dal letto sassoso. Carter si soffermò qualche istante ad osservare il corso del rivo che cantava fra i massi, le sponde orlate da una fitta e rigogliosa vegetazione. Dalle ombre e dalla fine nebbiolina sospese sui flutti gli giungeva il profumo di acqua pura e cristallina. Dopo essersi attardato qualche altro secondo, riprese il cammino, lasciandosi alle spalle quell’anonimo ponte, dirigendosi, a passo spedito, verso Sleepy Hollow.
 
Doveva aver percorso forse un miglio, quando udì il rombo di un’automobile alle sue spalle. Stava per levare il pollice senza voltarsi, come faceva sempre, ma una voce nella sua testa, forse quella della prudenza, gli consigliò di togliersi dalla strada e nascondersi in mezzo agli alti cespugli che si stagliavano lungo i bordi della statale, sottraendosi alla vista. Sino ad allora gli era andata bene, aveva incontrato solo persone gentili ed affidabili disposte ad offrirgli un passaggio. Ma le vie d’America erano percorse anche da pazzi squinternati che rapivano le persone per fare loro cose orribili.
La vocina della prudenza venne presto scalzata da una più imperiosa e potente, quella della stanchezza. Le spalle gli dolevano, le gambe gli parevano pesare come macigni e il resto del corpo scosso dai tremiti della fatica. Era a pezzi, doveva riconoscerlo, e farsi le ultime miglia di viaggio comodamente seduto all’interno di un veicolo pilotato da altri era un pensiero che lo allettava. Soffocate le ultime proteste avanzate dalla vocina della prudenza, sporse il braccio e levò il pollice verso l’alto.
L’auto lo superò a velocità moderata, accostando poi lungo la carreggiata. Si trattava di una Ford anni ’70, di colore blu molto scuro, un modello sportivo che non seppe riconoscere. I faretti posteriori rilucevano nella notte simili a tizzoni ardenti. Carter si affrettò aumentando l’andatura e raggiungendo il guidatore.
Una frazione di secondo prima di sbirciare all’interno dell’abitacolo, la vocina della prudenza si fece sentire un’ultima volta. Fu quasi un urlo all’interno della sua testa, un grido che diceva CORRI SCAPPA NON GUARDARE METTITI IN SALVO, parole che gli comparvero davanti agli occhi in caratteri cubitali e risplendenti come se fossero insegne al neon. Con una smorfia infastidita, relegò la voce in un angolo del suo cervello, dopodiché si chinò a ringraziare l’automobilista per essersi fermato.
Una scarica di puro terrore percorse la schiena di Carter, che si stupì nel provare, per la prima volta nella sua vita, un’emozione così cristallina, viva, tale da scuotere ogni fibra del suo essere. Come il guidatore avesse potuto, fino a quel momento, pilotare la macchina, vederlo e accostare, rimaneva un autentico mistero. Quello che il giovane texano stava fissando orripilato e stupefatto allo stesso tempo era il corpo di un uomo vestito con un paio di jeans attillati e un giubbotto di pelle scura simile a quello di Fonzie. Peccato che sopra le spalle, lì dove teoricamente doveva trovarsi la testa, non ci fosse nulla, solo un moncherino sanguinolenti. Non si sarebbe stupito se il cadavere avesse estratto dalle tasche un pettine e avesse iniziato a sistemarsi l’invisibile acconciatura, apostrofandolo con un tipico “hey!”
Che fai cowboy, non sali a bordo? disse il guidatore senza testa in tono di scherno con voce proveniente da chissà dove.
La sanità mentale di Carter si incrinò, mentre lanciava un urlo da far accapponare la pelle. Si allontanò dall’auto sempre gridando, schizzò verso il lato opposto della strada e si infilò nella vegetazione che, rigogliosa, vi cresceva oltre. I rami dei cespugli gli frustavano e ferivano gambe, braccia e volto, ma non se ne accorse. Era ancora troppo sconvolto da ciò che aveva visto. Nei suoi viaggi aveva assistito a tanti fatti strani, e in un certo senso inquietanti, ma questo li superava tutti, e di gran lunga. Un fottuto automobilista senza testa.
Si dovette fermare quando un soro dolore gli trafisse la milza. Boccheggiò, portandosi una mano al fianco e gettandosi a terra, cercando di attenuare il fiatone che, dolorosamente, gli scuoteva il petto. Dopo essersi ripreso, si guardò intorno. Si trovava in mezzo al bosco, immerso nel silenzio, ma nonostante fosse sera, vedeva abbastanza bene grazie alla luce proveniente dalla luna e dalle stelle. Dopo il temporale, infatti, il cielo si era subito sgombrato dalle nubi.
In lontananza, oltre alla scura  massa formata dagli alberi, riusciva a scorgere un bagliore. Forse Sleepy Hollow, o più probabilmente la statale da poco abbandonata. Decise che si sarebbe spinto verso la fonte luminosa, e nel caso quest’ultima si fosse rivelata essere la strada, l’avrebbe costeggiata rimanendo ben nascosto all’interno della foresta.
Voleva evitare di incontrare di nuovo la Ford e il suo terrificante guidatore, posto che tutto ciò fosse successo sul serio e non si fosse trattato solo di un pessimo scherzo giocatogli dalla stanchezza. Possibile, anche se la paura provata prima gli faceva supporre non si trattasse, per quanto assurdo fosse il pensiero, di semplice immaginazione. L’unica cosa che voleva in quel momento era arrivare in città e dimenticare quella brutta avventura. Dopo essersi assicurato di avere ancora con se tutti i suoi beni, riprese a camminare, facendosi strada in mezzo alla boscaglia.
 
Avanzava fra radici e sterpi da mezz’ora, continuando a ferirsi le porzioni di pelle esposte e non protette dai vestiti, quando l’automobilista senza testa lo ritrovò. Forse lo aveva seguito silenziosamente, simile ad un astuto e diabolico predatore in attesa del momento propizio per lanciarsi sulla sua ignara e indifesa vittima. Improvvisamente, Carter, che iniziava a sentirsi al sicuro, udì alle sue spalle il rombo dell’auto. Come la Ford fosse riuscita a farsi strada nel bosco era inspiegabile. Forse si trattava di un vettura fantasma, così come il suo guidatore.
Dove scappi, Carter? Voglio solo la tua testa sghignazzò lo spettro decapitato, e non appena il texano avvertì tali parole nelle sua mente riprese a correre, sperando che le gambe lo reggessero nonostante la stanchezza.
Si lanciò in una fuga disperata, il suo corpo scosso dalla paura e dall’energia scaturita dal terrore. Voleva scappare a quell’orrenda creatura che lo inseguiva, qualunque cosa fosse, ma soprattutto non voleva morire. Non aveva mai fatto niente a nessuno, e non aveva mai commesso crimini (fatta eccezione per qualche furtarello e uso di sostanze stupefacenti). Era oscenamente ingiusto che quella sorte fosse toccata proprio a lui. Ad un certo punto, oltre l’intrico dei cespugli, in fondo ad una breve scarpata, vide snodarsi il serpente d’asfalto della statale, illuminata da alcuni lampioni. Ce l’aveva fatta, era salvo.
In quel preciso istante, qualcosa, forse un arbusto o una radice sporgente dal terreno, si avvolse intorno alle gambe di Carter, facendolo cadere al suolo di faccia senza fornirgli il tempo per allungare le braccia e attutire l’impatto. Il suo naso si ruppe con un molle schiocco, ma registrò appena il dolore all’interno del vortice di orrore assoluto e definitivo in cui era precipitato. Il ringhio della Ford si fece sempre più vicino, presto sarebbe sbucata fra la vegetazione, piombandogli addosso.
“DO TI PREGO, DON MI FARE DEL MALE, DON UCCIDERMI!” strillò piangendo, mentre il sangue gli inondava la gola e i vestiti e tentava, inutilmente, di trascinarsi verso la scarpata.
Ci fu uno schianto assordante, come di rami fatti a pezzi e triturati, seguito dal rombo della macchina infernale. Carter ululò di terrore fino a strapparsi le corde vocali non appena venne investito da un’abbacinate e cadaverica luce bianca. L’ultima cosa che udì fu un abominevole risata riecheggiargli nelle orecchie.
 
Gordon Maryll arrancò in mezzo alla selva, cercando di non inciampare nelle sterpaglie. Era un uomo grande e grosso e, di conseguenza, estremamente impacciato. Il respiro era corto e affannoso, il sudore che lo inondava da capo a piedi gli appiccava i vestiti mimetici sulla schiena e fra le gambe, procurandogli un prurito insopportabile. Quella non era un’escursione, era un sfottuto girone infernale. Si maledisse per aver accettato la proposta di Louis.
Ogni anno l’amico gli proponeva di andare a caccia di quaglie, e ogni anno si ritrovava in quella scomoda situazione, accaldato e sudaticcio. La prossima volta avrebbe declinato l’invito, si ripromise, ma sapeva, un cuor suo, che avrebbe lo stesso accettato. Sapeva di avere una volontà che definire debole era dire un eufemismo. Aveva cinquant’anni suonati, non aveva più l’età per quelle robe. Meglio le grandi abbuffate e bevute di birre fatte al bar, in quello era un vero fenomeno.
Vide come le stringhe di uno scarpone si fossero slegate. Per evitare di finire lungo disteso, evento che era certo si sarebbe verificato data la sua goffaggine, si abbassò per annodare i lacci, ma accucciandosi il fucile, che teneva appoggiato su una spalla, cadde a terra. Per sua fortuna aveva messo la sicura, altrimenti la pallottola gli avrebbe spazzato via metà del piede destro.
“Ma porca troia!” sbottò al colmo della frustrazione.
Non ne poteva più di quella gita e di quell’insopportabile calura. Cristo Santo, era settembre, non era possibile che facesse ancora così caldo. Stava ancora borbottando insulti irrepetibili, quando alle sue spalle, sghignazzando, giunse Louis Maxwell.
“Non beccherai nulla se continuerai a fare tutto questo baccano” lo punzecchiò.
“Fottiti Lu – gli rispose senza voltarsi e allacciandosi lo scarpone, paonazzo in volto – lo sai che odio queste dannate battute di caccia, le quaglie le preferisco già pronte servite su un piatto insieme a delle patate, non mi va di andarle a stanare in mezzo questi maledetti boschi.”
Si girò dunque verso l’amico per scoccargli un’occhiata spazientita. Louis era tutto ciò che lui non era. Alto, slanciato e tutto sommato ancora un bell’uomo. Fra le mani stringeva una doppietta, mentre dalla cinta pendevano alcuni uccelli che aveva impallinato poco prima. Come dimenticarlo, era anche un bastardo fortunato.
“Eddai su, non te la prendere – cercò di rabbonirlo, ma continuando a sorridere – con quel culone che ti ritrovi fare un po’ di sana attività fisica ti fa solo che bene. Più avanti, se non ricordo male, c’è una radura abbastanza grande in cui potremmo riposare. Forza, andiamo.”
 Senza guardarlo e aggiungere latro, Louis lo superò e scomparve fra i cespugli. Gordon si concesse qualche altro sbuffo di insoddisfazione, dopodiché lo seguì. Recuperato il fucile, si fece strada fra gli arbusti, fino a quando, pochi metri più in là, sbucò nella radura promessa.
Si trattava di uno spiazzo abbastanza aperto, in cui l’odore del sottobosco, che secondo lui sapeva di marcio e putredine, venne sostituito dal fresco profumo degli alberi, trasportato da un frizzante venticello. Il sole era lato nel cielo, e nonostante scaldasse abbastanza, almeno non si trattava più del forno rappresentato dalla foresta.
Dopo essersi goduto alcune boccate d’aria pulita, Gordon vide come Louis stesse studiando qualcosa posato a terra davanti ai suoi piedi, un oggetto che non riusciva ad identificare dalla sua posizione. Quando si fu avvicinato, scoprì si trattasse di un cappello da baseball posto fra due tracce di pneumatici parallele fra loro e, a giudicare dalla nettezza dei bordi e dalla loro profondità, abbastanza recenti, vecchie forse di un paio di giorni al massimo.
Uno strano senso di inquietudine si agitò nel suo petto, non seppe dire per qual motivo. Forse perché trovare un cappello appartenuto a chissà chi gettato in mezzo alle impronte di un paio di ruote, il tutto all’interno di un bosco selvaggio come quello, gli pareva strano. Strano nel modo sbagliato.
“Bizzarro” fu l’unico e lapidario commento di Louis.
“Mmmh si. Il Cavaliere Senza Testa ha fatto un’altra vittima.”
Lo disse senza pensarci, quasi fosse un puro e semplice flusso di pensiero che aveva trovato improvvisamente voce, una reminescenza del suo passato di bambino e adolescente, un detto usato quando, nella foresta, si rinvenivano oggetti smarriti da sconosciuti proprietari. Un proverbio che affondava le sue radici in una vecchia leggenda di Sleepy Hollow, secondo la quale il fantasma di un soldato dei tempi della Guerra di Indipendenza, decapitato da una palla di cannone, si aggirasse per la selva intorno al paese alla ricerca di solitari e sprovveduti viaggiatori per privarli della loro testa. Era una stronzata, Gordon lo sapeva, ma nel corso degli anni molti escursionisti non autoctoni si erano smarriti nella fitta boscaglia che, in tutte le direzioni per molte miglia, circondava la cittadina. Un fatto di certo non imputabile ad uno spettro assetato di sangue ma alla sbadataggine delle persone.
“Il Cavaliere Senza Testa” ripeté Louis dopo una risata di scherno fatta con il naso, la tipica risata con cui l’amico derideva solo lui per farlo sembrare un’idiota.
“Dai, lo sai che stavo scherzando”cercò di schermirsi lui.
“E i segni degli pneumatici come li spieghi? – lo incalzò l’altro come se non lo avesse sentito – probabile abbia deciso di modernizzarsi, che ne dici Gordon? Secondo te, quale modello preferisce il nostro amico fantasma?”
Il cacciatore non ebbe la forza di replicare. Era rosso in volto per la vergogna e per essere stato così stupido e infantile nell’aver tirato fuori quella sciocca storiella sul Cavaliere, fornendo al suo compagno il pretesto per canzonarlo a dovere. Possibile dovesse essere sempre così scemo  e ingenuo?
Louis non era un uomo cattivo, era un buon amico, ma a volte, quando pensava di essere divertente, ci andava giù pesante con le battute. Quella era una di quelle volte. Gordon avrebbe voluto rispondergli qualcosa, qualsiasi cosa, come ad esempio fargli notare il fatto che, nonostante i segni delle ruote, non ci fossero arbusti spezzati, come invece succede quando un mezzo cerca di farsi strada in mezzo alla vegetazione, specie se così fitta. Tuttavia, era sfinito, accaldato e con una voglia di birra che lo stava facendo impazzire. Rinunciò a controbattere, abbassando il capo in segno di resa. Non vide Louis sorridere indulgente, soddisfatto di aver avuto, ancora una volta, ragione dell’amico.
“Animo, animo! – disse battendogli con fare paternalistico la mano sulla spalla massiccia – scherzavo, e lo sai. Adesso sbrighiamoci, le quaglie di certo non si fanno beccare da sole.”
Gordon bofonchiò qualcosa fra un ok e altre parole incomprensibili mentre l’altro riprendeva il cammino. Prima di inoltrarsi di nuovo nel bosco insieme al compagno, e senza farsi vedere da quest’ultimo, si chinò a raccogliere il berretto e, dopo aver spazzolato via il sottile strato di polvere che lo ricopriva, se lo calcò sul capo. Un cappello del genere poteva sempre tornargli utile.
 
   
 
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