Disclaimers:
Aki è orgogliosa di presentare il suo
primo lavoro in questo fandom.
Stein – Madness tiene
conto degli eventi che sono accaduti fino all’episodio 27 dell’anime.
Personaggi: Spirit e Stein.
Buona
lettura!
«Perciò, Spirit-kun, vorrei che mi aiutassi a tenere d’occhio
Stein».
Aveva
detto così, Shinigami-sama.
Chissà per quanto tempo
dovrò fare la spia.
Stein - Madness
Able to be mad. Able to be loved.
Entrai
nel laboratorio senza fare rumore, socchiudendo semplicemente la porta.
Eppure, anche se nemmeno i miei passi
producevano il minimo scricchiolio, già sapevo che se ne sarebbe accorto.
Era
seduto al computer, come al solito, e mi dava le
spalle. Piegato in avanti, sembrava quasi voler sprofondare
nello schermo, da cui non sarebbe tornato più. La luce del monitor
illuminava in modo sinistro la parte del viso che riuscivo
a vedere.
Ma…
Sorride?
Avanzai
verso la sedia al fondo della stanza. Il buio intorno al mio corpo mi faceva
sentire a disagio, come un estraneo indesiderato. C’era qualcosa che non
andava, me ne resi immediatamente conto. L’aria era satura di malvagità, di
presagi, di morte.
«Come
mai qua, Sensei?»
Non
si era mosso di un millimetro. Si sporgeva ancora verso lo
schermo, intento.
«E’
sbagliato venire a trovare gli amici, qualche volta?»
La
sua risata mi giunse squillante, sinistra. Si voltò di scatto, facendo roteare
la sedia di mezzo giro. Mi guardava sorridendo, con le labbra arcuate in una
smorfia e i denti stretti di chi lotta contro se
stesso.
«Avanti,
sensei, non diciamo cazzate», sibilò. «Non sono mai
stato tuo amico. Giusto?»
Presi
una sedia e mi ci misi a cavalcioni, rimanendo a
fissarlo, desiderando con tutto me stesso di poterlo inchiodare a quella sedia
con la sola forza dello sguardo. Anche se Stein era
stato il mio Meister, adesso non era più nulla per me. Dovevo convincermi di
questo, o non sarei mai riuscito a controllarlo come voleva Shinigami-sama.
Aveva affidato a me un compito più importante di tutti gli altri, perché
dopotutto Stein era un insegnante della Shibusen e il male che sorge
dall’interno è il più pericoloso.
«Stein».
Pronunciai il suo nome sottolineandolo con un sorriso.
«Perché tutta questa diffidenza? Sono stato o no la
tua arma?»
Mi
rispose con una nuova smorfia, che mi strappò un brivido.
Chi sei tu?
«Lo
sei stato, Sensei. Ma il passato è passato. E la scienza non si basa sulla storia per fare scoperte…
Quello che conta è il presente e soprattutto il futuro».
«Ragioni
sempre da scienziato, eh, Stein?»
Alzò
le spalle e rimase in silenzio. Ma il ghigno che
sfoggiava contrastava vivamente con le sue azioni. Sembrava che due persone,
insieme, stessero occupando il corpo che una volta era stato
di Stein.
Il
silenzio si prolungò per un minuto.
Restai
a guardarlo mentre girava la sua rotella, in balia di
chissà quali pensieri. Il suo sguardo era il solito, vacuo e stralunato, come
quello di un pazzo. Ma era davvero un pazzo? Davvero
il kishin aveva stravolto la sua persona, tirandone
fuori la follia?
«Che ti sta succedendo, Stein?», mormorai.
Riuscì
a sentirmi.
«Nulla,
Sensei», rispose. Lo fece con un filo di voce, quasi avesse
paura delle sue stesse parole.
Paura
o incertezza?
«Nulla?»,
domandai.
«Nulla,
Sensei», ripeté.
E sembrava convinto. Ma il suo
sorriso maniacale lo smentiva.
«Ascolta,
Stein», dissi. Lui alzò il viso per osservare meglio la mia espressione;
sembrava un bambino e per un attimo intravidi il panico nelle sue iridi
chiarissime. «Se sono venuto qui, è perché mi fido di
te. So che se ti accorgessi che la pazzia sta
prendendo il controllo, ti difenderesti. E chiederesti
aiuto…»
Mi interruppi un attimo. La pausa ci
separò di più.
«…a
me», aggiunsi.
Cercai
di capire cosa suscitassero in lui le mie parole.
Ma
ancora mi osservava atono, con la pazzia dentro gli occhi, che già veniva a galla.
E improvvisamente scoppiò a ridere, rovesciando il capo
all’indietro e portandosi le mani al viso.
«Chiedere
aiuto, Sensei? A te?».
Rialzò
la testa e puntò gli occhi fiammeggianti nei miei. Non l’avevo mai visto così.
«Chiedere
aiuto a chi… mi ha abbandonato?»
Sussultai.
Abbandonato? Ma
cosa stava dicendo? Non avevo fatto nulla del genere.
Il
suo sorriso si trasformò in un ghigno rabbioso. Strinse i denti e i pugni, di
fianco al corpo.
«E non mi guardare così, come se non avessi colpa!»
Mi
alzai in piedi e puntai verso di lui un braccio, tramutatosi in lama. Lo fissai
scuro, sentendo l’adrenalina correre in aiuto, pronta
a muovermi il braccio. Aveva gridato. Forse avrebbe perso il controllo.
«Adesso
smettila, Stein».
Senza
accorgersene, anche lui si era alzato. Si ricompose, guardandosi intorno. E tornò a sedersi, lasciandosi cadere sulla sua solita
postazione. Rise ancora e poi sospirò.
«Ah,
Sensei… Cosa credi di fare con quella lama? Contro di me?»
Ridussi
gli occhi a due fessure.
«Non
vorrei fare nulla, Stein. Ma non mi sottovalutare».
Il
suo sorriso tornò a galla, a stravolgergli l’espressione.
«Io
conosco i tuoi punti deboli e tu conosci i miei, Sensei. Sarebbe una battaglia
senza senso e senza vincitore. Solo sangue, da entrambe le parti». Il suo
sorriso si allargò. «Lo vuoi?»
Mi
passai una mano sul volto, esausto. Di quel fronteggiarci e di quella follia.
«No»,
sussurrai. «No. Non voglio niente di tutto questo».
Lui
non rispose.
Fissai
la sua espressione maniacale e pensai che non poteva
essere vero. Non era giusto che il mio vecchio Meister fosse stato contagiato
dalla malattia di un mostro che non meritava d’esistere. E
non era giusto che io stesso fossi obbligato a tenerlo d’occhio, quando doveva
essere il nostro più abile alleato. Non era giusto che fosse accaduto… tutto.
Non
ci riflettei nemmeno sopra. Cominciai a camminare verso di lui, a viso aperto,
dopo aver ritirato la lama. Per un attimo sembrò sorprendersi, ma la sua
espressione non cambiò.
Mi
bastarono pochi passi per arrivargli davanti. Mi fermai.
Continuava
a sorridere, come un pazzo, senza curarsi di nulla.
Probabilmente
i miei occhi si fecero sofferenti. Perché non ne
potevo più.
Mi
abbassai alla sua altezza, per riuscire a guardarlo negli occhi.
E lo abbracciai.
Mi
obbligò il mio istinto o forse un vecchio sentimento insepolto. O forse tremenda pietà per un uomo costretto a sottomettersi alla
parte più oscura di sé. Un uomo che era stato capace di controllarsi, di
ricominciare, di diventare uno scienziato e un professore in modo da tenere a
bada la propria cattiveria.
Lo
strinsi forte, perché non si liberasse. Ma non lo
avrebbe fatto. Era inerme, sotto la mia presa, completamente abbandonato. Non
si era mosso di un centimetro.
Non
osai sbirciare la sua espressione: avevo troppa paura di quello che vi avrei
letto.
Tentai
di trasmettergli quello che non sarei mai riuscito a
dirgli. Che c’era una possibilità di salvarsi, di tornare
indietro. Di sopravvivere anche a tutto quello.
Non
ero bravo a parole. E forse non ero bravo neanche a
gesti. Nella mia vita ero riuscito solo ad allontanare mia moglie e poi, piano piano, anche mia figlia. Ma in
quel momento non c’era nulla di tutto ciò. Esistevano solo un laboratorio, uno
scienziato pazzo e un’arma incapace.
Le
mie mani afferrarono il suo camice e affondai di più oltre la sua spalla,
sperando che avesse capito.
E alla fine, rispose.
Alzò
lentamente una mano, dietro la mia schiena, finché raggiunse la mia spalla. E afferrò la giacca con
una forza incredibile, come se la sua vita fosse dipesa da quel gesto. Anche l’altra mano si unì alla prima in un abbraccio che
aveva il sapore della disperazione.
D’un tratto sentii qualcosa di caldo sulla
spalla, e liquido. Piangeva?
Fu solamente in quel momento, quando
lo fece lui, che mi accorsi di stare piangendo da un
po’. E allora lasciai che le lacrime scivolassero
sulle guance e che la tristezza uscisse, finalmente.
La sua risata mi risuonò nell’orecchio
a cui aveva avvicinato le labbra. Era una risata diversa da quelle di prima.
Questa volta era dolce e terribilmente nostalgica.
«C’è qualcosa che la pazzia non può
fare…», mormorò.
Il silenzio rispose al mio posto. Perché le parole erano troppe e troppo pesanti.
«…Non credevo che esistesse qualcosa
in grado di fermarla».
Sospirò. E quando percepii il suo
fiato sul collo mi sembrò freddissimo.
Possibile che l’unica via per
salvargli la vita fosse quella di… amarlo?
Forse in fondo l’avevo sempre saputo. Che Stein era ancora un ragazzo ed era solo, molto solo.
Quello di cui aveva bisogno era affetto. Tantissimo affetto per tenere lontana
la pazzia.
Shinigami-sama non si era sbagliato
sul suo conto: in effetti era diventato davvero
pericoloso.
Ma su una cosa non aveva visto giusto.
Stein non era irrecuperabile. Anche se l’unico che
poteva farcela, in quel senso, era la sua arma.
In quel momento capii, con intensità
improvvisa, quello che Stein aveva voluto dirmi.
«Chiedere
aiuto a chi… mi ha abbandonato?»
Una Buki non avrebbe mai dovuto
abbandonare il suo Meister. E io l’aveva fatto,
eccome.
Lasciando Stein solo ad affrontare la
vita. Non ne era capace: era stato così fin
dall’inizio.
Solo e incapace, proprio come un
bambino.
«Scusa se ti ho
lasciato solo per tutto questo tempo».
«Tornerai?»
La speranza che si faceva spazio in
quella domanda mi stupì.
«Tornerò», risposi, sorridendo.
Che stupido ero
stato. Stupido e masochista. Perché era difficile
ammetterlo, ma anche io avevo un disperato bisogno di lui.
Lo strinsi più forte e sospirai.
«Mi sei mancato», dissi.
Si accettano critiche,
consigli… Ma soprattutto belle recensioni!
Spero vi sia piaciuta. (Se avrà successo potrebbe diventare una long-fic
– che era l’idea originale).
A presto!
Aki