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Autore: metalmarsh97    25/08/2018    1 recensioni
Un uomo anziano e privo di nome di nobili natali decide di annotare nelle memorie della propria esistenza una singolare esperienza che gli capitò di vivere nel 1772 durante il carnevale a Venezia, una pagina di diario incentrata su tale festività e sui misteriosi incontri che fece durante il suo soggiorno presso la capitale della Serenissima.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CARNEVALE NOTTURNO
 
All’interno delle mie memorie, voglio di certo includere il singolare episodio che mi accingo a narrare, capitatomi nel 1772 durante il Carnevale di Venezia. Avevo da poco compiuto vent’anni, un’età gloriosa rispetto a quella che, ora, mi fiacca le ginocchia e mi incanutisce i capelli Spero che il rimembrare tale accadimento mi aiuti a tornare giovane come lo ero allora, se non con il fisico quantomeno nello spirito.
Come primogenito e unico rampollo della mia famiglia, un’antica e ricca casata dell’aristocrazia inglese vicina alla Corona, fui inviato in Europa insieme ad altri conoscenti miei coetanei, in quel genere di viaggio che ogni gentiluomo era tenuto a compiere presso le più importanti nazioni del Vecchio Continente per conoscerne ed apprezzarne la cultura, denominato, utilizzando un termine francese, grand tour.
Allora l’Europa si poteva ancora definire un continente pacifico e facilmente percorribile, situazione che sarebbe precipitata di lì a poco in seguito agli orrori della Rivoluzione e all’avventura di quel singolare personaggio chiamato Napoleone Bonaparte. La mia comitiva si era fermata presso Vienna durante l’inverno, e non si sarebbe mossa fino all’arrivo della primavera successiva, procedendo dunque verso l’Italia. Fin da subito avevo aborrito la compagnia di tali individui, tanto vicini a me per età quanto distanti per ciò che concerneva interessi personali. Era una manica di abbietti giovanotti dediti solo al gozzovigliare e alla ricerca del piacere. Badate bene, anche io gradivo festeggiare e divertirmi, impossibile negarlo, ma ero altresì spinto da un’ardente curiosità nel conoscere il mondo e i suoi molti misteri, in qualunque modo essi si manifestassero.
Naturale che l’oziosa e deprecabile vita che ero costretto a condurre nella capitale austriaca insieme ai miei tanto disprezzati compagni di viaggio mi venne presto a noia, e colsi osì al volo l’opportunità di fuggire da quella disgustosa prigione dorata. Seppi, infatti, che nella non troppo lontana Venezia si sarebbe presto tenuto il famoso Carnevale per il quale la città era famosa in tutto il continente. Si trattava di un’occasione che non poteva certo perdere, considerando il fatto che ci saremmo mossi solo con la bella stagione e che quindi mi sarei perso la celeberrima festività.
Fatti i bagagli in fretta e furia, mi congedai dalla comitiva, nonostante le proteste, promettendo che mi avrebbero trovato presso la capitale della Serenissima Repubblica non appena avrebbero deciso di dirigersi verso sud. Mi ci volle quasi un mese per raggiungere la mia meta, ma le mie fatiche furono ben ricompensate. Venezia! Venezia! Meraviglioso mosaico di canali e isole adagiato sul terso specchio delle laguna.
Come già detto, la mia era una famiglia molto antica e importante, che possedeva contatti in tutta Europa. Non trovai quindi difficoltà a farmi ospitare da un conoscente dei miei genitori, A. G., ricco uomo di chiara fama, una delle personalità di spicco della città e amico intimo del Doge. Questi mi trattò con grande rispetto come suo illustre ospite e e con grande affetto quasi fossi un figlio, rendendosi estremamente disponibile nel rispondere alle mie domande circa il glorioso passato e le tradizioni di Venezia, e affidandomi alle cure di suoi uomini che mi scortassero durante le mie esplorazioni fra calli e campi, come gli indigeni chiamano strade e piazze. In poco tempo, imparai ad amare quel rumoroso e cosmopolita centro di mare, così dissimile da tutte le altre capitali che avevo visitato sino ad allora.
Tuttavia, gran parte dei suoi segreti mi rimasero preclusi, dato che l’unico divieto che mi era stato imposto dal mio anfitrione era quello di vagare la notte, epicentro del mistero di ogni città che si rispetti, in quanto non era sicuro per uno straniero, nemmeno se accompagnato da guardaspalle, aggirarsi per i vicoli di Venezia una volta calata la sera. Intanto, con mia somma gioia, il tanto atteso evento giunse.
Non spetta di certo a me descrivere la bellezza di una simile festività, con il su tripudio di colori cangianti e maschere mirabolanti. Il Carnevale di Venezia è qualcosa che va sperimentato sulla propria pelle e visto con i propri occhi, è inutile indugiare nel tentare di raccontare una celebrazione che mischia, in parti uguali, dosi di cristianità e paganesimo, sovversione dell’ordine costituito, vita, amore e morte. Uno spettacolo stupendo e, al tempo stesso, terribile, impossibile da replicare altrove.
La sera di quello che viene definito “Martedì grasso”, l’ultimo giorno di Carnevale e quindi ritenuto il suo momento cloue, mi trovavo ovviamente in casa di A. G., il quale aveva organizzato un sontuoso ballo in maschera, invitando personaggi noti in città. Per l’occasione, mi feci confezionare ad hoc un abito di mia invenzione, una maschera che denominai Giovin Cavaliere, sostanzialmente un’alta uniforme da ufficiale di cavalleria corredata da una daga posta al fianco, un paraocchi di velluto nero e un tricorno del medesimo colore, così come imponeva la moda veneziana del momento.
Il ballo fu sfarzoso, pieno di attrazioni e animato da un viavai di gentiluomini e dame d’incredibile bellezza ma, come constatai con mio sommo rammarico, in un certo senso tedioso, privo di quel brio e di quell’animosità grottesca che, ero sicuro, avrei potuto trovare nella calli. Conversai con qualcuno, ma ben presto mi ritrovai da solo, attendendo che il ricevimento terminasse per porre fine alla noia della serata. Intorno a me, gli invitati chiacchieravano di argomenti futili. La ricchezza della festa aveva rapidamente perso tutto il suo fascino.
D’un tratto, veni affiancato da un personaggio quantomeno singolare. Rispetto al resto dei presenti era mascherato con abiti semplici, quasi popolani, dato che indossava vestiti scuri, un lungo tabarro che giungeva sino terra e un tricorno, entrambe neri. Il volto era celato dalla larva, una delle più comuni maschere veneziane.
“Buonasera” mi apostrofò non appena si fu avvicinato, abbassando lievemente, con mano guantata, il cappello nella mia direzione per salutarmi.
“Buonasera a lei” replicai.
“Ha uno strano accento … inglese?”
“Precisamente.”
Cercai di non tradire la sorpresa nella mia voce quando il bizzarro individuo ebbe indovinato con tale velocità le mie origini anglosassoni. Dietro le orbite della maschera, infatti, poteva scorgere con chiarezza il luccichio di occhi verdi, astuti e intelligenti.
“Lei sarebbe … ?” chiesi prima che il mio interlocutore potesse proferir parola.
“Mi chiamo pure Monsieur Cerusico. Lei?”
Giovin Cavaliere” risposi, sapendo come durante il carnevale non si dovesse mai rivelare la propria identità, ma solo quella del personaggio interpretato.
“Molto bene, Giovin Cavaliere. Tediosa questa festa, nevvero? Per quanto sfarzosa, si intende.”
“Si, inizio a stancarmi dell’atmosfera … compita” ammisi senza sapere bene il perché.
“Allora lasci che le faccia una proposta, le va? Usciamo da questo palazzo e immergiamoci nella vita della città, nella vera vita, non questa sorta di messinscena per aristocratici. Cosa le pare?”
“Sono ospite di A. G., è mi è stato proibito di vagare la notte, può essere pericoloso.”
“Oh, suvvia, un gentiluomo come lei, giunto da così lontano, ha intenzione di perdersi il cuore di questa per colpa di una sciocca disposizione? Non mi dica di no, le do la mia parola d’onore che non le accadrà nulla, di me si può fidare.”
Nonostante Monsieur Cerusico fosse un perfetto sconosciuto, sapevo di poter prestar fede alle sue parole, ero certo che con lui, in giro per Venezia, non avrei corso alcun pericolo. Nulla di razionale me lo suggeriva, era puro e semplice istinto.
“D’accordo, accetto la vostra offerta” risposi dopo una breve pausa di riflessione.”
Magnifique – esclamò l’altro battendo le mani e prendendomi sottobraccio – ma adesso andiamo, la notte fugge e lei ha molte cose da vedere.”
Detto questo, sgusciammo via dal ricevimento, protetti dalla coltre delle tenebre e dall’indifferenza dei presenti.
 
La dimora di A. G. si trovava nel sestiere di Canareggio, uno dei “quartieri” in cui è suddivisa Venezia, un grande palazzo munito di ampie finestre piombate le cui imposte si riflettevano sui bui flutti del Canal Grande, la via d’acqua più lunga e larga della città.
Io e Monsieur Cerusico compimmo una vera e propria discesa in un caleidoscopico e affascinate inferno di colori, suoni e altri sensazioni che non so descrivere. Io Dante e lui il mio Virgilio, percorremmo tutta la capitale, dalle sue calli meno frequentate, buie e silenti, ai campi ricolmi d una fitta folla, splendida e grottesca. La pazzia estatica della vita aveva colto tutte quelle maschere, che danzavano, cantavano, bevevano, mangiavano, si odiavano e si amavano in preda ad una folle ebbrezza che non riuscivano a contenere ne tantomeno a comprendere.
Intanto, io e il mio compagno conversavamo del più e del meno, di viaggi ed esperienze, di filosofia e di poesia o di qualsiasi altro argomento si presentasse all’attenzione delle nostre menti eccitate. Monsieur Cerusico era un pozzo di sapere su Venezia, e vi attinsi a piene mani, abbeverandomi, mai sazio, alla fonte che mi avrebbe permesso di intravedere l’anima stessa della città.
Da Canareggio ci spostammo verso il meraviglioso ponte di Rialto, lì dove il Carnevale pulsava come un cuore euforico. Ci confondemmo in mezzo alla bolgia che animava i vicoli dei sestieri di San Polo e Santa Croce, danzammo insieme a misteriose ed affascinanti ragazze dei sobborghi e frequentammo sordide osterie in cui il vino, rosso cime sangue, scorreva a fiumi. Proseguimmo dunque verso Dorsoduro, attraversando calli strette e buie, dove la notte regnava sovrana e silenziosa, dove gli unici suoni era l’ovattato eco dei nostri passi e il frusciare e il sospirare di cose senza nome, le entità misteriche che abitano le ombre di Venezia. Sbucammo presso la punta della Dogana, lì dove il Canal Grande si getta nella laguna. Alla nostra destra, la Giudecca apparve come una visione etera nella nebbia, animata da numerose luci diafane. In quel momento, i campanili della città batterono dodici rintocchi, e il mio cuore sobbalzò udendo quell’ominoso e bronzeo suono.
“Cosa succede, mio buon amico?” chiese Monsieur Cerusico vedendo la mia agitazione.
“Nulla, solo che … è già mezzanotte. Questa sera fugge via, rapida come il soffio del vento.”
“Ben detto! Ben detto! Orsù, affrettiamoci, il nostro viaggio non è concluso!”
Mi riprese sottobraccio e, conversando amabilmente, ci immergemmo di nuovo nel labirinto di strade. Riattraversammo Rialto, dove la festa ancora fremeva in presa a spasmi orgiastici e ritmi di febbrile eccitazione, superandolo senza indugiare. Il mio compare aveva altri progetti per la testa, come mi fu ben chiaro non appena raggiungemmo la nostra meta successiva, Castello.
Qui regnava un silenzio diverso, di quiete e attesa, una dolce e profumata calma in cui gli amanti si ritiravano per godere i un po’ di intimità e ricordarsi di essere umani, prima ancora che maschere Monsieur Cerusico mi portò a visitare il glorioso Arsenale, la fabbrica dove la Serenissima costruiva e sue navi. I due grandi leoni in pietra posti a guardia dei cancelli acquei del cantiere mi trasmisero tutta la fierezza di una città che, nonostante sorti altalenanti, conservava integro il suo onore e le sue antiche tradizioni.
Fu lì vicino che, lungo una fondamenta, una calle che da su un canale, incontrammo una delle figure più caratteristiche di Venezia, un gondoliere. Ritto in piedi sulla sua elegante imbarcazione, apparve strano ai miei occhi, vestito in modi dissimile rispetto ai suoi colleghi. Lo stato di eccitazione mentale in cui vessavo non mi spinse a chiedermi perché un gondoliere dovesse essere in servizio alle due del mattino. Mi fossi posto tale quesito, forse no mi sarei avvicinato ad una simile figura, impaludata in un lungo drappo che ne celava le forme dalla testa ai piedi. Sotto il cappuccio che gli copriva il volto, vidi scintillare un paio di occhi argentei. Capii come lo strano individuo dovesse essere cieco.
“Caronte, mio carissimo amico – esordì Monsieur Cerusico vedendolo – è chiedere troppo scortare me e questo mio giovane accompagnatore dove sai tu?”
Il gondoliere non replicò, ma con una mano incredibilmente pallida e dalle dita lunghe e affusolate, ci fece cenno di salire a bordo. Appena mettemmo piede nell’imbarcazione, a prua e a poppa, quasi per magia, si accesero due lanterne. Di sicuro un trucco per stupire e allietare i passeggeri, pensai nonostante un brivido gelido mi avesse attraversato la schiena. Il nocchiero aveva un’aria tutt’altro che rassicurante.
“Caratteristico il vostro conoscente – dissi sottovoce a Monsieur Cerusico per non farmi udire – così come il suo nome. Bizzarro, quantomeno per un gondoliere.”
“E’ un nome d’arte, si intende” replicò lui, mentre u lampo divertito gli attraversava lo sguardo.
“Mi tolga una curiosità, dove ci stiamo recando?”
“Pazienza, giovanotto, pazienza, non vorrà forse guastarsi la sorpresa?”
Ribattei ridendo, certo che il mio compagno non m avrebbe rivelato altro. Dovevano essere le tre del mattino, o forse un po’ più tardi, quando giungemmo presso San Michele, li dove si trova il cimitero di Venezia. La laguna era uno specchio di nero ebano sulle cui acque aleggiava un denso velo di nebbia. Tutto era buio e silenzio. A nord della nostra posizione, luci rossastre e infernali baluginavano presso Murano, le sue vetrerie sempre aperte. Parevano gli occhi di una bestia demoniaca pronta a balzarci addosso, appostata in mezzo alle tenebre che, dovunque, regnavano sovrane.
Caronte si accostò all’imbarcadero di San Michele, il cui molo era deserto, permettendoci così di sbarcare agilmente. Monsieur Cerusico si avvicinò ai cancelli del cimitero e, nonostante mi aspettavo questi fossero sigillati per evitare incursioni di tombaroli, li aprì con un semplice e deciso gesto della mano.  Il portale si spalancò con un tetro cigolio.
“Cosa ci facciamo qui?” domandai, non lo nego, con un filo di paura nella voce, dato che l’atmosfera del luogo mi incuteva un atavico timore.
“Una passeggiata fra le lapidi. Anche durante il Carnevale i morti meritano la nostra attenzione, gli faremo una visita per mantenerne viva la memoria.”
Quella spiegazione mi parve sufficiente. Ci avventurammo in mezzo ai mausolei aristocratici e le semplici lastre sepolcrali che, come i fiori in un prato primaverile, costellavano il camposanto. Monsieur Cerusico reggeva alta una delle lanterne della gondola di Caronte, indicando ad entrambe la via, mentre l’umidità ci avvolgeva in un pesante sudario. I nostri fiati si condensavano in bianche nuvolette di vapore. Nessuno dei sue parlò in quei lunghi frangenti, ognuno raccolto un u profondono silenzio di meditazione e riflessione. Ad accompagnarci v’era solo il sottile fruscio dei nostri passi. Non so per quanto tempo vagammo in quel luogo di lutto e morte, ma venimmo destati da quello che ci parve in sono etereo dai rintocchi di una distate campana. Erano le cinque, ed ad oriente, simile ad un filo di purissimo ro, potevo già scorgere l’avvicinarsi dell’alba. Il cielo si era fatto più chiaro, seppur in modo impercettibile. La luna e le stelle erano quasi tramontate.
Il mio compare venne colto da una malcelata agitazione. Ci congedammo dai defunti dopo ave espresso alcune parole di commiato, dopodiché, richiusi i cancelli del cimitero, tornammo da Caronte. Il sinistro gondoliere era rimasto dove lo avevamo lasciato, pareva non essersi mosso. Quando ci accomodammo sull’imbarcazione, non proferì parola, semplicemente utilizzò il lungo remo per staccarsi dal molo e riprender a vogare con fare mesto. Tornati in città, il nocchiero ci fece sbarcare presso il canale dove lo avevamo trovato.
Non lo pagammo, dati che Monsieur Cerusico disse come il gondoliere, da lungo tempo, dovesse rendergli un favore, quella notte ripagato con il nostro viaggio presso San Michele. Quando ci separammo dal tetro individuo, il mio compagno affrettò  il passo, e devo dire che, nonostante la mia giovane età, faticai a stargli dietro.
“Dove ci stiamo dirigendo?” chiesi fra vari respiri affannosi.
“A contemplare l’ultima meraviglia di questa splendida serata. Presto, prima che il momento ci sfugga!”
Altro non aggiunse. In poco meno di mezz’ora fummo in Piazza San Marco, il più grande e più importante campo di Venezia. La Basilica e il Palazzo Ducale, i due maestosi edifici che si affacciano su di essa, ancora dormivano in un sono privo di sogni, avvolti da una dolce oscurità, mentre il campanile, la sua mole ominosa e maestosa allo stesso tempo, si stagliava superbo sulle costruzioni circostanti. Il grande spiazzo era deserto, il silenzio accolse i nostri passi. Ci dirigemmo verso il Canal Grande, lì dove esso lambisce la fondamenta detta Riva degli Schiavoni.
“E adesso?” chiesi impaziente do chela notte priva di riposo iniziava a pesare sulle palpebre.
“Adesso, mio buon amico, Giovin Cavaliere, osserva.”
Improvvisamente, l’alba si levò in tutto il suo splendore. Il sole, fulgido dio del cielo, incendiò con i suoi raggi le acque della laguna, che risplendettero come un mare di rame e bronzo dorato, i flutti coronati da cristalli iridei. Un bagliore si sprigionò dalle volte del campanile, della Basilica e del Palazzo quando queste vennero colpiti da dardi dell’astro mattutino. La Giudecca avvampò in un miraggio abbacinante. Quel prodigio sancì la fine del Carnevale, null’altro che un variopinto sogno notturno, ma in cuore mio non ero triste. Anzi, ero grato per aver avuto l’occasione di percorrere quel bizzarro e affascinante viaggio.
Mi tolsi la maschera per assaporare un refolo di vento salmastro e per presentarmi ufficialmente al mio compagno, ma quando mi colsi per ringraziare Monsieur Cerusico vidi, non senza provare stupore e un brivido di inquietudine, come questi si fosse volatilizzato nel nulla. Della sua persona rimaneva solo la larva, gettata in terra quasi fosse stata frettolosamente abbandonata. La raccolsi, incapace di formulare pensiero o parole che riuscissero a spiegare quel bizzarro fenomeno.
Ancora oggi, nella mia vecchiaia, mi chiedo se colui che quella notte mi accompagnò per le strade e i canali della città fosse un uomo, oppure, con molta più probabilità, uno spirito, una delle multiformi e cangianti personalità e facce di Venezia.
 
 
 
 
 
 
   
 
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