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Autore: Spoocky    27/08/2018    1 recensioni
Subito dopo il primo scontro con l'Acheron l'equipaggio della Surprise deve fare i conti con i danni arrecati da un nemico di forza superiore mentre si affronta la perdita dei morti e si curano i feriti.
Le ferite in battaglia entrano di diritto nell'ordine naturale delle cose, è risaputo e ce ne si fa una ragione.
Quando però tra i caduti ci sono delle persone care diventa difficile, se non impossibile accettare le conseguenze naturali di un evento bellico.
Non si può che sperare in un miracolo.
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Genere: Guerra, Hurt/Comfort, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Movieverse | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Disclaimer: Non scrivo per soldi ma per divertimento mio e - spero - di chi legge, un po' meno dei personaggi ma pace amen ^.^

Buona Lettura ^.^


Un fragore assordante scatenò l’inferno attorno a loro e l’onda d’urto scaraventò le squadre addette ai cannoni contro la paratia opposta.
Il sedicenne Calamy si precipitò a soccorrere il Primo Tenente Pullings, che giaceva bocconi sulle travi del pavimento mentre una pozza di sangue si allargava sotto il suo corpo.
“Signor Pullings? Signor Pullings!” lo prese per una spalla e lo scosse forte, terrorizzato per essere rimasto da solo sul ponte di batteria.
Il tenente rimase immobile e non emise un suono mentre lo muoveva, a malapena respirava.
Con la voce rotta dall’angoscia, l’allievo ordinò a due possenti marinai di trasportare l’ufficiale ferito sottocoperta e a Blackney di convocare il Capitano.
Dovevano uscire da quel disastro, in un modo o nell’altro.

Joe Plaice.
Frattura cranica con avvallamento, probabilmente non avrebbe superato la notte.
Lord Blackney.
Il più piccolo degli allievi con un braccio rotto tanto malamente che quasi sicuramente gli sarebbe stato amputato la mattina dopo, sempre che ci fosse arrivato.

Jack Aubrey esitò un momento prima di seguire Stephen alla terza delle brande in cui aveva ricoverato gli uomini feriti più gravemente durante l’attacco dell’Acheron
Mentre avanzava a piccoli passi incerti verso la branda sospesa, la voce forzatamente inespressiva di Stephen gli sussurrava all’orecchio: “La bordata li ha investiti in pieno, deve aver sbattuto contro la paratia o la culatta di un cannone. Ha un brutto taglio sull’avambraccio provocato da una scheggia, e sul fianco sinistro quattro costole rotte in più punti che si sono distaccate dalle altre. Ho già operato per ridurre le fratture ma è ancora molto grave. Sto facendo tutto il possibile ma non sono sicuro di riuscire a salvarlo. Mi dispiace infinitamente, fratello.”
Jack digerì in silenzio quella terribile notizia e si curvò sul caduto.
Sapeva già chi vi fosse disteso senza bisogno di vederlo in viso: il grande assente sul ponte di coperta durante la battaglia, il suo secondo in comando.

Il ferito giaceva immobile in modo innaturale, il magro torace avvolto da bende macchiate di sangue, il braccio ferito, sempre il sinistro, legato al collo per immobilizzarlo e impedire che muovendolo aggravasse le fratture alle costole. Era pallido e sudato, nonostante fosse evidentemente sotto l’effetto del laudano i lineamenti erano contratti per il dolore e respirava in brevi rantoli frastagliati, con un raschio leggero che accompagnava ogni movimento del torace.

Conscio del fatto che quella avrebbe potuto essere l’ultima volta in cui gli avrebbe parlato, Jack raccolse la mano sana di Pullings con una delicatezza quasi reverenziale per stringerla tra le sue: “Tom? Tom, riuscite a sentirmi?”
L’altro aprì gli occhi e in un primo momento sembrò stentare a riconoscerlo ma poi un sorriso timido gli distese il volto: “Signore.”
Alle spalle di Aubrey, Stephen lo sgridò bonariamente: “Non cercate di parlare, Tom. Risparmiate le forze.”
Pur a malapena cosciente Pullings riuscì ad annuire e Jack gli strinse forte la mano, cercando di reprimere le lacrime e sforzandosi di sorridere: “La nave è al sicuro. Avete fatto un ottimo lavoro. Sono fiero di voi: siete un ottimo ufficiale.”
Di solito non si abbandonava a dimostrazioni d’affetto ma Tom poteva essere sul letto di morte e meritava di sentire quelle parole: non potevano che fargli bene.

Per un momento infatti fu proprio come se il dolore lo avesse abbandonato del tutto, soppiantato da una gioia immensa che sembrò illuminarlo e gli fece brillare gli occhi.
Ebbe vita breve, tuttavia, e venne presto soppiantata da un’espressione di profonda amarezza mentre la mano di Pullings si aggrappava a quelle di Aubrey come ad un’ancora di salvezza: “Vi prego, signore. Abbiate cura della mia famiglia.”
Le parole erano appena udibili, praticamente muoveva le labbra a vuoto.
“Ve lo prometto, Tom. Ve lo prometto. Ma non ce ne sarà bisogno: andrà tutto bene.”
Pullings fece appena in tempo a sentirlo prima che il dolore e la droga avessero il sopravvento e perdesse i sensi.
L’ombra di un sorriso fiducioso ancora gli aleggiava sul viso.

Mentre Stephen lo guidava fuori, Aubrey sentì distintamente quel profondo senso di malinconia che lo assaliva dopo ogni battaglia e dovette ricorrere a tutta la propria forza di volontà per trattenere le lacrime davanti all’equipaggio.
In momenti come quello la gravità dell’accaduto lo investiva con la sua piena potenza e si rendeva conto di quanto fosse crudele la guerra che combatteva. Essa gli si figurava come un’entità superiore, quasi una divinità malevola ed ingorda che non guardava in faccia nessuno quando esigeva il suo tributo di sangue, che fosse un marinaio anziano ed esperto, un bambino o un caro amico, quasi un figlio.
Nessuno ne era immune e lei si prodigava per ricordarglielo, ogni volta che s’illudeva di essere superiore alle leggi del mondo. E per quanto sapesse che i morti in battaglia rientrino di diritto nell’ordine naturale delle cose era sempre difficile accettare la presenza tra loro di una persona ormai cara al suo cuore.
Ma in cuor suo sapeva quanto Stephen odiasse quel particolare aspetto dell’ordine naturale delle cose e sapeva che avrebbe lottato anche con le unghie e con i denti per non permetterle di portarsi via i suoi pazienti.
Questo almeno gli dava la speranza sufficiente per arrivare al giorno dopo.

Quella sera, l’infermeria fu teatro di una vera e propria processione di uniformi: tutti tra ufficiali ed allievi vennero a far visita ai compagni caduti.
Una serie di fruscii accompagnò l’entrata di Hollom, che accennò un probabile sorriso passando accanto alla branda di Blackney e a Calamy che vi si era appollaiato vicino prima di pietrificarsi nel centro della stanza, contorcendo le dita sul cappello che teneva in mano mentre aspettava nervosamente che Allen si accomiatasse da Pullings.
Rimase bloccato in quella posizione finché i due ufficiali si strinsero la mano, poi il più anziano si allontanò e nell’uscire assestò ad Hollom una pacca sulla schiena che quasi lo fece ribaltare, così per consolazione.

Per nulla consolato da quel gesto premuroso, l’allievo si avviò titubante al capezzale di Pullings: il giovane tenente era l’ufficiale di squadra suo, di Calamy e di Blackney – i più indisciplinati Williamson e Boyle li avevano rifilati a Mowett, avendo egli più tempo da dedicare loro – e il più alto in grado a bordo dopo il capitano ma avrebbe compiuto ventotto anni quell’agosto mentre Hollom andava per i trenta. C’era quindi un’enorme difficoltà di rapporti data da quello scompenso tra grado ed età e dalla timidezza di entrambe le parti che avevano risolto tacitamente con l’evitare il più possibile di rivolgersi la parola.
Tuttavia Hollom aveva sentito il bisogno di infrangere quel tacito accordo perché si sentiva in colpa per il ferimento del suo superiore. Sebbene agli occhi di chiunque altro sarebbe stato ovvio che non avesse alcun tipo di responsabilità per l’accaduto, sentiva di esserne la causa per non aver avvisato in tempo della presenza del nemico e voleva scusarsi personalmente. In cuor suo sperava più di tutti gli altri che il tenente si salvasse perché il senso di colpa non gli avrebbe permesso di vivere a lungo altrimenti.
Tremando da capo a piedi, Hollom si accostò alla branda del giovane ufficiale.

Era talmente pallido che la cicatrice sul volto spiccava come una ferita aperta, aveva gli occhi chiusi e respirava con la bocca semiaperta emettendo un rumore gracchiante ad ogni ansito, ogni centimetro di pelle visibile era coperto da una patina di sudore che gli aveva incollato alcuni capelli alla fronte mentre gli altri erano aggrovigliati e spenti.
Quando l’allievo trovò il coraggio di chiamarlo, sollevò lentamente le palpebre e voltò la testa in direzione del visitatore.

La sua voce era talmente soffocata che Hollom dovette leggergli le labbra per capire cosa stesse dicendo: “Signor Hollom? Che ci fate qui?”
“S- sono venuto a trovarvi, signore. Per assicurarmi che steste bene.” Fece una pausa, per radunare tutto il suo coraggio prima di proseguire a voce più bassa “E’ stata colpa mia, signore.”
“Che cosa?”
“Se avessi avvisato prima della nave nemica non saremmo stati colti alla sprovvista e non sareste stato ferito.”
Pullings aprì la bocca per rispondere ma venne travolto da un attacco di tosse che lo lasciò boccheggiante sul cuscino e terrorizzò l’allievo: “V- volete che chiami il dottore?”
L’ufficiale fece un cenno di diniego con la testa e continuò come se nulla fosse accaduto, fermandosi spesso a riprendere fiato: “Non dite sciocchezze. Non è stata colpa vostra. Magari non saremmo stati presi tanto a mal partito ma i loro cannoni avrebbero fatto gli stessi danni. Nessuno di noi poteva prevederlo. Non è stata colpa vostra.”
Lo sforzo di parlare fu troppo per il suo corpo esausto e si accasciò privo di sensi sul cuscino.

Ufficialmente libero da ogni responsabilità ma con il cuore ancora pesante Hollom si avviò verso il ponte di coperta.
Durante tutto il tragitto lo seguì lo sguardo accusatore di Calamy, che lo fissava come a volergli scavare un buco nella schiena. 

 
  
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