Anime & Manga > Lupin III
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Autore: Fujikofran    28/08/2018    4 recensioni
San Francisco, primo pomeriggio. Jigen osserva la città fumando la sua ennesima sigaretta e si abbandona a martellanti pensieri del suo passato
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jigen Daisuke, Lupin III
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Che cosa prova un uomo, mentre lo sto uccidendo?”
Non erano pochi i momenti in cui Daisuke Jigen si poneva questa domanda. Anzi, quella domanda gli arrovellava l’anima sempre di più, talvolta in automatico, come se tale pensiero fosse l’intero sottofondo della sua esistenza. Un tarlo che gli martellava il cervello; ecco cos’era, quel pensiero. Conosceva benissimo il dolore provocato da una pallottola e per lui non era affatto un mistero, dato che il suo corpo lo aveva sperimentato diverse volte e ne portava i segni. Segni di pallottole come “trofei”; trofei dal vago sapore di morte, una morte sfiorata, beffata, e un appuntamento, quello con essa, solo rimandato. No, non aveva in mente il suo, di dolore, Jigen, ma pensava al proiettile fatale per ogni sua vittima, all’attimo in cui la carne veniva violata dal piombo, al sangue che, inesorabile, sgorgava senza alcuna remora. Un uomo morto non sente più nulla, ma uno che sta per morire sì. Si chiama agonia e, più ci vuole tempo, più essa porta a un disperato, seppur contraddittorio, desiderio di morire, per non soffrire troppo, per non trovarsi tra due mondi così diversi tra loro, sospesi in uno stato inconciliabile, tra il fulgore della vita e l’oscuro silenzio della morte. Quanti uomini aveva portato a quello stato? Ne aveva perso il conto, Jigen, dietro alla sua ennesima sigaretta.

Era il primo pomeriggio e il pistolero si trovava vicino alla finestra di un grattacielo di San Francisco e, mentre il Golden Gate si mostrava a lui nella sua imponenza rosso fuoco, rifletteva sulla sua vita, mentre il fumo della sua sigaretta usciva dalle sue narici. Odiava i tempi che separavano un’azione criminale da un’altra, da una fuga all’altra, da un dispendio di adrenalina all’altro. Li odiava, perché si ritrovava a pensare, spesso a rimuginare, a mescolare riflessioni difficili da digerire. Spense la sigaretta e si avvicinò ancora di più alla finestra. Il suo respiro appannò il vetro e il panorama sembrava come dissolversi davanti al suo sguardo. San Francisco, però, era ancora lì, bella come prima. Gli tornarono in mente i primi ricordi da sicario, quando si era reso conto di essere destinato a una vita differente da quella di altri giovani. Non aveva nessuno, non aveva nulla e, per sopravvivere, era diventato una pedina della mala, una sorta di automa che obbediva a comando. “Uccidi quel tizio”, gli indicavano alcuni, “Questo è colui che devi mettere a tacere per sempre”, gli dicevano altri mostrando delle fotografie, “A questo devi scaricare addosso tutta la pistola”, “A questo devi sparare con un mitra”. Non doveva obiettare, ma solo eseguire, se voleva mettere qualcosa sotto i denti e non perire. Ma, più passava il tempo, più ogni vittima sottraeva una parte della sua anima, come per appellarsi, forse, a un ultimo frammento di vita. Più vedeva persone morire sotto i suoi colpi, più moriva lui insieme a loro. Non erano sagome, bottiglie o barattoli da centrare per divertirsi con la pistola e far vedere quanto si sia bravi: erano esseri umani a cui sottraeva il bene più prezioso. Jigen era un sicario e nient’altro, ma un sicario non smette mai di essere un uomo.
 
Un’altra sigaretta, dopo aver spento l’ultima, e poi un’altra ancora, in quel grattacielo che era diventato il rifugio della banda Lupin. Era angosciato, Jigen, come se, all’improvviso, avesse indossato i panni di un se stesso che non era più tale, come se si fosse sdoppiato e una parte di sé contemplasse l’altra con orrore. Ripensava a tutti gli uomini che aveva ucciso, immersi nel loro stesso sangue, in posizioni che la morte aveva reso spaventosamente innaturali. Da quando era diventato ladro, non era più un sicario, ma non aveva comunque smesso di uccidere, per difendersi, per difendere la sua banda e per rinnovare il suo indissolubile legame con la sua Magnum, legame che non poteva recidere. Forse un giorno avrebbe cambiato vita? E in quale modo? L’unica via di uscita sarebbe stata quella di consegnarsi alla polizia e di finire il resto dei suoi giorni in carcere, sicuramente all’ergastolo. Fine pena mai. Ma sarebbe stata forse diversa dalla pena che la libertà gli stava infliggendo? Però c’erano loro, i suoi due compagni di (mala)vita: Lupin, che lo aveva salvato da un baratro ben peggiore dell’essere ladro, e Goemon, quel giovane dal modo di vivere così complicato e incomprensibile. Goemon era l’unico che poteva aspirare a una vita migliore, secondo lui. E poi Fujiko, la donna della banda, di tutti e tre e, soprattutto, di nessuno. Un giorno lui avrebbe mollato quella banda, ma per cosa? No, non l’avrebbe mai lasciata, per nulla al mondo.
 
-Ohi, ma non dovevamo uscire? Goemon ci aspetta-
I pensieri di Jigen furono interrotti da Lupin, che gli diede una pacca su una spalla, per sollecitarlo a sbrigarsi.
-Un attimo, fumo un’altra sigaretta e vado a cambiarmi-

 
   
 
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