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Autore: insiemete    28/08/2018    0 recensioni
Chase Crawford non ha mai avuto una gran stima di sé stesso, forse per il fatto di aver avuto il cuore spezzato troppe volte o forse per essere sempre paragonato alla sorella - perfetta in tutto e per tutto.
Alla soglia dei ventun anni, Chase frequenta l'ultimo anno alla rinomata Cornell University, un'università frequentata anch'essa dal suo migliore amico, Ashton, e dalla sua migliore amica della quale è segretamente innamorato, Adeline.
Sarà quando il suo occhio si poserà su una chioma bionda e fluente che, forse, per la prima volta, Chase capirà che cos'è il vero amore.
Ma l'amore è come una rosa: ogni dove metti le mani, finirai con il pungerti.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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L’indomani mi svegliai indolenzito. La sera prima avevo deliberatamente eccesso con l’alcol, bevendomi un paio di Margarita sotto l’occhio vigile di Adeline. Più di una volta provò a portarmi via il bicchiere da sotto il naso, ma sapeva bene che presto ne avrei ripreso un altro dal bancone del barman. Non mi erano rimasti molti ricordi.

Strascicai i piedi sulla moquette consunta ed andai a lavarmi il viso. Ero pallido, come la neve gelida sul Monte Washington, e le mie labbra rossastre, raggrinzite e gonfie sembravano il resoconto di una lite non finita bene. Gli occhi erano tetri, come una vetrata sporca, e sembrava volessero rispecchiare il mio stato d’animo di quel momento: uno schifo.

Ashton non era in camera. Probabilmente aveva trovato qualche ragazza con cui passare la notte. Dopotutto era sua abitudine farlo. A volte mi chiedevo come mai non volesse di più, come mai non provasse a stare con la stessa persona ed intraprendere un percorso con essa. Ma Ashton era molto diverso da me, credo non gli passasse nemmeno in testa un pensiero simile.

Quella mattina non avevo lezioni.

Così, indossai una semplice tuta nera ed andai in biblioteca.

Diversamente da molti ragazzi della mia età, io amavo leggere. Lo studio me lo impediva, non avevo molto tempo libero, ma quello che riuscivo a ritagliarmi, lo passavo immerso in pagine e pagine di volumi.

Probabilmente, se non avessi intrapreso questo percorso di studi, sarei diventato uno scrittore.

La Cornell possedeva molte biblioteche ed io avevo sempre l’imbarazzo della scelta.

Riposi Fiesta sul carrello e mi incamminai verso il secondo piano, dove vi erano i manoscritti.

Presi in mano Le memorie di Barry Lyndon, quando sentii due mani pizzicarmi i fianchi.

«Ciao secchione» borbottò la ragazza, spingendomi gli occhiali su per il naso.

Adeline era più felice del solito, stretta in un maglione cremisi, i libri schiacciati contro il petto. Mi guardava con occhi supplichevoli, occhi che sotto celavano una domanda che non mi sarebbe affatto piaciuta.

Sistemai meglio la montatura dei miei occhiali scuri e riposi il libro sullo scaffale. Incrociai le braccia al petto, prima di chiederle che cosa volesse.

«Niente, voglio solo scambiare due parole col mio migliore amico» sbuffò, rotando gli occhi al soffitto.

«Adeline.»

«Okay, mi devi dare una mano con questi» disse, piazzandomi sotto il naso due volumi di letteratura contemporanea. Avranno avuto almeno mille pagine ognuno.

«Ma sei matta?»

Si corrucciò, mostrandomi il labbro. «Ti prego, ne ho bisogno.»

Adeline stava cercando di laurearsi in letteratura. Sapevo quanto fosse difficile per lei farlo. E sapevo anche quanto odiasse quella materia. I genitori avevano preso questa scelta per lei, senza pensare ad i veri interessi della figlia. Oramai si era data per vinta, all’ultimo anno non pensi più ad inseguire i tuoi sogni, cambiare, bensì non vedi l’ora di avere quella stramaledetta laurea in mano ed andartene.

Glielo leggevo negli occhi che non ce la faceva più.

«Va bene» sbuffai, «però mi devi un favore. Era il mio giorno libero.»

Adeline strabuzzò gli occhi, felice, e mi abbracciò calorosamente. Trasalii, imbarazzato.

Così, le spiegai Flaubert, Proust, Joyce mentre lei mi guardava stralunata, attenta a qualsiasi mia parola come fosse una delle più dolci poesie. Ma io lo notavo, che a lei non interessava nulla, come abbassava le palpebre e volesse chiuderle, come distoglieva l’attenzione alla minima persona che passava; eppure, stava lì, seduta con le gambe accavallate, ad ascoltarmi parlare ore ed ore, come se fossi stato io lo scrittore, come se sapessi già quello che vi era scritto nel romanzo, nelle poesie di Baudelaire. Mi guardava dolcemente, dicendomi grazie ogni singolo attimo e mi parve di scorgere il mio stesso sentimento nelle sue iridi scure… o forse, solo il riflesso del mio.

Forse era per quello che mi ero innamorato di lei. Adeline mi ascoltava ed io riuscivo ad esprimermi. Ero sempre stato un tipo riservato, eppure con lei non ero in grado di innalzare quel muro. Lo aveva abbattuto prima che riuscisse a dividerci. E nel vano tentativo di ricostruirlo, io non facevo altro che denudarmi delle mie paure, dei miei pensieri.

Mi nascondevo dietro a delle rocce, che sapevano di cenere quando era lei a guardarmi in quel modo.

Ero inspiegabilmente perso in quel arrischiato gioco chiamato amore e speravo di non sfuggirne mai.

Dopo quattro ore, mi fermò. Posò le mani sulle mie e parlò. «Basta, Chase. Ti offro il pranzo» disse, ponendo All’ombra delle fanciulle in fiore dentro la tracolla.

Annuii, seguendola verso la caffetteria.

Ci sedemmo ed ordinammo, mangiando successivamente in silenzio.

«Vuoi anche il mio?» domandai, guardandola addentare il terzo panino.

«Perché mi guardi così? Eh? Lo studio mi mette fame.»

Scossi la testa, sorridendo. Spinsi il piatto verso il centro tavola e glielo passai. Lei mi guardò con gli occhi lucidi, e mimò un: «sei il migliore.»

Dopotutto, nonostante non avessi trascorso il mio meritato giorno di pausa, non potei lamentarmi. Passare il tempo con lei mi inondava di felicità ed ero inspiegabilmente leggiadro. Avrei potuto superare l’oceano con un balzo.

Amavo passare il tempo in sua compagnia. Non ci si stancava mai. A volte calavano degli aloni imbarazzanti tra di noi, ma lei riusciva sempre – e dico sempre – a colmarli. Anche per quello la amavo: faceva svanire ogni imbarazzo da quell’imbranato che ero.

Stavo per chiederle di uscire con me, quella sera, quando Perry entrò dall’entrata sul retro. Mi rabbuiai, stringendo i pugni.

«Ciao amore» bofonchiò, avvicinandosi al nostro tavolo e baciando le sue labbra.

Alzò lo sguardo su di me. «Crawford

«Si chiama Chase» canzonò lei, a denti stretti.

Perry puzzava di pericolo, e Adeline ci andava matta. I pantaloni di pelle, il taglio rasato, l’Harley Davidson del novanta; tutte cose che la facevano impazzire. Ogni weekend, da quando iniziarono a frequentarsi, se la coricava in sella e la portava via. Non ho mai saputo per dove. Lei non voleva dirmelo. Ma non ero stupido, l’avevo capito.

Non avrei mai potuto darle quelle cose.

«Va bene Crawford, per lui.»

La ragazza mi guardò in collera, lei ci teneva che provassi a farmelo amico. Ma non ci riuscivo, non volevo.

«Devo andare.»

Mi alzai e feci un cenno alla ragazza, non degnando di minimo sguardo quel coglione. Sapevo di ferirla così, ma non potevo sopportare tutto questo.

Adeline non aveva mai provato piacere verso i ragazzi ordinari, a lei piaceva l’avventura, il rischio e plausibilmente si sarebbe anche stancata di lui non appena avrebbe trovato qualcuno di più azzardato. Avevo perso ancora prima di giocare.

Cosa avrei potuto darle?

Forse l’amore, ma anche di quello si sarebbe ben presto stancata.

Uscii. Il cielo piangeva e un po’ rispecchiava me. Tirai su il cappuccio sopra la testa, i ricci si bagnarono e mi solleticarono il viso. Passeggiavo tranquillo, sotto quell’acquazzone. Mi sentivo me stesso.

Mi stavo dirigendo verso la confraternita, ma avevo bisogno di stare da solo. Avevo bisogno di pensare. Invertii la marcia.

Cacciai dei sassolini lungo il percorso.

«Che cos’ha quell’idiota che io non ho» sbuffai, irritato.

«Si crede tanto figo perché è un biker!»

Cacciai un urlo. «Se non avesse quella moto, diamine, non sarebbe nessuno!»

Probabilmente attirai l’attenzione di qualche studente, avevo troppi occhi addosso. Affrettai il passo.

«E poi che diamine di nome è Perry?»

Mi morsi il labbro, frustrato. Avevo camminato per tutto il campus e mi ero ritrovato nuovamente di fronte alla confraternita. Non potevo far altro che coricarmi sul letto. Me e la mia rabbia.

Il restante pomeriggio lo passai martellandomi la testa con la matita. Ero finito nella Clark Hall, giocando con i microscopi elettronici. Non ero molto concentrato, i miei pensieri vorticavano su tutto fuorché sull’anatomia del nematode preso in considerazione. Stranamente, il laboratorio era vuoto. La maggior parte delle volte non si riusciva nemmeno a sperimentare con attenzione, dovuto al viavai di laureandi, dottorandi, professori e ricercatori. Ora, benché minimo passante sembrò interessato ad entrarvi.

Adeline mi aveva lasciato una decina di messaggi in segreteria ed io ero tentato a risponderle, ma non potevo, non dovevo. Così, ero uscito.

Stavo cercando di laurearmi in biologia, ma ero rimasto indietro con lo studio e dovevo dare troppi esami in poco tempo. Avevo poche probabilità di laurearmi in quell’anno. Nonostante non fossi fiero del mio percorso di studi, trovavo sempre la voglia di continuare e impegnarmi. Forse perché ero curioso, affascinato.

Il mio trattato sui vermi andava a gonfie vele, dopotutto era la materia che mi piaceva di più del corso. Il Caenorhabditis Elegans era il tema principale della mia tesi. Secondo Sydney Brenner, fu il primo primate, dal quale si generarono successivamente migliaia e migliaia di specie diverse.

Zoomai con la rotella del microscopio e osservai il comportamento dell’essere vivente. Annotai successivamente quanto compresi sul taccuino. Non fui pienamente soddisfatto di quanto appresi, ma decisi comunque che sarebbe andato nella mia tesi, come buona constatazione da fare al relatore.

Inspiegabilmente la pace si interruppe e qualcuno occupò il silenzio circostante.

«Non ti credevo così entusiasta di analizzare vermi» pronunziò, dietro di me.

Mi girai lentamente e mi aprii in un grande sorriso.

La figura snella e longilinea di Scarlett occupava la mia visuale. Erano giorni che non la vedevo e non avevo notizie di lei, ed un po’ mi era mancata. Scarlett era la mia vicina di banco a biologia. E la mia unica amica al campus.

«De gustibus non est disputandum» echeggiò la mia voce contro le pareti.

Sorrise di gusto, mostrando due piccole fossette ai lati della bocca e si mise su il camice alla svelta.

«Avanti, spostati, lascia fare alla dottoressa.»

Mi avvicinai lentamente a lei, ascoltando quant’ebbe da aggiungere. Le nostre mani si accarezzarono per un secondo, quasi avessero paura di farsi del male, di graffiarsi. Sentivo il suo respiro caldo a pochi centimetri dalle labbra, ed un sentimento nuovo e disarmante si propagò in me. Era così bella, dolce, pura, come una candida rosa baciata dalla rugiada; ed in quel momento avrei voluto assaggiarla, baciarla, rendere parte di me il suo profumo.
Una ciocca bionda le cadde sul naso, in mezzo agli occhi, e prima che dicesse o provasse a fare qualcosa, portai il pollice e l’indice in quell’angolo, spostandogliela indietro.
Si girò lentamente verso di me, facendo sfiorare il suo naso contro il mio, fissandomi negli occhi.

«Scusami» dissi, abbassando per qualche istante lo sguardo sulla sua bocca.

Scarlett increspò le labbra e lessi nei suoi occhi del dispiacere.

Mi spostai.

«Allora, come è andata a Minneapolis?» domandai. Lasciai che uno sgabello ci dividesse.

«Bene. Vogliono brevettarla.»

Strabuzzai gli occhi, stupito. Scarlett aveva inventato un marchingegno in grado di prelevare il sangue e stilare una lista di risultati molti più completa rispetto a qualsiasi altro emocromo esistente. Ero orgoglioso di lei.

«Davvero? Sono felicissimo.» Azzerai la distanza abbracciandola. Profumava di rose.

Le si colorarono le guance, ed imbarazzata mimò un grazie con le labbra.

Ashton diceva che ero sordo. Probabilmente l’amore non si poteva vedere, ma eri in grado di sentirlo. Ed io avevo perso il senso dell’udito. Scarlett era diversa da Adeline, per quello non pretendevo nulla da lei, non cercavo di impressionarla; non avrei dovuto fare nulla, non mi sarei dovuto mettere in gioco. E questo mi spaventava. Dovevo solamente essere me stesso.

Ashton diceva che avrei avuto bisogno di essere amato. Che presumibilmente amavo troppo io, che la mia vita era uno dei miei libri preferiti e avevo perso il senso tra realtà e fantasia. Adeline era la mia fantasia, Scarlett la realtà. E sapevo che tra le due cose un mare le separava ed io dovevo decidere verso quale porto dirigermi.

La testa mi diceva una cosa ed il cuore un’altra. Ero costantemente un indeciso.

Posò i suoi occhi cerulei sul mio viso e le vidi arrossarti le gote. «Ecco, prova ora. Ho cambiato vetrino.»

Osservai. «Wow» enunciai, sbigottito, «è meraviglioso, grazie Scar

All’inizio non mi accorsi di averle affibbiato un nomignolo, poi vidi l’espressione del suo viso e fece sorridere persino me. Era bellissimo vederla sorridere per me.

Così, passammo tutta la serata assieme e il tempo sembrò passare inspiegabilmente veloce e qualcosa in me chiedeva di più, voleva che quel momento si ripetesse millemila volte ancora, finché non mi sarei stufato.

Ma la vedevo dura, io, di lei, non mi sarei mai stancato.

Hey, Hey

Hey, Hey.
Scusate se questo capitolo non è questo granché, ma è più una fase di passaggio.
Ho introdotto un nuovo personaggio, vi piace? Chi lo sa che ruolo avrà nella storia.
Ora vi lascio con il nostro protagonista. Con i prossimi capitoli metterò anche gli altri :)
Chase Crawford
Image and video hosting by TinyPic
Mi trovate su wattpad come whatlou.
Un bacio, Elena.


  
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