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Autore: rainbowdasharp    29/08/2018    1 recensioni
"Aveva letto un milione di teorie, riguardo la sua scrittura: “un poeta”, lo definivano e Leo davvero non capiva – un poeta di cosa, della sovversione? Della ribellione silenziosa a cui si era condannato?"
| leotsu (e presenza di altre coppie, seppur accennate), soulmate!au |
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Leo Tsukinaga, Tsukasa Suou, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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LEOKASA LASTCHAP

Epilogo 2: ... nessuna fine.


“… ogni singola striatura del cielo sembrava volerlo invitare a restare. Il sorriso malinconico dell'elfo non lo pregò, però, e con la sua anima candida quanto una colomba, lo salutò. Gli augurò buona fortuna, dopo avergli donato ciò che – ne erano entrambi consapevoli – manteneva in vita la radura incantata: una pietra da cui sgorgava la miracolosa acqua dell'immortalità, se posata in un luogo rigoglioso.
E fuori da quel mondo fatato, il cavaliere trovò solo morte, distruzione, dolore.”

Era probabilmente l'ora di pranzo, ormai, quando lesse quel passo – quando Tsukasa si rese conto di aver smesso di respirare per più tempo di quanto il corpo umano potesse concedere. Non aveva mai, mai interrotto la lettura se non per brevi pause, fatte semplicemente per sincerarsi dell'orario: aveva avuto il buon cuore di chiamare a lavoro ed avvisare che non sarebbe potuto andare, quel giorno, perché malato – si sentiva in colpa ma era, dopotutto, la prima volta che usufruiva di qualche giorno di malattia. Inoltre, era vero che non stava proprio bene.

E quel libro lo avrebbe solo perseguitato, se non ne avesse letto il finale.

Ma ogni libro era un viaggio: non avrebbe mai potuto balzare alle pagine finali, soprattutto considerando che era Leo, l'autore; era sicuro che, dietro ogni frase c'era un frammento della sua persona, del percorso che aveva compiuto per giungere al finale che aveva scelto.

Era come correre dietro ad una fantasma, lungo quelle pagine: abbracciava ogni parola con nostalgia e, similmente a quando suonava il violino nelle strade vuote, Leo sembrava seduto con lui, lì, su quel letto; era silenzioso, paziente come mai lo aveva visto neanche nella realtà.

Quando Tsukasa aveva letto quelle ultime righe, non aveva potuto fare a meno di sollevare lo sguardo verso quell'illusione, che continuava testardamente a guardare altrove.

Il cavaliere aveva abbandonato il Paradiso. Se davvero Leo aveva proiettato la loro storia in quel libro, significava che lui aveva lasciato Tsukasa alle sue spalle: sapeva cosa pensava del Predestino, sapeva che considerava fasullo quel che ne nasceva, oltre che pericoloso... Eppure, mancavano ancora moltissime pagine alla conclusione.

Riprese a leggere.

Il cavaliere aveva vagato per tutto il regno, la pietra ben custodita tra le sue mani e ad ogni passo aveva riacquistato i ricordi perduti dalla sua entrata nel paradiso terrestre; era giunto infine nella sua città, che aveva trovato ormai stremata, ridotta all'osso seppur il sole splendesse forte e chiaro su quel che rimaneva della cittadina.
Il re era ancora vivo, però. Le parole di Leo, nel descrivere quel tumulto di sensazioni si erano fatte nervose, quasi rabbiose: lo immaginava scrivere velocemente, come faceva sempre quando le idee lo coglievano alla sprovvista. Lo vedeva, chino sulla prima superficie disponibile, intento a buttare fuori come se fosse veleno le parole che lo facevano tremare, come se fosse un impulso incontrollabile. Forse era autosuggestione ma sembrava che odiasse il re più delle bugie dell'elfo, da come ne scriveva: il vecchio monarca sedeva spento sul suo trono decorato di un oro invecchiato, come se le morti dei suoi sudditi ne avessero portato via lo splendore e quando il cavaliere si disse tornato, la sua burbera domanda mal celava l'interesse egoistico per la pietra. La morte della figlia prediletta doveva aver indurito quell'anziano cuore che il cavaliere una volta credeva giusto e traspariva chiaramente dall'avidità con cui parlava che l'unica cosa che desiderava era la fonte miracolosa—ma solo per sé.

Non c'era più una collettività una salvare, ma un desiderio da esaudire.


Il cavaliere fece un passo indietro, la sala del trono improvvisamente talmente opprimente da avvertirne il peso sulle sue spalle, in tutta la sua maestosità e il trono—per gli dei, quella poltrona sembrava avviluppata da demoni, come se la malattia che aveva svuotato la città si fosse riversata tra quegli eleganti intarsi, rendendo il consunto signore di quelle entità malvagie.

Dammi la fonte” ordinò l'anziano, tendendo le mani rugose verso il cavaliere. Il giovane uomo indietreggiò ancora di uno, due, tre passi. Sentiva la pietra bruciare tra le sue mani, avvolta in un panno com'era e quasi poteva sentirne la voce, la richiesta di aiuto: “Non far sì che mi possieda”.

E allora, solo allora, fuggì. Una melma densa comparve al grido bestiale ed infuriato del monarca, sgorgando dalle pareti, in ogni direzione: sembrava che i demoni che avevano ucciso i suoi concittadini adesso si fossero addentrati in ogni anfratto della cittadina. Tra i mattoni, tra le venature del legno delle porte, dalle pennellate secche dei ritratti... ogni singolo oggetto sembrò emanare quell'incubo oscuro, ostacolando ogni suo passo mentre cercava di fuggire lontano, sempre più lontano.

Il cuore del cavaliere batteva forte, nel suo petto. Sentiva l'armatura pesare, la spada rendergli difficili i movimenti, l'elmo coprire parzialmente la sua visuale: tutto ciò che aveva indossato con orgoglio, fino a quel momento, divenne non solo superfluo ma addirittura pericoloso. Se non li avesse abbandonati, sarebbe morto.


Tsukasa chiuse per un secondo il libro, di scatto, il respiro affaticato perché ancora una volta lo aveva trattenuto: sentiva il cuore battere con la stessa meravigliosa e violenta potenza di uno stallone al galoppo, perché—lì, in quelle parole, iniziava a prendere forma la risposta di Leo. Leo, che aveva rifiutato sempre, quasi con ossessività, l'amore predestinato perché aveva il terrore che potesse distruggere la sua creatività (quante volte glielo aveva confidato?), che per tutta la vita aveva preferito soffrire, piuttosto che lasciare andare la sua penna... nelle climax finale aveva scritto di un uomo che per salvarsi la vita rinunciava a tutto ciò che lo aveva definito sin dalle prime pagine della sua storia.

Il cavaliere non aveva un nome – era solo il “cavaliere”. Questa era la sua identità, la stessa di cui si era quasi dimenticato in quella sorta di Paradiso Terrestre, la stessa a cui si era aggrappato nel convincersi a fuggirne. Era letteralmente l'unica cosa che gli dava una concretezza e qualunque lettore, a quel punto, avrebbe compreso che il cavaliere, all'inizio di quell'avventura, avrebbe preferito morire piuttosto che rinunciare alla sua bella armatura, al suo elmo e alla sua spada perché era tutto ciò che era.

Come Leo Tsukinaga e la sua penna, le sue storie.

«Non è giusto» gli sfuggì, accarezzando la carta come se potesse sfiorare invece il volto dell'uomo che amava, perché era uno stupido. Erano due stupidi. «Non devi rinunciare a te stesso, you idiot».

Riprese a leggere.


Quindi, si spogliò di tutto: prima l'elmo, che cadde a terra e venne rapidamente risucchiato dall'Onda Nera, che non accennava a rallentare la sua folle corsa; poi fu il turno della pettorina, degli spallacci, dei fiancali e delle pesanti gambiere. Tutto finì indifferentemente nel vortice oscuro che aveva alle calcagna, scomparso per sempre.

Ma non abbandonò la spada.

Senza quella, come avrebbe potuto difendersi? No, la spada rimase al suo fianco; con in spalla la sacca che conteneva la pietra e l'arma in pugno, il giovane corse a perdifiato senza una direzione precisa: sapeva solo che l'unico modo per liberarsi di quella sostanza demoniaca che gli dava la caccia era portare la potente pietra al sicuro: ma dove? Dove poteva andare con quel fardello, con quel potere troppo, troppo grande per le misere ed avidi mani umane?

Senza che se ne accorgesse, però, la risposta iniziò a palesarsi di fronte ai suoi occhi: era esausto, ormai, ma ad ogni passo – sempre più lento, trascinato – sentiva la paura scivolare via. Sebbene il verde rigoglioso fosse scomparso, lasciando il posto ad un autunno fuori stagione che aveva colorato quasi tutto di toni caldi sì, ma spenti, il giovane riconobbe la radura che per tanto tempo si era presa cura di lui.

Era al sicuro? Si volse per un attimo, ma del demoniaco fiume nero non c'era più alcuna traccia. Piuttosto, al suo posto, c'era la desolazione che non ricordava di aver visto quando era partito ed aveva detto addio all'elfo.


Tsukasa si impose un'altra pausa. Merlino si era di nuovo sistemato al suo fianco, fornendo un dolceamaro sottofondo musicale con le sue fusa alla lettura di quella che si apprestava ad essere la loro resa dei conti.

Si prese un attimo per chiudere gli occhi e scacciare le lacrime che ormai da un paio di pagine minacciavano di cadere. La mente vorticava, pregna così tanti pensieri che ebbe difficoltà a tentar di dar loro un ordine: a niente serviva lo sguardo curioso del suo Leo illusorio, perché – lo sapeva bene – non poteva parlargli. Interpellarlo significava tradire il libro che aveva tra le mani e quindi il suo autore: era compito suo decifrare quello che leggeva e, seppur inizialmente non avesse trovato troppe difficoltà (era riuscito, più o meno, a capire come lo scrittore aveva vissuto la loro relazione da quelle pagine, anche se leggerlo era stato a tratti doloroso e a tratti meraviglioso, come sfogliare un album di vecchie fotografie), adesso doveva prendersi tempo per capire cosa Leo stesse tentando di comunicargli.

Il cavaliere, che adesso era ormai solo un “giovane” (impossibile non notare quel cambiamento) armato di spada e che forse aveva perso se stesso, si era ritrovato di nuovo in un luogo conosciuto: l'entrata del Paradiso, dello stesso da cui era fuggito, ora invecchiati; i demoni, però, erano scomparsi. Poteva quindi assumere, Tsukasa, che ormai i dubbi di Leo – i peggiori, almeno – avevano smesso di perseguitarlo?

E allora perché la radura era invecchiata?

«Hai paura che io non sia più qui?» gli sfuggì in un sussurro, mentre rileggeva quel passaggio: la desolazione. Se c'era una cosa che Leo aveva omesso nella trasposizione da “Robin” all'elfo era proprio la promessa di aspettarlo, per sempre; l'addio tra i due era suonato sì come un “arrivederci”, ma era sottinteso nel sorriso dell'elfo e nulla più.

Quindi non gli aveva creduto? Temeva che sarebbe andato avanti?

Da una parte, non poteva dargli torto; non solo perché, dal punto di vista dell'uomo, Tsukasa gli aveva mentito per mesi e non aveva dunque motivo di fidarsi delle sue parole, ma anche perché per Tsukasa in prima persona era stata una vera tortura. Aveva messo a soqquadro tutta la sua vita, pur di costringersi ad aspettarlo: si era ribellato come non aveva mai avuto il coraggio di fare anche per avere la mente occupata da altro. Qualunque cosa pur di rimanere lì, pur di avere la forza di attendere.

Inspirò a fondo, poi riprese a leggere. Non mancava molto, alla fine.


Sei qui?” La voce del giovane risuonò forte nella foresta, ma non vi fu alcuna risposta. La pietra tra le sue mani sembrava diventata pesantissima, quasi insostenibile, al punto che si chiese non fosse piuttosto il suo senso di colpa, quello che stringeva al petto.

Chiamò l'elfo più e più volte, ma non ricevette alcuna risposta e la pietra continuava ad aumentare, come per magia, il suo peso. Sembrava volesse disperatamente riunirsi alla terra, così come disperatamente lui tentava di trovare il suo compagno – iniziava a capire il perché tante menzogne, ora.

Quel Paradiso andava protetto e, pur di prendere il cavaliere con sé, era dovuto scendere a compromessi.

Alla fine, lasciò andare la pieta, perché le sue umane mani non erano più in grado di sostenerla; questa cadde, d'improvviso priva di peso, comodamente sull'erba giallastra, seccata da una stagione che non avrebbe dovuto esserci.

Inizialmente, non successe niente. Il giovane si era aspettato un gran rumore, un tonfo sordo per quanto la pietra sembrava pesare e invece era rimbalzata sul terreno che, seppur secco, l'aveva accolta dolcemente.

Poi, l'acqua iniziò a sgorgare all'improvviso.

La fonte si originò nuovamente dalla pietra: l'acqua miracolosa, nata dal ciottolo, si insinuò nel terreno e più sgorgava, più la natura che lo circondava sembrava riprendere lo splendore che il giovane ricordava con gli occhi di cavaliere: gli alberi rifiorirono, l'erba tornò del colore dello smeraldo e anche l'aria divenne più pulita, quasi una brezza leggera avesse portato via quel tanfo di decadimento che aveva cominciato a corroderla. E poi...


Tsukasa voltò la pagina e, con una non troppo sussurrata imprecazione, trovò solo bianco.

Infatti, tutto ciò che seguiva era il vuoto: una ventina di pagine completamente svuotate, senza alcuna parola, messaggio o racconto da veicolare. Non c'era più niente da scoprire, nulla di cui accertarsi: per quanto le sfogliasse, a metà tra l'incredulo e il furioso, sembrava proprio che Leo fosse ricomparso nella sua vita per provocarlo e lasciarlo di nuovo senza risposte.

«I swear, I'll kick your ass as soon as I see you--» mormorò, in inglese, prima di lanciare il libro dall'altra parte della stanza; Merlino, al suo fianco, sussultò e miagolò irritato nella sua direzione, forse chiedendosi se non fosse impazzito.

E aveva ragione il felino: stava impazzendo. Si prese la testa tra le mani, resistendo a stento all'impulso di tirarsi i capelli e strapparseli; era la sua vendetta, questa? Lasciarlo così, sospeso in un limbo di speranza e terrore per il resto dei suoi giorni? Voleva che perdesse completamente la ragione a causa sua?

Digrignò i denti, giusto perché il buon senso gli suggerì che, in un condominio, urlare non era il caso.

No, si disse, mentre sia il suo respiro che i battiti del suo cuore si facevano più regolari. No, lo avrebbe trovato. Gli avrebbe restituito quello stupido libro, lo avrebbe baciato e se ne sarebbe andato di nuovo. Anzi, forse lo avrebbe baciato più di una volta, per dimostrargli che poteva torturarlo quanto voleva, ma non si sarebbe arreso: avrebbe aspettato, in quella vita infernale, che Leo tornasse spoglio della sua armatura nella radura che si riempiva di nuovo di vita.

«... Wait».

Un barlume di idea – sciocca, folle, ingenua e forse autodistruttiva – si fece strada nella sua mente: probabilmente, se non fosse stato così emotivamente coinvolto e provato, si sarebbe ben guardato dallo scattare in piedi, cambiarsi con i primi abiti che trovò sparsi per la stanza e uscire di casa per correre a perdifiato verso la stazione della metropolitana.

C'era ancora una speranza, seppur una fiammella e, a costo di farle scudo col proprio corpo, non le avrebbe permesso di spegnersi.


Il solito Tsukasa si sarebbe vergognato di quei capelli spettinati, di quegli abiti sgualciti e della giacca troppo grande (era quella che usava di solito per uscire sul piccolo balcone di casa sua, per godersi un buon té sotto il cielo scuro della sera); il solito Tsukasa si sarebbe specchiato nei vetri un po' malandati della metro ed avrebbe imprecato, tentando di darsi un'aria più decente.

Ma lo Tsukasa di quel primo pomeriggio invernale aveva passato la notte in bianco per leggere, aveva saltato ben tre pasti e nonostante questo l'unica fame che aveva era quella di risposte: tutto ciò che il suo riflesso poteva suggerirgli era che, dopo tutti quei mesi, stava definitivamente ammattendo. “Congratulations” gli parve di sentire, dalla sua stessa ironica voce.

Eppure, il suo cuore ne era certo - “ È più bravo a scrivere che a parlare, dopotutto”, gli aveva ricordato Sena, senza puntualizzare niente che il giovane Suou già non conoscesse: Leo comunicava più tramite la sua scrittura, che non la parola. Quindi perché condurre il fu cavaliere verso la radura, così vicino all'elfo e poi lasciarlo solo? Perché ridare vita al Paradiso Terrestre senza voler davvero trovare l'elfo “menzognero”?

Se davvero quella fiaba era un'enorme trasposizione di quanto lo scrittore aveva vissuto a causa sua, dell'amore che provava per lui, forse significava che Leo aveva accettato di lasciar andare quella romantica ma sadica idea del Predestino ladro del suo talento, così come il protagonista della sua storia aveva lasciato cadere la pietra miliare della fonte sul terreno... ?

Oppure, ipotesi più probabile, Tsukasa stava impazzendo davvero, leggendo un testo che non c'era.

Scese dalla metro e ripercorse passi fatti almeno un centinaio di volte: i viali ricoperti da un manto di foglie giallastre, cadute dagli alberi che, seppur denudati, con orgoglio ancora si mostravano agli occhi umani, erano ormai familiari. Sapeva esattamente dove stava andando, anche se non sapeva se fosse sulla strada giusta. Quando si trovò di fronte al campanello con su scritto “Tsukinaga”, inspirò profondamente prima di premere il bottone.

Fu Ruka ad aprirgli, seppur con un po' di ritardo. Era raggiante, splendida come la prima volta che l'aveva vista alla mensa universitaria: i capelli arancio brillavano sul maglioncino rosa tenue che indossava, gli occhi verde smeraldo sembravano più vivi che mai. Non si vedevano da qualche mese e Tsukasa, come ogni volta, non poté fare a meno che concederle un sorriso dolce, nonostante il turbine emotivo che sembrava dilaniarlo dall'interno.

E la somiglianza della ragazza col fratello (almeno superficialmente) non lo aveva mai aiutato troppo.

«Tsukasa!» esclamò la ragazza, evidentemente felice di vederlo. Gli gettò le braccia al collo e lo strinse, come faceva sempre. Il giovane Suou si era sempre chiesto chi dei due poteva aver più bisogno di quella stretta di affetto genuino – se la ragazza o lui. «Che succede? Non sei... a lavoro?» gli chiese, titubante, forse notando l'aspetto trasandato che l'impeccabile ex-rampollo Suou aveva quel giorno.

«Scusa per non averti avvisata, ma--» Ecco, preso com'era a rimuginare sul libro, non aveva pensato a come spiegarsi con Ruka; non importava la situazione, lei doveva... essere al corrente della possibilità che sua fratello maggiore fosse tornato? Non ne aveva idea. E se l'avesse illusa? Se c'era qualcuno che aspettava Leo con la sua stessa trepidazione, quella era proprio lei.

«Vuoi le chiavi?» Tsukasa batté le palpebre, colto alla sprovvista e non sicuro di aver capito bene. Indagò l'espressione dell'amica (la sua prima amica, al di fuori del contesto sociale da cui era fuggito), confuso, ma trovò solo un sorriso caldo e un'espressione serena, quasi... orgogliosa. «Sono felice che tu abbia trovato il coraggio di accettarle».

Dopo la partenza di Leo, la prima persona con cui si era confidato riguardo i suoi progetti futuri (lasciare l'università, lavorare per un po' di tempo, andare a vivere da solo) era stata proprio Ruka. Tsukasa lo ricordava bene: erano entrambi seduti sul pavimento della sua camera, con Merlino che giocherellava pigramente con un nastro per capelli e ne avevano parlato a lungo; alla fine, lei aveva tirato fuori da un cassetto un mazzo di chiavi.

Non un mazzo di chiavi qualunque, ma quello accompagnato dalla buffa testa di alieno che Leo amava tanto. Che Leo era stato sul punto di regalargli e che Tsukasa aveva rifiutato. Che, infine, era finito tra le mani di Ruka.

Allora, la ragazza gli aveva offerto una soluzione: perché non approfittare di quell'appartamento vuoto, se voleva cominciare a vivere da solo? Ma Tsukasa non aveva potuto accettare e non solo perché si sarebbe sentito quasi in colpa, per un tale piacere, ma anche perché—come avrebbe potuto vivere tra quelle mura, senza essere risucchiato continuamente in un mondo di fantasmi?

Per un istante, proprio come allora, il coraggio gli venne meno: vedere quelle chiavi lo riportava sempre a quella sera, agli occhi dello stesse verde smeraldo di Ruka ma vitrei, che lo fissavano, incapaci di accettare la realtà.

Ma ora, le carte in tavola erano cambiate. Lui era cambiato e—forse anche Leo.

«... Sì, Ruka. Voglio... le chiavi».

Il sorriso di Ruka divenne persino più luminoso e lo invitò ad entrare, come aveva fatto tante altre volte. Tsukasa attese lì, però, appena oltre la soglia, mentre la ragazza correva al piano di sopra per recuperare quel che doveva; lui, intanto, aveva la sensazione di sentire il ticchettio del tempo che scorreva, come se improvvisamente il tempo (quello della sua vita) avesse ripreso a fluire.

Tic, tac.

In quella casa, forse avrebbe trovato il suo eroe, pentito, all'ombra dell'immaginaria fonte dell'eterna giovinezza, finalmente spoglio della sua armatura.

Tic, tac.


La corsa che fece dalla fermata della metro sino a casa di Leo Tsukinaga avrebbe stupito chiunque, soprattutto il suo vecchio insegnante di scherma; Tsukasa non era mai stato un grande atleta, ma in quel momento sentiva con chiarezza l'adrenalina dare una forza sconosciuta al suo corpo, renderlo sovreccitato, nel
bene e nel male. Quindi, niente poteva fermarlo: c'era solo il tempo che lo seguiva come un avvoltoio, la consapevolezza che avrebbe potuto sbagliarsi ma che voleva credere.

Tic, tac.

Di fronte al moderno palazzo dalla pianta rettangolare, di quel soffice color panna, non poté fare a meno di sollevare lo sguardo verso l'ultimo piano: la tana di Leo, quella che per qualche tempo avevano definito scherzosamente la loro base, era esattamente come l'aveva vista nell'ultimo anno e mezzo - le finestre erano chiuse, gli avvolgibili abbassati.

Inspirò per darsi coraggio, poi si fece avanti: l'ultima volta che era stato così vicino al palazzo, Leo era ancora lì. Il peso illusorio delle chiavi con cui aprì il portone per poco non gliele fecero scivolare di mano (ilare, in effetti... proprio come la pietra per il cavaliere, nel racconto di Leo) ma riuscì a tenerle saldamente, seppur gli tremassero le mani.

Tic, tac.

Non prese l'ascensore, perché l'attesa di quella stupida macchina lo avrebbe ucciso; decise di salire piuttosto le scale, gradino dopo gradino, di tanto in tanto saltandone un paio, perché la sua meta era troppo vicina: di lì a breve, forse, avrebbe potuto ricominciare a vivere—no, per meglio dire: avrebbe sicuramente iniziato a farlo, stavolta davvero. Nel bene o nel male.

Certo era che lo avrebbe fatto a modo suo: non come l'erede della catena Suou, quale era quando aveva conosciuto Leo. Non come Robin, quale era quando Leo se n'era andato.

Come Tsukasa: solo, forse, ma pronto a diventare grande una volta per tutte.

Quando la serratura della porta scattò, gli sfuggì un sussurro.

«Please, be here».

Tic, tac.

Le luci della casa erano spente – tutte, dalla prima all'ultima; c'era un'aria leggermente viziata, come se quel luogo fosse stato sigillato troppo a lungo. La poca luce che filtrava tradiva polvere, mobili abbandonati a se stessi e un vuoto così evidente che per un attimo fu tentato di chiudere la porta, aspettare qualche secondo e riprovare, nella speranza che qualcosa cambiasse..

Ma sarebbe stato inutile, lo sapeva. Doveva accettare le cose.

Leo non c'era.

Faceva male, ma quella casa era vuota come lo era stata nell'ultimo anno e mezzo, come si era rifiutata di vederla in tutto quel tempo perché avrebbe reso solo quella mancanza più reale. Una mancanza che, vorticando, gli avrebbe strappato tutto quel che gli era rimasto... la speranza.

Il tempo si fermò di nuovo.

Si costrinse a fare qualche passo avanti, a sincerarsi dell'abbandono (di quella casa, di lui) con i suoi stessi occhi e metabolizzare quello che nell'ultimo anno aveva cercato di dimenticare in ogni modo: Leo non era lì e forse non sarebbe mai tornato.

Certo, non capiva perché lo avesse stuzzicato in quel modo – impossibile che non fosse opera sua, la questione del libro – ma il messaggio era ormai chiaro: quella casa, i ricordi che avevano accumulato là dentro, per lui erano solo bugie e non era più disposto ad accettarli.

Avanzò lentamente verso il soggiorno, a passo incerto mentre notava quanto la stanza fosse spoglia, senza quel senso che solo Leo riusciva a dare a quella strana accozzaglia di colori (il divano, verde prato, il resto dei mobili che variavano dall'arancio al blu notte, senza alcuna continuità) e che adesso sembravano davvero ridicoli, pieni di polvere com'erano e spogliati della loro funzione.

Si avvicinò alla scrivania, dove torreggiava il computer fisso, ricoperto da qualche foglio di plastica e che forse ora non sarebbe più stato acceso; quante volte, nel tardo pomeriggio, Tsukasa lo aveva trovato seduto a gambe incrociate sulla poltrona (verde anch'essa), intento a scrivere con due, tre, a volte quattro tazze di caffè svuotate nelle vicinanze? E puntualmente non si accorgeva del suo arrivo, le occhiaie ben marcate sul volto olivastro, perché troppo assorbito a dare forma alla sua storia.

Noncurante della polvere, emulò il legittimo proprietario di tutto ciò che lo circondava: si sedette su quella poltrona, incrociando le gambe proprio come gli aveva visto fare e poi chiuse gli occhi.

Pessima mossa, perché riprese a pensare.

Avrebbe almeno voluto parlargli un'ultima volta. Era davvero ingiusto il cavaliere, pensò, mentre corrucciava la fronte in modo quasi puerile: avrebbe dovuto quanto meno dare una possibilità all'elfo di spiegarsi... Non avrebbe dovuto cercarlo per poi negargli persino il minimo confronto.

Era strano, si disse; perché per quel che conosceva Leo, non era tipo da non affrontare una sfida. Aveva lottato per tutta la vita contro il Predestino e dubitava che, se davvero aveva deciso di negare il loro legame, lo avrebbe fatto fuggendo. Era già scappato, a dirla tutta – due volte: alla festa di Ruka e dopo che gli aveva rivelato la verità.

Però... non era la stessa cosa, adesso.

«Cerchi ispirazione?»

«Non lo so» rispose in automatico, in un sussurro. «La sua personificazione, forse».

«Sembra complicato».

«Lo è» e una risata amara abbandonò le sue labbra. «Ha ribaltato la mia vita, poi è scomparsa, come un—sogno».

«Beh, ma è così che arriva. Anche se... in una casa chiusa per mesi, con tutta questa polvere e neanche una tazza di caffè a farti compagnia... non credo tu sia molto bravo a cercarla, l'ispirazione».

Per riflesso, Tsukasa aprì gli occhi, un cipiglio irritato a fare un poco di ombra sul suo volto. Stava per rispondere a tono al suo interlocutore, quando troppo tardi si rese conto che in quella casa non avrebbe dovuto esserci nessuno; così come troppo tardi realizzò che quella voce era la stessa che aveva implorato, tra sé e sé di poter ascoltare ancora una volta; e ancora, troppo tardi, i suoi occhi incontrarono la figura di Leo Tsukinaga – anelata, sognata, bramata, persino immaginata – poggiata alla parete del corridoio.

Si prese un attimo, in cui probabilmente rimase con la bocca aperta come un idiota, per accertarsi che fosse reale e non la sua solita silenziosa illusione: ma il Leo che aveva davanti aveva i capelli arancio vivo raccolti non in una coda bassa e laterale come sempre, bensì in una treccia leggermente più lunga di quanto ricordasse e la carnagione molto meno pallida rispetto ai suoi ricordi (abbronzata, forse?)... ma il sorriso sghembo – quello sì, che era identico: pieno di vita, con un retrogusto di infantile spirito goliardico, di eterno sfidante dell'esistenza stessa. Lo stesso sorriso che aveva visto spegnersi, quella sera di un anno e mezzo prima, nella penombra della sua auto. Quello stesso sorriso che aveva pensato di non vedere mai più solo qualche attimo prima.

Tic, tac.

La prima reazione, una volta realizzato che era davvero lì, fu quella di scattare in piedi, così velocemente che la poltrona venne spinta all'indietro quasi con violenza. Poi Tsukasa si rese conto di star stringendo i pugni e non sapeva neanche se dipendesse dalla voglia di abbracciarlo o di prenderlo a pugni – dopotutto, non era lui lo scrittore: non poteva descrivere un bel niente di quel che stava provando. Che fosse gioia, rabbia, sollievo, incredulità... non lo sapeva. E in realtà, neanche importava.

«You--»

«Ah, sei arrabbiato» osservò Leo, come se se lo aspettasse. Beh, pensò Tsukasa, in un barlume di lucidità, era il minimo. Il romanziere alzò le mani, in un segno poco credibile, quasi buffonesco, di resa. «Lo so, lo so. Non è stato carino da parte mia, ma volevo essere davvero, davvero sicuro della mia scelta, sai? E dopo così tanto tempo... beh, mi serviva una prova».

«Una provaJesus, se aveva voglia di dargli un pugno adesso.

«Una prova, sì. Tocca a tutti i grandi eroi, o mi sbaglio?» Ancora quel sorriso e, davvero, doveva ringraziare che lo amasse davvero come mai aveva amato se ancora non glielo aveva sfondato a suon di pugni. «Da solo, non potevo essere certo della mia scelta. Volevo essere certo che tu mi capissi e sapevo anche che, se mi amavi davvero, saresti stato in grado leggere oltre quello che ho scritto. Se mi amavi davvero, una volta letto quel libro, avresti cercato me da qualche parte, come il cavaliere cerca l'elfo». Il tono di Leo era così calmo e pacato che anche il giovane Suou finì con il rilassarsi, tanto che si abbandonò di nuovo sulla sedia: ciò che l'aveva tenuto in piedi fino a quel momento, quasi in uno stato febbrile, era stata soltanto l'adrenalina, l'anticipazione di un futuro che poteva sciogliersi proprio davanti ai suoi occhi. Ma ora che il suo futuro era di nuovo lì, solido come una montagna, la stanchezza del lavoro, la nottata passata in bianco e la folle corsa verso quella sottospecie di Isola che Non c'è... tutto gli era piombato di nuovo addosso.

Ma il tempo, riusciva a sentirlo, aveva ripreso a scorrere: il ticchettio dell'orologio era solo un suono di sfondo e non più un conto alla rovescia o un suono di poco conto. Aveva ripreso il suo ruolo – in movimento, ma senza essere accompagnato dalla distruzione.

Leo fece qualche passo avanti, poi si chinò di fronte a lui. Tsukasa si sentì studiato, quasi fosse un estraneo; in effetti, realizzò con qualche secondo di ritardo, in parte lo era: quell'anno e mezzo si era portato via ogni traccia di Robin che poteva essere rimasta, almeno esteriormente.

«Non sapevo fossi rosso». Non riusciva neanche a capire se fosse serio o meno.

«Ora lo sai» rispose stanco, chiudendo gli occhi pur di non sottoporsi a quella vivisezione: lo sguardo sempre affilato di Leo se possibile in quel frangente aveva assunto in tutto e per tutto l'aspetto di un bisturi, che tagliava, analizzava e poi ricuciva velocemente, senza lasciare alcuna traccia.

«E sei dimagrito».

«Non di molto, rispetto a quando sei partito. E anche tu sei diverso».

«E in cosa?»

Si costrinse di nuovo ad aprire gli occhi: ora, lo sguardo di Leo era curioso, con quella luce di pura avidità del conoscere negli occhi. Era come se quella brillantezza fosse la seconda anima dello scrittore – Tsukasa l'aveva amata sin da quando aveva avuto occasione di coglierla. C'era qualcosa di magnetico nel modo in cui l'uomo osservava il mondo che lo circondava.

Leo era davvero lì. Lì, piegato sulle ginocchia di fronte a lui, che conversava con lui. Con la sua aria da eterno Peter Pan.

«Sei abbronzato, tanto per cominciare. E la treccia?»

«Oh, beh, era più esotica. O così ha detto Mama» e scrollò le spalle, come se non ci fosse niente di incredibile in quella conversazione quando era già inimmaginabile il fatto che stesse avvenendo.

Ma non era abbastanza: Tsukasa, ormai, ne aveva abbastanza di aspettare – lo aveva fatto, a costo della solitudine. Quindi, inspirò profondamente e si fece coraggio: non potevano più permettersi di tergiversare. Basta con le conversazioni futili, basta con le parole insignificanti.

«Hai trovato la tua risposta?»

Lo aveva notato; in quell'apparentemente banale discorrere, Leo non aveva mai pronunciato il suo nome – nessuno dei due. Mai una volta lo aveva sentito pronunciare Robin o Tsukasa.

Lo sguardo che ne seguì, dal momento che Leo sollevò quei suoi taglienti occhi verde smeraldo, felini e predatori (era lui a condurre quel gioco, in una sadica partita in cui era il re a fare scacco matto), fu lungo e intenso ma il più giovane non si ritrasse; al contrario, lo sostenne, gonfio dell'orgoglio con cui aveva vinto la sfida che Leo gli aveva sottoposto.

La risposta, seppur gestuale, non tardò ad arrivare: una delle mani dello scrittore si sollevò fino a carezzargli il volto, con una timidezza che Tsukasa non ricordava gli fosse mai appartenuta. Poi Leo si abbandonò dunque ad un sospiro sconfitto, quasi melodrammatico.

«Non ce la posso proprio fare, con te» mormorò, quasi indispettito dalla situazione. «Riesci ad andare sempre oltre le mie previsioni. Ma chi è lo scemo che aspetta—uno come me per un anno e mezzo?» La voce dell'uomo che amava, fino a quel momento graffiante e spregiudicata come sempre, tradì una nota di stupore, oltre che un tono di sconfitta.

Tsukasa impiegò qualche attimo per capire: il calore di quella mano, gentile e timorosa, sulla sua guancia, sommato a quelle parole non furono esattamente chiare, in un primo momento. Poi realizzò e il cipiglio duro con cui aveva nascosto tutto il nervosismo e la tensione di quegli ultimi minuti si sciolse, solo per lasciare il posto ad un sorriso di pura gioia e sollievo.

«Te lo avevo detto» gli rispose, la voce tremante, mentre con la guancia si poggiava contro il palmo della mano di Leo, sentendosi finalmente libero di farlo. «Ti avevo detto che ti avrei aspettato, leader. Ho—mentito su molte cose, ma mai... su quelle importanti».

Un giuramento sussurrato – no, qualcosa di più. Quando Tsukasa aveva deciso di partecipare a quel folle piano, degno di una qualche mitica epopea (quante storie famose prevedevano un travestimento, più o meno magico?) aveva deciso di mentirgli il meno possibile e mai su ciò che contava davvero: era stato un voto solitario, un “voto di silenzio”, proprio come il titolo di quello stupido libro su cui entrambi avevano scommesso tutto.

E il giovane stava ancora cercando di immagazzinare quanto stava accadendo (Leo era tornato, aveva deciso di dare alla loro storia una possibilità ed era lì, con lui) quando il romanziere si alzò con naturalezza e si allontanò, dirigendosi verso la porta. Subito, allarmato, Tsukasa si irrigidì sulla poltrona, pronto a seguirlo ovunque, nonostante la stanchezza e i vari dolori muscolare che iniziava ad avvertire. Ma poco dopo Leo era già di ritorno, con in mano un mazzo di chiavi – quel mazzo di chiavi, come quella sera.

Ma non erano in macchina. E lui non era più Robin.

Leo si chinò di nuovo sulle proprie ginocchia, il livello dello sguardo poco più in basso del suo; gli mostrò ancora una volta quello che avrebbe dovuto essere il suo primo dono, il loro primo passo verso qualcosa di serio che si era tramutato in una ritirata dolorosa per entrambi.

«Sai cosa sto per fare?»

«Stai per riprendere quello che abbiamo lasciato in sospeso... ?» Ma Leo scosse la testa, tenendo saldamente quell'accozzaglia di oggetti così apparentemente comuni tra le sue mani e, senza dire una parola, le mise nella sua tasca. Tsukasa lo guardò, confuso, poi si rilassò di nuovo: forse aveva preteso troppo. «Ok, ho capito, un passo per volta—».

«Troveremo una casa nostra» lo interruppe senza la minima ombra di incertezza nella voce. Anzi, se possibile, il suo tono rasentava un annuncio in piena regola, un comando da cui era impossibile sottrarsi. «Non sarai tu a venire da me, saremo noi ad avere qualcosa che sia su misura per entrambi» e, conoscendolo, il sorriso che si formò sulle sue labbra fu di puro e autentico compiacimento quando si rese conto quanto esterrefatto fosse Tsukasa di fronte a quell'affermazione, piovuta dal nulla. «Quando la guerra finisce, gli eroi tornano a casa, a fare gli uomini comuni. Non c'è posto per gli eroi, fuori dai luoghi di morte. E il cavaliere ha concluso la sua battaglia ed è ora che torni a casa... o meglio, che se ne costruisca in cui valga la pena tornare».

«... sei impazzito?»

«No, Tsukasa» ed ecco come, per un momento, il mondo parve fermarsi: mai, mai avrebbe pensato di poter sentire il suo nome pronunciato da quelle labbra, intonato da quella voce. E le emozioni che forse aveva imbottigliato fino a quel momento, improvvisamente esplosero: prima che se ne rendesse conto, le lacrime scorrevano giù lungo le sue guance, perché lo aveva chiamato Tsukasa e perché gli aveva appena detto che lui era il suo motivo per tornare. O, almeno, questo era quello che aveva sentito.

Mesi di dubbi, di incertezze, di solitudine in cui aveva pensato solo e soltanto a crescere perché potesse diventare un uomo affidabile che crollavano così, come un castello di sabbia di fronte a quell'onda anomala che solo Leo Tsukinaga poteva essere.

Non riusciva neanche a vergognarsi, perché era—felice. Incredulo, ma felice.

«Non—c'è bisogno che... tu sia un uomo comune» riuscì infine a dire, tra i singhiozzi, perché non voleva che Leo smettesse di essere se stesso.

«Non è detto che lo sarò. Ma se dovessi perdere la mia ispirazione per stare al tuo fianco, ne troverò un'altra, una nuova. Sai, Da quando ci siamo conosciuti, ho scritto tantissimo... Ho prodotto davvero un sacco. E anche dopo che mi hai raccontato come stavano davvero le cose, non c'è stato un giorno in cui non sono stato in grado di farlo. Certo, all'inizio non è stato semplice, ma... credo che accettare il Predestino non sarà la morte della mia penna. Al massimo terrò tra le mani una penna diversa, una un po' meno incasinata e che non sputacchia inchiostro di tanto in tanto. Il cavaliere non ha gettato la spada, giusto? Solo che non combatte più i mulini a vento, si limita a proteggere ciò che ama».

Poco importava se l'infantile, emotivo, indomabile Leo Tsukinaga sembrava così improvvisamente maturo, mentre gli asciugava il volto da quelle lacrime che proprio non ne volevano sapere di fermarsi, nonostante anche lui avesse gli occhi lucidi; poco importava, in fondo, se forse non era riuscito a crescere poi così tanto negli ultimi mesi per dimostrargli che poteva essere il suo sostegno... No, nulla di questo contava.

Qualunque cosa li avrebbe attesi, in quel futuro incerto, la avrebbero affrontata. Insieme.

«Pensi... davvero che ne valga la pena?» Ma Tsukasa non voleva che avesse ripensamenti – certo, era stupido da parte sua; Leo aveva avuto più di un anno per riflettere, era quasi masochistico spingerlo a pensarci un'ultima volta.

E allora, Leo gli sorrise. E lo vide persino attraverso le lacrime, perché il bagliore famelico della conoscenza per un attimo lasciò spazio ad una luce nuova, che sembrava voler indicare una strada nuova ad entrambi.

«Ne vale la pena perché ti amo, Tsukasa Suou. E non--» ed ecco di nuovo il Leo che parlava troppo velocemente, perché quelle parole riuscì a coglierle solo a fatica, ma erano troppo importanti perché potessero sfuggirgli. Eppure, imbarazzato, perché dopotutto non era un viaggio a cambiare cmpletamente l'essenza di una persona, si era fermato e, dopo essersi morso il labbro inferiore, riprese: «... non ho mai smesso di farlo. Neanche quando sei fuggito da quella macchina, mai. Non c'è stato un minuto in cui la rabbia abbia mai preso il sopravvento su quello che provo per te, accidenti al Predestino».

E risero, insieme. Era una risata assieme imbarazzata e liberatoria, per quanto sussurrata, perché quella parola, “Predestino”, adesso non sembrava più un'insormontabile barriera tra loro ma aveva assunto piuttosto l'aspetto di un ponte: ogni barriera era abbattuta, ora potevano incontrarsi.

E Tsukasa, finalmente, poteva rispondergli, con un mormorio che per un anno e mezzo aveva taciuto: «Ti amo anche io, leader».

Ogni dettaglio divenne improvvisamente futile, superfluo: avevano tutta la vita, di fronte a loro, per parlare.

Leo aveva dedicato la vita alle parole.

Tsukasa era stato educato a leggere l'atmosfera, a pronunciarsi solo quando richiesto.

Ebbene, quando lo scrittore si sedette sul suo grembo, su quella poltrona, entrambi capirono che non c'era soltanto emozione e sentimento nella mancanza che entrambi avevano avvertito ma un desiderio più carnale, anche.

Fu il più giovane il primo a rompere quella lunga astinenza: si gettò sulle sue labbra, avido, egoista come si era ripromesso di non essere più e Leo lasciò che le sua bocca riassaporasse quella carne, poi si fece dittatore e tiranno e lo morse. Un dispetto, che giustificò un attimo dopo col suo sorriso da eterno bambino.

Ma non c'era posto per i bambini, lì.

Nonostante la stanchezza, Tsukasa trovò addirittura la forza necessaria per sollevarsi e, con lui, portare con sé anche Leo. Lo teneva saldamente per le gambe, le quali andarono subito ad incrociarsi dietro la sua schiena, così come le sue mani si aggrapparono alle spalle del più giovane. Nessuno dei due aveva il tempo di lasciare andare l'altro e, piuttosto che allontanarsi, camminarono così, un po' in difficoltà e con goffaggine, tra un bacio e l'altro ma testardi proseguirono verso la camera.

La camera, già.

«... c'è—un problema» riuscì a dire Tsukasa, una volta giunto di fronte al letto matrimoniale. C'era un po' di ingenua incertezza nella sua voce.

«È così impellente?» replicò irritato il più grande, prima di voltarsi mentre il compagno constatava la realtà, un po' ridicola e per questo tragicomica del momento.

«Non c'è il materasso».

Leo se ne sincerò con lo sguardo, attonito: effettivamente, quando aveva fatto i preparativi prima di partire, aveva lasciato detto a Ruka di occuparsi del mobilio, in modo che non si rovinasse troppo durante la sua assenza... Doveva aver pensato che il materasso avrebbe potuto riempirsi di umidità e chissà cos'altro, là, nella sua stanza, c'erano rimaste le doghe del letto.

In modo del tutto imprevedibile (come lui, solo lui poteva essere, pensò Tsukasa) scoppiò a ridere.

«Pff--»

«Si può sapere che c'è di divertente?!» Ma niente, quell'attacco di risa non si placò e anzi, l'espressione corrucciata del più giovane dovettero alimentarla, perché Leo continuò a ridere anche più di prima. Le braccia di Tsukasa già abbastanza provate da due giorni di pura follia, finirono col cedere e lasciarono che Leo posasse di nuovo i piedi per terra, ancora preda di quel riso incontrollabile.

«L'hai detto come se fosse la fine del mondo!» si giustificò, ormai quasi tra le lacrime ma, prima che Tsukasa potesse di nuovo controbattere, lo baciò – e stavolta fu dolce, intenso, unico. «Possiamo fare sesso ovunque, Tsukasa Suou. Se non c'è il letto, lo faremo per terra» e questo fu forse un po' più volgare, ma erano le parole di cui il ragazzo aveva bisogno.

E allora Leo cominciò a sbottonarsi quella camicia di jeans che portava, avanzando passo dopo passo e così costringendolo ad arretrare – era di nuovo lì, sua maestà: il re senza corona che, con pochi gesti, lo aveva costretto al muro con la sua sola sensuale autorità.

I bottoni se ne andarono, uno dopo l'altro e Tsukasa, dopo un primo proverbiale momento di puro istinto carnale, gli poggiò le mani sui fianchi, stringendoli con forza e poi si leccò le labbra, improvvisamente secche a causa di quel desiderio così a lungo represso. Ma poi, improvvisamente, si trovò a fermarsi, lo sguardo attratto da qualcosa che non ricordava su quella pelle. E non si trattava dell'abbronzatura.

Sfiorò solo con le dita quel segno dal color rosa scuro, così simile ad una voglia, che era comparso sul torace dell'uomo che amava, proprio sotto la clavicola destra; era—difficile distinguerne nettamente i contorni, ma seguì al meglio che poté quelle le tracce per ripercorrerne il disegno. Sembrava un tatuaggio usurato, oppure una macchia dai contorni confusi.

«Che c'è?» chiese spazientito Leo, evidentemente a causa della distrazione del compagno; pareva piuttosto impaziente (ilare, considerando che era lui il responsabile dell'attesa).

«È comparso».

Vide lo sguardo dell'uomo farsi di colpo scuro, forse un riflesso incondizionato dopo una vita passata ad odiare tutto quello che concerneva il Predestino che solo ora, a fatica, era riuscito ad accettare. Lo osservò mentre cercava con gli occhi quel simbolo e lo trovò lì, sotto le dita di Tsukasa; lo studiò per qualche minuto, le labbra arricciate in una sottospecie di broncio che rendevano il suo volto non troppo dissimile da quello di un ragazzino.

«E cosa dovrebbe essere?» chiese, scettico, prima di sbottonare in fretta e furia la camicia un po' spiegazzata del compagno, per sincerarsi che anche lui lo avesse – dopotutto, proprio non riusciva a fidarsi del Predestino. “Non voglio rimanere fregato” sembrava dire, con quel nervosismo nei gesti.

«Sembrano... due spade. Incrociate».

«Molto romantico» sbuffò con sarcasmo lo scrittore, prima di sfiorare la pelle di Tsukasa sotto la clavicola sinistra – era un gioco di specchi, pareva, perché i simboli si erano formati pressoché nel solito punto. «Perché sono così sfumati, però? Quelli che ho visto avevano sempre delle forme molto chiare».

«... Leo, ho risposto alla tua dichiarazione dieci minuti fa dopo più di un anno. Cos'è tutta questa impazienza, ora?»

Ancora quel broncio, a cui andò ad assumersi anche uno sguardo che si abbassava in un tipico atteggiamento puerile. «Perché—beh, dopo averlo negato per così tanto, magari... mi odia e vuole rendermi le cose difficili».

Tsukasa si ritrovò a sbattere le palpebre, incredulo: era serio. Dannatamente serio. Il suo era un timore reale e, stavolta, fu lui a scoppiare a ridere, causando in Leo un moto di irritazione, com'era evidente dalla sua espressione.

«Abbiamo finito?»

«Scusa, ma... Ora sì, che le ho sentite tutte» mugugnò Tsukasa, ancora ridendo sommessamente. Era felice di aver aspettato; quei mesi, quei lunghi, lunghissimi mesi erano stati già ampiamente ripagati quell'ultima mezz'ora. «Leo Tsukinaga che si preoccupa che il Predestino non lo voglia... la racconterò agli altri». Gli prese il volto tra le mani, carezzandogli le guance come se non l'avesse mai fatto prima e lo baciò. un bacio da lieto fine, immaginava.

Non proprio fine” pensò, un attimo prima di ribaltare le loro posizioni, lasciando che fosse Leo a trovarsi in gabbia: non gli avrebbe lasciato la corona, per quella sera.

Gli sorrise, sornione. «Ti assicuro che se il Predestino non ci avesse uniti, ti avrei trovato lo stesso, signor cavaliere».

E non c'era il minimo dubbio, in quel che aveva detto.


... E infine, nessun rintocco segnò la rottura dell'incantesimo: le loro anime si intrecciarono e il tempo, guardiano e custode della vita, riprese a scorrere col sorriso di chi già conosceva la risposta: sarebbero stati anni lunghi, fatti di gioie e dolori, ma l'umano e l'elfo impararono ad affrontare tutto schiena contro schiena, sapendo di avere al proprio fianco l'unico alleato di cui avevano bisogno.”


No, quel giorno non venne trascritto in nessun libro. Non ci fu più bisogno di imprigionare ricordi, così come non ci fu più bisogno di annotare emozioni per vivisezionarle con gli occhi della ragione.

Dopo que giorno, Leo Tsukinaga continuò a scrivere, solo che i libri facevano parte della sua vita e non basava più la sua vita su di essi. Imparò ad esistere fuori dalle pagine, oltre che al loro interno. E anche i suoi libri si riempirono di un'aria nuova, di emozioni dirompenti, di storie che non prevedevano soltanto solitudine.

Dopo quella notte, Tsukasa Suou iniziò a vivere come se stesso, libero dalla sua gabbia dorata e capace di scoprire finalmente chi voler essere nella vita.


E non c'è miglior lieto fine di un nuovo inizio.


Note: E quindi, siamo arrivati alla conclusione. Non riesco a crederci neanche io e, guardandomi indietro, mi rendo conto che questa storia avrebbe potuto prendere vie molto diverse. Forse ora, tornando indietro, cambierei molte cose. In definitiva, però, tiro le somme e sono consapevole che c'è tanto di me in questa storia, sono riuscita a tessere qualcosa di concreto e non solo scrivere. Guardo questo epilogo, forse un po' più frettoloso di quanto sperassi, ma so che è *quasi* tutto qui: posso dire che, alla fine, Leo e Tsukasa sono simili ai loro corrispettivi del canon ma al tempo stesso miei. Come soltanto in una Alternate Universe potrebbe accadere.
Ho amato questa storia. Ho amato scandirla a tratti col romanzo di Silent Oath, perché è grazie ad una strofa di quella canzone che ho iniziato a scriverla; ho inserito delle linee guida che mi sono sempre ritornate tra le mani, spontaneamente, anche a distanza di mesi. Mi sento cresciuta, come "scrittrice", come "autrice" e sono contenta di averlo fatto con loro due, perché per me significano davvero moltissimo.
Avevo già detto che probabilmente avrei scritto una raccolta di one-shot sulle altre coppie, citate e non, appartenenti a questo mondo; lo farò, davvero! Con calma però, perché prima ho intenzione di concludere altri progettini che ho accantonato perché questa storia ha portato via gran parte del mio tempo.
Spero che questa avventura che avete affrontato con me sia stata di vostro gradimento. Io, dal canto mio, mi sento orgogliosa di questa creaturina, così come sento che anche per me questa storia, come scrittrice, rappresenta un nuovo inizio.
   
 
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