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Autore: Pachiderma Anarchico    29/08/2018    1 recensioni
_Sequel di "Too frail too live, too alive to die."_
La pelle è bianca come la mia, ma più inconsistente, più rovinata, con le occhiaie che assediano le palpebre traslucide come presagi oscuri.
I capelli sono sporchi, di un rosso stinto, spezzati e disordinati.
Qualche riccio non ben definito le ricade sulle guance non più piene come una volta, non più da bambola.
"Nessuno spettacolo, Dominik. Solo la verità."
Non basta lasciare che la tinta sbiadisca e i ghirigori rosa dell'ombretto scompaiano per dire la verità, Sylwia.
Non basterebbe una vita intera per dire la nostra verità.
"E qual é la tua verità? Sentiamo."
Quando risponde sembra quasi una ragazza.
"L'unica possibile."
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Too frail to live, too alive to die.'
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CAPITOLO I
Malva, rosso e acido muriatico

 
 

 
Dominik_  Agosto 

 
Il suo sguardo mi sbatte addosso, feroce e prepotente come i fari di un’auto nel bel mezzo del nulla.
Mi piace quando mi guarda, mi piace quando abbandona quell’aria da stronzo pallone gonfiato e s’impossessa di quell’aria da stronzo sì, da stronzo sempre, ma sicuro di sé e determinato a vincere.
Determinato ad avermi.
Chiude la porta, avverto lo spostamento d’aria che provoca il suo corpo quando si piazza dietro al mio.
“Non dovresti essere da qualche parte a vincere un campionato nazionale di Judo?” chiedo, innocente come se non sapessi già la risposta, innocente come il morso di una vipera.
“Tu non dovresti essere da qualche parte a studiare per l’ammissione al College?”
Colpito.
Ma non affondato.
Oh Aleksander… non mi arrenderò. Sai che non lo farò.
E ti piace così.
“Allora che ci facciamo qui?”
Poggio le mani sul davanzale, gelido sotto ai polpastrelli, e mi allungo un po’, giusto per stuzzicarlo, giusto perché so come andrà a finire, giusto perchè i suoi occhi scenderanno sul mio fondoschiena.
Ci sono cose che finiscono sempre allo stesso modo, non importa quanto ci proviamo, non importa quanto siamo decisi a sfuggirgli.
Io, ad esempio, non posso sfuggire al brivido che puntualmente banchetta sulla mia colonna vertebrale, su ogni singola vertebra della mia schiena, quando Aleksander mi bacia il collo.
“Quanto tempo abbiamo?” chiedo voltandomi, perché è evidente che lui non è intenzionato ad allontanarsi.
“Quindici minuti.” risponde, e avverto le sillabe che mi sfiorano le pieghe delle labbra, agghindate del suo respiro.
“Dovremmo farcela.”
Lo bacio con foga, andando dritto al punto, andandogli dritto in gola.
Non è il momento di preamboli e giochi d’azzardo, di moine e giochetti, ha un combattimento da vincere e io dei giornalisti da evitare prima che inizino a porre domande imbarazzanti sugli ultimi mesi, pretendendo che io urli la mia vita ai quattro venti dinnanzi a un microfono così, solo perché sono il figlio del braccio destro del Primo Ministro in carica, solo perché scopo il figlio del futuro Primo Ministro.
Il padre di Aleksander, l’emblema della ‘pacatezza’, è in corsa per ricoprire uno dei due ruoli più importanti della nazione. Assurdo. E io che già me lo figuravo a distribuire uova di cioccolato vestito da coniglietto rosa durante le vacanze pasquali.
Il figlio mi afferra dai fianchi girandomi di colpo, facendomi sbattere di nuovo con l’addome contro il davanzale e abbassandosi il Jeans. Sento il tessuto ruvido strofinarmi sulla piega fra sedere e coscia.
Il suo è azzurro chiaro. Il mio nero.
Ma fa lo stesso.
Sembriamo quasi simili quando ci saltiamo addosso come animali, quando la furia di toccarci e possederci arriva oltre il limite del dicibile.
Ma non siamo gli stessi e non siamo neanche simili.
Infila le mani nell’elastico dei miei boxer (inutile specificarne il colore) facendomeli scivolare fino alla parte inferiore delle cosce, continuando a prendere d’assalto la pelle attorno alla giugulare. Piego la testa per lasciargli più spazio e stringo una mano attorno alla maniglia della finestra che da su una strada secondaria -al momento deserta- e l’altra la insinuo fra i suoi capelli, già spettinati all’altezza della nuca.
I respiri rochi di Aleksander e l’erezione che poggia sulle mie natiche è così sfacciatamente impaziente che gli do quasi il lusso di sentirmi gemere nei primi cinque secondi, ma proprio quando un lamento di piacere sta per sfuggirmi dalle labbra mi tira una pacca sul sedere.
Gemito, torna indietro, a d e s s o.
Gli serro i capelli in una morsa e gli tiro la testa all’indietro per allontanarlo dalla porzione di spalla che ha preso di mira.
Come mi aspettavo, ha la faccia da schiaffi più insopportabile che gli abbia mai visto.
Te lo taglio Lubomirski. Te lo ta..ah… ah cazzo …” schiaffo l’altra mano sul vetro, socchiudendo gli occhi, ma non accenno a lasciargli i capelli neanche quando il suo bassoventre sbatte contro i miei glutei con degli schiocchi fin troppo familiari.
Stronzo sei e stronzo rimani.
“Te… lo taglio… dopo… mag..ah-ri… ah…”
E gemo senza pensarci, senza neanche cercare di mordermi la lingua, e anche lui non c’è la fa più a mantenere la sua facciata di strafottenza.
Lo sento sussurrare il mio nome, una, due… tre volte, piano, pianissimo perché non sia mai che qualcuno possa sentirlo, sentire che Aleksander Lubomirski ha il mio nome sulle labbra mentre fa sesso.
E non mi abituerò mai, morirei purché continui a chiamarmi così.
Qualcuno bussa alla porta, impaziente.
Apro gli occhi e getto la testa all’indietro, mi aggrappo alla maniglia della finestra con tutte e due le mani, lui non si ferma, e…
“Lubomirski, è pronto? L’altro turno sta per finire.”
Lo sento agitarsi sul mio corpo. Dentro il mio corpo.
Fermati ora e ti finisco io. sibilo, la voce resa bassa e minacciosa dalla corsa in cui si destreggiano le tonsille cercando di racimolare un po’ d’aria.
“Devo… andare…” ansima, come se tutto l’ossigeno del mondo non bastasse. Ansima, senza muoversi di un millimetro.
“…ti uccido…”
“massì… chi se ne fotte…”
“Lubomirski!”
“N- paura… tuo…padre?”
“Più… di… te.”
“Se non vieni… ora… tiseigiocatoilcampionato… ah. serro il davanzale fra le dita come se volessi vederlo sgretolarsi, è così dentro dannazione, così dentro
“Non ti facevo così… disinibito… Frocetto
Lo prenderei a pugni se solo riuscissi a girarmi senza spaccarmi in due il posteriore.
E invece mi devo accontentare di raccattare l’ultimo filo d’aria ancora non evaso dalla cassa toracica, prendere il respiro che so mi costerà caro e utilizzarlo per pronunciare le ultime parole che il mio corpo riesca a condensare in vapore sui vetri senza morire d’asfissia.
“… non ti facevo così dotato ...”
Bam.
Mi si spinge dentro con un colpo secco come un grandissimo, dotatissimo bastardo pallone gonfiato pezzo di mer-
“Lubomirski suo padre minaccia di venirla a prenderla di persona.”
I muscoli del suo basso ventre si contraggono, quelli del mio didietro lo seguono a ruota, mi sussurra qualcosa sulla schiena ma non capisco, chiudo gli occhi, stringo i denti, veniamo nello stesso momento.
Non saprò mai se fu la foga con cui ci possedemmo, il tempo che ci passava davanti senza fermarsi o la prospettiva di avere il padre di Leks nella stessa stanza mentre il figlio rischiava di far tardi all’occasione di una vita perché allenava già i muscoli in modi non contemplati dal regolamento di Judo di qualsiasi paese del mondo.
Leks esce dal mio corpo con la velocità di un missile.
Pessima, davvero pessima metafora.
Io premo la fronte contro il vetro della finestra, gelido contro la pelle accaldata, e allungo un braccio quasi automaticamente: da qui a due secondi i miei vestiti mi rimbalzano tra le dita, lanciati dal ritardatario che verrà orribilmente impalato da suo padre.
Altra pessima metafora.
“Merda, merda, merda!”
“Signor Lubomi-”
“Ho un minuto esatto, sì, ho capito!”
Si infila la divisa saltellando sul piede sinistro mentre cerca di aggiustarsi i capelli con la destra e sganciare il rolex dal polso con i denti.
Il risultato?
Sembra che abbia già combattuto un campionato per conto suo.
Ma questo non glielo farò vincere.
“Santorski porca miseria, copriti, hai proprio il culo da puttana.”
Accenno un sorriso, mormoro un “che eleganza” fra lingua e muro e lascio cadere con cura il pantalone a terra, prima di piegarmi per prendere una sigaretta dalla tasca del jeans.
Il tutto in slow motion, premurandomi di passare anche il peso da una gamba all’altra.
“No, no… Santorski vecchio stronzo. Non fare così.”
“Fumare? Oh…” spalanco gli occhi come se mi avesse appena chiamato il Papa comunicandomi di avermi appena proclamandomi santo.
“Devi concentrarti? Il fumo ti distrae?”
“…Guarda, al momento non mi ero neanche accorto che stessi fumando.”
Inspiro lentamente, espiro ancora più piano, lasciando che il fumo si libri nell’aria in volute tondeggianti perché le mie labbra sono atteggiate in una chiara, disinvolta, allusiva forma ad “O”.
“No, no, smettila.”
“Lubomirski la prego!”
“Sì, arrivo…”
Mi giro completamente.
La cintura del Judogi gli cade dalle mani.
Mi osserva come se rimpiangesse amaramente il non esserselo scelto un po’ più brutto.
Perché lo so, in tutta franchezza, che faccio la mia porca figura.
“Sei… sei diventato più stronzo. Com’è possibile?”
“Ho imparato dal migliore.” sorrido, ma temo che sia più un ghigno.
“No no, tu sei proprio sadico, hai imparato tutto da solo…”
Vedo il bianco del mio incarnato riflesso nei suoi occhi che scendono dall’alto fino in basso, molto in basso.
E’ combattuto nel bel mezzo della stanza, la tenuta da Judo allacciata per metà che gli lascia scoperti gli addominali scuri quanto i suoi occhi, ormai dominati interamente dalla pupilla.
Evidentemente ciò che sta vedendo deve piacergli molto.
Mi stampo fra gli angoli della faccia e le curve delle guance l’espressione più ingenua che riesco a raccattare e credetemi, non è un’impresa facile se consideriamo i vestiti abbandonati sul pavimento, la sigaretta che fumo come se fosse un gelato e stessi decidendo da che lato leccarlo e quel baluginio di testosterone bronzeo che l’outfit scomposto di Leks lascia intravedere alla vista.
“Lubo-“
Leks fa un passo verso di me.
“Aleksander Lubomirski, se non esci immediatamente fuori da questa porta pronto per scendere in campo la butto giù e vi uccido, entrambi.
Aleksander Lubomirski vorrebbe strozzarmi e saltarmi addosso nello stesso istante, un occhio è pronto a baciarmi, l’altro –quello a cui è venuto un tic nervoso- affettarmi con una motosega.
“Vestiti.” sibila e si aggiusta alla bell’è meglio, cercando di allacciare insieme alla cintura anche il contegno che ha gettato poco prima da qualche parte insieme alla sua camicia.
“Tuo padre è consapevole del fatto che è durato un quarto d’ora soltanto il suo discorso?”
“Evita di farglielo notare se ti è possibile.”
Leks schizza fuori proprio quando Romek Lubomirski sta iniziando a prendere a testate la porta.
“Non tornare senza aver vinto.” gli urlo dietro, prima di incontrare il muso duro del Signor Lubomirski, quello più adulto, più ferreo, avvocato penale di successo e candidato a futuro Primo Ministro della Repubblica polacca, meno incline all’ironia leggera e con uno sguardo assolutamente meno invaghito di quello del figlio quando squadra il sottoscritto, il nero dei miei capelli disordinatamente sparpagliato sulla fronte e il rossore sugli zigomi.
“Santorski, stai superando il limite.”
Helga, la ragazza che stava quasi per mettersi in ginocchio sui ceci pregandoci in Uzbeko di uscire da questa stanza, mi guarda con due fanali d’occhi in allarme.
Ma io, cara Helga, sono accomodante come le ortiche.
“Oh Romek… l’ho giusto appena sfiorato.”
Non risponde –la competizione è già cominciata- e inoltre sa benissimo che se litiga con me dovrà litigare anche con suo figlio (le conquiste che si fanno con il passare del tempo) e ha deciso che per oggi non è il caso.
Ma non è finita, lo sento nell’ultima freccia tagliente che scocca il suo arco prima che scompaia nel corridoio, con la terrorizzata Helga dietro che articola un silenzioso “Scusa” dietro le sue spalle.
Chiudo la luce e la porta e mi avvio anche io verso le tribune, stando attento a lasciare netto vantaggio a Lubomirski e alla sua contrarietà, attendendo pazientemente che Aleksander si qualifichi ai mondiali perché è schifosamente ovvio che vincerà lui.
“Le sigarette.” bisbiglio d’un tratto, maledicendomi da solo.
“Che palle Dominik… ma dove hai la testa…”
Faccio dietrofront, le Converse non abbastanza silenziose nel silenzio che solo una finale sa dare.
Le stanze sono tutte vuote, la penombra si fa artefice degli strani giochi su porzioni di buio infinitamente piccole. Insignificanti.
Quasi.
Ma io la testa ce l’avevo, e ce l’avevo proprio sul collo, maledettamente funzionante, nonostante tutti i suoi difetti.
Il buio non ha più la stessa consistenza.
Eppure non c’è nessuno fra questi corridoi, solo un mazzo di fiori che prima non c’era.
Se ne sta davanti la porta chiusa del camerino di Leks, banale e addormentato.
Ma il buio ce l’ho alle calcagna come uno stalker caparbio e ingombrante.
Ingombrante come questi fiori.
Nessuno si distaccherà dall’oscurità del fondo del corridoio con una pistola, una lametta o delle pasticche in mano, nessuno mi giurerà devozione eterna puntando al cuore del ragazzo accanto a me.
Me lo ripeto, me ne convinco.
Fingo che i fiori siano solo fiori, fingo che l’Anemone al centro della composizione -il fiore dell’abbandono e dell’attesa- non mi stia sussurrando qualcosa, che i suoi larghi petali di malva e rosso violaceo non mi abbiano fatto l’effetto dell’acido muriatico sulla pelle.
Fingo che il buio sia ancora buio, che i muri siano ancora muri e non vene recise.
Fingo che i fiori siano per Leks, ma prendo l’accendino e do loro fuoco.
 
 
***
 
 
Non se ne va l’odore di vino dal divano.
Sento una delle donne delle pulizie mormorarlo come un mantra fra una strofinata e l’altra e, come se le avessero appena dichiarato guerra, si accanisce ancor di più sulla macchia rossa.
La luna di Giugno si riversa sulla terrazza dell’attico di Aleks, recente campo di battaglia di una delle sue ‘raffinate’ festicciole con un minimo di sessanta invitati, alcol come se piovesse e musica assordante a distruggerti i timpani.
Alla domanda di un giornalista “Si aspettava di vincere?” al termine dell’incontro, il pallone gonfiato ad aria compressa ed ego ha risposto “Assolutamente no, è una vittoria così inaspettata da avermi lasciato a bocca aperta.”
Peccato che abbia organizzato la festa due settimane fa.
Il bagliore argenteo del cielo rende la piscina un caleidoscopio di lucciole, mentre colf si danno da fare per gettare carte, recuperare bottiglie di vodka finite chi sa come al posto dei cactus della signora Lubomirski e tentando con la forza della disperazione di occultare anche la più piccola macchia prima che quest’ultima torni in terrazza.
“Davvero, non mi sono ancora abituato al fatto che la gente mi dia del ‘lei’, voglio dire, ho vent’anni.”
“Ma sei anche il figlio di un importante candidato alle prossime elezioni politiche e, inoltre, la tua famiglia gode di un certo rispetto.” risponde pazientemente, per la ventiseiesima o sessantaduesima volta (ne ho perso il conto quando a Samuel è venuta la brillante idea di giocare a “Hai mai…?” con i bicchierini di Sambuca) lo sponsor che oramai ronzaa attorno a Leks come i pianeti attorno al sole, in un’orbita gravitazionale composta da soldi, pubblicità e vittorie, da quando divenne chiaro a tutti che i pronostici davano lui come favorito per la vittoria alle nazionali di Judo.
Inutile rammentargli che il tipo non era lì a fargli da psicologo ma a sganciare i soldi, perché Leks continuava imperterrito a sparlare di qualsiasi cosa gli capitasse sotto la lingua, dalle anatre ai cambiamenti climatici alle aspettative di vita di una tartaruga delle Galapagos.
“Ha avuto notizie poi di quella ragazza, Signor Santorski?” butta giù la donna in guerra con l’odore del vino rosso sui preziosi divani bianchi di Barbara Lubomirski.
“Mm?” Mi siedo su un bracciolo, e nonostante siano passate settimane dalla prima volta che io e Leks ci demmo alla pazza gioia in una cucina che odorava di rabbia, rancore e attrazione sessuale repressa quasi una vita fa, ritengo che il bracciolo sia ancora un tantino troppo duro.
“Sì… la ragazza che le ha sparato, quella con i capelli rossi.”
“Ah.” dico semplicemente, perché le domande più salate non te le aspetti alle due di notte dopo una festa, nel clima di chi sta conquistando il mondo.
E probabilmente neanche se ne rende conto Katia, o Katy, o Kris quanto sia audace e vertiginosa una domanda così, di come ne senta il sale a raggrinzirmi il palato.
“E’ in una clinica di igiene di salute mentale, in attesa del processo.”
Fa uno strano effetto parlarne così, nella realtà, con parole amorfe a descrivere ciò che ancora mi annoda la bocca dello stomaco in una morsa di acqua e veleno. A descrivere la notte in cui i giullari hanno danzato con gli inferi.
“Ho sentito che aveva dei problemi psichiatrici, ma non ne so molto… Alcuni dicono sia instabile e che non fosse lucida la sera in cui le ha-”
“Ah no era lucidissima. Molto più lucida di tutti noi messi assieme.”
Non è la mia voce.
Alzo lo sguardo e Leks sposta il suo, ci guardiamo per una frazione di secondi, poi ci slacciamo di nuovo.
“Credete che stia avendo il sostegno di un professionista? Che si presenterà al processo?”
“Non lo so, ma presto andrò a chiederglielo.” affermo.
E’ un attimo, il soffio del vento che annuncia la bufera. E’ un attimo, per essere tempesta.
Leks torna a guardarmi come lo schiocco di una frusta, lo sento vibrare nell’aria con la forza di un grido.
“No, non lo farai.”
Dissimulo benissimo la prepotente voglia di alzare il mento e dire “Invece sì”; invece mi sposto i capelli dagli occhi con un gesto che tradisce il fastidio nella gola.
Mi schiarisco la voce e… “Perché no?”
“Perché forse ti ha quasi ammazzato?”
Entrambi sull’orlo del mondo degli adulti, entrambi ancora perseguitati dai fantasmi del passato: dai fantasmi di Dominik e Aleksander, non dal Signor Santorski e dal Signor Lubomirski.
Ci sforziamo di comportarci come adulti, ci sforziamo di guardarci in faccia senza scoprire i denti, di allacciare più stretta le maschere e fingere disinteresse, fingere che il sangue non ci stia ribollendo dentro.
“Ma non voleva ammazzare me,” ribatto, con il tono gentile di un nonno che spiega al nipote come fare 2+2, “Aleksander.
E’ proprio questo ‘Aleksander’ che mi tradisce, che tradisce l’idillio di nonno e nipote per fare spazio al rumore di un chiodo che viene fissato al muro.
E lui non se lo fa sfuggire, e pianta un altro chiodo proprio vicino al primo, ed è tutto un “Dominik nello stesso, identico tono.
E i nonni sorridono sui balconi della nostra maturità, ma all’interno delle case con le tende ad oscurarne le stanze, gli squali negli acquari si stanno preparando a mordere.
“Questo dovrebbe farmi stare più tranquillo?”
Alzo le spalle.
Ah, che conversazione civile. Noi sì che siamo pronti a far parte della società.
“Non vedo perché non dovrebbe.”
“Scusateci un minuto” continua allora lui, e potrei giurare che le unghie abbiano lasciato i solchi sulla pelle. “Dominik possiamo parlare?”
Non aspetta un sì, non aspetta neanche la mia risposta, marcia in casa senza guardarsi indietro.
Sa che lo seguirò, che non rinuncerei mai a far valere la mia ragione, che non lancio sassi per nascondere la mano.
E io non aspetto che lui si volti prima di aver raggiunto l’antro sicuro in cui potrà scaricarmi addosso quanto sia in disaccordo con me e con i miei sassi.
Quando chiude la porta della sua stanza so per certo che il Signor Santorski e il Signor Lubomirski ne siano rimasti fuori.
I loro servigi non sono più richiesti.
“Se pensi che te lo lascerò fare ti stai sbagliando alla grande.”
“Aaaah… ho capito…” il modo in cui serra la bocca in una linea praticamente inconsistente rivela quanto il mio sarcasmo gli dia alla testa.
“Non sapevo che recentemente avessi letto Cinquanta sfumature di grigio… Quindi adesso decidi tu cosa posso o non posso fare?”
“Che cazzo stai dicendo, coglione che non sei altro, lo dico per te, quella è pericolosa.”
Quella si chiama Sylwia e non mi farebbe mai del male.”
“No, infatti, è così magnanima che cavalca candidi unicorni alati e i cori angelici cantano in suo nome, ‘O Sylwia, O Sylwia…’”
Gradirei davvero che il Signor Santorski e il Signor Lubomirski ricomparissero giusto per chiedere loro dove cazzo è andata a finire questa conversazione.
“Ma ti senti?! Ti ha sparato Nik, sparato, in che lingua devo dirtelo? Lo ripeto più lentamente? Una fottuta pallottola che ti ha mancato il cuore per non so quanti fottuti centimetri.”
Non posso ribattere a questo e lui lo sa, e io lo so, e lo sappiamo tutti e quattro -i Signori e noi-, ma ciò che nessuno sa tranne me è che il sottoscritto morirebbe con una cannuccia infilata nella giugulare piuttosto che dargliela vinta.
Leks se ne va alla porta, crede che la discussione sia finita -o almeno lo spera- perché quando parlo non sembra né sorpreso né allibito, solo incredibilmente furioso.
“Lei mi ama.”
E allora torna a piazzarsi sulle sue gambe in posizione d’attacco: ricorda un toro che ha appena visto il rosso.
“Questo spiega tutto. Chiamalo pure amore quello che ti ha dimostrato, se ti piace.”
“Tu non capisci.”
So di aver detto la cosa sbagliata non appena prende forma, non appena diventa corpo e sangue in mezzo a noi, dividendoci inesorabilmente verso sponde opposte di un fiume in piena.
“Giusto.”
Annuisce, con quel cipiglio rigido che lo fa somigliare tanto a suo padre. “Dimenticavo, io non posso capire certe cose di voi… altri. Voi che avete sofferto insieme e lottato insieme e vissuto insieme. Voi che siete più sensibili, più profondi, più viscerali. Non ci arrivo, vero?”
Devo afferrarlo da un braccio per impedirgli di lasciarmi indietro e sbattermi la porta in faccia.
“D’accordo, d’accordo...” sospiro. “Non è quello che intendevo e lo sai.”
Lo guardo negli occhi sperando che non ci sia bisogno d’altro. Ma Aleksander diventa un cancello in titanio quando si sente minacciato.
“Devi fidarti di me.”
“E’ di lei che non mi fido Dominik!” allarga le braccia, la voce esasperata e i capelli spettinati dal continuo passarci le mani attraverso.
Persino questa stanza è troppo piccola per contenere tutti i motivi per cui voglio vederla e tutte le legittime ragioni che Leks potrebbe spiattellarmi ai piedi per impedirmelo.
Abbiamo ragione entrambi, forse un po’ più lui (ho ancora una cicatrice piuttosto vistosa all’altezza delle costole che difendono il cuore) e glielo leggo nell’inflessibilità della schiena e nel modo in cui contrae la mascella che sta solo aspettando che dica qualcosa per ricominciare a darci dentro.
Detesta Sylwia, e la detesto pure io.
Allora perché sto litigando con l’uomo per cui mi sono beccato una pallottola nel costato per andare da lei?
“E’ in una clinica psichiatrica Leks, in attesa di un processo per tentato omicidio. Sarà guardata a vista, cosa potrebbe mai farmi?”
Ma Leks ha più intuito di quello che vuole vendere al mondo, e se non è intuito è counque fin troppo sveglio.
“Guardami in faccia e dimmi che una clinica psichiatrica o qualsiasi altra cosa al mondo possa fermare Sylwia dall’ottenere ciò che vuole. Dimmelo e non dirò più niente. Credi davvero che questo possa fermarla?”
La risposta è chiara a tutti, brilla nel rintocco delle tre di notte senza bisogno che le dia vita.
“No.”
“Infatti.” E’ irremovibile.
Ma io sono instancabile e mi attacco come una zecca, se voglio qualcosa, mi attacco anche all’aria se necessario.
“Ma lei non vuole farmi niente. Non a me.”
 “Rischia di farsi vent’anni di carcere a causa nostra, per quanto ne sappiamo potrebbe fare qualsiasi cosa. Sarà disperata e pronta a tutto.”
Pronta a tutto sì, pronta a tutto già me la immagino, con il labbro inferiore screpolato, le occhiaie profonde come due caverne e i ricci indomiti di un rosso sbiadito.
Disperata? Non riesco neanche a inventarmela una Sylwia disperata, priva del controllo, priva di un piano.
No Leks, Sylwia non è né disperata come pensi tu, né pazza come affermano gli altri.
Sta giocando: lei è la Regina e noi siamo le sue pedine.
“Promettimelo Nik, promettimi che non andrai da lei.”
Faccio per parlare ma Leks mi precede, prevedendo il mio rifiuto.
“Per una volta, una sola volta, puoi fare ciò che ti dico? Ciò che mi fa dormire la notte, per tutti i numi? (ha la mania di citare sua nonna quando va in ansia). Non posso… non voglio che...”
“Ho capito.” dico, lasciandogli il fiato e la comodità di tornarsene nel suo porto sicuro.
Per quanto desideri sentirgli urlare ciò che non abbiamo avuto neanche il coraggio di sussurrare, non è il momento adatto.
“Non andrò.”
Mi prende il viso con una mano, portandomi a guardarlo.
“Promettimelo.”
Ha le sembianze di una preghiera ben nascosta.
“Te lo prometto.”
 
***
 
Gli occhiali neri a celare una metà del viso, l’altra parte di me occultata da una raffinata camicia color sabbia, un pantalone della stessa, calda tonalità e alle carpe un paio di scarponcini classici di un bel bordeaux.
Avanzo con disinvoltura, come se questa scelta sia la più intelligente che potessi fare.
E invece non è né la più intelligente, né la più saggia.
E’ l’unica esistente.
Voi credete di averla, una scelta, ma la ragazza che tenete rinchiusa in una di queste stanze non elargisce scelte a nessuno.
Non l’ho mai avuta io una scelta, con lei, non crediate di poterla avere voi.
Mi sento un ladro mentre busso al vetro dietro una commessa è rintanata a dare informazioni e a registrare visitatori, ma non mi vergogno allo stesso modo.
“Rajmund Nowak. Ho un permesso firmato dal direttore. Se lo ritiene opportuno posso mostrarglielo.”
Non mi levo gli occhiali, non mi scompongo.
Io non ho il permesso firmato proprio da nessuno, ma sono pur sempre il figlio del braccio destro del Primo Ministro in carica, e se voglio entrare in un istituto di sicurezza e incontrare una delle pazienti tenute nel reparto rosso a insaputa dei miei genitori stessi, nessun direttore potrà negarmelo.
E se me lo negheranno, Rajmund Nowak si tramuterà in Dominik Santorski e nel giro di un’ora lo rimpiangeranno amaramente.
“Non serve, il direttore è al corrente della sua visita. Mi segua.”
Non sono mai stato qui, ma le cliniche psichiatriche si somigliano un po’ tutte, con le loro asettiche pareti bianche e i corridoi infiniti che sembrano conducano al centro della terra.
La signorina mi porge un pass e mi lascia dinnanzi a una porta, bianca anch’essa, probabilmente pesante come il piombo.
Nulla si sente oltre, ma io potrei sentirla dovunque e in qualunque momento.
Perdonami Leks, ma devo sapere quali pezzi della scacchiera ha intenzione di mangiare stavolta, o se ha deciso di cambiare gioco.
Tu credi di aver imparato le regole, e lei ribalta la scacchiera.
 
  
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