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Autore: Polarize_    30/08/2018    0 recensioni
Il capitano McCree scrutò quella strana sirena, l'Umi Ryū che 18 anni prima lo aveva stregato, coi suoi occhi orientali. "Cercalo, Jesse McCree, e quando l'avrai trovato, lascialo andare." Ora lo aveva finalmente ritrovato, e non l'avrebbe mai più lasciato scappare.
"Bentornato... Hanzo." gli puntò la pistola contro.
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Fareeha 'Pharah' Amari, Gabriel 'Reaper' Reyes, Hanzo Shimada, Jesse Mccree, Un po' tutti
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza
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Capitolo 1.

Naufragio

 

Era lì, fermo immobile, su quella spiaggia di corallo, protetta dalle scogliere dalle mille sfaccettature delle coste orientali dell'Oceano Pacifico. Non sapeva esattamente su quale terra fosse, né sapeva come ci fosse arrivato, ma sapeva che avrebbe dovuto rialzarsi e cercare i suoi compagni al più presto. Nonostante odiasse fare il mozzo su quella putrida nave (se così si potesse chiamare), era l'unico posto che il suo destino gli avesse riservato, fino a quel momento. Il capitano l'aveva come adottato e salvato da una vita a marcire in prigione, in seguito ad alcune bravate commesse assieme alla sua gang: i Deadlocks, i più temuti del Texas (o almeno così volevano far credere). Dall'inizio il capitano Gabriel Reyes gli era sembrato un tipo strano, sempre chiuso in se stesso e pensieroso. D'altronde era secondo solo a Junkrat fra i pirati più temuti dei sette mari, e forse era proprio questo che lo faceva innervosire. Ma col tempo i due iniziarono ad andare d'accordo, anche perché era a lui che doveva la sua vita. Ed in quel momento tra tutti i suoi pensieri offuscati, l'unico volto che riusciva a vedere era proprio quello del capitano Reyes. Facendosi coraggio tentò di alzarsi, nonostante il dolore al braccio sinistro, che ormai sembrava partito del tutto. Aveva qualche acciacco, ma poteva ancora camminare, quindi si diresse dritto verso il luogo dello schianto. Le ultime parole che ricordava, e che gli continuavano a rimbombare in testa, erano "Ci stiamo schiantando! Si salvi chi può!"; dopodiché, il buio totale. Era preoccupato per il capitano, per l'equipaggio, e anche se quasi faticava ad ammetterlo, per la nave. Da dietro alcuni scogli, scorse delle vele sporche e strappate che giacevano sul corpo di una nave distrutta, come un velo pietoso disteso su una scultura ormai andata in pezzi, e capì subito che quella non poteva essere altro che la loro nave: la Black Mercy. Nonostante se lo aspettasse, non poté far altro che rimanere lì, immobile, ad ammirare il triste spettacolo. Quante volte aveva desiderato che quella catapecchia crollasse a picco... oh, se solo avesse previsto il dolore che avrebbe provato, nel vedere tutto ciò che era affogato nell'acqua di mare! Zoppicando tentò quindi di raggiungere quel cadavere di legno e melma, in una disperata ricerca dei suoi compagni, ma con le lacrime agli occhi, riuscì solo a scorgere sangue e stracci delle loro vesti. Ma sapeva che c'era ancora qualcuno lì, che non avrebbe mai abbandonato la nave. Riusciva a sentire il suo respiro, e il suo cuore battere fioco. Sotto le macerie, era il capitano Reyes. Quel bastardo proprio non voleva morire, eh? Eppure fu sollevato di non essere l'unico sopravvissuto, quindi col braccio destro, che ancora resisteva, lo tirò fuori. Gabriel era ferito, sputava sangue, ma questo non gli tolse l'animo di farsi una bella risata. 

"Ah, chi l'avrebbe mai detto..." continuava tra le risate "Il giorno prima sei vivo, il giorno dopo hai un'asse conficcata nel petto." 

Ancora non se n'era accorto di quel particolare, in realtà, ma sapeva che di lì a poco non sarebbe stato più importante. Reyes stava esalando il suo ultimo respiro. 

"Ascolta, ragazzo:" tossì, "la Black Mercy... o quello che resta di lei, ormai è tua. Passo la fiaccola a te, il mio fuoco ormai è spento."

"No, capitano, no..." ripeteva lui tra le lacrime, stringendo forte la mano di Gabriel, quasi come se volesse donargli la sua forza.

"Jesse... McCree... promettimi che riporterai la Black Mercy al suo vecchio splendore," piangeva Gabriel, "che solcherai i sette mari con essa, approderai in mille terre diverse, e sarai in grado di fare ciò che io non sono riuscito a compiere. Devi promettermelo!" afferrò il giovane saldamente per il collo della camicia, con le sue ultime forze, e nel suo sguardo lesse paura, incertezza, dubbio... 

"Capitano!" Il ragazzo chiuse gli occhi, cercando di ritrovare il suo spirito, "io, McCree Jesse, le prometto che assumerò il controllo della Black Mercy e le renderò onore!" ora nei suoi occhi c'era adrenalina, dedizione e passione. Quella fu l'ultima immagine che vide Gabriel Reyes, prima di chiudere i suoi occhi, sorridendo. Il ragazzo rimase lì, accanto a lui, riflettendo su ciò che aveva appena accettato. Ne sarebbe mai stato all'altezza?

 

Era stato difficile riassemblare la Black Mercy, e soprattutto tornare a casa, anche se per lui 'casa' non c'era. In fondo era cresciuto lì: su quel ponte era diventato un uomo, su quella nave che danzava trasportata dalle onde, su quelle terre perdute che non aveva mai osato profanare. A volte gli mancava la terraferma, e con essa anche la sua famiglia, ma ormai era un uomo di mare, e non poteva abbandonare la sua missione. La motivazione non fu mai perduta, neppure quando si ritrovò da solo, al tramonto, a seppellire tutti i suoi compagni sotto quella sabbia maledetta, che avrebbe per sempre ricordato. Acceso il fuoco, si preparava per la notte, mentre una luna rossa colorava quel cielo così buio, e illuminava quelle acque così oscure, che lo lasciavano immerso nei suoi pensieri. Era solo, eppure poteva giurare di sentire qualcuno cantare. Una voce maschile così giovane, così pura, accompagnava una melodia dal sapore orientale, che lo spinse ad inseguirla. Non sapeva dove fosse capitato, né sapeva il linguaggio della dolce poesia, ma ne venne subito catturato. Facendosi guidare dalle note, si avvicinò cautamente agli scogli, da cui proveniva il canto, e una luce che quasi superava quella della luna. Tra la penombra poté vedere una figura giovane, minuta e fragile, protetta da dei lunghi capelli che ricadevano sulle spalle umide, facendole quasi scomparire tra l'oscurità. Vicino ad essa, sedeva qualcuno di più giovane, un bambino, che poggiato il capo sul grembo dell'altro, si lasciava trasportare anch'egli dalla melodia, mentre il più grande giocava coi suoi riccioli, che nella luce sembravano verdastri. Il giovane Jesse non poté che rimanere estasiato dalla paradisiaca apparizione che si levava dinanzi ai suoi occhi. Eppure non capiva ancora da dove provenisse quella luce. Improvvisamente, il canto si fermò.

"Genji?" il più grande guardò il piccolo. La sua era una voce così seria, ma allo stesso tempo calda, quasi paterna. Continuò a ripetere il suo nome, mentre gli accarezzava il capo, e ad ogni ripetizione, il suo tono diventava sempre più rassicurante. Il ragazzino aprì gli occhi, e fissò il più grande, sorridendo. Jesse non aveva idea di come fosse fatto quello che aveva compreso fosse un ragazzo, perché la sua posizione non gli permetteva di vedere così in fondo. Spinto dalla curiosità volle avvicinarsi ancora di più, forse peccando, ma ormai doveva sapere. Più si avvicinava, e più sentiva il calore che emanava la luce, e con essa, le risate dei due ragazzi. Riusciva ora ad ammirare la pura fantasia che ricopriva il corpo del più giovane, con qualche macchia verdastra che si confondeva con la sua carnagione, ma il vero spettacolo erano le scaglie azzurre che costellavano il corpo del più grande. Le sue braccia, ancora fragili ma forti, possedevano quel tono freddo che andava in contrasto con la sua pelle olivastra, e dietro la sua schiena, c'era qualcosa che copriva la spina dorsale, della stessa materia di ciò che sembrava fossero orecchie, che spuntavano dalla folta capigliatura color corvino. Non aveva mai visto creature del genere, e quasi voleva conoscerle. Ma la misteriosa luce improvvisamente si spense, lasciando tutto all'oscurità. Il più grande si voltò, proprio verso la direzione da cui Jesse stava provenendo di soppiatto. I due si incontrarono, e i loro sguardi si persero tra le ombre della notte. Jesse poteva finalmente ammirare i tratti orientali del dolce ragazzo, che in quella notte, illuminato dalla luna, quasi pareva una visione. Le sue guance rosse, temprate dalla brezza marina, coloravano il pallido viso lungo e affusolato, ricoperto da qualche ciocca scura fuori posto, e dalle sopracciglia che esprimevano paura. Jesse lo capì, infatti, che aveva paura, per questo rimase immobile, a fissarlo, mentre teneva stretto a sé il piccolo, per proteggerlo. Quegli interminabili attimi in cui i loro sguardi si intrecciarono, sembrarono così veloci, che senza neanche accorgersene Jesse aveva già perso di vista i due, che erano scomparsi nell'oscurità. Non riusciva a spiegarsi la loro scomparsa, forse era troppo concentrato sullo sguardo del ragazzo, che l'aveva come stregato. Svegliatosi dall'incantesimo, si guardò intorno. Nessuna traccia dei due. Cosa avrebbe dovuto fare: restarsene lì o cercarli? Certo, gli era rimasta impressa l'espressione di paura negli occhi dell'orientale, per questo decise semplicemente di accasciarsi lì dov'era, protetto dagli scogli, e addormentarsi, sperando che tutto quello fosse solo un sogno. 

 

Per puro caso, o forse per destino, venne ritrovato da alcuni pescatori all'alba del giorno seguente, quando scoprì di essere attraccato sulle coste del Giappone, più precisamente ad Hanamura. Il villaggio era piccolo e modesto, e la maggior parte dei suoi abitanti erano pescatori, ma di sera le strade erano piene di ladri o prostitute, e le barche che di mattina venivano usate per sfamare la gente onesta, di notte diventavano proprietà dei contrabbandieri. Jesse era certo un estraneo per tutti loro, ma subito si sentì a casa, tra quella gente. Restò lì qualche giorno, mentre delle buon anime si offrivano di riparagli la nave (e migliorarla). Ogni sera restava in qualche taverna ad ascoltare le storie di un vecchio, e nonostante raccontasse tutte le sere la stessa storia, lui tutte le sere ne rimaneva estasiato. La gente del posto amava raccontare storie sulle sirene, esseri fantastici metà umani e metà pesci, che si aggiravano per i sette mari. Ma lì, ad Hanamura, le sirene erano ben diverse: venivano chiamati Umi Ryū (海龍), Draghi di Mare, e invece di semplici pesci, avevano le sembianze di dragoni tipici giapponesi, con lunghe corna, scaglie, pinne e artigli. Alcuni pescatori fortunati dicevano di avere incontrato qualche esemplare, altri addirittura di averne catturati, ma le creature passavano per semplici leggende raccontate per dare vigore al paesino. Infatti in tutto il Giappone, Hanamura era l'unica che si poteva definire famosa per gli Umi Ryū, se non anche per il contrabbando. Che avesse visto proprio due Umi Ryū quella notte? Il pensiero non gli dava pace, ma si ripeteva sempre che sarebbe stata... che era solo un'allucinazione. E poi quella luce, quel canto... sembravano come sortilegi di qualche tipo, ma nessun pescatore aveva mai parlato di sirene con poteri magici. Già, meglio berci su. 

"Signore! Signor McCree!" una voce squillante, dall'evidente accento asiatico, proveniva dalle sue spalle. Si voltò, era la donna che si era offerta di riparargli la Black Mercy, una certa Mei. 

"Salve! Disturbo?" la sua determinatezza la si poteva vedere nei suoi occhi, attraverso quei grossi occhiali che glieli nascondevano. Jesse le fece segno di sedersi accanto a lui, su uno sgabello. 

"Grazie!" si accomodò. "Volevo dirle che la nave è pronta, e domattina potrà salpare. Gli uomini hanno lavorato notte e giorno su quel gioiellino!" ne sembrava entusiasta.

"Gioiellino..." borbottò Jesse, bevendoci sopra. Aveva sempre odiato quella nave, e chiamarla "gioiellino" gli sembrava ironico. 

"Come ben sa, il lavoro è stato tutto gratuito. Qui ad Hanamura sappiamo come ci si sente in certe occasioni... spesso navi che avrebbero dovuto portare scorte di cibo non sono mai attraccate nei nostri porti, e se l'hanno fatto, erano totalmente distrutte..." Mei abbassò lo sguardo, era giovane ma sapeva di cosa stava parlando.

"Bene, cosa mi chiedi in cambio? avanti..." Jesse sapeva già dove voleva arrivare a parare la ragazza, e quasi infastidito si voltò verso di lei, studiandola. La ragazza lo guardò negli occhi, quasi per sbaglio, immediatamente distolse lo sguardo ed esitò ad aprir bocca.

"Ecco..." trovò le parole "lei sa che io la ammiro molto, nonostante il poco tempo trascorso insieme, e so che è un uomo gentile e ragionevole, in fondo... Ebbene, io volevo chiederle se è possibile venire con lei sulla Black Mercy!" pronunciò l'ultima frase velocemente, quasi come se non volesse farsi capire. Poi specificò.

"Insomma, mi mancherà Hanamura, e con lei la mia madre, ma sento che posso fare così tanto sulla sua nave! Ho studiato a lungo la Terra, la sua geografia, e so tutto ciò che c'è da sapere sui sette mari, se mai ne avrà bisogno. La prego, mi arruoli!" la ragazza lo implorò, con le mani intrecciate. Jesse rimase paralizzato, non sapeva cosa dire, cosa fare. Non era neanche ancora il vero capitano della nave, e già c'era qualcuno che avrebbe volentieri dedicato la sua vita a lui. Ma Mei era così giovane, forse aveva 16 anni... beh, lui ne aveva 20, e sulle sue spalle c'era già questo enorme peso da portare. Distolse lo sguardo dalla ragazza, contemplando quel bicchiere mezzo vuoto di Gin, come se potesse dargli una risposta. 

"Va bene, Mei..." sospirò "ma ho bisogno che tu mi faccia un altro piccolo favore." La ragazza sorrise, e aprì le orecchie. 

"Domani salperemo all'alba, verso chissà dove. Entro allora, dovrai reclutare un po' di uomini; la mia ciurma... non c'è più." si incupì. 

"C-certo capitano! Può contare su di me!" Mei si alzò di scatto, prendendo la sua borsa e indirizzandosi verso la porta, ma Jesse la bloccò, stringendole il braccio, avvicinandosi al suo volto. 

"E ricorda..." la fissò negli occhi impauriti, "...che noi siamo Pirati."

 

 

 

 

Il sole si levava ancora, issando le vele di una nuova giornata. L'alba giocava a nascondino col monte Fuji, e donava ad Hanamura una luce che non aveva mai visto prima. Aveva passato tutta la notte sveglio, al porto, con una bottiglia di Gin tra le mani, che l'aveva addolcito un po', oltre a tenerlo sveglio. Il sonno gli sottraeva soltanto tempo per meditare, e fin troppi pensieri gli ronzavano per la testa, fastidiosi come mosche; chissà se era davvero pronto per quell'avventura. Aveva solo 20 anni, tutto un futuro davanti, ed un burrascoso passato alle spalle. I suoi genitori lo consideravano un errore dopo altri 4 figli, e lui era cresciuto con la convinzione di esserlo davvero. Per questo a 13 anni aveva lasciato casa, sperdendosi per qualche vico della città, fino a ritrovarsi capobanda dei Deadlock a soli 15 anni. Ah, quante ne avevano combinate assieme, fin quando un giorno non vennero colti in flagrante, e mentre gli altri fuggivano, solo lui rimase ad assumersi le sue responsabilità di capobanda. Poi Gabriel, l'arruolamento, la Black Mercy, il naufragio... già, cosa avrebbe pensato Gabriel di ciò che stava facendo? Ammirando il mare, che rispecchiava i colori di zucchero filato del cielo, si interrogava. Aveva quasi dimenticato che non poteva perdere tempo, a breve avrebbe incontrato Mei e tutta la sua nuova ciurma a bordo, e poi sarebbero stati pronti per salpare. Cercò di alzarsi in fretta senza perdere i sensi, aggrappandosi a delle mura in pietra grezza, per ritornare in equilibrio. Infilò in fretta la camicia che aveva sciacquato con l'acqua salata la sera prima, e che aveva lasciato ad asciugare sperando nell'ausilio della brezza di terra. Pur essendo giovane, Jesse aveva già un corpo da uomo, e la sua mentalità non era da meno. Il sole, aveva ancora una volta deciso di scoprirsi, illuminando Hanamura, e facendola risplendere. 

 

Mei arrivò pimpante, trascinandosi dietro una lunga fila di circa 20 uomini, quasi tutti dai tratti orientali. Chi sarebbe mai stato il pazzo che avrebbe abbandonato quel pezzo di Paradiso, per affrontare i pericoli dei mari? 

"Capitano McCree! È stata dura ma..." Mei si fermò e prese fiato, dopo una lunga corsa, poi si voltò a guardare gli uomini, soddisfatta, "posso dire che la ciurma è pronta a salpare!" sorrise. Con lei, scappò un ghigno anche a Jesse, che avrebbe però voluto apparire più serio e duro come sua prima impressione. Mei elencò nomi e cognomi di tutti gli uomini, con date di nascita, professioni e competenze. Era davvero fatta per quel lavoro, pensò Jesse. 

Ognuno di loro pareva una bestia, infatti la maggior parte di loro aveva precedenti penali per contrabbando o omicidio, mentre erano davvero pochi i lavoratori onesti, e altrettanti i padri di famiglia. Jesse scrutava uno ad uno quei diavoli, che quasi gli facevano ribrezzo. Avrebbero assegnato i ruoli col tempo, sulla nave, sperando che sarebbero stati rispettati. 

"Siete qui oggi," Jesse prese un respiro profondo, "perché avete deciso di offrire le vostre vite alla Black Mercy. Da questo momento in poi, sarete veri e propri pirati, ed io sarò la vostra guida.

 "Il mio nome è Jesse McCree," si voltò verso la nave, poi si aggiustò il cappello, "ma per voi sono il Capitano."

Finalmente la Black Mercy salpava per la prima volta dopo quel disastro, in cui persero la vita tutte le persone a lui più care. Ora intraprendeva il destino che l'uomo che più ammirava gli aveva tramandato, e al comando del timone, si sentiva finalmente libero, capitano della sua vita. Chissà cosa gli riservava il futuro, le terre che avrebbe esplorato, le persone che avrebbe conosciuto. Ma un pirata non era solo questo, e lo sapeva bene.

"Capitano," Mei, sempre al suo fianco dal momento della partenza, "quale sarà la nostra prima missione?" 

Jesse sorrise, stringendo un sigaro tra i suoi denti. 

"Lo scopriremo."

   
 
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