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Autore: Hitsuki    30/08/2018    1 recensioni
Non solo: io, giornalista di basso livello, mi sarei avvicinato ad un attore che mai si era permesso di farsi intervistare, e avrei strappato qualche aneddoto interessante sul suo conto.
[ reim, sharon, break | au ]
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Oscar Vessalius, Reim Lunettes, Sharon Ransworth, Shelly Rainsworth, Xerxes Break
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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I riflettori accesi in pieno giorno

____

 

Respirai a fondo nel momento in cui arrivò il dessert. Mi accorsi di stare stringendo il tovagliolo solo quando abbassai lo sguardo verso la torta alla crema. Impugnai la forchetta e la feci affondare nell’impasto della torta.
   Ero diventato giornalista per caso. Avevo accettato quell’invito per caso. Non so perché, allora, mi aspettavo una carriera che si aprisse davanti a me, facendo scivolare il tappeto di velluto ad ogni mio passo, quando in realtà non avevo idea di cosa io volessi davvero. Al tempo mi occupavo solo di articoli minori, di poco stampo. E mi va benissimo così, borbottai prima di mangiare la torta. La crema si attaccò al mio palato. Mi andò quasi di traverso quando Oscar Vessalius, dall’altra parte del tavolo, scoppiò in una risata fragorosa. «Allora perché ha accettato l’invito?».
   Mi massaggiai una tempia con la mano. «Volevo guadagnare qualcosa» risposi, in modo del tutto onesto.
   Evidentemente quella risposta piacque. Mi chiesi come il signor Vessalius potesse essere così gioviale ed amichevole di fronte a uno come me – ovvero, uno qualsiasi. «È per questo che sono sicuro che lei sia la persona giusta» proclamò. «Proprio lei, Reim Lunettes!» e nel dirlo sbatté una mano sul tavolo.
   I bicchieri sobbalzarono ed io cominciai a massaggiarmi anche l’altra tempia, già che c’ero. «Proprio io? Come mai?».
   «Un giornalista modesto e pratico come lei dovrebbe andare a genio anche a quell’attore là. Già vi vedo ad andare d’accordo». Provai ad immaginarmi vicino a un attore di un certo rilievo, ma un’invisibile distanza limite me lo impedì. Sistemai le mani sulle ginocchia.
   Il signor Vessalius invece poggiava con noncuranza i gomiti sul tavolo, proprio in quel ristorante elegante dalla torta costosa e deliziosa. Intrecciò le dita e mi guardò con aria grave, ma fiduciosa. «Allora? Accetta?».
   Rimasi in silenzio. Ora non avevo neanche la scusa del dover finire il dessert prima di rispondere.
   Il signor Vessalius mi pressò ancora. «Io non mi lascerei sfuggire questa occasione».
   «Sì…»
   «Prego?»
   «… Xerxes Break, quindi?»
   «Esattamente».
   «Accetto» proruppi tutto d’un fiato.

Seppur non mi occupassi di articoli da prima pagina, rimanevo pur sempre un giornalista. Sapevo bene che un’informazione andava imbottita fino allo scalpore; e gli scalpori sono uno scoppio. Come i fuochi d’artificio nel cielo notturno. Il nero del cielo sfumava nel grigio smunto delle pagine da giornale, su cui io scrivevo solitamente di qualche piccolo scandalo, anche se in realtà volevo trattare di tematiche più serie. Quali tematiche? Ora non lo ricordo più. Fatto sta che al tempo stendevo articoli da quattro soldi, giusto per vivacizzare un po’ le notizie del giornale. Un intermezzo fra gli striscianti paragrafi di attualità.
   Non avevo mai visto una sua foto, ma ero già al corrente dello stile di vita di Xerxes Break. O meglio, tutti i giornalisti sapevano che lui non voleva lasciar trasparire alcuna informazione. Dopo i primi tentativi, fra i giornalisti e l’attore si scavò un solco, che lasciò Xerxes Break nella sua pace da piccola celebrità di teatro. Ciò significava che io avrei provato a superare quel divario. Non solo: io, giornalista di basso livello, mi sarei avvicinato ad un attore che mai si era permesso di farsi intervistare, e avrei strappato qualche aneddoto interessante sul suo conto. In caso di riuscita, avrei preso una buona manciata di soldi; in caso contrario, avrei proseguito con la mia vita. Non avevo nulla da perdere.
   Spinto da questa ondata di insolito ottimismo, mi diressi verso il teatro, con in mano l’indirizzo che il signor Vessalius mi aveva dato il giorno prima. Inizialmente mi stupii per la calligrafia elegante di un uomo tanto imponente; poi mi ricordai che si trattava di un Vessalius a tutti gli effetti. Un ereditiere come lui mi aveva notato per l’efficienza con cui svolgevo il mio lavoro, o così mi aveva riferito. Memorizzai facilmente l’indirizzo, quindi cacciai il foglio nella tasca mio cappotto e mi incamminai.
   Mi infiltrai nel teatro con grande abilità. Avevo la capacità di non dare nell’occhio, quindi andai dietro le quinte fingendo di sapere cosa stessi facendo; spostai le tende spesse, lasciandomi il palco alle spalle. Oltre alle tende tutto era in fermento. Mi ritenni un bravo attore quando, dopo aver toccato dentro qualcuno, gli chiesi scusa; quel qualcuno disse che non mi aveva mai visto e io ribattei, nel modo più convincente possibile, di essere un aiutante. E che, anzi, dovevo giusto portare una bottiglia d’acqua alla stella Xerxes Break, ma non avevo idea di dove si trovasse. L’uomo annuì. «Se cerca Xerxes Break, è nel suo camerino». Ringraziai e mi congedai. Mi voltai per vedere quell’uomo andarsene nella direzione opposta, camminando a passo cadenzato. Io invece ebbi la fortuna di trovare delle bottigliette d’acqua sparse su un tavolo più avanti; ne afferrai una con noncuranza. Feci per incamminarmi ma sentivo il bisogno di pulirmi gli occhiali. Mi ero dimenticato di portare il panno per pulirmeli – già il fatto che avessi dimenticato qualcosa era in sé straordinario. Presi di riflesso un foglio del copione e lo passai sulle lenti. Poi feci scivolare la montatura sottile sul volto; vagai per un po’ fino a quando trovai delle file di camerini.
   Truccatori ed abiti creavano un effetto suggestivo in cui gli attori assumevano una luce diversa. Non avevo mai assistito al processo in cui gli attori mutavano in personaggi; pensavo che i personaggi appartenessero solo al palcoscenico, davanti al pubblico, ma il loro ruolo inziava ben prima. Xerxes Break era, anche dietro le quinte, un personaggio a tutti gli effetti. Lo seppi con certezza quando vidi un camerino che catturò la mia attenzione. Al suo interno aleggiava la totale assenza di rumore, tanto che il camerino pareva scolorito. Con circospezione, per guardare se all’interno della stanza ci fosse qualcuno, mi avvicinai. Riconobbi stupito l’uomo che poco prima avevo toccato dentro; lo vidi voltarsi verso di me, ed assumere un’espressione divertita quando abbassò lo sguardo sulla bottiglietta d’acqua, per poi rialzarlo a guardarmi. «L’assistente che voleva dare una bottiglia d’acqua alla stella Xerxes Break, giusto? Prego, si accomodi». Aggrottai le sopracciglia. Mi misi a posto gli occhiali per assicurarmi che fossero puliti. Poi entrai, lasciandomi l’euforia del teatro alle spalle.
   Quindi non ero io ad essere stato un bravo attore. Era stato Xerxes Break: aveva subito capito che io nel teatro ero di troppo, ed aveva finto di credere in ciò che mi ero inventato. Per fortuna avevo intrapreso una carriera da giornalista, lasciando il palcoscenico ad altri. A persone come Xerxes Break, che io mi ritrovavo ad intervistare.
   Lo guardai bere a canna. Aveva alzato il mento ed i ciuffi chiarissimi gli coprivano la fronte. Tutto in lui era pallido; anche gli stessi occhi che, una volta abbassato il mento, si liberarono dal velo delle ciocche, mostrando due iridi fredde. Lo guardai negli occhi senza alcuna soggezione. Mi aspettavo un attore che catturasse di più l’attenzione e ne ero rimasto quasi deluso. Evidentemente Break – che allora chiamavo ancora per esteso – notò questa mia perplessità; alzò in alto un angolo delle labbra, scoprendo un poco i denti. «Quindi? Sei giornalista ma non hai nulla da dire?». Si mise a passeggiare per il camerino.
   Mi sedetti per guadagnare tempo. «Mi chiamo Reim Lunettes, per la precisione». Le domande che avevo preparato in anticipo si trasformarono in frasi senza senso compiuto. Mi misi a discorrere come se mi fossi dimenticato il perché fossi lì. «Come vanno le prove?».
   Break si bloccò di fronte allo specchio. Vidi nel suo riflesso un’espressione interdetta. «Certo, vanno bene. Anche se non vedo l’ora di andarmene a casa a dormire, devo essere sincero».
   «La capisco. E quel barattolo lì?». Indicai una scatoletta.
   «Quelle sono caramelle» rispose. Aprì il barattolo e ne prese una manciata. Per la precisione, ne mangiò tre o quattro, tutte in una volta. Si voltò verso di me con il palmo aperto. Erano piccole caramelle, ben incartate di rosso – fragola e ciliega. «Ne vuoi un po’?».
   Scossi la testa. «No, grazie. Facciamo un’altra volta». Lui rise.
   Probabilmente questo piacque a Xerxes Break: il fatto che ero giornalista solo nel nome, non nel modo di fare. Quando Oscar Vessalius mi aveva chiesto di intervistare Xerxes Break, aveva dichiarato che ero troppo metodico per essere artista e troppo convenzionale per essere giornalista; se fosse un complimento o meno, non lo so. Fatto sta che quel tratto della mia personalità – spesso mi lasciò confuso di fronte agli eventi che attiravo – animava i miei incontri, piuttosto che me stesso. Caramelle?, mi ricordo di aver pensato; tanto che quella parola si insinuò nella mia testa per tutto il giorno. Tuttora – appeno vedo caramelle – i sensi mi riportano al gusto fragola e ciliegia, che io non assaggiai mai.
   «Meglio, più caramelle per me». Break chiuse il barattolo e lo poggiò con noncuranza sul tavolo, lasciando che le luci da camerino lo illuminassero; dove il filo di polvere brillava di sogni da primo piano. La luce tremolante si riformò con il proseguire della giornata, fino a quando tre lampadine scoppiarono, recando l’oscurità nel retroscena.
   «Si è fatto tardi» notai.
   Inizialmente Break non rispose. Mi osservò mentre mi alzavo in fretta e prendevo il cappotto dall’appendiabiti, guardando in continuazione il mio orologio, che per tutto quel tempo avevo dimenticato di avere al polso. Poi – prima che mi stessi per congedare – Break scandì bene questa frase: «Ci potremmo incontrare domani». Inarcai le sopracciglia. «Vorrei farti conoscere una persona».
   Raddrizzai gli occhiali. Non potevo lasciarmi sfuggire questa occasione, pur non sapendo chi mi volesse far conoscere, né dove né perché. Solo la prospettiva del quando – il domani splendeva sempre d’attesa – mi spinse ad accettare. «Molto volentieri».
   «Allora incontriamoci in piazza, a mezzogiorno».
   Annuii. «È stato un piacere, Xerxes Break». Lasciai alle spalle il camerino dalle luci spente; per ritornare all’aria aperta, a respirare la vita di tutti i giorni. Gli insetti si appiccicavano alla luce asettica dei lampioni. Ad ogni passo, quella luce si proiettava su di me, lungo la strada scevra – sotto al cielo già buio.

Non vedendo arrivare Break, mi misi ad aspettare su una panchina. Continuavo a sbattere il piede per terra per scandire il tempo: cinque secondi, cinque minuti, dieci minuti interi – gli altri andavano e venivano, io rimanevo lì. Ma una figura dal lato opposto, elegantemente eretta, come me si guardava attorno. Pur essendo immobile, sembrava conoscere ogni proprio movimento, cosicché il corpo si conformasse ad un sospiro di troppo o ad una ciocca fuori posto. Quando scoprii questa sua caratteristica, di riflesso il mio piede si fermò. Vidi la figura avvicinarsi, con i suoi strati porpora di tessuto ed il fiocco intonato fra i capelli; fino a che si sedette accanto a me sulla panchina.
   Sussultai quando mi parlò. «Anche lei sta aspettando Break?». Quindi era lei.
   Però lei non mi conosceva. Mi presentai. «Sì. Sono Reim Lunettes, un giornalista». E lei era Sharon Rainsworth, nobile e ricca.
   «È sempre in ritardo, Break» commentò Sharon, sorridendo cordialmente. Poggiò la borsa sulle gambe e fece per proseguire la conversazione, ma notò che il mio sguardo si concentrava dietro di lei; aggrottò la fronte nello stesso modo in cui stavo facendo io.
   Proprio alle sue spalle infatti era comparso il diretto interessato. «Chi sarebbe in ritardo?».
   Sharon si mosse sulla panchina per volgersi all’insù. «Break! Stavamo giusto parlando di te e della tua puntualità…». Lei sorrise nella mia direzione e io ricambiai, complice.
   Break si tolse il cappello e lo tenne con la mano sinistra, dato che con la destra impugnava il bastone da passeggio, nero e lucido. «Lo so, non sono proprio puntuale. È la mia filosofia di vita ad essere così».
   Sharon gli volse le spalle di proposito, per prenderlo in giro. «Certo, certo».
   «Buongiorno, Xerxes Break» riuscii ad infilare in mezzo al discorso.
   Break si volse a me con le sopracciglia alzate. Sharon seguì il medesimo movimento e dovetti subire i loro sguardi. «Diamoci del tu, per favore» mi disse Sharon «se non ti dispiace».
   «Certo, pensavo che avrebbe potuto dare fastidio a voi, in verità» mormorai, preso alla sprovvista. Eppure mi sentii più rilassato, tolto di ogni peso. Sharon evidentemente se ne accorse, anche lei dimostrò più leggerezza, come se non dovesse più valutare le circostanze – per tutto il tempo aveva passato le dita sulla ciocca che le scendeva lungo la guancia.
   Break batté il bastone da passeggio per terra. «Ecco, bene. E vedo che tu e Sharon avete già fatto conoscenza, quindi non c’è bisogno di presentarvi. Un problema in meno».
   Sharon strinse la borsetta. «C’è un ristorante molto carino nei paraggi, possiamo andare lì: se tu, Reim, vuoi».
   «Non chiedi se io voglio, invece?» canzonò Break.
   «So perfettamente che muori dalla voglia di pranzare» rimarcò Sharon, con un sorriso glaciale che lo zittì.
   Anch’io ero rimasto soggezionato da quel cambio repentino nel modo di fare di Sharon. Però vedevo che loro andavano d’accordo, e mi invitavano a un ristorante senza nemmeno conoscermi. «Andrebbe bene, basta che non sia troppo costoso, perché io…».
   Le labbra di Sharon si schiusero nello stesso momento in cui spalancò gli occhi, velati di stupore. «Ma offriamo noi, assolutamente!» ci tenne a precisare, come se prima si fosse dimenticata di dirmelo. Poi di nuovo porse un sorriso rigido nella direzione di Break. «Vero, Break?».
   Break aveva un nodo alla gola, come si dimostrò dal modo in cui non mosse le labbra; solo un cenno del capo fece capire che era d’accordo con Sharon. Lei di rimando si alzò.
   Io intanto mi ero dimenticato di essere giornalista. Non ero più Reim Lunettes, non il Reim su cui la mia identità faceva affidamento – non il giornalista modesto e pratico. Mi sentivo affine a loro, che fino a qualche giorno prima guardavo da lontano; vivendo le loro vite sui quotidiani della mattina, per poi accartocciarle di sera, dimenticandomene. Pensavo che, anche in quell’istante in cui eravamo uniti dalla strada di fronte a noi, solo quello bastava a tenerli vicini a me; per tenerli tutta la mia vita, senza dimenticarmene mai. Sharon camminava con grazia, la borsetta fra le mani. C’era invece qualcosa in Break che zoppicava, appresso al bastone da passeggio. Non sapevo che tipo di portamento io avessi, ma in mezzo a loro due potevo sentire che i miei passi andavano nella direzione giusta, i miei piedi tastavano il terreno che solo per noi era stato disteso, anni addietro. Come se la città ci appartenesse.
   Inutile dire che quell’emozione era – almeno in parte – derivata dal pranzo sfarzoso. Il biglietto del conto sarebbe arrivato dopo il dessert e io non avrei dovuto versare alcun soldo. Già con Oscar Vessalius era successo; ma, come già detto, mi ero del tutto dimenticato del mio scopo, Oscar Vessalius era una macchia vaga sul tovagliolo. Non pensavo a nulla, se non all’entusiasmo che mi rivestiva. Quindi passeggiavamo, parlando del più e del meno, come se niente fosse.
   Non avevo mai mangiato così tanto cibo costoso in una sola settimana. Il tintinnare dei piatti in mano ai camerieri cominciò a darmi alla testa alla seconda portata. La mia camicia mi ossessionava; la raddrizzavo in continuazione, sperando che si conformasse agli abiti degli altri commensali. Perfino la tovaglia, nel suo tessuto ricamato, mi sembrava più pregiata. Continuammo a parlare fra una portata e l’altra, i miei occhi che passavano dal mio piatto ai due interlocutori.
   Di solito era Sharon ad intrattenere il discorso. Parlava di come da piccola si arrampicava sugli alberi, per vederne i frutti lucenti – le mele arrossate sotto la luce del sole. E poi raccoglieva le mele e le mangiava sui rami, con la gonna logora; quante ne aveva rovinate, di gonne, e quanti rimproveri si era presa. Ma dopo i rimproveri si rifiugava di nuovo sugli alberi, cosicché fra le chiome nessuno la notasse; la chiamavano ripetutamente, ma lei scendeva solo quando sentiva di essersi placata, come se nulla fosse. A discapito di tutto, somigliava a una vita semplice. Sharon non ostentava la sua nobiltà. Eppure pronunciava parole ricche; più volte i suoi racconti mi strapparono un sorriso. E Break ascoltava. Lui si limitava a parlare della sua carriera, del suo presente. Ma di ciò che era stato, nessuna traccia. Fra le sue parole e i suoi gesti, nessun indizio sul suo passato; se fosse cresciuto in mezzo alle ricchezze o attorno alla povertà, io di certo non lo capivo. Era immacolato come lo zero. Io parlavo poco, non tanto perché non volessi, ma perché non avevo molto da dire. Di tanto in tanto commentavo ciò che ascoltavo.
   A un certo punto Sharon si alzò e chiese se potevo accompagnarla. «Break, ti lasciamo solo per un po’» disse.
   Io mi volsi verso Break, con una gamba che sporgeva dalla sedia, mentre sul ginocchio dell’altra tenevo la mano. Mi alzai solo dopo il suo assenso: «Non c’è problema, andate pure a sparlare di me».
   Il ristorante dava su un ampio giardino in cui io e Sharon prendemmo una boccata d’aria. Il cielo, setacciato da pesanti nuvole scure, sosteneva l’attesa umida della pioggia; l’aria ne era intrisa. Tutti i tavoli all’aperto erano vuoti.
   Io guardavo quegli stessi tavoli, mentre gli occhi di Sharon erano fissi verso il cielo. Improvvisamente si voltò nella mia direzione. «Cosa ne pensa di Break?»
   Mi colse impreparato e senza rendermene conto alzai le spalle. «Ancora non lo conosco bene, però è un personaggio particolare. In senso positivo, intendo».
   Sharon analizzò il mio viso, alla ricerca di una parzialità che non trovò. «Break… è lunatico, incostante, irritante. E soprattutto, è incredibilmente testardo. Insomma, insopportabile». Una pausa. «Ma io gli voglio bene. Spero che anche lei gli vorrà bene, nonostante tutti i suoi difetti, d’ora in avanti».
   Le sue parole scrosciarono su di me in tutta la loro gravità. Se un attimo prima mi sentivo del tutto affine a loro – ora percepivo una divisione sottile, il drappo che ancora non avevo attraversato. Avevo appena sfiorato la garza della ferita.
   Una goccia si infranse sulle lenti dei miei occhiali. Sharon aveva il palmo aperto, rivolto verso il cielo di fuliggine. «Sta cominciando a piovere. Ritorniamo dentro». Annuii, non dissi una parola.

Nei giorni seguenti vissi in un sogno lucido che da solo non avrei mai allucinato: biglietti per la prima fila di teatro, lustre piscine private, gite in macchina che vorrei non fossero finite mai. Il cappotto di Break occupava la maggior parte dello spazio nei sedili posteriori. Una volta frugai nelle sue tasche e vi trovai le solite caramelle, più un biglietto stropicciato; la calligrafia non corrispondeva né alla sua, né a quella di Sharon. In basso figurava la firma, Kevin… non riuscii a leggere il cognome, dato che Break mi strappò il biglietto di mano. Capitava che Break si offendesse per questi piccoli dettagli.
   La descrizione di Sharon si rivelò esatta a tutti gli effetti. Break poteva passare la giornata intera infastidendomi, sapendo che non l’avrei sopportato. Questo succedeva sia quando era giù di morale, sia quando era di buon umore: rideva spesso, rifuggiva la serietà, e si zittiva appena affioravano domande personali. Per questo, da bravo attore qual era, risultava difficile capire quando era serio e quando stesse scherzando. Rideva sempre, ma sempre in modo diverso. Sul corpo si manifestavano dettagli soppressi; a poco a poco mi ci abituai. Le mani che torcevano la carta delle caramelle, un sorriso troppo tirato, fino a che a un certo punto Break si rese conto che con me non poteva mentire. Mi confidò della sua cecità, di cui solo Sharon era al corrente, pur sapendo che io l’avessi notato da tempo. Fu allora che sentii di aver superato il velo, di essere entrato dietro le quinte; io e Break e Sharon eravamo circondati da spettatori inesistenti.
   Abbassavo il finestrino per far entrare il vento, mi ero dimenticato del giornalismo. Scrivevo ancora articoli, ma non riuscivo a stendere nulla su Xerxes Break, neanche se avessi voluto. E certe volte avevo provato, quando seduto per terra vedevo Sharon e Break passeggiare davanti a me; non so perché ma, nell’averli di fronte, non riuscivo a catturarli su carta. Ogni pensiero scompariva, scivolava assieme alla penna, che cadeva sull’erba. Una volta raccolsi uno dei fogli vuoti e lo spacciai per articolo alla redazione; inutile dire che se la presero molto con me. L’unico che aveva apprezzato era stato nientemeno che Oscar Vessalius. Si congratulò con me e disse che anche se non avevo più speranze nel diventare giornalista di successo, ecco, ora sei proprio felice, quindi è questo che conta, dopotutto – queste le sue parole esatte.
   Alla fine della strada, la macchina frenò; rimasi immobile sul sedile, con il finestrino chiuso. Break e Sharon erano già scesi quando io aprii la portiera. Tenevo dei fogli nuovi in mano e tentai di mettere giù qualche parola, ma l’aria mite temperò ogni lettera. Rimasi senza nulla fra le mani dato che, in un moto di repulsione, avevo buttato i fogli alla rinfusa sul sedile posteriore. Il mio sguardo si spostava da Break e Sharon al mio orologio da polso; tempo immobile e tempo che passa, in modo inconciliabile. Per mesi non sfiorai la macchina da scrivere.
   Lo realizzai quando Sharon si sedette sul promontorio, e la stampa a fiori del suo vestito sbocciò sulle rocce. E io non avevo steso una parola; scrivo di quel promontorio solo in questo momento, senza neppure soffermarmi sul paesaggio. Ma il paesaggio è solo una memoria soffusa, il fondale da palcoscenico – dipinto dietro a corpi reali di vite accadute.
   Il passato di Sharon sembrava non avere mai fine. Lei teneva per sé i fardelli e parlava solo del bello; scavava nei suoi ricordi e tagliava di proposito la parte della madre sul letto di morte. Conobbi le sue lacrime solo attraverso Break. Sharon si arrampicava sugli alberi e raccoglieva le mele, ma non le mangiava; balzava giù dall’albero e si inflitrava nella stanza della madre. Allora sulla trapunta distendeva le mele mature, di fronte agli occhi della madre, che con la pelle livida sfiorava il rosso caldo delle mele, sorridendo a Sharon. Le mani di Shelly Rainsworth si allontanavano dalle mele per poggiarsi sul capo della figlia. La Sharon bambina aveva gli occhi bassi fissi sulle mele, frutti frammentati dalle lacrime. Solo alla soglia dei suoi giorni Shelly chiese alla figlia di alzare lo sguardo – per immortalarla negli occhi un’ultima volta. Secondo Break, c’era qualcosa in quel volto emaciato che trasudava una felicità che lui non riuscì a comprendere; ma che Sharon afferrò fin troppo. La bambina rese suo lo sguardo della madre, sorrise e non versò una lacrima. Break visse tutto e attraverso le sue parole potei vedere anch’io; il sorriso candido ed immortale di Sharon, seduta sul promontorio.
   Ma sul perché Break fosse lì accanto a loro, concreto di fronte al letto; sul perché fosse vissuto fra i Rainsworth, senza essere nessuno, tutto ciò Break non me lo spiegò. La sua storia cominciava da Shelly e da lì si forgiava, delimitata dalle mura dei Rainsworth; all’interno di quella culla accogliente nacque il Break attore di teatro, Xerxes Break come io lo conosco. Come se fosse un’entità nata solo per intrattenere sul palcoscenico. Senza che la sua vita andasse dimostrata.
   Sharon si alzò e le pieghe sulla gonna si sciolsero. Break le si avvicinò lentamente, facendo attenzione a non inciampare.
   «Reim, cosa fai lì? Vieni!» mi incitò Sharon con un gesto della mano.
   Mi ero dimenticato del mio corpo, in senso fisico. Non apparteneva, ma esisteva. Ritornai sul promontorio solo quando staccai il piede dal terreno, per poi fare un altro passo, fino a raggiungerli. Mi scrollai di dosso l’odore dell’inchiostro, poi il passato di Break e Sharon.

Quanto al mio passato, nulla di eclatante. L’avevo già dimenticato da tempo. La mia vita era solida, filava dritta. Era così che i miei incontri si magnetizzavano su un’esistenza liscia, superficie piatta. L’acqua si arricciava, i suoi bordi di schiuma mi toccavano i piedi nudi. Avevo arrotolato i pantaloni sui polpacci. Break, con i suoi pinocchietti, non ne aveva avuto il bisogno; preferì starsene seduto, mentre io e Sharon sentivamo l’acqua tiepida sfiorarci le caviglie. Break si era tolto gli stivali, ma se ne rimaneva all’ombra, testardo.
   «Peggio per te!» disse Sharon, tirandogli i sandali. Break riuscì ad evitarli ed i sandali si riempirono di sabbia dopo essere caduti a terra. Per precauzione, raccolsi le mie scarpe e le tenni strette. Gli stivali di Break invece erano presso l’orlo dell’acqua; gettati alla rinfusa, con le suole rovinate rivolte verso l’alto. Non so perché si ostinasse ad indossare quegli stivali trasandati. Molte cose ancora non capisco, in realtà. Il passato di Break mi rimane tuttora frammentato, attraverso vecchi articoli di giornale e poche parole dette dal diretto interessato; grazie a Sharon, che come me tentava di unire i pezzi, per rimodellare l’immagine di un passato distrutto.
   Fu in quel momento che Break poggiò il cappello sul suo volto. Al che Sharon lo osservò un attimo, poi si volse a me; la sua voce era bassa e concentrata. «Hai visto il biglietto nella sua giacca? Quella volta che si è arrabbiato con te, quando hai quasi letto la firma?».
   Strinsi gli occhi. «Kevin…»
   «Regnard» concluse Sharon. Schioccai la lingua.
   I giornali erano intasati dall’odore di inchiostro ammuffito, impresso su pagine fragilissime. Le intestazioni di settimane, di mesi, ospitavano il nome di Kevin Regnard. Paragrafi su paragrafi ammontavano al nulla; si sapeva tutto di ciò che faceva ma nulla di chi fosse. Un evento rivoluzionario e frustrante, per i giornalisti, da quel che ho sentito – al tempo io non scrivevo articoli. Tanto che a distanza di qualche mese, Kevin Regnard scomparì del tutto, per rimanere negli articoli dei giornali di poca importanza, sotto forma di storielle scabre. Quando diventai giornalista, mi ripromisi di non avere mai a che fare con casi del genere. Non riuscivo a concepire come quell’episodio avesse potuto rubare così tante prime pagine. La foto sbiadita negli archivi fetidi era terribilmente netta. Quando Sharon pronunciò la vera identità di Xerxes Break, le labbra di lei si assottigliarono e parvero seccarsi. Gli occhi appassirono sotto il peso delle sopracciglia.
   «Secondo me Xerxes sta solo fingendo di dormire» rilevai, nel vederlo troppo immobile. Ricordo di aver faticato a pronunciare il suo nome; il foglietto che avevo stretto fra le mani era sempre rimasto lì, mi aveva impregnato di Kevin, inesorabilmente.
   La voce di Sharon si alzò. «Non mi interessa». Raccolse i sandali che aveva scagliato, li calzò ai piedi bagnati. Voleva che Break ci notasse, ci ascoltasse. Per essere obbligato a guardarci negli occhi.
   Io avrei voluto andarmene via, lasciandoli soli ai loro problemi. Anzi, volero fare in modo che loro se ne andassero, catalizzandosi altrove. Volevo rimanere in pace senza alcun fastidio… una promessa silenziosa mi immobilizzò. Ma io gli voglio bene. Spero che… Fu allora che assimilai di essermi immerso nelle loro vite. Proprio quando attraversai la distanza – il velo invisibile – e conobbi Break e Sharon. E la pioggia scese, scheggiò la mia vista. Attraverso le lenti degli occhiali bagnati, ecco i tavoli vuoti del ristorante. Una pioggia impercettibile che colpiva la mia giacca, la mia pelle, le mie ossa. Si infranse sulle mie caviglie, in piccole onde limpide. L’acqua bagnata dai raggi, i miei ricordi confusi. Break mi aveva parlato della sua cecità e pensavo che quello bastava. Si fidava di me: l’avevo pensato davvero, quando ficcai le mani nelle tasche della giacca, lessi il biglietto rivolto a Shelly Rainsworth e non capii nulla. Ora capivo tutto e il tutto mi martellava la testa.

Sharon esigeva delle spiegazioni, ma Break non si sentiva in dovere di darle. Comunicavano attraverso i gesti, mentre le labbra non accennavano a muoversi, orgogliose del loro silenzio. Più volte sgridai entrambi senza ottenere alcun risultato. Mi sedevo sulle panchine assieme a due manichini, con loro mangiavo al ristorante mentre si schiacciavano i piedi sotto alla tovaglia, ritornavo a casa dietro ai loro sguardi inaccessibili. In altre situazioni, avrei preso il tutto con leggerezza. Ma quel clima era talmente inadatto e frustrante; tanto che un giorno li abbandonai a loro stessi e mi rifugiai a leggere giornali.
   Mi ero arreso, non scrivevo più. Né di Xerxes Break, né di Kevin Regnard. Mi mettevo le mani in tasca e non trovavo neppure una penna, neppure un biglietto. Sharon e Break incrociavano le braccia come se si trattasse di un battibecco. Mi ero buttato sul divano per leggere il quotidiano appena uscito, mi informavo con sollievo di cronaca nera recente. Scacciavo Kevin Regnard perché il giornalismo si era dimenticato di lui. Ma il giornalismo era ancora interessato a Xerxes Break. E Break c’era, io non dimenticavo. Ma per me non esisteva più. Mi addormentavo sul divano, col giornale sul petto – carta straccia che mi pesava terribilmente.
   Mi risvegliai, un giorno, sudato. Me lo ricordo perché quel giorno era torrido; la rivincita dell’estate sul temporale notturno. La finestra chiusa interrompeva l’afa e la lasciava alla città. I pedoni, le strade, gli alberi, ogni cosa era circondata da una cappa opprimente; tutti la ignoravano ed andavano avanti. Continuavo a sudare.
   Senza un motivo, tirai un sospiro. La città mi sembrava estranea, ma ogni cosa al suo interno – esposta ai raggi – mi era familiare. Il caldo era orizzontale, come nebbia, ovunque; anche nella mia stanza, in verticale, con la finestra serrata. No, fu forse in questo momento che tirai un sospiro. O forse avevo sospirato più volte. Avevo visto Break e Sharon una settimana fa ed avevo litigato con entrambi. «La situazione è delicata, e voi litigate come bambini!»
   «Non sono io il bambino» marcò Break. Le occhiaie alteravano il suo sguardo, rendendolo una smorfia.
   Sharon lo guardò dritto negli occhi; anzi, si soffermò proprio su quelle occhiaie. Però si rivolse a me. «Reim, io non voglio condannare Break. Mia madre aveva detto che l’aveva perdonato per un qualche motivo, che era una brava persona e per questo l’aveva preso sotto la sua ala». Era la prima volta che parlava di sua madre. «Ciò che voglio è che lui si fidi di noi, come noi ci fidiamo di lui. Voglio che ci dica la verità, senza nasconderla. Hai vergogna, Break? Del tuo passato?».
   Break non rispose. Ci guardò con aria di sfida.
   Sharon prese fiato. «Io no».
   Osservai Break con grande attesa. Ma, seppure i suoi occhi vacillassero, le labbra rimanevano sigillate. La sua cecità vulnerabile mi riempì di dolore.
   D’istinto mi avvicinai a Sharon. «Non capisci, Xerxes? Che a noi non importa?». Anche Sharon abbassò lo sguardo e ciò mi spinse a dire cose che non avevo mai pensato prima d’ora. «Non capisci, che noi teniamo a te?». Quella frase l’avevo vissuta, ovunque, con loro. Ma Break seppellì quel vivere nelle sue labbra. Io e Sharon ce ne andammo.
   Quando mi affacciai alla finestra, ricordai questo episodio. Mi ricordai anche che la settimana in cui non li avevo visti si era in realtà prolungata. Da un mese non incontravo né Break, né Sharon. Non avevo dimenticato Break; avevo dimenticato Kevin. Ciò che Break era stato sarebbe morto con noi tre. Sotto all’afa, nella vita di tutti i giorni, la cronaca nera esisteva solo sui giornali; anche se Break viveva, a nessuno importava. Il suo sorriso da attore era stampato su carta di fronte al teatro.
   Break figurava sulla locandina. Una mia mano impugnava il biglietto; l’altra stringeva quella di Sharon. Parlammo di nuovo dopo un mese. «Come si intitola lo spettacolo?» chiesi.
   «Non ne ho idea. Però so che è una commedia».
   «Ce lo vedi, Xerxes protagonista di una commedia?».
   Ci mettemmo a ridere.
   Sharon parlò dopo una pausa in cui si era ricomposta. «Appunto per questo la trovo una scelta azzeccata. È inaspettata. Sarà divertente». Sembrava cambiata impercettibilmente. Mi chiesi se anch’io, a distanza da mesi, non fossi più lo stesso.
   Ci sedemmo in prima fila, nei posti che Break ci aveva riservato. Le pieghe della mia giacca si schiacciarono sulla poltrona; la mia fronte si distese. A quanto pare avevo avuto la fronte corrucciata per tutto quel tempo, forse per un mese intero. Almeno, in assenza di Break, il mal di testa era passato. Era tutto così leggero. I pannelli dello sfondo che scorrevano al buio, poi le luci che si accendevano in mezzo al palcoscenico, per mostrare i pannelli già incastrati. Un mese passato con un nodo in gola, trattenuto. Di fronte a noi, Break schiuse le labbra. Guardò tutti e non guardò nessuno, come fanno gli attori. Ma le sue parole erano rivolte a noi. Non le frasi in sé, piuttosto il timbro in cui erano impostate: una voce carica, viva, Break esisteva. Non lo potevo dimenticare, perché era lì davanti a noi. E come si può dimenticare qualcosa che si ha di fronte?
   «Stai sorridendo» notò Sharon.
   «Anche tu» le risposi.
   La luce da palcoscenico arrancava un poco verso noi spettatori in prima fila. Indugiava sulla punta delle mie scarpe, dove si posavano le parole dell’attore, il suo tono che impregnava tutto il teatro. Sharon mi indicò divertita Break, che ai piedi indossava i suoi soliti stivali. Nell’apice della scena, io facevo da spettatore. Ma avevo capito tutto. Avevo capito che Break era Kevin, mi era venuto il mal di testa, poi mi era passato; era tutto così semplice, come una commedia. E lui era l’attore. E noi gli spettatori.
   La commedia venne frantumata dagli applausi che a lungo scrosciarono sopra alle parole di Break, ancora nel cuore di tutti. Una felicità immotivata si cristallizzò nel mio petto. Non una lacrima aveva versato Break, eppure la sua voce vibrava, quando si inchinò con gli altri attori ed il suo labbro si era alzato dopo mesi, per parlarci, per incontrarci. «Ecco, posso guardarvi negli occhi» proclamò. Ed era come se ci vedesse davvero.
   Quando in seguito gli chiedemmo cosa aveva fatto in quel mese solitario, lui si rifiutò di rispondere. «E voi? Cosa avete fatto?».

Sapevo solo che Break voleva ritirarsi da teatro, diceva che si era annoiato di fare l’attore. A me e a Sharon non importava. Proprio in quel momento passammo di fronte al teatro e Break sbuffò drammaticalmente. Si appoggiò al bastone da passeggio e si bloccò di colpo. Io e Sharon ci guardammo incuriositi; Break scosse la testa. «Sono stanco di fare l’attore. Non fa più per me» ecco quando desiderò per la prima volta di interrompere la sua carriera. Quando le locandine tutte gli puntavano il dito contro, con lui da protagonista. Sentimmo lo scatto di una foto e qualche giorno dopo io comparii sui giornali, assieme a Sharon e Break.
   A poco a poco mi stavo allontanando dal giornalismo. Ma il giornalismo immobilizzava Break. Fino a quando non avessero tolto via gli strati da attore – fino a quando non avessero scavato a fondo – allora Break avrebbe dovuto continuare ad interpretare, dietro le quinte e fuori da teatro. Per questo il palcoscenico stancò Break. Si sentiva in gabbia, limitato dalle porte sorvegliate del teatro. I colori spogli, atroci, sempre uguali. Le luci che sempre lo colpivano sulla nuca, una pugnalata alle spalle. Ed uscito da teatro, i limiti rimanevano sempre gli stessi; lui che doveva intrattenere, in una vita infinita, fino a quando non fosse giunto alla rovina.
   Il teatro lo inghiottiva, non lo voleva risputare sulle strade asfaltate calpestate da pedoni. Break si affidava al bastone da passeggio, il suo passo diventava sempre più invisibile; spesso io e Sharon ci voltavamo per vedere se Break era ancora lì con noi. Qualche volta ci offriva una caramella, ma noi rifiutavamo. «Tengo a voi» ci aveva detto. Però sembrava così lontano. Come se dopo l’applauso io e Sharon ci fossimo congedati, abbandonando Break al palcoscenico. Per questo, quando disse di farla finita con la recitazione, Sharon rispose: «Fai bene».
   Quella commedia aveva portato forte aspettativa. Sinceramente non mi ricordo nulla, né della trama, né dei personaggi. Mi ricordo solo di Xerxes Break che si spacciava per protagonista. Per questo non ho parlato della commedia: non mi interessa. Pensandoci, è da un po’ che non metto piede a teatro. Ovvero, da quella volta.
   Finita la commedia nacque un lungo discorso fra noi tre. Ci sedemmo e parlammo, con semplicità, di tutto e niente. Promettemmo di non nasconderci nulla. Anch’io parlai di molte cose che avevo dato per scontate: della mia infanzia, della mia vita prima di incontrarli, dei miei progetti. L’unica ambizione di cui sono certo è che, al tempo, sognavo di vivere con loro due, lontano da tutto e tutti. Quando lo feci presente ai diretti interessati, entrambi si misero a ridere, ma in loro traspariva una certa soddisfazione.
   Questi dettagli non hanno più tanta importanza. Se ripenso al passato, ripenso a questi episodi sconnessi. Tutto il resto è lineare, ben archiviato nella mia memoria; non c’è bisogno di reminescenza. Un dettaglio degno di nota, invece, era la pistola che Break cominciò a portarsi dietro. In una tasca, il biglietto; nell’altra, la pistola. Break arrancava e, oltre a ripiegare sul bastone, qualche volta si affidava a noi. Così vidi per la prima volta l’eleganza brillante della pistola. Per poco rese cieco anche me. Quando mi ripresi, valutai la situazione. Break davvero portava appresso la pistola. Era lì ed era pesante nella tasca. «È la senilità che si fa sentire?» sdrammatizai.
   Break sbuffò.
   Sharon mi diede man forte. «Break, mi dispiace… i tuoi giorni si stanno avvicinando».
   L’ultima volta che abbiamo riso insieme. Break voleva trattenersi, ma non ci riusciva. Per un attimo camminò eretto, tanto che il suo zoppicare parve una farsa. Poi il bastone gli cadde di mano e ritornò con la schiena curva; continuammo a ridere.
   Ho strappato molti giornali e le mie memorie dell’episodio rimangono confuse. Ritagli di carta si sparpagliarono per terra appena lessi una paio di paragrafi. L’unica cosa che ricordo vividamente è la foto di Xerxes Break, affiancata a quella di Kevin Regnard. Una foto rifletteva l’altra. Appena le vidi, mi accorsi di star già accartocciando il giornale fra le mani.
   Sapevamo che era solo questione di tempo. Nei nostri silenzi c’era l’attesa; ci trattenevamo dal dare nell’occhio. Eppure se a me e a Sharon era bastato un biglietto di carta per scoprire l’identità di Break, allora tutto era possibile, per i giornalisti. Erano sempre girate voci sull’identità di Break, ma a un certo punto quei sussurri si catalizzarono in un’unica, grande scoperta che univa cronaca nera a celebrità. La modesta nicchia di teatro si aprì per mostrare una ferita pubblica; sgorgarono le parole, si impressero sul giornale. Carta fresca stampata messa al macello, pronta per tutti da leggere.
   «Cos’hanno da dire i Rainsworth a riguardo, signorina Sharon?».
   «Riguardo a cosa?»
   «Riguardo al fatto che sua madre abbia ospitato Kevin Regnard, fornendogli una nuova identità. Per caso siete complici?».
   Sharon scuoteva la testa, li guardava con disprezzo, ma non poteva dire nulla. La mascella era serrata. Ma non potevo dire nulla.
   «Reim Lunettes, lei era a conoscenza dell’identità di Xerxes Break? È per questo che ha abbandonato il giornalismo? Dove sta andando?»
   «A casa» e sbattei loro la porta in faccia.
   Sharon era seduta sulla poltrona, le mani accarezzavano i braccioli. Tentava di non dare segni di turbamento. Al rumore della porta, alzò il mento. «Non lasciano in pace neanche te, vero?».
   Scossi la testa. «Non voglio dargliela vinta. Come sta Xerxes?»
   «Ho parlato con lui prima di venire da te. Ha detto di riferirti che sta bene, però so che non è vero».
   Mi sforzai di sorridere. La montatura degli occhiali si era rovinata, dato che le bacchette per qualche strano motivo si erano allargate. Le lunette scivolavano sempre sul naso. Quando toglievo gli occhiali notavo che sul naso mi rimaneva sempre il segno.
   «Pensi che avrà bisogno di un avvocato?» proruppe Sharon.
   Sobbalzai. Quella congettura si insinuò gelida nella mia testa. «Non… no, perché mai?». Sharon si era alzata dalla poltrona, il viso terreo mi scrutava. D’istinto le poggiai una mano sulla spalla. «Passerà».
   «Reim, stai tremando».
   Per nulla al mondo avrei voluto che Sharon o Break mi vedessero in quello stato. «Passerà».
   Ma Break era messo ben peggio. Riuscii a nascondere la mia preoccupazione e, quando realizzai di essermi abituato ai giornalisti, era ormai diventato più tetro. Allora ero disilluso abbastanza dall’accettare che ogni mio passo sarebbe stato reso d’inchiostro. Avevo buttato via la macchina da scrivere e le mosche la evisceravano nel bidone della spazzatura. Così mi diressi dai Rainsworth, dove Sharon mi accolse; con un volto che ricordava il mio, quando la mattina gettavo un’occhiata allo specchio. Insieme andammo nella stanza di Break. Prima di muovere la maniglia, notai Sharon mordersi il labbro. Misi la mia mano sopra la sua; insieme aprimmo la porta.
   Break era seduto sul divano ed aveva poggiato una gamba sul tavolino. Il suo portamento si scioglieva, la sua vita era in decomposizione – era fatto di cera. Guardava il vaso vuoto nell’angolo della stanza. Sharon lo chiamò per nome. Non rispose.
   «Kevin», azzardai. Scoprimmo con orrore che reagiva solo a quel nome.
   Break si voltò verso di noi e provò a ricomporsi sul divano. Una mano poggiava pigramente sulla guancia.
   Sharon si fece rossa in viso. «Kevin? Che ti prende, Break?»
   «Smettila di prenderci in giro» continuai.
   Break non ci interruppe. Per la prima volta fu davvero cieco. Non quando ci ascoltava sempre, neanche quando rifiutava di guardarci negli occhi; in quel momento il suo sguardo ci trapassava con trasparenza. Era come se si guardasse allo specchio. Le nostre parole si riflettevano dalla parte sbagliata. Io e Sharon smettemmo di parlare – era inutile. Nulla lo raggiungeva.
   Break mi fissò in modo cupo. Ad un certo punto, traboccò: «Sei stato tu». Non mi chiamava per nome.
   Confuso, misi assieme le parole che trovai più adatte. «A fare cosa?».
   Break si alzò barcollante. Io e Sharon ci guardammo, accigliati. Di fronte a noi avevamo il fantasma di Kevin Regnard, che zoppicò fino a noi e, senza toccarci, ci colpì. Mi puntò l’indice contro; lo scrutai mentre si reggeva a fatica sul bastone. «Non fingere di non sapere. Tu, tu sei un giornalista, lo sei sempre stato». Capimmo che piega stava prendendo. Deglutii. Sharon disse qualcosa, ma Break continuò. «Tu sai benissimo chi sono. Ed hai voluto rovinarci la vita… hai…»
   «Smettila!» gridò Sharon. Break spalancò gli occhi. Sharon si avvicinò a lui; lui avvicinò il bastone a sé, si coprì il viso. Sharon si stupì di fronte a quel gesto. Scosse la testa e prese Break per un braccio; ignorò il suo borbottare insistente e lo riportò al divano. La aiutai a coricarlo.
   Break, in lutto, era sdraiato con le mani sul petto. Fissare il soffitto l’aveva reso più lucido. «Non mi interessa cosa pensano di me. Ma se sanno chi sono… allora, che razza di vita condurrò? Con quale coraggio? Volevo essere Xerxes Break, come Shelly Rainsworth aveva stabilito…. Xerxes Break era la mia vita. Solo questo». Il labbro inferiore gli tremava. Sharon gli mise un cuscino sotto alla testa; si era seduta sul bordo del divano. Io rimasi in piedi.
   Le dita tese di Break si sciolsero ed una mano sfiorò con le nocche il pavimento. «Più di tutto, ho rovinato la vostra vita. Sono solo un peso. Guardate in che stato sono. Sharon, per favore, prendi la pistola». Sharon impallidì. «No, non è quello che pensi. Non voglio… non voglio morire». Espresse quell’ultima parola con rinnovata scoperta, come un bambino che ne tasta il significato. Qualcosa nei suoi occhi si ridestò, ma fu doloroso. Quel qualcosa mi spinse ad estrarre la pistola dal suo cappotto; feci per porla a Break.
   «Reim, cosa stai facendo?» esclamò Sharon. Avevo ficcato una mano in tasca per obbligarmi a rimanere immobile; sul palmo dell’altra mano spiccava la pistola. Break puliva sempre la pistola col mio panno per gli occhiali. Lì risplendeva la vita; Break poteva vederla, distillata sull’arma. Con lo sguardo sfiorò la rivoltella, avvicinò una mano. Qualcosa nella pistola lo colpì; una pallottola invisibile lo rilegò al divano. Sharon mi strappò la pistola di mano. Mi sentii in imbarazzo. Balbettai qualcosa che lei finse di non sentire.
   «Non so neanche perché mi portavo dietro una pistola» commentò Break. «Tanto i giornalisti non la usano».
   Sharon lo ignorò e nascose la pistola; quando ritornò, si mise di fianco a me.
   Break mi fissò. «Perché?».
   Inarcai le sopracciglia.
   «Perché sei ancora qui?»
   «Secondo te?» sbottai.
   «Ma appena sei entrato ti ho trattato in quel modo. Avresti fatto meglio ad andartene».
   «Non vuoi che ti vediamo in questo stato?».
   Break assunse un po’ più di colore. Scrutò Sharon, poi tossì. «Tu mi vedi in questo stato tutti i giorni».
   «Per questo devi rimetterti in sesto» ribadì Sharon. Mi chiedevo come lei potesse passare tutti quei giorni così, rimanendo sempre forte e salda. Per noi. Si voltò verso di me. «Mi spiace, Reim. Sentivo di aver bisogno di te, ma faremmo meglio ad andarcene». Quando chiudemmo la porta, Break era ancora immobile sul divano. Aveva chiuso gli occhi.
   Chissà cosa lo spinse ad alzarsi nel bel mezzo della notte. Quello stesso giorno avevo dormito nella casa dei Rainsworth; nella stanza degli ospiti, che mi faceva sentire un estraneo. La mattina dopo mi ero svegliato e, senza pensarci, ero andato a destare Sharon. Insieme ci eravamo diretti verso la porta. Avevamo aperto senza neppure bussare, certi che Break non avrebbe risposto. Ma Break non c’era e la stanza era tiepida. Un biglietto sul tavolino. Me ne vado, vi lascio liberi. La calligrafia era astrusa, ma la riconobbimo immediatamente. Firmato Xerxes Break.

Se cercate fra i giornali, vi si proporrà un quadro disarticolato ma massiccio di tutta la vita di Break. Kevin Regnard, fino alla fuga. Quello è un punto morto. Lì non si può sfogliare oltre. Ma potete immergervi nella sua vita e trarne le vostre conclusioni.
   Io e Sharon abbiamo deciso di comune accordo di metterci tutto alle spalle. Siamo andati avanti ognuno per la propria strada, come aveva fatto Break. Questo non è avvenuto subito: per mesi abbiamo investigato sulla sua scomparsa. Poi abbiamo realizzato che era impossibile dimenticarlo se noi ci vedevamo ogni giorno, quindi ci siamo presi una pausa. Un’avventura stagnante è un evento molto insolito. Me la presi molto con Break per questo.
   Ora però non gliene faccio una colpa. È stato obbligato a scomparire, lontano dalle luci dei riflettori. Ma senza quelle luci, di lui rimane solo l’ombra. E rimane la foto sbiadita che tengo sul tavolino accanto al barattolo di caramelle; quel sogno ingiallito, la linea di polvere sui nostri tre sorrisi, senza nulla ad illuminarli.
   Quindi non mi sono dimenticato né di Break, né di Sharon; d’altra parte, di rado mi soffermo sui miei ricordi. Non penso sempre a loro due e così riesco ad alleviare il peso della mancanza.
   Cosa faccio ora? Dopo la scomparsa di Break, mi ripromisi di abbandonare definitavamente il giornalismo. Ora sono un giornalista e tratto proprio di cronaca nera. Questo perché le promesse sono relative. Sono sfuggito indenne alla morsa del giornalismo. Più scandali si sono susseguiti in quell’anno, e io ero solo la piega di un giornale. La scomparsa di Break fu un segnalibro, al massimo: per ricordarci ciò che è irruento, crudo e meraviglioso. Nulla di più. A nessuno importava di Xerxes Break – fu una realizzazione solitaria e fine a se stessa. Anche i Rainsworth stessi mantennero una reputazione solida, grazie a Sharon che si esprimeva sempre bene. I giornali la lodarono e lasciarono i Rainsworth in pace; si concentrarono su altre famiglie nobili di cui invece a me importò poco. Così dimenticai i giornalisti inoppurtuni, comprai una macchina da scrivere nuova e mi dedicai alla cronaca nera. Per dispetto a Break – mi piace pensarla così, anche se so che non è vero. Per custodire la vita di Break, non ho scritto nulla sul suo conto. Mi sono dedicato ai fatti più recenti e li ho esposti: limitandomi a questo ho raggiunto una certa soddisfazione nell’ambito del lavoro. Tutto qui. C’è tanto da dire, ma così finirei per parlare della mia vita; questa è la vita di una memoria. Io mi sono solo soffermato su un evento di cui ho fatto attivamente parte. Un evento breve, a confronto con altri; breve eppure articolato. Così si distorce, assumendo un valore lungo ed implacabile.
   Proprio di recente ho rivisto Oscar Vessalius. È stato lui a riconoscermi – io appena mi ricordavo di lui. Anche lui, per motivi che non conosco, è cambiato. Ha accennato alla sua vita ed io di rimando ho accennato alla mia; in quell’istante Vessalius e Rainsworth hanno vissuto assieme. Poi sono ritornato ad essere il giornalista Reim Lunettes e mi sono congedato.
   Oscar Vessalius però mi ha fermato. Ha pensato un attimo per scegliere le parole giuste. «Quindi ti consideri un Rainsworth?».
   Mi sono sentito molto in imbarazzo. Ho farfugliato qualcosa.
   Oscar è scoppiato a ridere. «La trovo una bella cosa». Aveva altro da aggiungere. «Hai fatto una visita a Sharon Rainsworth? Si sta superando».
   Così mi ritrovo ad aspettare Sharon, seduto su una panchina. I volti che passano sono diversi e la strada è una come tante. Eppure è proprio per questo che sento tanto familiare questo ambiente, perché l’atmosfera è sempre la stessa, ma io sono diverso. So di inaspettato e non scritto. Ormai vedo la gente passare e, in quell’ammasso, distinguo me stesso. Così come mi alzo nel riconoscere d’istinto Sharon, con i capelli raccolti in un fiocco nuovo; lo stesso sorriso assume qualcosa di futuro, che ancora non ho colto del tutto. Metto a posto i miei occhiali – quelli vecchi, troppo scomodi, li ho buttati via da tempo. La mia giacca è piena di biglietti e penne e appunti, ma la sento leggera. Gli abiti di Sharon sono come una piuma.
   Le sorrido. «Mi fa davvero piacere che tu abbia accettato l’invito».
   «E io sono contenta che tu mi abbia scritto» replica lei. «Chissà se si aggiungerà anche Break».
   «Se lo invitiamo, magari… ma dovremmo aspettare un mese prima che si faccia vivo». In realtà non so neanche se Break esiste ancora. Eppure faccio fatica ad immaginarlo morto. Per tutto il tempo ha avuto noi; ha avuto paura di morire. Per questo si rifiuterebbe di morire da solo.
   Chi sarebbe in ritardo? Break rispondeva sempre così.
   La risata di Sharon è spumeggiante. Mi riporta a ciò che ho davanti. Stiamo per camminare, ma ci paralizziamo.
   Chi sarebbe in ritardo? Una frase dietro alle nostre spalle. Io e Sharon ci voltiamo.

____

NDA

lunettes

avevo già pubblicato questa ff ieri, ma la grafica era ingestibile quindi ho deciso di cancellarla, per curare l'html da pc con più calma.

 mentre stendevo la storia, non avevo idea di come farla andare a finire. alla fine ho messo il punto fermo conclusivo, ma spero che questa attesa sia persistita anche in chi ha letto. cosa succederà a reim, break, sharon? volevo dare questa sensazione, non tanto attraverso i colpi di scena, piuttosto grazie al coinvolgimento con i tre protagonisti. scrivendo, lo scopo di questa au è diventato quello di scavare nei tre personaggi e nella loro vita del canon, ma sotto una luce diversa. insomma, uno scopo ambizioso. fra le tante cose, pensavo che sarebbe stato divertente vedere un break nei panni di attore. quanto a reim e sharon, li amo in ogni loro forma e manifestazione: avrebbero potuto fare anche i fruttivendoli per quel che mi riguarda. ho iniziato la ff a fine giugno, l’ho finita ad agosto e l’ho revisionata fino ad adesso. la storia si è evoluta parallela al mio stile di scrittura. è stato un progetto a tutti gli effetti. però preciso di aver scritto la ff da cellulare, quindi potrebbero esserci degli errori. se ce ne sono, fatemelo presente. inoltre ho paura dell’ooc, soprattutto per reim, ma spero che i tre protagonisti siano plausibili. e i tempi verbali: con quelli ormai vado per il come suona megliogià che sono in vena, aggiungo che penso di non aver mai avuto a che fare con un vero blocco dello scrittore… fino a poco tempo fa. era come tentare di aprire un rubinetto serrato. anche se l’acqua usciva, era acqua sporca. e mi faceva arrabbiare. da qui questo mio stile smussato, che ho usato per sperimentare. questo esercizio di sintesi (chiamiamolo così) mi sta aiutando ad affinare il mio stile. inoltre trovo che si adatti bene a storia e personaggi. la prima parola che mi viene in mente pensando alla ff è UN PARTO. però scriverla è stato divertente, tutto sommato. quindi spero davvero che la storia abbia intrattenuto voi lettori. un parere mi farebbe piacere perché l’opinione del lettore è essenziale, se si vuole migliorare. certo, se siete arrivati fin qui, allora trovo che un grazie sia necessario. 

  
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