Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Miky_D_Senpai    01/09/2018    4 recensioni
Erwin aveva da sempre combattuto contro i suoi demoni, demoni più silenziosi di quelli che provavano a portarselo via. Aveva portato quell'ideale sempre da solo, nonostante lo definisse un assassino. Ma era un uomo prima di una definizione, una persona prima di un comandante. Accompagnato di chi avrebbe voluto salvarlo da se stesso.
Ma ora le porte gli si chiudevano davanti, perché si guardava alla definizione senza conoscere l'uomo.
Piccolo estratto:
“La manica, larga sul suo avambraccio sinistro, svolazzava insieme alla polvere. Non aveva cicatrici da mostrare dove la camicia era bucata, soltanto il ventre di un uomo vissuto in un purgatorio circondato da mura.”
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin, Smith, Irvin, Smith, Mike, Zakarius
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uscì di casa per le tre, chiuse silenziosamente la porta, ma senza dare l'impressione di nascondere qualcosa. Era semplicemente il suo modo di fare. Un modo particolare di chiudersi qualcosa alle spalle, che fosse il mondo esterno o le preoccupazioni più piccole. Il suo modo di fare, forse, era l'unico ancora fedele a se stesso in quel piccolo borgo. Avrebbe fatto il suo solito giro per sgranchirsi le gambe.
“Non devi dimostrare nulla” lo rassicurava sua madre. La routine era sempre la stessa, l'esito sempre negativo. Passava di casa in casa e poneva sempre le stesse domande, faceva sempre le stesse affermazioni, ma non l'avevano ancora ascoltato. Bussava ad una porta, attendeva e, anticipando chi aveva la "sfortuna" di trovarselo davanti, cominciava a recitare il suo copione.
«Salve...» Così iniziava e a volte finiva. Erano pochi quelli che avrebbero ascoltato un uomo così terribile, dispotico, disumano. Questo erano abituati a pensare di lui, questo ricordavano, questo era quello che avevano soltanto visto. Giudicavano da chilometri di distanza, ma non sentivano, non provavano nulla di tutto quello che lo intaccava e non avrebbero mai apprezzato il risultato di quel lavoro meschino.

“Se ti senti in dovere di dire qualcosa a queste persone, ricorda che loro non ti odiano, ma sarà difficile farsi ascoltare. Non è come...” gli ricordava il padre. Entrambi già sapevano che non sarebbe stato affatto facile, che nessuno l'avrebbe accettato in quel posto, che era la pecora nera. Per questo l'avevano relegato in una stanza in attesa.
Anche se non lo era più da qualche settimana, adesso poteva essere definito uno di loro, ma ancora ripensava a stupide crociate come un illuso. Eppure camminava con il mento in alto, guardando oltre l'orizzonte, poco al di sotto delle nuvole, lì dove il Sole ogni sera se ne andava, silenzioso, nel sangue che tingeva il cielo. Era solo uno stupido sognatore.
Tutti in quei giorni lo vedevano passeggiare in strada, tutti lo riconoscevano, senza ricordare quanto dovessero a quell'uomo e quanto lui avesse già sacrificato. Non per la sua piccola crociata davanti le abitazioni, ma per tutto quello in cui aveva creduto e per tutti coloro che aveva ceduto al destino.
«Sei solo un pazzo se credi che ti ascolti» dicevano prima di sbattergli la porta in faccia. Ma lui non si sarebbe scomposto nemmeno un capello, nonostante il fragore dell'ingiustizia a cui gli altri si piegavano silenziosi. Era forse l'unico che ancora restava legato ad un ideale? Un piccolo arbusto che cercava ancora di uscire dalla penombra in cui la foresta l'opprimeva. Anche se, da qualche parte, quell'arbusto aveva già piantato le sue radici.
Faceva quel giro tutti i pomeriggi, mentre la luce aranciata riscaldava l'aria. Passava per una decina di abitazioni, perdendo gradualmente le speranze, o almeno questo pensavano quando i suoi occhi cerulei cedevano alla loro sfida. Aspettava solamente il momento giusto per riuscire a redimersi, mentre altri cercavano solo lui. Altri che non volevano abbandonare un sogno, quella promessa di cui lui era l'incarnazione. Un desiderio per cui la dimostrazione più alta di fedeltà era la morte, ma che nella morte trovava solamente a nuove vittorie.

Si pentivano di un ricordo che avevano abbandonato e che faceva più male degli strappi che portavano come ornamenti sui vestiti. Giravano nella speranza di non vedere mai più il suo volto. Non parlavano del passato, non riaprivano ferite e lasciavano che i dubbi restassero tali. Nonostante si fossero incontrati di nuovo per puro caso e dopo tanto tempo. Ma quel pomeriggio, lo videro passare come un miraggio, fugace come un respiro, inaspettato come un raggio di sole durante la tempesta.
Non era come lo ricordavano, perché non simboleggiava più un sogno, ma ne era diventato anche lui un martire. Vestiva quasi di stracci, vecchia era la camicia, ormai di un bianco sporco attillato ai suoi muscoli, vecchi i pantaloni, di un beige scolorito che ne risaltava le gambe toniche. Le sue mani forti si intravedevano dalle tasche dove tentava vanamente di nascondrle. La manica, larga sul suo avambraccio sinistro, svolazzava insieme alla polvere. Non aveva cicatrici da mostrare dove la camicia era bucata, soltanto il ventre di un uomo vissuto in un purgatorio circondato da mura.

“I nostri compagni ci stanno guardando... vogliono sapere per quale obiettivo hanno perso le loro vite. Perché la battaglia non è ancora finita” rammentò un discorso fatto ad un corvino che forse aveva riposto troppo nelle sue mani. E si perse nel suo ricordo e in quello di molti altri. Ricordi che si confondevano con i passi di chi si affrettava verso di lui, di chi si fermava e si portava con forza un pugno contro il proprio cuore.
«Comandante Erwin Smith!» lo salutò una voce che non sentiva ansia più pura di risalutare un vecchio amico. L'uomo che si era immobilizzato davanti a lui aveva lo sguardo perso nel vuoto nel tentativo di trattenere emozioni contrastanti, mentre altri si prodigavano in un saluto che suonava come un inno.
«Mike» L'osservò mentre le lacrime reagivano alle sue parole, gocce che solcavano il volto del suo sottoposto come quello di molti dei presenti. Una cornice di vestiti lacerati dal dolore si chiudeva al centro della piazza. Mentre altri fluivano dalle case, chi per salutare il proprio condottiero, chi per scusarsi di non avergli dato mai la fiducia che meritava. Un'ode si alzava dalle loro voci, un pentimento celato dalle lacrime, la gioia distrutta dalla sua sconfitta.
La piccola folla che si era radunata di fronte a lui era composta da individui a cui aveva dato un valore. Un valore che diventava il fardello che si aveva portato nel cuore e del quale la morte non lo aveva ancora liberato.

 

 

 

 

Angolo dell'autore


Mi ero ripromesso di non piangere...

Bentornati nei miei deliri a metà tra una “what if” e quello che (non) avrei voluto vedere. Passate belle vacanze? C'è chi morirebbe per andare a vedere il mare... d'accordo, era una battuta pessima, ma vorrei sapere in quanti l'hanno capita al volo.
Mi dovete scusare se la storia è così dannatemente implicita, ma quando nemmeno il mio cervello mi dice cosa vuole scrivere io non posso inventarmi nulla di meglio. E perdonatemi se magari sono presenti errori (ovviamente spero che non ci siano, ma non ne sono sicuro).
Spero vivamente che l'ispirazione delle undici di sera vi sia piaciuta (ho finito alle 2:15 di scriverla).

Alla prossima!

Miky

   
 
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