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Autore: miss yu    10/07/2009    6 recensioni
Kameron Bauer è il protagonista di “Vita di strada” e di “I’m sorry girls”.
Questa one-shot vuole approfondire alcuni momenti della sua vita particolarmente complessi, intricati e dolorosi; quelli che lo hanno portato a passare dalla strada dove vendere sesso era un modo per sentirsi desiderati alla vita da rock-star, sempre alla ricerca di qualcosa di mai definito e chiaro, sempre con l'istinto di farsi comunque del male.
Chi ha letto le fiction che lo riguardano, qui troverà qualche altro spunto per poter conoscere meglio il protagonista.
Chi non le ha mai lette può giusto cominciare con questa, così tanto per gradire, penso sia comprensibile anche per chi di Kameron non sa proprio nulla.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Kameron Bauer: into the night.'
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Ecco la one-shot promessa.
E con questa direi che ogni cosa che si poteva dire su Kameron è stata detta.
Sono semplicemente delle riflessioni che il marmocchio fa su alcuni momenti della sua vita (Kameron che riflette?? Questo sì che significa essere cambiato!).
Spero vi possa piacere, anche se è una piccola cosa senza grandi pretese.
Sto meditando una nuova fiction originale, sempre yaoi (tanto per non smentirci) ma con delle tematiche angst e forse anche un po’ dark.
Penso che la pubblicherò fra non molto nel genere drammatico, ho già in testa l’idea, ora mi manca solo di scriverla (Solo!!!)



Kameron Bauer : the memorial.


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Mi chiamo Kameron Bauer.
Quella sopra è la mia immagine.
E’ una foto del mio album privato scattata da un’amica.
Perché ho scelto questa foto tra le centinaia che ho?
Forse per la sensazione che trasmette per lo meno a me: estrema sensualità.
In particolare mi piace la morbidezza della mia spalla nuda e il mio braccio carico di bracciali messo in risalto dal chiarore e poi c’è quell’atmosfera che rende tutto intrigante e un po’ morboso: luce e ombra, velature di fumo, cuscini e coperte morbide e ricche.
Quasi sento ancora sotto la mia pelle il contatto del raso fresco e liscio, libidinoso.
Io sono così nella mia natura più vera, lo sono sempre stato penso, ma chi può dirlo con sicurezza?
In realtà non c’è nessuno con cui posso verificare questa mia ipotesi, nessuno che mi abbia conosciuto da piccolo con cui confrontarsi.
Tutti scomparsi.
E’ strano non avere riferimenti, non poter sentirsi dire da nessuno frasi banali del tipo: “Anche da piccolo facevi così” o qualcosa che ti possa aiutare a crearti una storia personale: quale giocattolo amavi, quali le paure, quali le cose che ti divertivano.
Se è vero come dicono, che molto si gioca nei primi anni della nostra vita, beh è logico che i risultati nel mio caso non possono essere esaltanti.
Mia madre: cappelli del colore di una notte senza luna e senza stelle, morbidi e lucidi, pelle di latte, seno di panna, occhi bui con ciglia così lunghe da disegnare ombre sottili, bocca rosso fuoco così in contrasto cromatico da sembrare una ferita, sensualissima.
Mia madre bella e appariscente.
Il mio primo ricordo di lei: davanti all’ingresso il primo giorno di scuola, tutti gli sguardi su di noi che mano nella mano ci facevamo largo tra la folla di genitori e marmocchi.
Pur così piccolo ricordo con imbarazzo gli sguardi degli uomini sul corpo di lei che assolutamente noncurante mi sorrideva e mi sistemava i capelli.
Ricordo anche quelli delle altre madri, di sguardi: di disprezzo, condanna, biasimo, invidia.
E i miei pensieri di allora sono così nitidi che è come se li stessi formulando in questo momento: “Perché non posso avere una mamma come tutti gli altri, una di quelle vestite con jeans e scarpe di ginnastica, ingrassata anzi tempo, con i capelli acconciati alla belle e meglio in una coda improvvisata?”
Mi piace pensare che nei primi anni lei e mio padre abbiano potuto condividere un po’ d’amore, che mi abbiano voluto, che siano stati felici almeno per qualche tempo.
Mi piace pensarlo perché da che mi ricordo lei e mio padre felici non lo sono stati mai, anche se lui l’ha amata più di ogni altra cosa al mondo e lei in qualche modo lo ha considerato per anni una presenza nella sua vita, a cui tornare.
Da che rammento l’ho sempre vista partire e le sue partenze, pur improvvise e occultate (non l’ho mai vista fisicamente andarsene, solo un mattino alzandomi non la trovavo più), erano precedute da un periodo di estenuante irrequietezza e insoddisfazione che dichiaravano a lettere gigantesche che presto avrebbe preso il volo e che stava solo aspettando il vento giusto.
Il vento giusto più prosaicamente era un uomo che gli prometteva una vita diversa, diversa in cosa non so dire con precisione; forse un uomo più bello e brillante di mio padre, con più soldi, con più voglia di vivere allegramente e di sperperare vita e denaro senza pensieri.
Quello che non sono mai riuscito a capire è perché abbia sposato giusto un uomo completamente opposto agli amanti che andava raccattando in giro per il paese.
All’irrequietezza, alle uscite serali, ai rientri a tarda notte, alla noncuranza verso la casa, alla trasandatezza in cui lasciava cadere me e mio padre, succedeva con certezza matematica la sua fuga.
La sua assenza era scandita dalla disperazione e dalla rabbia di mio padre, inizialmente tenuta celata ai miei occhi di bambino e poi sempre più rivelata, che tenerla nascosta non era più possibile.
“Kameron la mamma se ne è andata, la zia ha bisogno di lei, starà via per un po’ ma tornerà vedrai, ora devi essere bravo e comportarti bene, ce la caveremo non preoccuparti”
“Quella troia di tua madre se n’è andata, ma giuro su Dio che non le permetterò di rovinarmi ancora la vita, quando tornerà troverà la porta chiusa, basta, ha chiuso con noi”
Tra il primo e il secondo discorso c’è qualche anno di mezzo, tre o quattro fughe, tre o quattro perdoni.
Perché la cosa strana di tutta la faccenda, ciò che ancora oggi faccio fatica a capire è che mia madre dopo qualche tempo (un mese, due, tre, cinque il suo record) tornava.
Avrei voluto chiederle il perché, perché continuava a tornare da noi.
Era perché non aveva altra scelta o perché le mancavamo anche se in modo assolutamente illogico?
Le mancava mio padre: alto, magro, dinoccolato, con i suoi capelli chiari e radi e gli occhi di un azzurro ghiaccio, colto, riservato, taciturno ma capace di gesti teneri e inaspettati o le mancavo io, il suo bellissimo bambino o in fondo non le mancava nessuno di noi due, ma quello che cercava era solo un riparo per un po’?
E quando tornava lo faceva da sconfitta, da penitente, annientata, umiliata, con l’unico desiderio di ravvedersi e di tornare ad essere una brava moglie e una ancora più brava madre.
Ma la cosa ancora più inverosimile era la commedia che lei e mio padre mettevano in scena, sempre la stessa, solo con alcune variazioni sul tema.
Lei singhiozzante di fronte alle urla e agli insulti di lui, pronta ad incassare la sua violenza quasi con desiderio, come se fosse il prezzo da pagare per poter rientrare in quella vita da cui lei stessa era fuggita esasperata.
Lui feroce e livido di rabbia trattenuta per mesi.
La conclusione era lei che lo ringraziava piangendo, promettendo di non ripetere più i suoi errori e lui che l’accoglieva in un abbraccio silenzioso e straziato.
Ciò che meno perdono a quei due è di non avermi lasciato fuori da quell’assurda farsa.
“Bambino mio, non ti sono mancata? Saremo felici, tutto tornerà come prima, ti riaccompagnerò a scuola e poi nel pomeriggio faremo i compiti e poi ce ne andremo al parco nelle belle giornate, ricordi come stavamo bene io e te, non vuoi che la mamma torni?” mi sussurrava lei tra le lacrime, mentre mi abbracciava e mi accarezzava.
Come avrei voluto urlargli: “ NO non mi sei mancata per niente” se solo avessi avuto un po’ più di coraggio e invece tacevo e speravo che mio padre tenesse fede ai giuramenti che mi aveva fatto, dimostrasse un minimo di dignità, non cedesse.
Speranze sempre andate deluse.
“Vedi Kameron mamma sembra cambiata, dobbiamo darle un’altra possibilità che ne dici, dobbiamo perdonarla, questa volta sembra veramente pentita, vero” mi sussurrava lui prendendomi da parte.
“NO cazzo, non è cambiata, non cambierà mai” avrei voluto gridargli, ma stavo zitto e abbassavo la testa.
“Lasciatemi fuori da tutto questo, lasciatemi in pace stronzi. Abbiate il coraggio di dare un taglio a questa vostra storia di merda, non capite che trascinare così le nostre vite ci sta lacerando in modo sempre più insopportabile” questo avrei voluto urlare loro in faccia ma non l’ho mai fatto, ora penso che forse avrei dovuto, almeno non mi sarei sentito partecipe di quella dannata tragedia che finiva per diventare inevitabilmente una buffonata.

Mamma ti ho odiato tutte le volte che te ne sei andata, ma ti ho odiato ancora di più tutte le volte che sei tornata.
Papà ti ho disprezzato tutte le volte che la insultavi e la picchiavi, ma ancora di più quando la perdonavi.

Ad ogni ritorno di mia madre, seguiva un trasferimento.
Papà diventava paranoico, si sentiva addosso lo sguardo di tutti i vicini, dei colleghi di lavoro, il loro scherno, le loro battutacce e così si cambiava: città, casa, scuola, vita, anche se la vita te la porti addosso appiccicata sotto la pelle e non è cambiando luogo che te ne puoi disfare.
Ho girato in lungo e in largo l’ovest, senza avere il tempo di farmi un amico, di inserirmi in una classe, di sentirmi in qualche modo radicato, senza appartenere a nulla.
Questo senso di precarietà infinita è stato il leit-motif che ha scandito le mie giornate dall’infanzia fino all’adolescenza: nessuna certezza, nessun ancoraggio, nessun approdo ne a casa ne fuori.
A tredici anni ero un ragazzino magro e un po’ sperduto, senza nessuna consapevolezza di me stesso ne di cosa significava stare con gli altri.
Non avevo mai avuto un amico, mai un innamoramento anche se platonico e infantile.
Quell’anno ho conosciuto Jordan Blake.
Non c’è stato amore e neppure amicizia, tra me e lui solo il richiamo quasi obbligato che unisce gli out-siders di una scolaresca.
Tutte e due ignorati dagli altri, tutte e due emarginati, lasciati in un angolo, naturale unire le nostre solitudini, cominciare a parlarci, cominciare a frequentarci.
Naturale anche cominciare a parlare di sesso, guardare insieme i giornali comprati di nascosto, cercare i siti proibiti ai minorenni.
Naturale cominciare a toccarsi, farsi le prime seghe insieme e poi farsele reciprocamente, provare a sperimentare i primi baci con la scusa di fare pratica.
Non c’è stato amore e neppure attrazione tra noi, eravamo solo uno la possibilità concreta per l’altro di sfogare i nostri istinti, le nostre pulsioni, di sperimentare una sessualità che cominciava a premere per esprimersi concretamente, di placare i nostri desideri.
Se mi aveste conosciuto solo qualche anno dopo non lo avreste mai detto, ma a quell’epoca ero assolutamente ignorante non solo del sesso in generale, ma anche delle mie stesse inclinazioni.
Quello che sentivo era la necessità di sfogarmi, con chi poco importava, se maschio o femmina ancora meno.
E per Jordan ero lo stesso.
Due ragazzini con pulsioni molto forti che si usavano reciprocamente consensualmente per sperimentare il piacere.
Se invece di Jordan ci fosse stata una ragazza sarebbe stato diverso per me?
Non so, in quel momento della mia vita posso dire però che non avevo ancora sviluppato una precisa identità sessuale, non mi ero posto il problema se mi piacessero le ragazze o i ragazzi, tanto nessuno dei due pareva notarmi; avevo Jordan e lui mi bastava, ci soddisfacevamo a vicenda anche se non siamo mai andati oltre ai giochi di mano e di bocca.
Quello che posso dire è che in pochi mesi sono passato dall’età infantile fatta di giochi e cartoni animati all’adolescenza in cui il sesso era il mio pensiero predominante e ossessivo.
Quando mia madre se ne andò a metà anno, sperai che non tornasse più, in quel modo saremmo rimasti sempre lì e io avrei avuto Jordan sempre a mia disposizione.
Mia madre tornò proprio sul finire dell’anno scolastico e durante l’estate ci trasferimmo.
Io e lui ci lasciammo un pomeriggio dopo esserci ammazzati di seghe.
Un bacio in bocca sostituì parole che non c’erano.

Proprio in quell’occasione ho cominciato a credere che nessuno è indispensabile, che ce la si può cavare bene anche senza aiuto.

Visto che nella mia infanzia nessuno mi ha mai considerato importante, ritengo che sia stato logico per me abituarmi ad arrangiarmi senza aver bisogno di qualcuno.
Certo Jordan Blake mi sarebbe mancato, ma in realtà più che lui mi sarebbe mancata la sua mano sul mio sesso, la sua bocca che me lo succhiava: mi sarebbe mancato così come un oggetto diventato un’ abitudine, un preservativo nel momento clou.
Per anni ho fatto mio questo modo di essere autosufficiente e svincolato da qualsiasi legame; pensavo fosse la mia forza ma in realtà nascondeva la mia debolezza: la paura di essere deluso, ferito, preso e poi lasciato indietro, abbandonato.
Così dopo avere lasciato Jordan Blake al suo destino, nessuno ha preso il suo posto per un po’.
Non è strano se considerate com’ero: bello di una bellezza che si stava rivelando poco per volta e che spaventava anche me stesso, una bellezza che non riusciva a prendere una strada precisa, così androgina da rendere difficile riuscire a classificarmi al primo sguardo.
Non è il massimo per un ragazzino che si sta sviluppando essere preso indifferentemente per un maschio o per una femmina. Non aiuta a creare relazioni sociali “normali”, proprio no!
Vedevo il mio corpo cambiare rapidamente, quasi sotto ai miei occhi.
Da bambino sono sempre stato un po’ più basso della norma e mingherlino.
In quel periodo sono cresciuto così rapidamente che ogni mese dovevo cambiarmi il guardaroba.
Le mie forme si sono modificate: mi guardavo allo specchio nudo ammirando il mio culo che cresceva sodo e rotondo, le mie gambe lunghe e snelle, la pancia piatta, le braccia morbide.
Aspettavo terrorizzato il momento del cambio di voce: sentivo che il falsetto infantile che fino ad allora mi aveva caratterizzato si stavo scomponendo in note più basse, temevo una voce troppo maschile, bassa e rauca.
Ma quando la mia tonalità si è stabilita su inflessioni vellutate e calde, ho trovato che si intonava perfettamente con tutto quello che stavo diventando.
Ricercavo con maniacale accuratezza ogni pelo superfluo (in realtà ne ho pochissimi), mi sembrava che quella peluria che mi cresceva nelle parti meno gradite fosse a dir poco repellente, quindi passavo delle ore ad usare tutti i sistemi di depilazione di mia madre che trovavo in casa.
E così trascorrevo il tempo libero davanti allo specchio scrutandomi con meraviglia, curiosità e piacere; ero solo io e il mio riflesso, in realtà l’unica compagnia di cui disponevo.
La cittadina dove ci eravamo trasferiti in quel periodo era piccola e tutti conoscevano tutti, eccetto noi.
Io ero isolato e chiuso, raramente rivolgevo la parola a qualcuno e qualcuno la rivolgevo a me, frequentavo la scuola superiore e studiavo quel tanto che bastava ad avere la sufficienza, poi me ne tornavo a casa a sognare.
Già, a quel tempo sognavo Bright Evans.
Lui era semplicemente il ragazzo più bello della scuola, frequentava l’ultimo anno, era il campione della squadra locale di basket, un alunno brillante.
La prima volta che l’ho visto è stato qualche giorno dopo l’inizio della scuola, ricordo ancora quel momento magico in cui mi è sembrato di non aver visto nulla di più attraente nella mia vita, in cui mi sono sentito insignificante e senza nessuna speranza, in cui ho pensato che non lo avrei mai avuto e che quindi la mia vita non aveva più nessuno scopo.
Bright: occhi di cielo in estate e capelli come raggi di luce, allegro, solare, aveva avuto più ragazze lui che l’intera squadra di basket. Quella attuale era, neanche farlo apposta, una delle cheerleader della squadra, oca quanto bastava e bella altrettanto.
La odiavo tanto quanto amavo lui, l’avrei voluta vedere morta, gli sussurravo maledizioni tra i denti quando mi passava accanto, senza neppure notarmi.
Quando un giorno mi è comparso dietro alle spalle mentre ero in bagno e mi stavo lavando le mani, sono sussultato come se avessi visto un alieno.
E quando mi ha invitato in modo assolutamente diretto senza nessuna scusa, a passare da casa sua nel pomeriggio, sono quasi svenuto per l’emozione e sono arrossito fino alla radice dei capelli.
“Se ne hai voglia” ha aggiunto; cazzo non poteva immaginare quanta voglia avessi accumulato pensando a lui.
La casa di Bright non era molto distante dalla mia, ma in termini emozionali c’era un abisso tra le due, due mondi opposti.
La famiglia Evans viveva lì da diverse generazioni, era stimata e conosciuta, una delle famiglie più benvolute e rispettate.
La sua casa trasudava tradizione e una storia familiare che si dipanava da nonni a nipoti.
L’ho invidiato tanto per questo.
La prima volta mi ha portato in camera sua, la casa era vuota, piena di echi e silenzi.
Ci siamo baciati e accarezzati, nulla di più ma è stata la cosa più bella che fino ad allora mi fosse capitata.

E’ stato in quel momento che mi sono reso conto che la mia attrazione era esclusivamente orientata verso le persone del mio stesso sesso e che la parte che mi riservavo era quella femminile.

Quando lui mi ha chiesto un pompino ho pensato che gli avrei regalato il più bello che sapevo fare. Ci ho messo tutta la tecnica di cui disponevo e tutto l’amore che provavo per lui.
Quando al termine lui mi ha guardato con il viso arrossato soffiandomi un : “E’ stato il più bel pompino che qualcuno mi abbia fatto”, mi sono sentito un eletto.
E lì è successo qualcosa che mi ha cambiato completamente: mi sono reso conto che ero bravo, molto bravo e che questa capacità mi sarebbe servita nella vita.
Probabilmente è stato in quel momento che ho elaborato la mia teoria: il sesso è una delle forme d’arte e come in ogni altra arte è necessario possedere sia la tecnica, che si apprende e si affina attraverso l’esperienza, che la propensione naturale. Ma la cosa più importante è possedere il talento; questo è ciò che fa la differenza tra un bravo artigiano o un dilettante e un artista.

Ho scoperto con Bright di essere un artista: ero predisposto geneticamente, avevo un talento naturale e con lui affinavo la mia tecnica.

Passavo i pomeriggi liberi pensando a quali cose potevo inventarmi per poter dargli più piacere e dal canto suo lui era ben lieto di fare da cavia.
Quando gli ho rivelato di essere ancora vergine, pensava che scherzassi, ero così disinibito, espansivo e bravo che non lo aveva neppure preso in considerazione.
La prima volta che lo abbiamo fatto non so chi dei due fosse più nervoso.
Sapevo tutto naturalmente ma solo teoricamente, farmi fottere da Bright concretamente rendeva tutto molto più complicato perché entrambi eravamo inesperti e perché non ne vedevamo l’ora e l’eccitazione mescolata al nervosismo in certi momenti rende difficile fare le cose per bene.
Comunque la prima volta non si dimentica mai e così è stato.
Bright è stato molto impulsivo e mi ha fatto parecchio male, ma questo era Bright.
Quando stavo con lui ne ero innamorato, di quel primo amore adolescenziale che idealizza il proprio amato. Vedevo solo ciò che corrispondeva all’immagine irreale che mi ero fatta di lui.
In realtà Bright era un egoista assoluto, non si è mai preoccupato del mio piacere, mi usava biecamente senza farsi scrupolo solo per avere la sua soddisfazione, che io gli davo in massimo grado (niente a che vedere con quello che finora aveva ottenuto dalle belle oche con cui era stato).
Di me come persona penso che non gli importasse nulla e alla fine l’ho capito nel momento in cui sua madre ci ha scoperti in una situazione direi molto esplicita.
L’unica cosa che ha saputo imbastire è stata dare la colpa a me, come se io lo avessi plagiato, traviato.
I suoi hanno trovato comodo accettare questa versione e hanno pensato che l’unica soluzione fosse quello di raccontare tutto a mio padre.
Mi sono chiesto a volte se Bright fosse gay o comunque un omosessuale represso e non sono arrivato a nessuna conclusione.
Oggi penso che fosse attirato da me proprio perché in qualche modo pur essendo un maschio non lo rappresentavo, il mio aspetto era molto androgino (ancora più di oggi) e i miei comportamenti nell’intimità erano di assoluta femminilità.
In quel periodo mia madre se ne era andata e non era più tornata e mio padre pareva che avesse metabolizzato l a sua assenza; mi sembrava che la vita si stesse incanalando su binari più stabili, avevamo una casa, la nostra vita routinaria e io avevo Bright.
Quando i suoi genitori parlarono con mio padre si spezzò qualcosa in lui, che probabilmente stava faticosamente ricostruendo.
Penso dovette trovarsi con una vergogna nuova da affrontare: non solo la moglie troia ma pure il figlio gay che se ne andava in giro a corrompere i bravi ragazzi e tra tutti i bravi ragazzi proprio il più bravo, niente di meno che Bright Evans, con il quale si era fatto scoprire a farselo mettere nel culo.
Per lui deve essere stato troppo, per questo si è ucciso, impiccato nel garage senza lasciare neppure due parole sul perché.
Tutti hanno pensato che fosse perché non si era rimesso dall’abbandono della moglie, io sapevo che era per qualcos’altro, io e i signori Evans e spero proprio che questa consapevolezza avveleni la loro vita fino alla fine, quella di essere stati la causa della morte di una persona.
Io per mio conto so di entrarci e molto, ma in apparenza non mi sono mai sentito colpevole, piuttosto incazzato con lui che ancora una volta si era mostrato debole e vigliacco, che come sempre aveva evitato di trovare una spiegazione, ma aveva agito fuggendo, chiudendo gli occhi e questa volta non solo metaforicamente.
Per anni sono stato convinto che i miei genitori fossero stati per me solo fonte di disagi: non mi avevano amato, si erano occupati solo delle loro questioni senza considerare il mio bene, non erano riusciti a superare i loro contrasti per amor mio, forse ero stato un peso, forse si erano sposati per colpa mia e questo me lo avevano fatto pagare con gli interessi.
All’inizio ero incazzato con loro poi ho cominciato a vivere come se loro non ci fossero mai stati. Ho deciso di liberarmi anche dei loro ricordi, che non valeva la pena sentirsi arrabbiati per due che non si erano mai interessati a me.
E’ stata una grossa scoperta capire, ad un certo punto della mia vita, che in realtà dei genitori non ci si libera mai e che quell’incoscienza e quel mio modo di affrontare le situazioni più dolorose e difficili non facendomene toccare, quel mio infantilismo assurdo di fronte alle difficoltà, che mi ha portato a non cercare mai una soluzione adeguata ma a far finta che non fosse successo nulla, quel tentativo di rimanere bambino con il potere di vivere solo nel presente senza accettare fino in fondo quanto gli altri ci possono far male, quanto noi possiamo far del male agli altri, tutto ciò insomma non è stato altro che il prodotto della mia sofferenza per come erano andate le cose tra me e loro.
Anche i miei atteggiamenti autolesionisti (quelli che facevano andare fuori di testa Jude, quelli che mi hanno portato a giocare con il fuoco con Nick) erano solo il risultato dei miei sensi di colpa per il mio odio verso di loro.
E’ complicato per me spiegarmi, ma penso che il desiderio che mia madre se ne andasse definitivamente una volta per sempre perché era meglio quello che le sue continue fughe e successivi ritorni, perché era meglio soffrire una volta sola e poi cercare di fare cicatrizzare la ferita che fare questo sforzo per poi trovarsela di nuovo aperta e dover sempre ricominciare da capo, questo desiderio in fondo comprensibile non me lo sono mai perdonato.
Quando lei se ne è andata davvero io mi sono sentito colpevole, quasi che il mio desiderio fosse stato così potente da trasformarsi in realtà e fosse stato proprio questo ad allontanarla definitivamente , a farla scomparire per sempre e non la sua volontà.

Essere figli è difficile, liberarsi dai propri genitori è impossibile se li ami, ma ancora peggio se li odi.

Il suicidio di mio padre che io ho pensato di aver metabolizzato senza problemi, dando tutta la colpa a lui dell’accaduto in realtà ha scavato in me una sofferenza profonda.
Mio padre si è ucciso perché io ho fatto sesso con un ragazzo.
Questo in fondo è quello che ho sempre pensato e se apparentemente mi sono sempre detto che è stato lui a non accettarmi e quindi io mi sono chiamato fuori, in realtà il suo gesto estremo mi ha portato a considerarmi un depravato senza speranza.
So di non averlo mai pensato coscientemente, ma le mie azioni lo testimoniano.
Come ho usato il sesso, come mi sono gettato via senza remore ne pentimenti ne con un briciolo di salvaguardia per me stesso: sono stato promiscuo, incosciente, ho sperimentato più o meno ogni cosa senza tirarmi indietro anche a costo della mia incolumità, della mia salute (ed è un miracolo che oggi sia vivo e senza nessuna malattia).
Tutto ciò probabilmente lo ho agito solo per confermare ciò che mio padre ha pensato di me prima di uccidersi: un essere di cui vergognarsi perché senza vergogna.
Così ho vissuto in effetti parecchi anni della mia vita.
Dopo la morte di mio padre sono rimasto completamente solo, senza nessun parente a reclamarmi e così i servizi sociali hanno pensato bene di cercare una famiglia a cui affidarmi.
E’ stato un tentativo fallito in partenza, le coppie che arrivavano per conoscermi se ne andavano turbate e non si facevano più vedere.
La cause del loro turbamento? Ero strano, ne maschio ne femmina, sfrontato, impudente, giocavo a metterli in imbarazzo, sperimentavo il mio potere seduttivo su di loro.
Non volevo una famiglia nuova, ne avevo avuto abbastanza di quella vecchia.
E così non è rimasta che la comunità, che sulla carta doveva essere un istituto dove gli adolescenti soli o con problemi sociali, potessero studiare e imparare un lavoro.
La prima sera che sono arrivato sono stato violentato nelle docce, erano in cinque ed ho capito subito che quel posto era in realtà qualcosa di molto diverso da quello che mi era stato descritto.
In infermeria dove sono rimasto per un po’, ho avuto modo di riflettere sulla mia situazione che apparentemente era a dir poco drammatica.
Ma è vero che ogni esperienza, anche la peggiore, ti insegna qualcosa se sei disposto ad imparare e io l’ho dovuto fare assolutamente per uscirne intero.
La cosa che ho afferrato rapidamente è che in posti come quello sopravvive il più forte, se tu non lo sei devi creare un’alleanza con qualcuno che lo sia, ma per la sua protezione devi dare qualcosa in cambio.
Io ero bello e sapevo fare sesso, questo è ciò che ho proposto ad uno dei capi delle piccole bande che si erano create all’interno dell’istituto.
Certo lui avrebbe potuto prendermi con la forza senza problemi, ma lo avrebbero potuto fare anche gli altri, io gli ho proposto la mia totale e completa disponibilità a soddisfarlo in esclusiva.
In questo modo sono riuscito a sopravvivere prima lì e poi nel mondo.
La comunità mi ha insegnato il grosso potere del sesso.

Sì, chi sa fare sesso ha potere!

La prima volta che mi sono prostituito ne ho avuto la controprova: solo per un pompino ho guadagnato l’equivalente che avrei fatto in una settimana a lavare piatti in un Mc' di merda.
E’ così che ho cominciato a fare marchette, per guadagnare e alimentare un sogno che proprio nella comunità avevo cominciato a costruire: fare musica!
La musica è stata la seconda cosa in cui mi sono subito reso conto di essere bravo, di avere talento; mi mancava la tecnica, ma in comunità le giornate erano ore vuote da riempire in qualsiasi modo e ho avuto tutto il tempo necessario per esercitarmi il più possibile.

La musica mi ha aperto un mondo nuovo, la possibilità di riuscire finalmente ad esprimere quello che dentro di me tenevo al sicuro, che non ero mai riuscito ad comunicare attraverso le parole o i sentimenti.

Se all’inizio era un passatempo, poco per volta è diventata uno sfogo, poi un bisogno e infine un’opportunità, l’unica per cambiare la mia vita.
Quando i servizi sociali hanno scovato una sorella di mio padre dispersa in una cittadina dell’ovest che si è presa la briga di allevarmi ( dietro compenso ovviamente) e io mi sono trasferito da lei, ho cominciato a pensare che se avessi voluto una vita diversa potevo contare solo sulle mie due capacità: musica e sesso.
Naturalmente tra le due cose non si possono fare paragoni.
Il sesso mi piace, questo è indubbio.
Mi piace essere ammirato, mi piace sedurre, eccitare, farmi toccare, farmi fottere.
Non sarei in grado di vivere senza, per me è un bisogno primario come mangiare e bere, dopo un po’ che non lo faccio, vado in astinenza.
Sono narcisista, egocentrico, esibizionista, vanitoso: fare sesso mi permette di sentirmi apprezzato, desiderato, ambito.
E’ un gioco che soddisfa pienamente ogni parte di me, ma che fatalmente alla fine, quando il momento è passato lascia una scia di insignificanza, un nulla che è così simile alla morta da fare quasi paura.
La musica invece è tutt’altra storia.
Anche questa è una necessità vitale per me, di cui non posso stare senza.
Ma la musica non mi ha mai lasciato vuoto, anzi, mi ha sempre donato un senso di completezza.
Se dopo aver fatto sesso mi sentivo svuotato, dopo aver fatto musica ero completamente ricolmo.
Di cosa? Emozioni soprattutto, sensazioni, energia, desiderio.
Era così che riuscivo a tirare fuori tutto questo, che ero in grado di dare voce alle cose belle dentro di me, ma anche a quelle troppo terribili per raccontarle a chiunque; non facendo sesso ma facendo musica.
E' necessario che cerchiate di capire che quando parlo di sesso, mi riferisco al puro atto fisico, niente sentimenti. Dopo la storia con Bright, pur essendo disponibile, godibile e scopabile senza pudori o tentennamenti, ho sempre cercato di mantenere sempre un controllo nascosto.

Bright mi ha insegnato che l’amore è pericoloso, quando si ama si diventa stupidi e deboli, si perde di vista la realtà, si è facilmente truffati.

Da allora ho preferito una buona scopata senza risvolti sentimentali, godimento senza nessun prezzo da pagare.
Non farmi coinvolgere, mi ha permesso di preservare una parte di me stesso inviolata, di non implicarmi in un rapporto che avrebbe potuto trascinarmi in situazioni difficili.
Quando poi ho cominciato a fare marchette il controllo è diventato più forte.
Assurdamente il mio godimento stava nel far godere gli altri, la manifestazione più eclatante delle mie capacità, di quanto fossi bravo: far godere rimanendone immune, il massimo del potere!
Ero bravo a fingere, era la mia rivincita nei confronti di tutti gli stronzi che pensavano che potessero scoparmi senza problemi, in realtà ero io che scopavo loro, sempre!
Solo Nick è riuscito a penetrare nel mio inganno, a disvelarlo, a sbirciare quella parte di me che nessuno aveva più visto dopo Bright.
Sapete com’è andata a finire, non c’è bisogno che lo racconti.
Mi ha fottuto, per bene non c’è che dire, mi ha fottuto l’anima e poi mi ha buttato via, si è sbarazzato di me, come di un fazzoletto sporco.
Non ho mai perdonato questo, ne a lui ne a me stesso.
Sesso e musica sono stati per molto tempo ( anche se in modo diverso) le mie uniche soddisfazioni.
Poi è arrivato il successo e l’amore.
E con l’amore, come da copione, i casini.
Perché dopo anni passati a far finta di non aver bisogno di sentimenti e di affetto, mi sono trovato in una situazione di assoluta schizofrenia.
Quando mi sono innamorato di Jude desideravo con tutto me stesso qualcuno per il quale contare. Pensavo fosse amore e invece era solo il desiderio, che penso ciascuno ha, di essere la persona più importante per qualcuno, almeno per un po’.
Per molti c’è la consapevolezza di esserlo se non altro per i propri genitori, per me non era stato così, quindi tutt’ad un tratto la necessità più impellente, una volta raggiunto il successo con la mia musica, era trovare qualcuno non tanto d’amare ma che mi amasse.
Sotto quell’aspetto ero come un neonato, avevo bisogno di tutto, volevo che qualcuno si occupasse in modo totale di me.
Jude non era la persona più idonea, ma io non l’ho capito in tempo.
L’ho incolpato di cose di cui lui non si sentiva colpevole, ho preteso cose che lui non si era mai sognato di promettermi.
Navigavamo su due rotte diverse, convinti entrambi di trovarci sulla stessa imbarcazione.

Mi chiamo Kameron Bauer e ho vent’anni, sono una rock-star, ho successo e fama e soldi.
Ho capito parecchie cose nella mia vita, ma le più importanti le sto capendo proprio ora.
Sto imparando ad amare e non solo a farmi amare.
Sto imparando a parlare e non solo ad agire.
A confidarmi, a cercare aiuto e non a pensare di risolvere tutto da solo.
Ad affrontare il dolore e le esperienze negative e non a far finta che non sia successo nulla.
Tante volte combino ancora casini e faccio fatica a ricordarmi che ci sono persone accanto a me, che cercheranno di capirmi e consigliarmi se solo io gliene do la possibilità.
A proposito della foto sopra, al mio ragazzo non piace.
Dice che sembro una cortigiana decadente.
In fondo non ha tutti i torti, è che mi è rimasto il gusto del torbido e dell’esibizionismo.
A volte sto delle ore a sistemarmi: vestiti, capelli, trucco.
Ho voglia di sentirmi appetibile e mi diverto a sentire tutti gli sguardi su di me: sguardi di desiderio e di libidine di tutti, meno che il suo.
Lui quando mi metto in mostra evita di esserci, mi lascia sfogare, sa che mi basta solo quello.
Quando torno da lui ed esco dal bagno dopo essermi fatto la doccia, con il viso struccato e i capelli stropicciati dall’asciugamano, con indosso le prime cose che mi sono capitate a tiro, mi abbraccia.
“Finalmente sei presentabile” mi sussurra tra i capelli e io proprio non lo capisco ma lo amo, perché so che ciò che lui trova desiderabile in me sopra ogni cosa è quel ragazzino magro e un po’ sperduto che esce fuori ogni tanto e che nessuno è mai riuscito a vedere se non lui.
  
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