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Autore: Sil94m    05/09/2018    0 recensioni
Due ragazze ad un vicolo cieco affrontano un dato di fatto: con le spalle al muro, non hai più scelta; con le spalle al muro, non puoi che andare incontro a ciò che ti aspetta; con le spalle al muro, puoi solo sperare che vada bene.
Di getto, così com'è venuta, spero che vi piaccia.
S
Genere: Drammatico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Andai in cucina alla ricerca di un bicchiere d’acqua, e mi sembrava di portarmi sulle spalle il peso di un enorme rimorchio pieno di sassi. Il pavimento era gelido, ma non ci avrei fatto caso nemmeno se fosse stato di vero ghiaccio. Non riuscivo a far passare un filo d’aria dalla bocca, e ci stavo provando, davvero. Bevvi un sorso ma fu di poca utilità: l’aria rimaneva fuori, dentro rimaneva un dolore che conoscevo così bene. Che ricordavo così bene. Oh, come lo ricordavo.
Rimasi immobile per un attimo di fronte al lavandino e mi concentrai su quella morsa, mi presi il tempo per percepirla a pieno, e subito dei flashback presero il sopravvento su qualsiasi altro pensiero: casa dei miei genitori, il divano, un cuscino davanti alla bocca, urla sorde in quella notte in cui nessuno si accorse di nulla. Perché nessuno si accorse mai di nulla.
Ed ora quel dolore era di nuovo lì, al mio fianco, a curvare il mio corpo verso il lavandino.
Fu in quel momento in cui pensavo che ormai il dolore fosse entrato nella mia pelle per sempre che bussarono alla porta.
Quei tre schiocchi mi riportarono alla realtà. Guardai l’orologio: le undici e venti. Non avendo idea di chi potesse essere a quell’ora mi avvicinai lentamente e controllai dallo spioncino centrale.
E il mio cuore si fermò.
Era Sara.
Aprii la porta.
 
“Posso entrare?”
Immaginai in che condizioni fossi: pantaloni corti con un paio di buchi, la maglia extralarge che uso per dormire, il viso sconvolto di quando decido di non affrontare più quello che sto provando.
Però, a guardarla, nemmeno lei sembrava messa troppo bene. I suoi occhi erano rossi, aveva una spessa ruga sopra il sopracciglio sinistro particolarmente gonfia, la ruga che le si gonfia quando piange. Certo, almeno lei era vestita.
Le feci un cenno di assenso e aprii meglio la porta per lasciarla entrare.
Lei misurò la stanza con i suoi passi, avanti, indietro, e di nuovo. Come se stesse decidendo dove posizionare un nuovo tavolo. La lasciai ragionare per il primo minuto, durante il quale la guardai tutta, poi però non ce la feci più.
“Sara, perché sei qui?”
Lei sembrò ricordarsi che c’ero anche io, ma non cercò il mio sguardo. Continuava a puntare i suoi occhi castani altrove, in giro per il mio soggiorno, senza mai trovare quello che sembrava stesse cercando.
“Non sono stata onesta, prima, quando ti ho detto quelle cose. Quando ti ho detto che non ti voglio attorno.”
E io avrei voluto dirle guardami, Sara, guardami negli occhi. Lasciami leggerti, devo capire che è vero. Devo capire se è vero.
“Non sono stata onesta perché ti ho detto che non ti voglio attorno perché non ho tempo, e perché non è abbastanza importante, non sei abbastanza importante. Invece non ti voglio attorno perché mi indebolisci. Perché la voglia che ho di prenderti le mani, di accarezzarti un braccio, una gamba, quando mi sei vicina mi rende debole. Perché il pensiero di non poterlo fare mi spezza.”
Facendo due passi verso di me, spostò lo sguardo, finalmente, sul mio. Teneva le sue mani dietro la schiena, nascoste.
“E non lo posso fare, perché se lo faccio è finita. Vuol dire che sono di nuovo esposta, ma non posso permettermelo. Non con delle cicatrici ancora aperte. Quindi io non ti posso toccare, Mia.”
Sara fece un passo verso di me che la portò a mezzo metro dal mio viso. Vedevo i suoi occhi convergere leggermente, generando delle piccole lacrime rotonde e colme, silenziose. Vedevo la vena sempre più spessa sulla sua fronte. Cercando di non badare al vortice che dalla gola mi devastava fino al basso ventre, decisi di non parlare.
Allungai invece lentamente le mie mani, tenendo i palmi sollevati, verso di lei. E aspettai.
Aspettai che sciogliesse la stretta che teneva dietro la schiena e, con la lentezza di chi sta per mollare, avvicinasse le mani fino ad appoggiarle piano sulle mie. Non le perse mai di vista, temeva forse che potessero agire da sole, contro la sua volontà. La sua pelle era fredda.
“Fa male?” sussurrai, avvicinandomi ancora, chiudendo le dita sulle sue. Lei piangeva a bocca aperta, il viso ormai bagnato, ma silenziosamente. I suoi occhi vagavano lontano dietro di me, cercavano disperatamente una strada.
Alzai le mie mani verso le mie spalle, dove appoggiai le sue mani. Per pochi secondi, Sara rimase in piedi di fronte al mio viso con le mani appoggiate a peso morto su di me, quel dolore immenso negli occhi e quel grido silenzioso in bocca, poi sollevò i pollici verso le mie guance, ai lati del mio naso, sotto gli occhi.
“Sara.” La chiamai pianissimo, se fosse stata solo dieci centimetri più lontana non mi avrebbe sentita. Fu in quel momento, nell’istante preciso in cui le mie quattro lettere arrivarono a lei, che i suoi occhi ritrovarono i miei.
E finalmente mi guardò.
   
 
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