Serie TV > Shadowhunters
Ricorda la storia  |      
Autore: Roscoe24    06/09/2018    6 recensioni
"Alec aveva poche regole: una di queste era non si parla prima del caffè, la mattina. Un’altra era non farsi mai sfuggire un bel ragazzo quando lo incontri. E quella mattina, mentre varcava la soglia della caffetteria che stava proprio sotto lo studio legale dove Alec lavorava, le due regole si amalgamarono." // "Connor sospirò, mentre apriva la pesante porta della caffetteria, e si diresse al bancone. Fu un gesto così meccanico che per poco non rischiò di non notare il nuovo barista. Per fortuna, i suoi riflessi non erano del tutto addormentati. Il nuovo ragazzo, bello come l’alba, gli rivolse un sorriso impacciato e lo salutò."
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Magnus Bane
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
                                                                                                                          1 Universe, 8 Planets, 204 Countries, 809 Islands, 7 Seas
                                                                                                                                                                And I had the privilege to meet you
 



                                                                                               ◊


Alec Lightwood si era sempre fatto in quattro per ottenere ciò che voleva.
Proveniva da una famiglia benestante, una delle più rispettate di New York. Suo padre era un giudice e sua madre una dei migliori avvocati penalisti della città. Avevano i loro alti e bassi, mascherati dietro all’immagine della famiglia perfetta, ma questo i terzi fuori dalla famiglia non lo sapevano. Agli occhi dei newyorkesi amici dei suoi genitori, i Lightwood erano una famiglia di spicco, abbastanza ricca e con una tradizione particolare che aveva portato a generazioni e generazioni di avvocati. Alec era l’ultimo Lightwood ad aver intrapreso quella strada. Sua sorella minore Isabelle, ribelle e cocciuta fin dalla nascita, si era categoricamente rifiutata di seguire la tradizione di famiglia e aveva optato per la carriera di wedding planner – Maryse Lightwood, la loro madre, aveva rischiato un attacco cardiaco, quando aveva appreso la notizia. Suo fratello Jace, adottato quando era molto piccolo e dotato della stessa cocciutaggine che caratterizzava Izzy, aveva optato per una carriera più accettabile, ma pur sempre diversa da ciò che Maryse si era immaginata. Jace Lightwood era un detective dell’Intelligence e Maryse aveva accettato questa sua scelta solo perché vedeva in essa l’opportunità di poter usare i mezzi a disposizione del figlio per riuscire a trovare elementi, altrimenti segreti, per risolvere i suoi casi.
Maryse Lightwood non perdeva. Mai. Anche a costo di sfociare in qualcosa di non prettamente legale (ma mai illegale, altrimenti avrebbe rischiato  di essere radiata dall’albo – un risultato inaccettabile, per lei).
L’ultima speranza della donna, escluso Alec, era Max – il più piccolo dei suoi figli che doveva ancora andare al college e non aveva ancora informato nessuno riguardo alle sue scelte.
Alec aveva perso il conto di tutti gli opuscoli di scuole di legge che sua madre aveva rifilato al più piccolo dei suoi fratelli.
Lui era stato l’unico, almeno fino ad ora, ad aver compiaciuto la madre. Forse perché all’epoca della sua scelta, era ancora un ragazzino insicuro, troppo intimorito da ciò che nascondeva per prendere una posizione diversa da quella che volevano i suoi genitori. Alec era gay e sapeva benissimo che i suoi genitori non sarebbero stati entusiasti di ricevere questa notizia, così aveva fatto di tutto per accontentarli. Se volevano che facesse legge, lui avrebbe fatto legge.
All’inizio, non gli piaceva nemmeno. Tuttavia, con l’andare del tempo, aveva scoperto quanto in realtà avesse un talento naturale per certe cose e di conseguenza aveva abbracciato la carriera di avvocato penalista per seguire le orme della madre, traendo molta soddisfazione dal suo mestiere.
Alec era una specie di squalo, in tribunale. Non era mai capitato che perdesse, tenendo alto il buon nome della sua famiglia. E questo suo lato del carattere, così sicuro di sé e determinato, sviluppatosi nel tempo mano a mano che cresceva, aveva fatto sì che dicesse la verità alla sua famiglia. Alec era stanco di dire bugie, di evitare di mostrarsi per la persona esuberante che era – aveva tutta una serie di storie, alle spalle, più o meno serie, che avrebbero fatto impallidire i suoi genitori, se fossero venuti a saperlo. Per adesso, bastava che sapessero che era gay e che aveva intenzione di vivere la sua vita come viveva i processi: divorando le avversità e cercando di fare appello alla sua sicurezza, mostrandosi esattamente per quello che era.
La notizia non aveva fatto impazzire di gioia i suoi genitori, ma Alec era stato abbastanza furbo da dirlo dopo essere diventato socio dello studio di sua madre, quindi sapeva benissimo che lei non avrebbe mai perso un elemento importante come lui solamente perché non era d’accordo con la sua vita privata. Maryse Lightwood era una persona abbastanza razionale da riuscire a dividere le due cose. E ad Alec andava benissimo così.
Era un adulto, viveva da solo da un pezzo, e aveva abbandonato ogni tipo di insicurezza, o timore: non aveva più bisogno dell’approvazione dei suoi genitori per sentirsi sereno con se stesso.
Per quello – e per evitare una strage alle sette del mattino per la mancanza di caffeina nel suo sangue, che lo rendeva intollerante al genere umano – aveva bisogno di un caffè. Solo il caffè lo rasserenava. Alec aveva poche regole: una di queste era non si parla prima del caffè, la mattina. Un’altra era non farsi mai sfuggire un bel ragazzo quando lo incontri. E quella mattina, mentre varcava la soglia della caffetteria che stava proprio sotto lo studio legale dove Alec lavorava, le due regole si amalgamarono. Mentre si dirigeva al bancone per ordinare il suo solito caffè, notò tra i dipendenti una faccia nuova – e sicuramente era nuovo perché altrimenti Alec, uno con un viso del genere, l’avrebbe sicuramente ricordato.
Quando fu abbastanza vicino, cercò il nome di quello splendore con gli occhi, trovando una targhetta, appuntata al suo petto -  che aveva tutta l’aria di essere scolpito -  che recitava Magnus.
“Buongiorno, tesoro.” Lo salutò Alec.
Magnus, la pelle caramellata, gli occhi a mandorla e una bocca così carnosa che provocò pensieri impuri ad Alec, lo osservò timidamente. Un leggero rossore colorò le sue guance non appena i suoi occhi ambrati incontrarono quelli cervoni di Alec. Era decisamente un promettente indizio, pensò l’avvocato.
“B-buongiorno.” Balbettò Bocca Peccaminosa e Alec sfoderò uno dei suoi ammalianti sorrisi, che andò a colorare ulteriormente le guance del ragazzo. Adorabile. Era semplicemente adorabile. “C-cosa desidera?”
Che domanda equivocabile. E che risposte maliziose fece nascere nella mente di Alec, che avrebbe voluto rispondergli te, possibilmente nudo, ma c’era qualcosa in quel viso che lo spinse a non partire in quarta, che lo dissuase dall’essere troppo esplicito come suo solito. C’erano fiori che andavano coltivati lentamente, prima di vederli sbocciare nella loro totale bellezza. Per certe cose bisognava armarsi di pazienza – e Alec aveva l’intenzione di essere la persona più paziente del mondo, se ciò significava poter avere l’opportunità di invitare Splendore a cena.
“Un caffè nero, lungo e senza zucchero, per favore.”
Magnus annuì con un sorriso appena accennato e si voltò verso la macchinetta del caffè, regalando ad Alec una meravigliosa visione. Le divise, tendenzialmente, non lo facevano impazzire. Trovava che privassero della grazia chiunque e rendessero le persone simili a dei sacchi, ma Magnus… Magnus stava decisamente bene. Il suo sedere stava decisamente bene dentro quei pantaloni.
Quando il ragazzo si voltò verso Alec, con il caffè pronto in mano, trovò l’avvocato a fissarlo e se questo lo fece arrossire, non provocò la minima reazione in Alec, che anzi, sorrise compiaciuto. Che lo capisse pure che lo trovava bellissimo, almeno le sue intenzioni sarebbero state chiare fin da principio.
“E-ecco a lei.” Magnus porse il caffè ad Alec, che quando afferrò il bicchiere di cartone fece in modo di sfiorare le sue dita. Magnus arrossì ancora di più, se possibile, e quella fu un’ulteriore conferma del fatto che quel bellissimo barista non fosse etero.
O almeno, così voleva pensare Alec per cominciare a sperare di riuscire nel suo intento. Era tantissimo tempo che qualcuno non riusciva ad attirarlo e ad incuriosirlo alla prima occhiata. Non voleva farsi scappare l’opportunità di trovare un modo per conoscere meglio quel ragazzo, con un viso bellissimo e un sedere glorioso.  
“Dammi del tu.” Disse, poi allungò la mano che aveva libera. “Sono Alec.”
L’altro ricambiò la stretta. “Magnus.”
Alec sorrise di nuovo. “È stato un piacere conoscerti, Magnus. Domani ti ritrovo?”
Il ragazzo annuì. “Mi trovi tutte le mattine.”
Alec bevve un sorso del suo caffè, senza distogliere gli occhi da quelli di Magnus e poi, dopo aver pagato la sua consumazione, lo salutò con un occhiolino.
“Allora a domani, tesoro.”
Alec uscì dalla caffetteria con ancora l’espressione stupita di Magnus in mente. Era ancora più bello, quando arrossiva.

*

Connor Walsh studiava legge ed era stato scelto da niente di meno che Annalise Keating per entrare a fare parte dei Keating Five, un gruppo ristretto di studenti che seguiva la penalista più imbattuta di sempre nei suoi casi, con lo scopo di fare pratica.
Imbattuta, tranne una volta – ricordò, pensando a quella volta quando nel caso Robbie vs Adams, Maryse Lightwood e quel pezzo di stronzo di suo figlio – poco più grande di lui e già iscritto all’albo – li avevano battuti.
A Connor ancora non andava giù. Lui si era impegnato più degli altri per cercare di vincere quel processo e quello spocchioso arrogante di Lightwood aveva tirato fuori delle prove all’ultimo minuto che erano state decisive per il processo. Connor aveva ribattuto dicendo che quelle prove non erano presenti in archivio e che la controparte non le conosceva, ma Annalise l’aveva bloccato dicendo che in realtà ne erano a conoscenza, ma non avevano trovato materiale per contrastare  delle prove così dannatamente schiaccianti.
Da quel giorno, Connor detestava Alec Lightwood. Ancora più di quanto detestava sua madre.
Alec era il classico tipo benestante a cui la vita aveva dato quasi tutto, bellezza ed intelligenza comprese. Quando una volta aveva fatto notare questa cosa a Michaela Pratt, la sua migliore amica e membro dei Keating 5, lei scherzando gli aveva detto che avrebbero potuto fare del sesso rabbioso per sfogare l’apparente antipatia che provano reciprocamente l’uno per l’altro. Connor le aveva risposto che lui avrebbe toccato Lightwood solo nel caso in cui il sole fosse sorto ad ovest.
Non bastano un paio di occhi belli per contrastare il fatto che Alec sia odioso.
Non era un segreto, comunque, che Lightwood odiasse anche lui. Una volta si erano trovati a condividere l’ascensore – gli studi legali dove lavoravano erano nello stesso palazzo, a due piani diversi. Connor lavorava al dodicesimo, Alec al decimo – e avevano finito inevitabilmente per discutere. Alec in quell’occasione aveva espresso tutto il proprio disappunto nei suoi confronti definendolo la versione maschile di una cortigiana avvezza alla promiscuità. Come se lui fosse un santarellino, invece. La cosa che Lightwood non sopportava era che Connor, di tanto in tanto, ricorresse al sesso per ottenere informazioni utili ai suoi casi. Il che, comunque, non rendeva quel commento meno ipocrita: anche i muri sapevano quanto ad Alec piacesse divertirsi. Quando gliel’aveva fatto notare, durante quella discussione – un viaggio di dieci piani può rivelarsi più lungo di quanto uno possa immaginarsi, se lo si condivide con qualcuno per cui si prova una profonda antipatia – Lightwood l’aveva congelato sul posto, con uno sguardo freddo, e aveva ribattuto che lui era abbastanza professionale da saper distinguere il divertimento dal lavoro, mantenendo un certo decoro in quest’ultimo. E poi era sceso, perché finalmente il decimo piano era arrivato.
Connor sbuffò, scacciando quel ricordo dalla mente. La sua giornata era iniziata discretamente bene, non vedeva perché, quindi, doveva rischiare di rovinarsela pensando all’unico insuccesso della sua carriera da avvocato. Entrò nella caffetteria che si trovava sotto allo studio legale, con l’intento di prendersi un caffè per svegliare il suo ancora addormentato cervello – la sera prima era rimasto sveglio fino a tardi per studiare. Lavorare con AK era più faticoso di quanto avrebbe mai immaginato e trovare il tempo per studiare diventava sempre più difficile. Aveva perso il conto delle volte che Michaela si era addormentata a casa sua, sul suo divano, mentre a lui era toccato dormire per terra come un senza tetto.
Per questo, Connor aveva bisogno di un caffè. E magari di un massaggio.
Che qualcuno venisse a dirgli che la vita da studente non era faticosa: era pronto a scaraventarlo contro un muro, mostrargli le sue occhiaie e dirgli che l’ultima volta che era riuscito a divertirsi era stato quando andavano ancora di moda i cellulari con l’antenna. E poi Lightwood metteva in dubbio la sua moralità: le uniche occasioni che aveva per fare sesso erano quelle legate al suo lavoro, altrimenti la sua vita sentimentale, se così vogliamo chiamarla, sarebbe stata più vuota di aula universitaria la settimana prima degli esami.
Connor sospirò, mentre apriva la pesante porta della caffetteria, e si diresse al bancone. Fu un gesto così meccanico che per poco non rischiò di non notare il nuovo barista. Per fortuna, i suoi riflessi non erano del tutto addormentati. Il nuovo ragazzo, bello come l’alba, gli rivolse un sorriso impacciato e lo salutò.
Connor, con le sinapsi che ancora non volevano collaborare, decise di ricomporsi e sfoderare un sorriso irresistibile – che ebbe l’effetto sperato, perché l’altro ragazzo arrossì un poco.
“Buongiorno.” Rispose, mentre osservava l’altro: discretamente alto, occhi a mandorla, di un caldo castano, e un sorriso dolcissimo.
“Cosa posso portarle?”
Connor, incuriosito e decisamente attratto da questo nuovo dipendente – e lo era sicuramente, altrimenti l’avrebbe notato prima – si appoggiò ulteriormente al bancone e cercò la targhetta, che trovò appuntata al petto. Chissà cosa celava, quell’improponibile maglietta dal colore sciatto. Connor aveva la sensazione che sarebbe stato piacevolmente colpito da quello che avrebbe trovato sotto la maglietta di… Oliver.
Oliver, un nome carino per un ragazzo molto carino.
“Un cappuccino, per favore.”
Oliver sorrise, cordiale. “Arriva subito.”
E se, quando si voltò, Connor ne approfittò per guardargli il sedere non lo sapremo mai. O meglio, lo sapremo perché fu esattamente ciò che fece. Connor era umano e aveva delle debolezze, una di queste erano i sederi sodi dei bei ragazzi. Incolpatelo, se avete coraggio.
Quando Oliver si voltò, notò esattamente la direzione dello sguardo di Connor e arrossì, ma la cosa non sembrò infastidirlo. Che l’interesse di Connor fosse ricambiato? Il ragazzo aveva abbastanza esperienza per dire che sì, lo era. Con grande gioia dell’avvocato, Oliver, con ogni probabilità, non era etero.
La giornata di Connor era improvvisamente migliorata.
Oliver gli porse il bicchiere di carta con un sorriso impacciato. Connor afferrò l’oggetto e sfoderò un altro dei suoi ampi sorrisi, quelli a cui nessuno sapeva resistere. “Sono Connor.” Disse quindi, porgendo la mano che aveva libera.
L’altro ricambiò la stretta. “Oliver. Anche se potrebbe essere ovvio.” Aggiunse, picchiettandosi la targhetta sul petto.
“Preferisco sentirlo da te, diventa molto più musicale. Cosa che una semplice targhetta non riesce a fare.”
Connor si chiese quando era diventato così smielato. Forse erano gli occhi di quel ragazzo, che trasmettevano una dolcezza che gli mancava da tempo. Erano passati anni dall’ultima storia seria che aveva avuto e adesso, ogni volta che i suoi occhi incontravano quelli di Oliver, sentiva all’altezza dello stomaco un calore che gli faceva desiderare di avere qualcosa di più che una semplice scopata da lui.
Oliver sorrise timidamente, abbassando lo sguardo sulle sue mani. Connor pensò che erano belle pure quelle. Potevano benissimo essere dita da pianista, o chitarrista. Forse Oliver suonava, o forse quelle mani erano semplicemente belle, senza necessariamente essere collegate ad uno strumento musicale.
“Domani ti ritrovo?” gli chiese e Oliver alzò di nuovo lo sguardo su di lui, un’ombra di stupore impossessò il suo viso.
“C-certo. Sono qui tutte le mattine.”
Connor sorrise, soddisfatto di quella risposta. “Allora a domani, Oliver.” Pagò la sua consumazione e, dopo aver dato un’altra occhiata al ragazzo, uscì dalla caffetteria.

*

Alec non si lamentava mai. Non era stato abituato a farlo: fin da bambino era stato educato alla sopportazione, al rigore e al fatto che lamentarsi non porta a niente: se vuoi qualcosa, devi andare a prenderla, piangersi addosso non lo farà al posto tuo.
Di conseguenza, non si lamentava mai. Nemmeno quando certe cose gli sembravano più grosse di lui, nemmeno quando la sua sopportazione sfiorava quella sottile linea tra perdere la pazienza e rischiare di commettere un brutale omicidio.
Izzy diceva sempre che questo suo lato del carattere gli avrebbe fatto venire il sangue marcio, prima o poi. «Ti sei liberato di tutte le ridicole regole di mamma e papà che ti rendevano triste e cupo, Alec. Perché non ti liberi anche di questa rigida imposizione?»
Era facile dirlo, per lei. Aveva potuto contare su Alec fin da quando era una bambina e lui, di certo, non aveva permesso che certe regole si radicassero in lei, come era avvenuto con lui. E sebbene sapesse quanto potesse contare su sua sorella, sebbene sapesse che ormai era un’adulta che non aveva più bisogno del suo fratellone, Alec ancora non riusciva a parlare dei suoi problemi con lei. Aveva tutt’ora l’impressione che così facendo le avrebbe scaricato addosso  delle preoccupazioni inutili – e Alec tendeva sempre a proteggere Izzy da questo genere di cose.
Per questo motivo, quando entrò in caffetteria con un muso lungo e l’aria di chi avrebbe preso a pugni il mondo, e si diresse al bancone per il suo solito caffè di metà mattina, rimase piuttosto stupito dall’occhiata che gli riservò Magnus. Il barista sembrava… preoccupato.
“Che hai?” gli domandò, infatti, senza nemmeno salutarlo. Magnus era un tipo timido, aveva scoperto Alec, ma evidentemente quel mese che avevano passato a chiacchierare ogni mattina, mentre Alec beveva il suo solito caffè, aveva aiutato il ragazzo a prendere confidenza.
L’avvocato sentì il suo cuore accelerare davanti a quella consapevolezza. Confidenza. Era una parola che non associava ad un altro essere umano – che non facesse parte della sua famiglia – da molto tempo. Magnus aveva sbloccato qualcosa in lui, qualcosa di positivo. Qualcosa che spingeva Alec a chiedere di più, a desiderare di più.
Quella domanda, comunque, lo spiazzò un poco. “Che vuoi dire?” ribatté.
“Hai un’espressione strana.” Spiegò Magnus, mentre preparava il caffè di Alec senza che lui facesse una vera ordinazione. Ormai il barista sapeva perfettamente come il suo cliente preferito prendeva il caffè. Aveva una segreta cotta per l’affascinante avvocato, dai capelli neri e gli occhi più belli su cui avesse mai posato lo sguardo. Alec era molto alto e aveva un bellissimo portamento, ma era stata la sua sicurezza a colpire Magnus. Alec sembrava sapere perfettamente l’effetto che aveva sulle persone, il suo fascino e il suo carisma trasudavano da ogni cellula del suo corpo e Magnus era inevitabilmente attratto da tutto ciò. Il fatto che a questo si aggiungesse anche  che Alec fosse incredibilmente intelligente e che riuscissero a parlare con una facilità disarmante, aveva fatto sì che l’attrazione di Magnus si trasformasse in un vero e proprio interesse.
Non aveva ancora capito, comunque, se anche Alec lo ricambiasse o fosse solo il suo modo di rapportarsi con le persone.
“Che ne sai tu di espressioni strane?”
Magnus fece una smorfia mortificata e gli porse il suo caffè. Dal tono difensivo di Alec reputò meglio non andare oltre. Si maledisse comunque di essere stato così invadente. Era vero che si conoscevano da un mese, ormai, ma non potevano definirsi amici.
Ma Alec notò quell’espressione rattristata sul bel viso di Magnus e si pentì immediatamente di aver fatto uscire l’avvocato che era in lui. Non era un controinterrogatorio, non doveva convincere una giuria. Era Magnus. Con i suoi bellissimi occhi ambrati e l’espressione dolce, con il suo tono gentile e i modi educati. Era Magnus, che arrossiva quando Alec gli faceva i complimenti e annaspava quando gli rivolgeva battutine a doppio senso.
Era Magnus. L’uomo con cui riusciva ad essere se stesso senza sentirsi giudicato, nonostante si conoscessero da poco.
“Mi dispiace. Non volevo essere scorbutico, è che…”
“Non sei abituato a qualcuno che ti fa domande?”
Alec sorrise, un tantino imbarazzato. “Sono un avvocato. Io le faccio le domande.”
Magnus gli rivolse un sorriso dei suoi, quelli teneri e pieni di sincerità. Sorrisi che facevano sciogliere la colonna vertebrale di Alec, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce. Il barista afferrò dalla vetrina una ciambella con la glassa al pistacchio – la preferita di Alec – e la mise su un piattino, porgendogliela. “Ciò non vuol dire, Alexander, che non possa esserci qualcuno disposto a farle a te e ad ascoltare ciò che hai da dire.”
Alec guardò prima la ciambella offerta di fronte a sé e poi Magnus, con stupore. Primo: sapeva il suo nome. Per intero. Secondo: il modo che aveva di pronunciarlo aveva scatenato in Alec una specie di tempesta ormonale, qualcosa che gli faceva venire voglia di sporgersi oltre il bancone, afferrare Magnus per la sua orrenda divisa e baciarlo senza ritegno. Terzo: ciò che gli era appena stato detto, carico di una sincerità disarmante, gli aveva colpito il cuore come una stilettata.
Chi aveva davanti era un tesoro raro, prezioso. E Alec aveva appena capito che non se lo sarebbe fatto sfuggire per niente al mondo. Realizzò che voleva Magnus, e non solo perché desiderava scoparci con ogni fibra di se stesso. Voleva di più, voleva sentirlo suo ad un livello superiore, emotivo.
“Sei senza parole? Penso sia la prima volta. Ti senti bene?” domandò preoccupato Magnus.
Alec sbatté le palpebre più volte, prima di riprendere parola. “Come sai il mio nome?”
Magnus divenne rosso come una ciliegia. “I-io, beh, i-io…” si grattò la nuca, a disagio. “Io ho chiesto di te in giro.” Sputò tutto d’un fiato, imbarazzatissimo.
Alec lo guardò divertito. Era un fatto decisamente interessante da apprendere: in quel mese, Magnus non aveva mandato segnali espliciti, quindi Alec aveva pensato che il suo interesse non fosse ricambiato, di conseguenza aveva fatto in modo di costruire un rapporto che non sfociasse necessariamente in un appuntamento. Ma se Magnus chiedeva di lui in giro…
“Come devo interpretare questa confessione, Magnus?”
“Non devi interpretarla.”
L’avvocato addentò la ciambella. Era deliziosa. Non come Magnus, ma comunque buona. “Ah no?” Lo stuzzicò, dopo aver inghiottito il boccone ed aver appoggiato i gomiti al bancone. Unì le mani, intrecciando le dita per appoggiarci il mento. I suoi occhi andarono ad incatenarsi a quelli di Magnus, che nonostante fosse rubizzo in viso, resse quello sguardo.
“No. È abbastanza chiaro, penso.”
“Ma io sono un avvocato. È il mio mestiere interpretare.
“Le leggi, Alexander. Non le persone. E smetti di ripetere che mestiere fai.” Disse Magnus, mettendosi sulla difensiva.
Alec decise che era arrivato il momento di dare tregua al ragazzo. “Ti fai desiderare.” Concluse. “Adoro le sfide.” Aggiunse, con un occhiolino, bevendo un sorso del suo caffè. Magnus divenne, se possibile, ancora più rosso, ma non rispose.
“Allora, vuoi dirmi che hai?”
Alec nascose un sorriso dietro il bicchiere del caffè. “Vuoi davvero saperlo?”
“Altrimenti non l’avrei chiesto.” Magnus cominciò a pulire il bancone per avere qualcosa da fare. Il suo capo si sarebbe infuriato se l’avesse visto parlare con un cliente senza fare nulla.
Alec diede un altro morso alla sua ciambella, pensieroso. Non era il tipo che parlava con gli altri dei suoi problemi e, ora che ci pensava, questa era una delle cose che il suo ultimo ragazzo gli aveva rimproverato. «Non è mai niente di serio, con te, Alec. Non permetti a nessuno di guardarti dentro, come puoi pretendere che riesca a conoscerti, se non mi permetti di andare più in profondità?»
Alec se n’era uscito con un’infelice battuta sul fatto che se fosse riuscito ad andare più in profondità, lui non si sarebbe di certo lamentato e quello se n’era andato.
Non voleva perdere Magnus. Lui era diverso da tutti gli altri, quindi anche Alec doveva essere diverso con lui. Migliore.
“Ho problemi al lavoro.”
“Il tuo lavoro da avvocato?” Lo prese in giro Magnus, le labbra tirate in un sorriso.
Alec gli lanciò un’occhiata sbieca, ma non poté fare a meno di lasciarsi contagiare da quel sorriso. “Proprio quello. C’è questo nuovo caso che mi sta massacrando. Non dormo, mi dimentico di mangiare e sono un fascio di nervi. Nemmeno i miei fratelli mi sopportano più.”
Magnus prese un’altra ciambella con la glassa e la posizionò sul piattino di fronte ad Alec. “Quando ti uccideranno perché sarai diventato insopportabile, io prenderò le loro parti.”
Alec sgranò gli occhi, visibilmente scioccato e un tantino offeso, mentre Magnus non riuscì a trattenere una risata. Era sincera, era cristallina. Era un suono che Alec avrebbe voluto sentire fino alla fine dei suoi giorni.
“Grazie, molto gentile.” Ribatté sarcastico. “È inutile che mi dai ciambelle, se poi mi pugnali alle spalle.”
“Mangia e non fare quella faccia. Stavo scherzando, avvocato. Sono sicuro che riuscirai a risolvere questo caso, dopodiché ti consiglio di passare almeno trentasei ore a letto.”
“Con te?”
Magnus arrossì repentinamente e balbettò parole incoerenti.
“Sarebbe un ottimo incentivo, sai?” Continuò allora Alec. “L’idea che potrei passare trentasei lunghissime ore a letto con te, mi farebbe dimenticare questo caso e il fatto che sia praticamente una spina nel fianco.”
Magnus arrossì fino alla punta delle orecchie. Strinse lo straccio che teneva in mano così forte da far diventare le nocche bianche. Alec era dannatamente esplicito e lui era contemporaneamente spaventato e attratto da questa cosa. “Parli troppo, te l’hanno mai detto?”
Alec fece schioccare la lingua sul palato e gli riservò un’occhiata maliziosa. “E tu sei adorabile. Te l’hanno mai detto?”
“Vuoi sempre avere l’ultima parola?”
“In genere sì. Ma per te potrei anche ammorbidirmi.”
“Non sembra.” Magnus lavò via un’inesistente macchia dal bancone. “Sembra piuttosto che tu ti diverta a torturarmi.”
“Non dire sciocchezze, zuccherino. Il divertimento che vorrei associare a te esula completamente dalla tortura.”
Magnus sarebbe morto per autocombustione spontanea, ne era certo. Se Alec avesse continuato di questo passo, le sue guance avrebbero preso fuoco. “Sei impossibile.”
Alec nascose un altro sorriso dietro al suo caffè, bevendo l’ultimo sorso. Si alzò dallo sgabello su cui era seduto ed estrasse più banconote del necessario, lasciando una cospicua mancia a Magnus. “Mi adori.” Gli disse, con un occhiolino e una sicurezza invidiabile.
Magnus, comunque, non ebbe la forza di negarlo. Non era il tipo che diceva bugie. Una parte di lui adorava Alec, ma questo non era necessario che l’altro lo sapesse. Almeno non subito, almeno non finché non avesse capito a fondo le sue intenzioni. Magnus non poteva vantare certo una lista infinita di esperienze, ma la storia con Camille ancora bruciava. Non aveva intenzione di donare di nuovo il suo cuore, almeno fino a quando non avrebbe avuto l’assoluta certezza che la persona a cui veniva donato ne avrebbe avuto cura.
“Ci vediamo, Magnus.” Disse Alec, guardandolo negli occhi più del necessario.
Quando Magnus lo osservò andare via, comunque, ebbe la strana sensazione che, forse, Alexander non gli avrebbe spezzato il cuore.

*

L’astinenza da caffeina provoca nervosismo.
Troppa caffeina provoca lo stesso nervosismo.
Se Connor era destinato ad essere nervoso, tanto valeva che nel suo sangue scorresse una dose tale di caffeina che lo aiutasse a stare sveglio.
E poi, aveva voglia di vedere Oliver. Si conoscevano da un mese, ormai, ma Connor non era ancora riuscito a chiedergli di uscire. A mala pena aveva trovato un modo per chiedergli il numero di cellulare. Oliver era quel tipo di ragazzo timido che ha bisogno di tempo per carburare e Connor non aveva nessuna intenzione di spaventarlo, mostrandosi troppo diretto – come era suo solito fare. Se fosse stato qualcun altro, avrebbe lasciato perdere da un pezzo. Ma Oliver era diverso, era speciale. Per lui valeva la pena aspettare, anche mesi interi se fosse stato necessario. Michaela lo prendeva sempre in giro, per questo, dicendogli cose come: «Per fortuna eri quello che non fa mai cose da fidanzatini! Praticamente, passi ogni pausa in quella caffetteria. Se fossi stato uno sdolcinato cosa avresti fatto? Gli avresti chiesto di sposarti?» Connor, comunque, la liquidava sempre con un gesto poco educato, ma oltremodo esplicito, che prevedeva l’innalzamento del dito medio.
Si diresse al bancone, come faceva ogni mattina, e individuò immediatamente Oliver. Stava servendo un gruppo di clienti, quindi decise di aspettare.
“Posso esserle utile?” Chiese una voce. Connor distolse lo sguardo da Oliver – che aveva un modo tenerissimo di corrugare la fronte, quando scriveva le ordinazioni sul suo taccuino – e lo portò sulla fonte di quella voce. Era un ragazzo dai tratti orientali, diversi da quelli di Oliver. I suoi occhi erano un poco più tirati. Era indubbiamente carino, ma non era per lui che Connor era lì.
“No, grazie.” Rispose, quindi, cordiale. “Aspetto Oliver.”  
Il ragazzo annuì e lo salutò con un sorriso, prima di rivolgersi ad un altro cliente.
Connor riportò la sua attenzione su Oliver, che adesso era rivolto verso la macchinetta del caffè per preparare delle ordinazioni che avrebbe portato al tavolo dove il gruppo di persone si era appena recato. Decise di non disturbarlo e di aspettare che si accorgesse di lui. Osservò il modo in cui quell’orrenda maglietta aderiva perfettamente alle sue spalle ampie, diventando improvvisamente non così orrenda. Osservò la stoffa scivolare giù, delicatamente, lungo tutta la colonna vertebrale, come se stesse indicando a Connor dove guardare esattamente per non perdersi nemmeno un dettaglio della schiena di Oliver. Era bello, era tonico. Era distraente – così tanto che non si accorse nemmeno che il ragazzo lo stava chiamando.
“Terra chiama Connor. Ci sei?”
Connor sbatté le palpebre un paio di volte, poi si concentrò di nuovo. Oliver reggeva un vassoio carico di tazze fumanti e dolci.
“Sei distraente, ma sì, sono sulla Terra.”
Oliver distolse lo sguardo, posandolo sul vassoio, imbarazzato; un sorriso delicato fece capolino sul suo viso. Una piccola vittoria per Connor.
“Vado a portare quest’ordine a quel tavolo e torno subito da te.”
Connor annuì. “Non farmi aspettare troppo, o comincerò a pensare di non essere più il tuo preferito.”
Oliver fece il giro del bancone e si avvicinò a Connor. “Cosa ti fa pensare di essere il mio cliente preferito?”
Connor alzò un sopracciglio, mentre le sue narici si riempivano del profumo speziato di Oliver, che andava a mischiarsi con quello del caffè. “Non lo sono?”
Oliver gli rivolse un sorriso genuino e abbastanza divertito. “Non lo saprai mai.”
Connor osservò il ragazzo andare al tavolo. Sorrise cordiale ai clienti, mentre porgeva le ordinazioni ad ognuno di loro. Poi lo guardò tornare da lui.
“Sono stato abbastanza veloce?”
“Non abbastanza da farti perdonare per ciò che hai detto.” Azzardò. Poteva farlo, adesso. In quel mese, avevano preso abbastanza confidenza da potersi punzecchiare in questo modo. La cosa bella, era che lo stesso Oliver cominciava a punzecchiare Connor, di conseguenza l’avvocato riteneva opportuno cominciare a sperare che sarebbe riuscito ad ottenere un appuntamento vero, fuori da quella caffetteria.
Oliver gli riservò un’occhiata sorpresa – le sue sopracciglia schizzarono in alto – e tornò dietro al bancone, dove cominciò a inserire delle tazze sporche nella lavastoviglie.
“Vuoi ordinare, o sei troppo offeso per farlo?”
Connor si sistemò su uno sgabello e appoggiò il mento ad una mano. “Troppo offeso.” Mise su un broncio adorabile. Oliver era consapevole che non avrebbe dovuto pensarlo, perché era poco professionale prendersi una colossale cotta per un cliente, ma la verità era che Connor gli piaceva. Tanto. Era bellissimo. I suoi occhi, di un caldo nocciola, erano i più espressivi che Oliver avesse mai visto. Se Connor era triste, o felice, o arrabbiato, o preoccupato i suoi occhi parlavano sempre al suo posto. Ad Oliver piacevano, perché erano sinceri.
Gli piacevano le sue labbra sottili, il modo in cui la barba le circondava, come se avesse voluto aggiungere un tocco in più, qualcosa che le rendesse ancora più desiderabili. Come se avesse bisogno della barba per renderle tali. Oliver aveva perso il conto delle volte che avrebbe voluto appoggiare le sue labbra su quelle di Connor.
E poi c’era il suo sorriso. Oliver aveva completamente perso la testa la prima volta che l’aveva visto sorridere – un solo angolo della bocca alzato e quell’espressione di furba malizia che caratterizzava sempre l’altro. Quella era l’espressione che gli aveva fatto realizzare che un solo sfioramento di labbra non gli sarebbe bastato, che gli faceva venire voglia di baciarlo fino a farsi mancare il respiro a vicenda, fino a fare propria quell’espressione che tanto adorava.
“Se ti dicessi che sei il mio preferito, ordineresti?”
Connor arricciò le labbra in un’espressione riflessiva. “Mmm- no. Non sarebbe sincero, lo diresti solo per guadagnarti un cliente.”
Oliver gli lanciò un’occhiata di bonario rimprovero, sentendo l’ombra di un sorriso che gli tirava gli angoli della bocca. A Connor piaceva quando faceva così perché sulle guance di Oliver comparivano delle fossette irresistibili.
“Allora, di grazia, cosa dovrei fare per farmi perdonare?”
L’espressione sul viso di Connor cambiò. Si accese di una luce diversa, più intensa, quasi predatoria, come se improvvisamente tutti i suoi desideri si fossero condensati in un quell’unica domanda. Oliver era piuttosto sicuro che ad una parte di lui piacesse essere guardato in quel modo, come se Connor lo desiderasse.
“Uscire con me. Un appuntamento vero. Andiamo a cena, parliamo, mi racconti la storia dietro il tuo tatuaggio, cose così.”
Oliver si strozzò con la sua stessa saliva. Desiderava uscire con Connor, ma non aveva mai trovato il coraggio di chiederglielo, soprattutto perché aveva il timore che non lo ricambiasse. E invece, a quanto pareva, era in torto. Connor lo ricambiava e voleva uscire con lui. Uscire davvero.
Ma Oliver era un profondo imbranato, impacciato fino al midollo, quindi anzi che rispondere sagacemente, se ne uscì con: “E tu che ne sai del mio tatuaggio?”
Connor alzò gli occhi al cielo e si passò i palmi sulla faccia, esasperato. “Dio, Oli, fortuna che sei bello, almeno compensa il fatto che sei tonto.”
“Non sono tonto! Sto studiando per diventare un tecnico informatico!” Oliver incrociò le braccia al petto, la fronte corrucciata in un’espressione offesa. Connor ricordò a se stesso che, dopo quel commento, non era proprio il momento adatto per farsi distrarre dai bicipiti di Oliver. Dannate maniche corte.
“Non dubito della tua intelligenza, so quanto sei intelligente, ma in questo genere di cose diventi un po’ impacciato. Il che ti fa focalizzare solo su cose come il tuo tatuaggio anzi che il mio invito ad uscire, o il fatto che ti abbia dato del tonto, anziché sul fatto che ti ho detto che sei bello.”
Oliver arrossì leggermente e cominciò a lavare il bancone, nervosamente. Connor aveva ragione, accidenti. Queste situazioni lo mandavano in panico e non sapeva mai come reagire, finendo sempre per fare la figura dell’imbranato.
“Hai un modo strano di fare i complimenti, Connor, te l’hanno mai detto?”
L’avvocato fece spallucce. “Ognuno ha i suoi difetti. Allora, vuoi uscire con me?” Solo quando finì di pronunciare quella domanda, Connor percepì il battito del proprio cuore accelerare, carico di aspettativa e…timore. Una parte di lui temeva che il tergiversare di Oliver, in realtà, fosse solo un modo per guadagnare del tempo e trovare una scusa plausibile per dirgli di no.
“Mi piacerebbe moltissimo.” Oliver sorrise e Connor non poté fare a meno di farsi contagiare da quel sorriso. Era troppo felice per non farlo.
“Venerdì?”
“Mi sembra perfetto. Dammi il cellulare, ti scrivo il mio numero, così ci sentiamo per i dettagli.”
Connor fece come gli era stato chiesto e osservò Oliver picchiettare sullo schermo del suo telefono qualche istante, prima di riconsegnarglielo. Aveva ancora il cuore che batteva all’impazzata, quando rimise l’oggetto in tasca.
“Adesso vuoi ordinare?” Lo prese in giro Oliver.
Connor ridacchiò. “Mi vuoi dire che dopo un mese, hai ancora bisogno che io ordini?”
“No, so perfettamente cosa ordini. Prendi sempre la stessa cosa: cappuccino e una brioche salata, anche se non capisco come faccia a piacerti l’abbinamento.”
“Mi piace mischiare i sapori. Puoi denunciarmi, se vuoi, ma sto per diventare avvocato e ti garantisco che la tua accusa si baserebbe su dei semplici pregiudizi.”
Oliver alzò gli occhi al cielo, ma non era poi così convincente. Si voltò verso la macchinetta del caffè per preparare il cappuccino di Connor, così l’altro ne approfittò per cambiare argomento.
“Allora, perché non inizi a dirmi del tatuaggio?”
Oliver si voltò e porse a Connor la tazza fumante piena di cappuccino. Aveva disegnato un cuoricino sopra alla schiuma, un gesto che lui stesso reputò audace, mentre Connor lo reputò dolcissimo.
“Come hai fatto a notarlo?”
“Ti guardo, Oli. Non riesco a non farlo, quando sono qui dentro. Sei l’unico motivo per cui vengo qui.”
Oliver sorrise, le guance che si coloravano di rosa, mentre i suoi occhi andavano ad incontrare quelli di Connor. “E tu sei il motivo per cui, improvvisamente, mi piace lavorare qui.” Confessò, timidamente.
Connor allungò una mano verso di lui e rimase in attesa. Avrebbe lasciato decidere ad Oliver se prenderla o meno. Una parte di lui sperava lo facesse, ma non voleva forzarlo a fare niente. Quando Oliver, però, appoggiò la mano sopra alla sua, Connor non poté fare a meno di sorridere.
“L’ho fatto a diciotto anni.” Disse Oliver e gli occhi di Connor, istintivamente andarono a cercare il tatuaggio, che si trovava all’interno della parte superiore del braccio – non si vedeva per intero, solo una macchia d’inchiostro, perché comunque la divisa riusciva a nasconderlo abbastanza bene. “È una piuma dalla cui fine si staccano dei piccoli uccelli che volano via.” Continuò Oliver. “Simboleggia una sorta di libertà, quella che volevo e che non potevo avere.”
“Non avevi ancora fatto coming-out?”
“No. L’ho fatto un anno dopo. Ero stanco di dover rinunciare a me stesso, ad una libertà che desideravo più di ogni altra cosa.”
“E come l’hanno presa?”
“Bene, direi. Sono stati comprensivi.”
Connor sorrise. “Mi fa piacere sentirlo.”
Oliver stava per chiedergli com’era stato per lui, ma un cliente attirò la sua attenzione. Il ragazzo si scusò con gli occhi, prima di dire: “Devo andare.”
“Ma certo, vai. Ci vediamo, domani mattina.”
 Oliver annuì e quando sciolse l’intreccio delle loro mani, Connor sentì una strana sensazione di mancanza. Finì il suo cappuccino e, dopo aver pagato, uscì dalla caffetteria.  

*

Lo stress accompagnava Alec da quando si era iscritto all’università. Aveva dovuto fare tutto prima degli altri: sua madre aveva un posto libero a disposizione nel suo studio, che avrebbe riservato o a lui o a qualcun altro entro la fine dell’anno. Alec, quindi, per ottenere quel posto, aveva dovuto laurearsi in anticipo e riuscire a passare l’esame di avvocatura al primo tentativo. Era stato il periodo più stressante di tutta la sua vita. Aveva passato mesi interi senza dormire, riducendo quasi a zero le interazioni sociali. Gli unici suoi compagni di vita erano stati i libri, i suoi appunti e il suo portatile – e tutti, almeno una volta, avevano rischiato di fare un volo dalla finestra del suo appartamento al quarto piano.
Per questo, odiava sentire gli altri dire che per lui era stato un cammino tutto in discesa. Chi lo pensava non conosceva Maryse Lightwood, per la quale il nepotismo è inaccettabile. Non aveva fatto uno sconto ad Alec solo perché era suo figlio, al contrario l’aveva messo sotto torchio più di chiunque altro. «C’è un unico posto, Alec. E non posso permettermi di tenerlo vacante per troppo tempo. Se lo vuoi, devi riuscire a fare tutto entro la fine di quest’anno, altrimenti lo darò a qualcun altro.»
Paradossalmente, comunque, doveva ringraziare sua madre per averlo spronato ad imparare a gestire bene situazioni così stressanti che, altrimenti, gli avrebbero fatto venire voglia di mettere la testa nel forno. Se quel periodo Alec lo ricordava con orrore, era perché non si era ancora imbattuto nel caso a cui stava lavorando. Il famoso caso di cui aveva parlato anche con Magnus. Di questo passo, se mai fossero riusciti a concludere il processo, Alec avrebbe dovuto passare almeno una settimana a dormire ininterrottamente.
Si massaggiò le tempie, a causa del mal di testa che lo stava massacrando, ed entrò in caffetteria. Era più affollata del solito, quel giorno. I tavoli disposti ordinatamente, erano pieni di persone e anche il bancone sembrava preso d’assalto. Alec sospirò e, armandosi di tutta la sua pazienza, si mise in fila. Fortunatamente, quando fu il suo turno, Magnus era libero e i clienti si erano parecchio sfoltiti – così potevano perdersi a chiacchierare come facevano ogni mattina.
“Buongiorno, raggio di sole.” Lo salutò Alec, ma immediatamente notò qualcosa di diverso in Magnus. Sembrava… preoccupato. “Va tutto bene?”
Il barista appoggiò i gomiti sul bancone, proprio di fronte ad Alec, che nel frattempo si era seduto su uno sgabello. “Vuoi la verità?”
“Certo.”
Magnus osservò momentaneamente Alec. Da come si poneva, nessuno avrebbe mai immaginato ciò che si celava dietro la sua immagine. La sua sicurezza, il suo modo di parlare, faceva pensare che l’unica persona a cui fosse interessato fosse proprio se stesso. In realtà, dietro i costosi completi eleganti e le movenze raffinate, c’era un ragazzo profondamente legato alla sua famiglia. Magnus sapeva ciò che Alec aveva fatto e continuava a fare per i suoi fratelli, che lo ritenevano il loro punto fermo. Alec metteva sempre in primo piano ognuno di loro perché tendeva ad occuparsi di chi amava senza pensarci due volte. Era altruista in un modo genuino ed inaspettato. Per questo, voleva credere che con lui cominciasse a valere lo stesso principio. Non sapeva cosa fossero, non erano semplici amici – perché anche un imbranato come Magnus sa che certi sguardi non vengono riservati agli amici – ma non erano nemmeno qualcosa di più perché non erano mai usciti insieme. Ma di una cosa era certo: Alexander non era il tipo di persona che chiede se tutto va bene usandolo come convenevole.
“Mio padre è in città.”
“Asmodeus, Principe dell’Inferno e sovrano di ogni hotel presente in Indonesia?”
“Adesso esageri. Non è un principe dell’inferno.”
“Parole tue, dolcezza, non mie.”
Magnus si accasciò sul bancone. Era troppo demoralizzato per preoccuparsi di tenere una condotta professionale. “Hai ragione. Dimenticavo di averlo definito in quel modo.”
Ad Alec faceva fisicamente male vedere Magnus in quelle condizioni. Non voleva che la sua spontaneità venisse divorata da ciò che lo legava a suo padre – che da quel poco che aveva intuito Alec, doveva essere davvero qualcosa di brutto.
“Ti ha…” L’avvocato cercò di essere il più delicato possibile. “Ti ha cercato?”
Magnus si risollevò e prese una tazza pulita per cominciare a fare il caffè ad Alec. Doveva avere qualcosa da fare, altrimenti si sarebbe lasciato schiacciare dal suo umore nero. “Sì. Mi ha chiamato ieri sera, dicendo che vuole vedermi.”
“E tu vuoi?”
“Assolutamente no! Lui…” Magnus fece una pausa, poi piantò i suoi occhi in quelli di Alec. Era incredibile come fossero diventati così familiari dopo appena un mese, eppure ogni volta che li guardava si sentiva più tranquillo, quasi al sicuro. “Lui è una brutta persona, Alexander.”
Alec improvvisamente si irrigidì. “Ti ha fatto del male?”
Magnus sospirò e guardò altrove. “È passato tanto tempo…”
La mascella di Alec si contrasse così tanto che Magnus ebbe l’impressione di sentire i suoi denti collidere tra di loro. “Lo prendo come un sì. Chiederemo un ordine restrittivo, me ne occuperò io.”
Magnus quasi saltò sul posto. Le sue mani abbandonarono la tazza sul bancone per afferrare quelle di Alec. “No. Non voglio niente del genere.”
Alec lasciò le sue mani esattamente dov’erano: sotto quelle di Magnus. Non capiva e forse non aveva abbastanza elementi per poterlo fare, forse non stava a lui prendere determinate decisioni solo perché tendeva ad essere iperprotettivo con le persone a cui teneva. Forse doveva fare un passo indietro ed evitare di partire in quarta. “Allora spiegami. Cosa vuoi, Magnus?”
“Da lui niente. Sa benissimo che voglio gestire un hotel tutto mio, un giorno, e cerca di comprarmi da quando mi sono laureato. Ma non sono uno dei suoi dannati edifici che si diverte a restaurare. Non può comprarmi, non dopo quello che ha fatto a me e a mia madre. Voglio riuscire a realizzarmi con le mie forze e non perché lui prova in qualche modo a manipolarmi per i suoi scopi.”
Alec sentì la domanda che tentava di uscirgli dai denti. Cosa ti ha fatto? Cosa vi ha fatto? Ma c’era qualcosa nell’espressione di Magnus, un dolore rabbioso, che lo spinse a farsi da parte, a non forzare la mano; a lasciare a Magnus il tempo di spiegargli solo quando e se avesse voluto. Poteva solo immaginare cosa spinge una donna a cambiare il proprio cognome e quello del suo bambino ed essere disposta a lasciare il proprio paese d’origine pur di allontanarsi dal marito.
Alec strinse le mani di Magnus tra le sue. “Non farò niente, a meno che non sia tu a chiedermelo. Ma se anche solo lontanamente ti senti infastidito da lui, devi dirmelo, Magnus.”
Il ragazzo annuì.
“Promettimelo.”
“Te lo prometto, Alexander.”
Alec annuì – ma nonostante ciò, passò qualche istante prima che lasciasse le mani di Magnus per farlo tornare al suo lavoro.

*

Giovedì mattina era iniziata veramente male, per Alec. Prima di tutto, il suo caso non procedeva di una virgola e sua madre gli stava con il fiato sul collo come un segugio infernale che viene spedito sulla Terra da Lucifero in persona per fare proprie le anime di chi è stato abbastanza stupido da fare un patto con il Diavolo – e onestamente, quando c’erano casi di simile difficoltà su cui lavorare, la differenza tra Maryse Lightwood e Satana diventava praticamente inesistente. Secondo: era preoccupato per Magnus e per tutta la faccenda di suo padre. Alec potrebbe (o non potrebbe, perché ammetterlo violerebbe giusto qualche legge sulla privacy) aver chiesto a Jace di fare una ricerca su Asmodeus – e aspettare le informazioni presenti nei database segreti dell’Intelligence gli metteva ansia, che andava ad aggiungersi al suo già alto livello di stress.
Terzo: aveva captato dei discorsi che non gli piacevano per niente. Secondo Lydia Branwell, sua collega e amica, quello stronzo di Walsh sarebbe uscito con un barista della caffetteria sotto lo studio, la sera successiva.
“Come fai a saperlo?” Le chiese, seduto alla sua scrivania con il fascicolo del caso a cui stava lavorando aperto di fronte a sé.
Lydia, seduta di fronte a lui, alzò i suoi occhi azzurri da alcuni documenti relativi allo stesso caso e li piantò sull’amico. “Michaela Pratt. L’ho sentita parlare con Laurel Castillo di questa cosa, in ascensore.”
“E l’ha detto di fronte a te?”
La bionda annuì, così Alec si appoggiò allo schienale della sua sedia.
“Non trovi la cosa sospetta? Walsh mi odia. La Pratt è tipo la sua migliore amica e sa chi sei e che lavoriamo insieme. L’avrà fatto di proposito.”
“E a quale scopo?”
“Distrarmi in un momento in cui un’ulteriore preoccupazione è l’ultima cosa che mi serve.”
Lydia inarcò un chiaro sopracciglio curato in un’espressione scettica. “Alec. Dimmi che anche tu ti rendi conto di quanto suoni cospiratorio tutto questo, o inizierò a pensare che tu stia impazzendo.”
Alec arricciò le labbra. Forse Lydia aveva ragione: stava lentamente scivolando nella pazzia causata da un forte stress e da una profonda stanchezza. O forse aveva ragione lui e Walsh stava facendo il filo a Magnus per fargli un dispetto. Si alzò e afferrò la sua giacca dallo schienale della sedia. Mentre se la infilava, Lydia gli riservò un’occhiata interrogatoria.
“Dove vai?”
“A capire se sto impazzendo.”
Alla bionda, altro non rimase da fare che guardare l’amico uscire dal suo ufficio.

*

Alec non era mai entrato in quella caffetteria così velocemente in tutta la sua vita. Non aveva mai incontrato Walsh, nelle sue mattinate, ma con ogni probabilità era perché avevano orari diversi – e pause diverse. Non gli importava, comunque. Se era Magnus che voleva, doveva prima passare sul suo cadavere. O comunque, doveva essere lo stesso Magnus a dirgli che preferiva Walsh a lui.
Individuò Connor seduto su uno sgabello, di spalle, e senza nemmeno premurarsi di chi potesse avere intorno, si diresse da lui, afferrandolo per una spalla e forzandolo a girarsi nella sua direzione.
Connor gli riservò un’espressione sorpresa che si tramutò presto in un’espressione scocciata.
“Che fai, Lightwood?”
“Stagli lontano.”
Connor aggrottò le sopracciglia. “Di che stai parlando?”
“Lo sai di cosa sto parlando.” Contrasse la mascella. “Stagli lontano, Walsh, o…”
Connor gli riservò una risata di scherno. “O cosa? Chiami mammina e mi fai processare?”
Alec dovette far ricorso a tutta la sua pazienza per non mollargli un pugno sul naso. “No, ma farò in modo che tutti i vostri loschi sotterfugi vengano alla luce. Non siete in grado di vincere un caso senza ricorrere all’illegalità. Immagina cosa succederebbe se qualcuno lo facesse presente: la Keating verrebbe radiata e voi finireste a lavare finestre. E ti giuro che mi assicurerò personalmente che a te tocchi pulire quella del mio ufficio.”
Era questo che Connor detestava di Lightwood. La sua arroganza, la sua convinzione di poter guardare gli altri dall’alto in basso solo perché portava un cognome importante; il suo sguardo altezzoso, accompagnato da parole pungenti, determinate a colpire dove faceva più male. E Connor aveva perso la pazienza. Non avrebbe più permesso che gli venisse parlato in quel modo – così reagì senza pensarci troppo, senza realizzare che erano in un luogo pubblico, con almeno una quindicina di testimoni, e senza pensare che AK l’avrebbe scuoiato vivo, se fosse venuta a conoscenza del fatto che aveva appena dato un pugno ad Alec Lightwood, pupillo della sua rivale più temuta. Un pugno bello secco, sulla mascella.
Alec barcollò all’indietro, ma comunque reagì con prontezza, sferrando un pugno in risposta.
Si trovarono coinvolti in una rissa. Nessuno dei due era mai stato coinvolto in una rissa, nemmeno Alec, che al college per sfogare lo stress aveva cominciato a fare pugilato.
Ed era una situazione quasi surreale per entrambi, come se non riuscissero a percepire altro che la loro azzuffata: non le persone che tentavano di separarli, non le intimazioni a fermarsi dei dipendenti.
“Che cosa state facendo??”
Solo a quel punto si fermarono, quando due voci familiari – che aveva parlato all’unisono – raggiunsero le loro orecchie.
“Magnus.”
“Oli.”
Alec e Connor sentirono la vergogna invadere ogni cellula del loro corpo quando incrociarono gli sguardi di Magnus e Oliver, sulla porta della caffetteria da cui erano appena entrati, probabilmente di ritorno dalla loro pausa. 
Connor e Alec non vennero arrestati dalla sicurezza solo perché erano due avvocati che lavoravano per due delle donne più influenti della città, ma entrambi avrebbero preferito finire in gabbia, piuttosto che affrontare Magnus e Oliver e i loro sguardi tutto fuorché entusiasti di aver assistito a quella scena.
Erano tutti usciti dalla caffetteria e si trovavano sul marciapiede che dava sulla strada. Alec si massaggiava la mascella, Connor si tamponava il naso, da cui usciva un poco di sangue – niente di grave, comunque. I suoi lividi, erano rispecchiati sul volto di Lightwood.
“Ti prego spiegami.” Cominciò Oliver, le braccia incrociate e lo sguardo decisamente arrabbiato.
“Ha cominciato lui.” Disse Connor, indicando Alec, che non appena si sentì tirato in causa, saltò come una molla.
Io? Walsh, mi hai dato un pugno. Hai cominciato tu!
“Non mi interessa chi ha cominciato!” Si inserì allora Magnus, alquanto alterato. “Vogliamo sapere per quale motivo vi stavate picchiando come animali!”
“Rischiando di farci perdere il posto, tra l’altro. Visto che è ovvio che vi conosciamo.” Aggiunse Oliver.
Quell’ultima frase fece accendere una lampadina nel cervello di Alec. Non era Magnus il barista con cui Walsh voleva uscire, era Oliver.
“Sei tu!” Esclamò, quindi. “Non Magnus!”
Magnus e Oliver sbatterono le palpebre qualche istante, prima di guardarsi reciprocamente e leggere nel viso dell’altro la stessa confusione che caratterizzava il proprio. “Alexander, temo di non capire. E temo che nemmeno Oliver capisca.”
Alec si passò una mano sulla faccia e si diede mentalmente dell’idiota. Il suo comportamento era ingiustificabile: aveva dato per scontato che il barista di cui stessero parlando la Pratt e la Castillo fosse necessariamente Magnus, senza contare che una caffetteria è piena di baristi. Walsh non voleva fargli un dispetto, aveva semplicemente puntato Oliver.
Lydia aveva ragione: Alec stava impazzendo.
“Pensavo che Walsh volesse uscire con te e mi sono arrabbiato.”
Magnus alzò un sopracciglio. “E hai pensato bene di azzuffarti anzi che venire a parlarne con me?”
“Scusa. Mi sono fatto prendere un po’ troppo da questa situazione.”
“Ho notato.” Magnus indicò il livido che si stava formando sulla mascella dell’avvocato. “Ma sei scusato. A patto che tu non lo faccia più.”
Alec si avvicinò, riducendo praticamente a zero la distanza tra di loro, e allungò un mano per afferrare quella di Magnus. L’altro lo lasciò fare – gesto che l’avvocato interpretò come un buon segno. “Promesso.”
“Lungi da me disturbare quello che sembra un totale flirt, ma avresti semplicemente potuto domandarmi se era lui quello con cui sarei uscito.”
Alec si voltò verso l’avvocato e proprio non riuscì a non lanciargli un’occhiataccia. “Mi hai dato un pugno. Un pugno, Connor. Non puoi parlare, ne tanto meno ergerti a giudice.”
“A tal proposito,” Si inserì Oliver, “Per quale motivo avresti cominciato tu?”
Connor cominciò a grattarsi la nuca. “Tra me e lui non scorre buon sangue…”
“Quindi hai deciso di dargli un pugno?”
“Sì, cioè no. Lui è uno spocchioso arrogante che crede che tutto gli sia dovuto perché fa Lightwood di cognome-”
“Piano con i complimenti, Walsh, o mi farai arrossire.”
Connor ignorò il commento sarcastico di Alec e, dopo avergli lanciato un’occhiata truce, continuò: “-E la sua superbia, abbinata alla sua lingua lunga, ha fatto sì che dicesse delle cose che mi hanno fatto scattare.”
“Quindi,” riprese Oliver, “Anzi che parlare come due persone normali, avete deciso di prendervi a pugni.” Fece un cenno di diniego con la testa e poi si rivolse a Magnus. “Forse abbiamo sbagliato tutto: in realtà sono due rincitrulliti e il loro fascino è tutta apparenza.”
Magnus ridacchiò, mentre lanciava un’occhiata complice ad Oliver. Sguardo che i due avvocati notarono. Toccò a loro, questa volta, guardarsi in modo perplesso a vicenda.
“Che c’è?” domandò Magnus. “Io e Oliver siamo amici.”
“E parlate di noi?”
“Beh sì. È stato lui a dirmi che il tuo nome completo è Alexander.”
Alec si passò una mano sulla faccia. “Ed esattamente, cos’è che dite?”
Magnus ridacchiò e con un’audacia che fino ad ora non gli era mai appartenuta, si avvicinò maggiormente ad Alec e, alzandosi sulle punte, gli baciò una guancia. “Non lo saprai mai.”
Alec rimase sbigottito per qualche istante, ma poi il suo cervello lo aiutò a percepire la ridicola distanza che c’era tra di loro e lo spronò a circondare con un braccio la vita di Magnus per tirarlo a sé e annullarla completamente.
“So essere piuttosto persuasivo.” Soffiò. La bocca di Magnus era così vicina alla sua che sarebbe bastato pochissimo per baciarlo, ma non lo fece – resistendo all’impulso per dare invece a Magnus l’opportunità di farlo, se avesse voluto.
Magnus arrossì un poco e deglutì, i suoi occhi erano fissi sulle labbra di Alec. Poteva baciarlo. Avrebbe potuto decisamente farlo. Desiderava farlo da quando era entrato in caffetteria, quella mattina di un mese prima, con la sua camminata sicura ed aggraziata e il portamento elegante.
Non c’era più motivo per non farlo: non dopo che aveva appurato che Alec fosse veramente interessato a lui – non si è gelosi di chi non ci interessa, dopotutto, no? Così lo fece. Si alzò un poco sulle punte e appoggiò le sue labbra su quelle di Alec, un contatto delicato che presto si trasformò in un bacio vero, lungo e forse un po’ troppo appassionato – uno scontro di labbra, un gioco di lingue e piccoli morsi, con le mani di Magnus strette intorno alla giacca di Alec, mentre quest’ultimo teneva l’altro per la vita, tirandolo sempre più a sé, quasi volesse spalmarselo addosso. Alec aveva le labbra più morbide che Magnus avesse mai assaggiato e lo baciava come se avesse perfettamente saputo cosa volesse. C’era una sintonia incredibile, quasi come se quello fosse il loro centesimo bacio e non il primo.

“Sono così carini.” Affermò Oliver.
“Non sono d’accordo.”
“Perché sei allergico alle manifestazioni d’affetto, o perché Alec ti sta antipatico?”
“Antipatico è riduttivo, Oli.”
Oliver fece una pausa, deducendo che il motivo fosse la seconda opzione. Osservò prima Magnus che aveva finalmente trovato il coraggio di agire e poi guardò Connor, al suo fianco. Dovevano uscire insieme, la sera successiva. E sicuramente avrebbero parlato e Oliver avrebbe scoperto altre cose di lui, cose che sicuramente gli sarebbero piaciute e che l’avrebbero spinto a volere di più, da quell’appuntamento. Non sapeva bene da dove gli venisse quella certezza, sapeva solo che, istintivamente, era pienamente consapevole di come sarebbe andata: avrebbe finito con l’innamorarsi di Connor Walsh, futuro avvocato e attaccabrighe part-time. Poteva aspettare domani sera, oppure poteva fare in modo di avere adesso ciò che, in realtà, aveva sempre voluto da quando l’aveva incontrato: Connor.
“Quindi, se fossi io a baciarti, troveresti la cosa carina e non sdolcinata?”
Connor gli rivolse un sorriso storto, un solo angolo della bocca alzato e uno sguardo carico di  malizia. Successivamente, si posizionò di fronte ad Oliver. Rimasero occhi negli occhi per qualche istante, prima che quelli di Connor si posassero sulla sua bocca. “Potresti provare, così da scoprirlo da solo.”
Oliver sentì il suo cuore saltare un battito e riprendere la sua corsa in un modo quasi esagerato, come se gli stesse gridando: Cosa stai aspettando? Fallo! E lo fece. Senza aspettare troppo, senza ulteriori indugi, appoggiò la sua bocca su quella di Connor, in un contatto leggero, come se stesse chiedendo gentilmente il permesso di poterlo fare. La cosa che Oliver non sapeva, forse, era quanto Connor desiderasse baciarlo. Di conseguenza, quel contatto di trasformò in un vero bacio nel giro di pochissimo: le loro labbra si scontrarono, esplorandosi per la prima volta, fremendo a contatto le une con le altre, bramando di più, arrivando quasi a divorarsi. Connor aveva un buon sapore, una strana mistura di caffè e menta, ed era parecchio esigente – anche un po’ prepotente, se lo si chiede ad Oliver. Non che la cosa gli dispiacesse, comunque.

“Sarebbe più semplice se si prendessero una camera.” Disse Alec a Magnus, mentre guardavano la scena.
“Quanto sei cinico, Alexander. Dovresti celebrare l’inizio di un nuovo amore.”
Alec afferrò la mano di Magnus, accarezzandogli il palmo con il pollice. “È quello che ho intenzione di fare. E non mi sto riferendo a loro.”
Magnus arrossì e abbassò lo sguardo, così Alec usò la mano che aveva libera per alzargli il mento e spronarlo a guardarlo negli occhi. Magnus dovette deglutire a vuoto qualche istante, prima di essere in grado di formulare una frase di senso compiuto. Gli occhi di Alec, di quel colore così particolare che variava dal nocciola al verde, gli mozzarono il respiro.
“Allora potresti cominciare a farlo chiedendomi di uscire.” Sussurrò.
Alec gli regalò un sorriso così radioso che Magnus ne rimase ipnotizzato. “Domani sera?”
Magnus annuì. “Sarebbe perfetto.”  
Alec si chinò leggermente per lasciargli un delicato bacio a stampo. “Devo tornare a lavorare.”
“Anche io, se non decidono di licenziarmi.”
“Se dovessero farlo, mi chiami e me ne occupo io.”
Magnus dovette ammettere con se stesso di essere attratto dal lato protettivo di Alec più di quanto si sarebbe mai immaginato. “Dovresti lasciarmi il tuo numero.”
“Per fare un cazziatone al tuo capo?”
Magnus accennò una risata. “No, per domani sera.” Infilò una mano nella tasca dei pantaloni della divisa e porse il proprio cellulare ad Alec, il quale lo afferrò e digitò il suo numero.
“Ecco a te, stellina.” Gli lasciò un altro bacio e Magnus realizzò che si era abituato decisamente troppo in fretta alle labbra di Alec sulle sue. “Ci vediamo domani.”
Il barista annuì e osservò Alec dirigersi verso l’entrata dell’edificio dove si trovava il suo studio legale. Sentiva ancora l’ombra della sua bocca su di sé e il profumo di Alexander nelle narici.

“Allora, te l’ha chiesto?”
Magnus si voltò, trovando sul marciapiede solo Oliver – evidentemente, anche Connor era dovuto tornare a lavorare.
“Sì.”
Oliver gli sorrise. “Mi fa piacere. Anche se credo non usciremo mai in quattro.”
“No, se non vogliamo che si stacchino la testa a vicenda.”
“Avvocati, valli a capire.” Borbottò Oliver, alzando gli occhi al cielo. 
Magnus scosse la testa, ma non poté fare a meno di sorridere al pensiero di Alec. Sorriso che, per inciso, era rispecchiato nel volto dell’amico. Erano felici come due idioti e non riuscivano a smettere di sorridere, nemmeno fossero stati due quattordicenni alla prima cotta.
Se solo avessero saputo che in quello stesso palazzo, rispettivamente ad un’altezza di dieci e dodici piani, Alec e Connor avevano lo stesso sorriso ebete stampato sul viso, forse si sarebbero sentiti meno ridicoli.

 


------------------------------
Ciao! Allora, prima di tutto se avete deciso di aprire questa storia e di leggerla fino in fondo vi ringrazio immensamente!
Specificazione doverosa: l’ho scritta per danim, che mi ha chiesto una storia dove fossero presenti sia i Coliver che i Malec (che sono anche due delle mie ship supreme).  Daniela, spero ti sia piaciuta!
L’idea era quella di ambientare il tutto in un AU (molto AU) per fare in modo che le due coppie potessero coesistere in modo coerente. Non so quanti seguano entrambe le serie, ma la trama originale di Shadowhunters vede Magnus come uno stregone e Alec come un cacciatore. Magnus è bisessuale (da qui, l’accenno a Camille, sua perfida ex che nella serie è una vampira) e prova attrazione per Alec da subito, non avendo la minima remora a farglielo capire. Alec, invece, è gay e nella prima stagione non ha ancora fatto coming-out, quindi le attenzioni di Magnus lo confondono un tantino - più che altro perché è sempre stato educato, fin da piccolo, che gli shadowhunters non devono farsi distrarre dalle emozioni – e lo spingono ad essere più riservato di quanto già normalmente sia. In questo capitolo, tuttavia, le loro personalità sono invertite perché ho preso spunto da un episodio della prima stagione, che si intitola appunto “This world inverted”, in quanto pensavo che immaginarmi Alec e Connor con dei caratteri un po’ più simili avrebbe agevolato la cosa.
A proposito di Connor, chi segue HTGAWM probabilmente mi vorrà tirare addosso pomodori e farebbe anche bene: mi rendo conto di averlo reso un po’ OOC, soprattutto perché è un misto tra il suo carattere della prima stagione e quello nelle stagioni successive, ma ho cercato di adattarlo al contesto di questa storia. La trama originale non è presa in considerazione: in questo contesto, i nostri K5 non sono degli omicida e Wes non ha subito il destino triste a cui gli autori della serie l’hanno condannato. A proposito, sono troppo curiosa di vedere cosa succederà nella prossima stagione, ma questo non c’entra niente adesso!
Spero di aver fatto tutte le dovute specificazioni, se vi va fatemi sapere cosa ne pensate!
Vi ringrazio ancora per aver letto questa OS e vi saluto, a presto! :D







 
   
 
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Shadowhunters / Vai alla pagina dell'autore: Roscoe24