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Autore: Smolly    08/09/2018    2 recensioni
Quando la musica chiama, un musicista risponde, anche quando le cose non vanno come dovrebbero. Un breve percorso nella storia di una passione.
Genere: Malinconico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi sveglio una mattina ed, d’un tatto, compare un’idea. Mi pare così brillante che il primo impulso è quello di condividerla, subito. Scendo dal letto di corsa e, ancora in pigiama, mi dirigo in cucina, dove mio padre sta silenziosamente sorseggiando un caffè.

“Babbo, voglio suonare il violoncello”, dico con il sorriso più smagliante che posso offrire. La reazione che mi aspetto da lui è una felice, raggiante, di qualcuno che ha appena ascoltato una notizia strabiliante. Invece tutto ciò che sento uscire dalla sua bocca è:

“Sofia, tesoro, sei sicura di quello che dici? Non sai neanche come è fatto un violoncello”.

Sono Sofia, ho tre anni, ed è qui che comincia la mia avventura.

Mia madre, nell’ascoltare la proposta, ha la medesima reazione di mio padre, ed io non capisco: come possono degli adulti non rendersi conto della genialità dell’idea che ho avuto? Mi sento confusa, perché mi ritengo profondamente convinta della mia posizione. “Non sai di che stai parlando”, “Sei molto piccola, tesoro, riparliamone tra qualche tempo”, sono le frasi che mi hanno rivolto reiteratamente nel corso di quella giornata.

Io, tuttavia, non sono d’accordo, e se c’è una cosa che so di me, è che sono testarda, molto testarda.

Quasi tre anni dopo mi ritrovo in una grande sala, su un palco, circondata da altri bambini vestiti tutti uguali, sotto gli occhi di una massa di genitori disposti disordinatamente intorno a noi. Sono seduta, nemmeno tocco terra con i piedi; in mano ho una chitarra ben più grande di me, ed un microfono: sono al saggio di fine anno del corso di propedeutica musicale. Ebbene si, la mia testardaggine ha vinto sui dubbi di tutti:  ho insistito così tanto e così intensamente a voler suonare il mio amato e sconosciuto violoncello che i miei genitori si sono dovuti arrendere, non prima però di avermi iscritto a un corso propedeutico.

Sono felice, e a chi mi chiede che strumento voglia suonare, rispondo sicura, con un sorriso sdentato e la luce nei miei grandi occhioni blu: “Io voglio suonare il violoncello”. A quasi sei anni è tutto quello che mi serve sapere e ne sono entusiasta.

Il mio primo giorno di lezione tanto atteso arriva circa a un anno di distanza dal saggio, in un soleggiato pomeriggio di settembre. Con me ho un minuscolo violoncello di una misura improbabile, comprato a poco o nulla, e moltissimo entusiasmo. Incontro in un’aula quella che sarà la mia insegnante -anche se per ben poche lezioni- che mi ispira subito fiducia: si chiama Alice, e  vedendomi sorride raggiante.

La stanza non è molto grande, la luce passa solo da una piccola finestra e sul pavimento noto della moquette verde. La lezione inizia quasi subito, ma non posso sedere su una normale sedia, sono troppo piccola: la mia insegnante mi porge un panchetto della mia misura; è gentile, non alza la voce, mi guarda attenta ad ogni mio bisogno. Devo imparare a leggere il pentagramma, a prendere confidenza con lo strumento, a capire come devo sedere; le cose da imparare sono fin da subito molte, e non facili, ma con Alice tutto sembra possibile.

Sono mancina: lo dico all’insegnante pensando di dover fare le cose diversamente dagli altri, così come compio tante azioni in modo diverso nella mia quotidianità, essendo mancina in un mondo di destrorsi. La risposta che ricevo è che mi devo adattare a tutti gli alti, non esiste un modo diverso di suonare il violoncello da mancini, tutti suonano nello stesso modo.

“Vedrai, imparerai velocemente, ne sono sicura”, sono le parole di Alice, e io sorrido.

Mi mostra il libro sul quale dovrò studiare, sono tutti esercizi facili, note a vuoto scritte enormi su pentagrammi ancora più grandi, contornati da figure colorate. Mi fa sentire alcuni suoni, strofinando l’archetto sulle corde a vuoto: do, sol, re, la, poi ancora re e di nuovo il sol e il do. Mi chiede di cantargliele, mentre lei suona: io no, non canto, mi vergogno troppo. Sono sicura ed entusiasta di suonare ma no, di cantare non ne voglio sapere: è un blocco che mi porterò dietro per molto tempo, e pesa, molto.

“Non importa”, mi rassicura l’insegnante, e io mi rilasso. In un battibaleno la mia prima lezione finisce, ed io sono sempre più innamorata del mio strumento.

 A casa mi rigiro il violoncello tra le mani, adorante; passo le ore a studiare ogni minimo dettaglio, ad accarezzare ogni centimetro della cassa armonica. È un piccolo violoncello, ma è quasi grande quanto me, mi pare una sorta di persona: si, sento come se mi parlasse, come se avessi davvero un altro bambino davanti a me e non un semplice pezzo di legno. Lo guardo, e mi balena in testa l’idea che debba parlagli pure io, entrarci in contatto, chiamarlo per nome: forse così avrei imparato meglio a suonarlo e a conoscerlo.

E fu quello il giorno in cui cominciai a chiamare il mio violoncello Jack, e dato un nome quella volta, ho dato il nome a vita.

I primi anni di studio sono  i migliori: l’entusiasmo mi pervade in ogni brano che studio, sono spensierata, non vedo l’ora di andare a lezione, stingo molte amicizie; ho parecchie cose da fare, ma non mi pesano. Tutti questi ricordi di assestano pian piano nella mia mente come tanti piccoli pezzi di un grande puzzle, che rimarrà sempre assemblato nel mio cervello.

Sprazzi di saggi di fine anno, a giugno, con un caldo da spezzare il fiato; segmenti di lezioni passate a suonare scale; belle e brutte giornate passate leggere spartiti e a fare dettati; ore di attesa nei corridoi; una risata; tanti strumenti che suonano insieme. Tutto si intreccia in una trama ben precisa, marchiata a fuoco nella mia memoria, per sempre.

Poi inizio a crescere, ed ecco,  ho dodici anni.

Alle scuole medie non  mi trovo bene, non piaccio ai miei compagni,  sono timida e non parlo molto. È in questo periodo che mi aggrappo con tutta la forza che ho a Jack e la musica, memore dell’amore che già da 9 anni, ridendo e scherzando, provo per quello strumento. È anche il periodo in cui partecipo d’estate a degli stage musicali e mi trovo benissimo, mi sento nel mio mondo, quindi nutro la speranza che la musica mi aiuti. Voglio continuare a suonare, a migliorare, a condividere la mia passione con i miei colleghi musicisti.

Invece lentamente mi crolla il mondo addosso.

Ho già problemi con la scuola, non voglio andarci perché mi trovo in una classe terribile; oltre a questo, comincia a sgretolarsi anche il mio appiglio con la musica: troppe richieste, molti rifiuti, mi sento messa ingiustamente da parte, prendo coscienza di avere un talento che non riesco più ad esprimere fino in fondo e non è neanche colpa mia. A dodici anni sono convinta che la musica possa aiutarmi e invece arrivo velocemente a quattordici che la mia passione è divenuta il mio incubo: passo le mie giornate in macchina o nei corridoi della scuola di musica, agitata, nel tentativo disperato di conciliare la musica, la scuola, la mia vita, le mie insicurezze, e non ci riesco. Nel pieno della mia adolescenza sono immersa nelle sabbie mobili fino al collo e non riesco a tirarmi fuori.

Ogni sera, quando arriva il momento di andare a letto ripenso alla convinzione che avevo qualche anno prima e alle porte chiuse che mi sto trovando davanti adesso: scoppio sempre irrimediabilmente a piangere. La notte dormo male, non ho più risultati positivi da nessuna parte, né a scuola né nella musica, eppure la pressione, le richieste e le pretese aumentano a dismisura.

Nessuno mi ascolta e io scoppio. Scoppio perché non voglio rinunciare a nulla, ma continuando ad andare avanti così rischio solo di peggiorare le cose, più di quanto non lo siano già. Ho quattordici anni e sono in crisi, i miei occhi gridano aiuto.

Decidere non è stato facile, ho perso un pezzo di cuore il giorno in cui mi sono ritirata da quella che era stata la mia scuola di musica per quasi otto anni. Ho perso un pezzo di cuore a un passo da esami importanti per il mio percorso musicale, sudati fino all’ultima chiave di basso. Decidere non è stato facile: ho versato un mare di lacrime abbracciata a Jack, l’unico che mi abbia sempre ascoltato in tutto questo tempo. Tuttavia il luogo che tanto aveva dato per incoraggiare i miei sogni di bambina mi stava togliendo tutto pezzo per pezzo, nota per nota, lacrima per lacrima.

Non posso proprio resistere, non sono fisicamente né mentalmente in grado.

Il dopo è stato un lento declino: ho continuato a prendere lezioni per tutti gli anni delle superiori, abbandonando però ogni speranza di dare i tanto agognati esami di pianoforte, di solfeggio, del quinto anno, quelli che non ho mai avuto la possibilità di dare alla vecchia scuola.  Vedo i miei sogni scemarsi lentamente, prima a quindici, poi a sedici, poi a diciassette anni. Oramai sono un’ombra della bambina decisa di una volta. L’amore per la musica rimane, certo, ma ho mollato la presa; l’ho mollata non credendo più in me stessa, lasciandomi sopraffare dagli eventi, non ho lottato fino alla fine, non mi sono più ripresa dalla batosta.

Una parte di me continua a sperare, nel corso degli anni, ma è troppo debole per uscire e prendere l’iniziativa, rimane come una sorta di miraggio, al quale guardo con nostalgia ma verso cui non mi avvicino, neanche lontanamente.

Sono Sofia, ed ho 23 anni adesso.

Vado all’università, scrivo a tempo perso, fotografo ciò che mi capita, ho nuovi amici; arrivata al punto in cui sono ora guardo al mio passato con uno sguardo d’insieme.

Ammetto che tutt’ora, dopo 9 anni, continuo a rimuginare su ciò che è successo, su come sarebbe stato se avessi avuto più persone accanto, se non avessi mollato, e passo le ore a sfogliare le foto dei miei saggi, a pensare ai cambiamenti che ho fatto e ai progressi. Non rimpiango di aver cambiato scuola, quello no, so di essermi tolta un peso liberandomi da una gabbia che non era la mia. Quello che rimpiango è di aver lasciato perdere, di aver dato inconsciamente retta a chi mi diceva che se non mantenevo i ritmi non ero nessuno e potevo chiudere i miei sogni lì, all’istante.

Quel rimpianto è ciò che rimane del barlume di speranza assopito in fondo al mio cuore, lasciato lì a impolverasi per quasi una decade. È lì, in fondo al cuore, che la musica non ha mai smesso di essere la mia vita, mai, e mai se ne andrà.

Un giorno forse sarò in grado di liberare quel barlume e riscattarmi, chissà. Ora guardo Jack e penso che se abbiamo resistito tutti questi anni, qualcosa alla fine di tutto deve voler dire. Ogni giorno gli parlo e lo abbraccio, proprio come una volta. E continuerò a farlo, qualsiasi cosa succeda.

   
 
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