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Autore: Fabio Brusa    08/09/2018    1 recensioni
Un giovane xenobiologo va alla ricerca dei segreti nascosti nelle profondità lunari.
Genere: Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gli uomini che alzavano il naso al cielo della notte incrostato di stelle, alla ricerca di un varco per sfuggire alla sensazione di oppressione stagnante, trovavano sempre ad attenderli il più meraviglioso dei corpi celesti. Immobile, mutevole, culla dei sogni di intere generazioni di nostalgici, accoglieva le grida sperdute di chi viveva in un mondo senza più giorno né notte. Eppure Edwin, nonostante lo sguardo volto in alto, sentiva di trovarsi nel posto giusto. Ammirava quella mutevole palla azzurra e bianca, con la sua gente che aveva vissuto millenni sui suoi continenti sconfinati; ma era nato sulla Luna ed il suo amore per l'ancora parzialmente inesplorato satellite della Terra lo teneva strettamente ancorato a casa.
Non che la Terra per lui fosse meno degna d'interesse. Vi si era recato almeno in quattro occasioni nell'arco dei suoi trentasette anni, per lavoro e studio soprattutto. Il consiglio delle Nazioni Unite mandava avanti una colonizzazione della Luna ancora alle fasi iniziali, con solo tre città da poco più di un milione di abitanti ciascuna. Per frequentare i migliori istituti di geologia e biologia, Edwin aveva obbligatoriamente abbandonato il suolo natale, spingendosi per soggiorni alquanto brevi nelle università di Stanford, di Oxford ed alla Mahana Rastra University di Nuova Delhi. L'istruzione lunare poteva essere considerata solida, ma ben pochi volevano realmente vivere lì. Così la maggior parte degli esperti di ogni settore se ne stava comodamente sul suo pianeta d'origine, dando nuova linfa alla ricerca per la salvaguardia ambientale sopra ogni cosa. Con il salvataggio del pianeta, nessuno desiderava più inseguire il sogno romantico della vita oltre lo spazio. Al limite una breve vacanza su Marte o sul suolo lunare, per scoprire solo che un cielo senza atmosfera e uno sterminato deserto bianco erano attrattive il cui fascino si esauriva in sé stesso.
Edwin la pensava diversamente. Aveva visitato le grandi città terrestri, trovandole ben poco diverse da Rasa, Minoi o Stonelake. Le metropoli sulla Luna godevano degli stessi comfort delle altre: un efficiente sistema di polizia, trasporto pubblico gratuito, centri culturali, divertimento per ogni gusto ed età. Perfino il settore sportivo era decente. Le squadre di football, basket e calcio delle tre città si sfidavano ripetutamente per il titolo, dopo aver lottato al loro interno in leghe minori per il diritto di rappresentanza. Da tre anni i Glaive Warriors di Minoi vincevano il Superbowl lunare, ed Edwin, da buon tifoso, non perdeva occasione di rinfacciarlo a colleghi ed amici di diversa fede sportiva ogni volta che si trovavano al pub della stazione. Adorava l'odore della vittoria, il frizzante sfrigolio dell'aria quando hai tutte le ragioni dalla tua. Ma ciò per cui viveva veramente e che amava della Luna era il proprio lavoro fuori. Fuori dalle cupole, fuori dalle città, faccia a faccia con lo spazio aperto.

La terra vibrava con una strana frequenza da alcuni mesi. Gli abitanti delle tre città ci avevano fatto l'abitudine, ma Edwin no. Ricordava spesso la prima volta che aveva sentito il terreno scuotersi sotto ai piedi, come un impossibile e lieve terremoto. La Luna, si era scoperto, non era dotata di manifestazioni come i terremoti naturali, né di natura vulcanica, né generati dal movimento di placche del tutto assenti. Le centinaia di lievi scosse registrate dalle vecchie sonde d'esplorazione, che a stento raggiungevano il secondo grado della scala Richter, avevano una genesi biologica. Di più: dopo decenni di rilevamenti e studi in loco, eseguiti da uomini che avevano infiammato la sete di conoscenza di Edwin, la risposta era univoca. Ad origine delle scosse c'era l'attività di organismi animali.
La prima volta che, alle scuole elementari, l'insegnante di Edwin aveva mostrato alla classe la rappresentazione di un wormant, la maggior parte dei bambini e delle bambine si era messa a piangere. Li chiamavano anche vermitalpa, o vermigrilli, per la caratteristica di emettere un tipico lamento stridulo mentre scavavano le loro interminabili gallerie. Esseri capaci di distruggere intere città, se solo il loro cammino li avesse condotti attraverso di esse. Con una media di quarantasette metri di lunghezza e tre di diametro, erano mastodontici mostri ciechi dal corpo dentellato, implacabili nel loro incedere fra le gallerie sotterranee. Ciò che li rendeva relativamente innocui però era la stessa cosa che li aveva tenuti nascosti agli occhi dei primi esploratori. L'alimentazione basata esclusivamente sul riciclo delle sostanze nutrienti nel terreno li portava a scavare nelle più abissali profondità della crosta lunare, cercando filoni di ghiaccio da digerire e sali minerali da estrarre. Salivano vicini alla superficie solo per cercare gli strati più densi di microorganismi, trasportati ed imprigionati nella regolite da asteroidi e comete, provenienti da remote ed inesplorate lande dell'universo e schiantatisi per milioni di anni sul suolo della Luna priva di atmosfera. E quando salivano, le città tremavano.
Le grandi città, così come ogni insediamento umano stabile, erano state costruite per legge sul lato della Luna visibile dalla Terra. Il sincronismo fra la rotazione del satellite ed il suo moto di rivoluzione avevano tenuto per milioni di anni metà del suo volto oscuro al pianeta madre, ed ora impediva alle strumentazioni radio sulla Terra di ricevere segnali provenienti da quel lato. Un blackout delle comunicazioni che sarebbe durato ancora per poco. Il progetto coloniale delle Nazioni Unite stava per spedire in orbita stabile attorno alla Luna quattro nuovi satelliti artificiali, per ovviare al problema delle comunicazioni. Edwin se ne infischiava: aveva lavorato per anni viaggiando completamente solo. Passare una o due giornate senza un altro essere umano a rompere le scatole lo faceva sentire solamente meglio.

Era orgoglioso di sé. Nell'ultimo periodo aveva scoperto una nuova pozza di residui organici, appena al di sotto della regolite, che si estendeva per sei chilometri quadrati nel lato oscuro. Si trattava del più esteso bio-pack scoperto finora, che significava alta probabilità di studiare i vermitalpa vicino alla superficie.
Quegli esseri ancora sconosciuti erano diventati un'ossessione per Edwin. Voleva svelarne i segreti, studiarne i misteri, essere il primo uomo a stendere un vero trattato su una forma di vita complessa totalmente extraterrestre. In pochi si erano avventurati nel tentativo di scoprirne natura ed abitudini, ancora meno ne avevano cavato un ragno dal buco. La vita sotto spessi strati di roccia rimaneva imperscrutabile, ma Edwin era convinto che nei pressi dei bio-pack, i laghi solidi dove i vermitalpa trovavano parte del loro cibo, avrebbe potuto essere veramente fortunato.
In sella al suo rover elettrico, acquistato con i fondi dell'Università Lunare di Minoi, Edwin si lasciò alle spalle le porte stagne della metropoli. La struttura ricoperta di ricettori fotovoltaici gli garantiva autonomia quasi infinita, persino sul lato oscuro, che a dispetto del suo nome veniva normalmente illuminato dal sole tanto quanto il lato rivolto verso la Terra. Fra i crateri e le dune, viaggiò per sei ore e mezza prima di oltrepassare la linea dell'orizzonte. Quando il segnale di campo del palmare si spense, capì di essere ormai vicino. Un'altra manciata di chilometri e l'ultimo pack individuato sarebbe apparso come una enorme vallata grigiastra ed immobile.
Ancora non aveva raggiunto il limitare del cratere che il sismografo segnalò la presenza di attività anomale. La possibile causa era una sola, che significava ben più di semplice probabilità. Almeno un vermetalpa doveva trovarsi vicino alla superficie, così vicino da generare scosse percepibili anche dal rover su cui Edwin era seduto. Eccitato ed impaziente, Edwin accelerò. Doveva scendere il prima possibile per approfittare del fato al momento favorevole.
Nulla mai avrebbe potuto prepararlo alla visione di ciò che lo attendeva oltre l'ultima duna. Nell'atmosfera brulla si propagava un vibrare tagliente, uno sfrigolio da grilli di campo che riusciva a superare il vuoto spaziale per giungere fino all'orecchio di Edwin. Sulle pendici di un ampio cratere, spinto per cinque o sei metri oltre il buco del tunnel da lui stesso scavato, il capo flaccido e ritto di un orribile vermetalpa sputò un ultimo verso contro il mondo attorno a sé. Poi si accasciò, sbattendo violentemente al suolo, morto.
Terrificato ed esaltato, Edwin non poteva credere di avere avuto una tale fortuna. I polsi tremavano incontrollabili, il respiro si fece affannoso: era il primo uomo a trovarsi faccia a faccia con una delle bestie lunari. Stava compiendosi la storia e fu pervaso da un'euforia mai provata prima. Saltò giù dal rover ed accese la telecamera per documentare il momento più interminabile della sua vita. Si trovava al punto d'origine di tutti i rapporti fra razza umana e razze extraterrestri. Proprio lui, persona comune, dispersa ed ignorata sul versante oscuro della Luna.
Assicuratosi che la telecamera stesse riprendendo la scena, si avvicinò a passi insicuri alla colossale bestia. Dagli studi effettuati in tanti anni conosceva parecchio sui wormant, ma mai ne aveva incontrato uno. Sorrise nel constatare le leggere differenze con le rappresentazioni dei libri di testo, basate sul lavoro di radar, sismografi e fantasia. Al corso di studi di xenobiologia l'ex professore di Edwin, un inglese sicuro di sé dal nome Roland Parker, aveva trascorso dodici ore di lezione esclusivamente sulla morfologia dei vermitalpa, esponendo dettagliatamente i solidi risultati dei suoi studi sulla specie. Se ora si fosse trovato con Edwin di fronte ad un esemplare reale, avrebbe probabilmente stracciato i testi con le proprie mani.
La carne all'apparenza molliccia della creatura era tutt'altro che viscida, completamente differente dai corpi umidi dei suoi parenti terrestri. Ad Edwin venne perfino il dubbio che si potesse parlare di parentela, o anche solo di un qualche legame con qualsivoglia specie di verme conosciuto. La forma allungata era l'unico metro di paragone: niente anelli, carni aride e dalla pelle rugosa, di un pallore albino ultraterreno. Con la mano Edwin provò a spingere sulla massa morta, riuscendo a malapena a fare pressione. Sulla superficie aperta della Luna, il vermetalpa sembrava duro quasi quando la roccia. I solchi scavati nei muscoli visibili sotto l'epidermide erano fiumi inariditi dal tempo, che correvano dal capo verso la coda, perduta per decine di metri nella galleria. Per la prima volta vide e toccò le protuberanze cornee, posizionate lungo l'intero corpo dell'animale, che sfregando continuamente contro il terreno permettevano al vermetalpa di scavare infinite gallerie. Poteva osservare la loro stramba disposizione a coppie, che inevitabilmente si sovrapponevano nei loro compiti, perfino ora che nella morte avevano perso ogni scopo. Se fosse stato ancora in vita, il wormant avrebbe mosso le protuberanze per andarsene, producendo il canto stridulo di conseguenza. Sarebbe stato meraviglioso per Edwin, già totalmente catturato dal momento, euforico come un bambino. Continuava a camminare, a toccare, incredulo. In un certo senso si stava compiendo lo scopo della sua vita, come ricercatore e uomo di scienza. Avrebbe dato il proprio nome ad un apparato della creatura, o ad una funzione biologica tutta nuova ancora da individuare. Già immaginava di sezionare il corpo, perdendosi nelle frattaglie spaziali del titanico vermetalpa. Eppure si sentiva distratto da altro, immerso solo in parte nella propria sicurezza. Nell'aspetto del wormant, qualcosa non quadrava.
Dapprima realizzò la presenza di otto paia di bulbi neri, disposti secondo una simmetria radiale, come escrescenze sul capo. Apparivano protetti da membrane carnose, molli e delicati come occhi, del cui utilizzo una creatura sotterranea non dovrebbe sapere che farsene. Edwin li palpò, provando ribrezzo per come perdevano liquidi a contatto con il guanto. Dovevano avere qualche altro utilizzo, ne era certo. Ma ancora il quadro era annebbiato: ai lati delle tre piccole bocche, fori pieni di zanne quadrate e piatte per frantumare minerali, una serie di cicatrici profonde e precise lasciavano pensare ad un marchio o un simbolo. Linee dagli angoli retti che si diramavano come un codice sulla testa orrenda del vermetalpa, impossibili da ricondurre a livree o manti di animali conosciuti. Edwin infilò il dito nelle pieghe, scoprendole diverse dalla carne del corpo o dalle appendici cornee, diverse anche dagli occhi bui. Sembrava impossibile, ma le sensazioni lo spingevano a trarre un'assurda conclusione. Le pieghe, a tutti gli effetti, sembravano incisioni artificiali riempite con un arzigogolato ed insondabile monile in metallo.

   
 
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