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Autore: merty_chan11    09/09/2018    1 recensioni
[Sheith] [Post s2/pre s3]
La battaglia contro Zarkon si è da poco conclusa, ma non è la pace che l'universo si aspettava quella ad aver seguito il conflitto. Shiro non c'è più e la sua morte ha segnato tutti nel profondo. Ma è Keith quello che risente più della sua assenza, è lui che è costretto a vedere gli altri riacquistare le forze per andare avanti mentre rimane indietro, ancorato ad un passato che credeva di aver già vissuto.
[...]
Keith aveva pensato di aver già oltrepassato quel limite. Aveva creduto, dopo la notizia della missione Kerberos, di aver provato abbastanza dolore per una vita intera e che mai nulla avrebbe potuto superare come si fosse sentito allora. Quanto era stato stupido.
Aveva creduto di essere morto, alla vista della sua foto nel memoriale. E invece, la morte l’aveva appena sperimentata. L’universo gli aveva dimostrato per l’ennesima volta che no, non ci sarebbe mai stato un limite per il dolore che poteva provare un cuore già spezzato.
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Buona lettura!
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kogane Keith
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ghost

 

 

Keith stava fuggendo.

Dai suoi sogni, dalla realtà. Da tutto e da tutti nello stesso istante. Continuava a correre via dalla nuova piega che la sua esistenza aveva assunto, dalla tempesta da cui era stato travolto senza aver avuto nemmeno il tempo di capire perché. 

Era diventato impossibile dormire la notte. Era diventato impossibile sopravvivere durante il giorno. Keith scappava continuamente perché aveva bisogno di pace, del corpo, e dell’anima. E del cuore. Voleva soltanto che qualcuno gli desse la possibilità di aprire gli occhi e di trovarsi altrove, in un luogo in cui tutto andava bene e nel quale la sua vita non era una costante caduta verso un’abisso di cui chissà quando avrebbe incontrato il fondo. Sempre se ci sarebbe stato, un fondo.

Una parte di lui era stata strappata via in quello scontro che avrebbe dovuto decretare la fine di tutto. La fine della guerra. Della loro sofferenza. Era rimasto a sanguinare, e  nessuno sembrava essersene reso conto.

Sarebbero dovuti tornare a casa. Sarebbero dovuti tornare in quella piccola dimora nel deserto, un tempo ricca di risate e poi colma soltanto di lacrime e lutto di un ragazzino che, all’epoca, si era affidato troppo alla speranza.

Avrebbe dovuto cercare la sua famiglia, quell’eco lontano che lo teneva incatenato al passato sin da quando ne aveva memoria. Ma non poteva. Non adesso, quando la fine della guerra sembrava più lontana che mai. Non in quell’istante. Non con il suo cuore così spezzato, così ridotto a brandelli. Keith aveva pensato di aver già oltrepassato quel limite. Aveva creduto, dopo la notizia della missione Kerberos, di aver provato abbastanza dolore per una vita intera e che mai nulla avrebbe potuto superare come si fosse sentito allora. Quanto era stato stupido. 

Aveva creduto di essere morto, alla vista della sua foto nel memoriale. E invece, la morte l’aveva appena sperimentata. L’universo gli aveva dimostrato per l’ennesima volta che no, non ci sarebbe mai stato un limite per il dolore che poteva  provare un cuore già spezzato. Che la sofferenza sarebbe arrivata, sempre, fino al punto in cui le crepe sarebbero state troppo profonde per poter essere colmate con le sabbie del tempo.

I corridoi del castello erano deserti.
Freddi.
Silenziosi.
Come una tomba in cui le luci tremolanti rappresentavano i lamenti di fantasmi che non provavano mai pace.

Si era ritrovato fuori dal letto senza neanche averlo prima pensato. La sua mente era assente. Il suo cuore era spento. Soltanto il suo corpo si muoveva, più per il ricordo di quei passi che per un desiderio vero e proprio. Si era ritrovato a vagare in quei luoghi tetri, senza alcuna bussola, come un raggio di luce che ormai più non poteva reggere oltre ma che continuava, tuttavia, la sua resistenza contro quel buco nero che minacciava di risucchiarlo. Era così, che si sentiva. Troppo debole per continuare a vivere, ma troppo testardo per mollare. Come quella volta. Perché non poteva essere andata davvero così.

Non doveva. Non era giusto. C’era qualcos'altro in ballo, qualcosa che lui, al momento, ignorava. Forse perché troppo rotto, o troppo esausto per continuare. Ma c’era. Ed era forse l’unica che gli permetteva di muoversi ancora. Eppure, nonostante quel briciolo di luce, Keith era stanco. 

Stanco di sentire il suo cuore infrangersi. Stanco di doversi svegliare la mattina e di dover prendere coscienza, ogni giorno, di quanto era in realtà accaduto. Era stanco di vedere i visi degli altri che pian piano riprendevano i loro sorrisi, la loro vitalità. Perché loro riuscivano ad andare avanti. E lui, invece, rimaneva indietro, ancorato ad un dolore che avrebbe voluto essere in grado di scacciare.

Keith non sapeva dove stesse andando. Si era affidato completamente ai suoi piedi, alle sue gambe che lo trascinavano ovunque, facendo il lavoro della sua mente. Non c’era. Semplicemente, non c’era. I suoi pensieri erano troppo forti e rumorosi, e il loro continuo scontrarsi gli uni con gli altri lo lasciava privo di forze. Lo lasciava, la sera, disteso sul letto a crogiolarsi in un fiume di lacrime che avrebbe voluto soffocare, come faceva con i suoi stessi singhiozzi. Lo lasciava, la mattina, in preda ad una rabbia che avrebbe voluto non ci fosse.

Pianse di nuovo, quando si ritrovò sul sedile del Leone Nero. Era da un paio di notti che accadeva. Si alzava dal letto, appena svegliato da un sonno agitato che riproduceva sempre lo stesso incubo, e cominciava a vagare per le sale del castello per poi ritrovarsi sempre lì, in quella sedia che non doveva essere vuota.

Era rannicchiato nello stesso posto che un tempo era appartenuto a Shiro. L’unico amico che avesse mai avuto. La sua parte migliore. Il pezzo di cuore che la lotta contro Zarkon aveva strappato dal suo petto, lasciando una ferita che avrebbe sanguinato in eterno.

Pianse e singhiozzò anche quella sera, lontano da sguardi che lui non avrebbe mai voluto posati su di sé.

Gli sembrò di sentire un qualcosa, ma anche questo era già accaduto. Era come una carezza che lui percepiva sempre sul viso. Dolce, gentile. Come se stesse tentando di confortarlo, di dirgli che poteva abbandonarsi a quel gesto per poi svegliarsi la mattina come se nulla fosse accaduto. Ma era stupido, pensarlo. Era stupido credere che quella luce viola accanto al suo viso fosse di chissà quale entità e non prodotta dal Leone stesso. Era stupido, credere che potesse davvero significare qualcosa. Era stupido, credere ai fantasmi. Non esistevano.

Keith fece scorrere le lacrime fino a quando il sonno non lo accolse di nuovo tra le sue braccia.

Shiro era morto. 

E lui era soltanto stanco.




 

  
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