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Autore: Zerbrechlich    10/09/2018    1 recensioni
«Dictus est autem Lucifer,
quia prae ceteros luxit suaeque
pulchritudinis consideratio
eum excaecavit.»

[18888 parole, il titolo della storia fa riferimento ad un quadro di Kandinskij]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: G-Dragon, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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[Fatti e personaggi potrebbero non essere conformi a realtà o volutamente modificati per esigenze di trama.]

 

Composizione VIII.

«Dictus est autem Lucifer,

quia prae ceteros luxit suaeque

pulchritudinis consideratio

eum excaecavit.»

 

 

Si stava chiedendo per la centesima volta che cosa stesse facendo in quel luogo, se lo era chiesto ad ogni passo che aveva fatto, se lo era chiesto quando era salita in macchina senza neanche passare a casa per cambiarsi, senza salutare neanche una fra le persone che l’avevano accompagnata a quell’evento per cui aveva tanto lavorato. Lei era più che consapevole di che giorno fosse quello, era più che consapevole che non sarebbe stato un giorno come gli altri.
Eppure, aveva ignorato quella sensazione di disagio che le si era piazzata a livello dello stomaco, come se questo potesse sapere che le cose che sarebbero successe non l’avrebbero resa felice.
Quella sensazione di instabilità l’aveva accompagnata per almeno qualche mese, l’aveva accompagnata alternata soltanto dall’incoscienza del sonno, l’unico reale momento delle sue giornate in cui non aveva dovuto confrontarsi con la paura di sentirsi impreparata ad una sua eventuale ricomparsa.
Quando pensava di essere andata ormai avanti, quando aveva quasi chiuso tutti i ricordi che lo riguardavano in un cassetto della sua mente che non aveva più intenzione di aprire, quando aveva quasi buttato la chiave arrendendosi alla consapevolezza che, probabilmente, la fine di quella relazione che avevano vissuto per così poco tempo e che aveva cambiato entrambi così profondamente era davvero l’unico modo in cui avrebbero potuto essere veramente felici; quando si era ormai arresa all’idea che fossero stati solo degli sciocchi a credere che avrebbe potuto durare, che sarebbero stati in grado di mettere da parte tutti i loro difetti per riuscire a costruire qualcosa che non puzzasse di fumo e non sapesse di cenere, quando si era ormai arresa all’evidenza della sua assenza, lui aveva deciso di ricomparire, con un singolo messaggio.
Non riusciva neanche a capire quanto ne fosse stata sorpresa e non riusciva a capire se quello che provava fosse un sentimento negativo o positivo. Non sapeva davvero che cosa avrebbe potuto volere da lei dopo il modo in cui si erano lasciati, dopo che si erano lasciati senza neanche essere mai stati realmente insieme. Per qualche tempo, aveva pensato fosse stato solo un sogno: in fondo, era stato così breve ed effimero da lasciarle in bocca l’amaro, come succede con i bei sogni, ed era stato così intenso ed intimo da lasciarle sul corpo il marchio, come succede con gli incubi.
Mentre aspettava l’ascensore che l’avrebbe portata all’interno dal parcheggio sotterraneo, si domandò se davvero avesse fatto la cosa giusta, se non avrebbe fatto meglio, per sé stessa, ad ignorare completamente la sua presenza, a continuare su quella che era stata una strada difficile da trovare ma almeno facile da mantenere. Tutti i suoi pensieri furono interrotti dall’arrivo dell’ascensore, fece un passo avanti, sentendo per la prima volta la difficoltà di doverlo vedere di nuovo quando le porte le si chiusero alle spalle; si poggiò con una mano sul metallo freddo che la circondava e si sentì instabile su quei tacchi che non aveva neanche pensato di cambiare.
Sarebbe stata più alta di lui, in quel modo.
Sorrise, pensando alla volta in cui ne avevano parlato e sentendosi ancora più instabile su quelle scarpe e fragile nei suoi vestiti.
Forse, non era stata una buona idea per davvero.
Lui le aveva detto chiaramente che non gli interessava niente dell’altezza e che, visti da una certa angolazione, erano tutti alti uguale. Lo aveva detto con quel sorriso furbo che aveva imparato a riconoscere quasi subito, guardandola di sbieco e facendola sentire in soggezione come riusciva a fare solo lui, come se fosse una bambina piccola che si sentiva in colpa per aver fatto qualcosa di male. Ma lei non era una bambina piccola e lui non era nessuno per incolparla di qualcosa.
Aveva lasciato l’evento a cui era andata non appena aveva ricevuto il messaggio, presa da una voglia di rivederlo che riusciva a spiegarsi solo se pensava che, più che condividere un letto, avevano condiviso due menti.
Quella era l’ultima data del suo tour europeo, ma oltre a questo non sapeva niente, perché aveva volutamente evitato di saperne di più.
Non aveva impiegato molto per arrivare da dove si trovava al luogo in cui Jiyong stava tenendo il concerto, non aveva impiegato molto perché aveva corso con la macchina e perché non c’era traffico quella sera, che era pur sempre un martedì sera qualunque, che di qualunque aveva ben poco per lei. Aveva corso, con il rischio di essere fermata da qualche pattuglia, per di più con indosso ancora le scarpe alte che non aveva proprio pensato a togliere prima di afferrare le chiavi dal suo manager e mettersi alla guida, senza neanche sprecarsi in spiegazioni su dove si stesse dileguando.
Controllò l’orologio da polso da cui si separava solo se strettamente necessario e notò che ora fosse proprio mentre le porte si aprivano, lasciandola di fronte ad un corridoio vuoto e nella più completa ignoranza di dove sarebbe dovuta andare. Si incamminò a passo veloce, dirigendosi a destra nel tentativo di capire quale fosse la direzione da cui la musica provenisse con più intensità.
Se doveva essere sincera, mentre camminava col sottofondo della musica interrotta soltanto dal rumore dei suoi tacchi sul pavimento liscio, stava trovando molto strana la totale assenza di poliziotti che tenessero sotto controllo la zona – che poteva significare solo una cosa, ovvero che aveva completamente sbagliato l’entrata.
Dopo aver meditato per qualche secondo sul da farsi e aver deciso di fare marcia indietro, consapevole che questo fosse probabilmente un segno del destino su quello che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio – ignorare il suo messaggio –, ripercorse la poca strada che aveva fatto, ritornando all’ascensore e scendendo di nuovo al piano meno uno per riprendere la macchina e dimenticarsi anche solo di quello che stava per fare.
Si passò più volte le mani fra i capelli, finendo col poggiarsi con la schiena contro l’ascensore, mentre quello scendeva, e riflettendo su quanto sarebbe stato dannoso anche solamente rivederlo. Ringraziando, in qualche modo, la sua incapacità di orientarsi, che le aveva impedito di fare qualcosa di cui poi sarebbe stato davvero troppo facile pentirsi.
Raggiunta la fine della corsa, scese dall’ascensore, borbottando qualcosa su quanto fosse sciocca ed ingenua, e non prestando attenzione ai suoi passi, fino a quando non andò a sbattere contro qualcuno. Si scusò, alzando lo sguardo per capire chi fosse finito là sotto, a quell’ora, oltre lei, e incontrò un paio di occhi scuri che l’avevano sempre rassicurata quando gli altri occhi scuri che le piacevano tanto non erano presenti.
«Tae…» borbottò, sorpresa, sorridendo come se stesse rivedendo un vecchio amico.
L’altro si inchinò, interrotto a metà del gesto da una mano della ragazza. «Lo sai che non c’è bisogno, io non sono coreana, non mi aspetto tutte queste cose e non mi sento a mio agio quando le fai.» Lo bloccò, riportandolo in posizione eretta e sorridendogli. Il manager di Jiyong parlava un inglese un po’ stentato ma riusciva a capirlo con una certa dimestichezza, dimestichezza che, spesso, mancava all’altro, quasi sempre troppo concentrato a capire quello che voleva capire e non quello che lei stava realmente cercando di dire. Non che l’inglese fosse la sua prima lingua, e così quando finivano a litigare era sempre la stessa storia: lei provava a spiegarsi, lui spesso fingeva di non capire alla ricerca di scuse che lei non gli doveva, e finivano col lanciarsi parolacce nelle rispettive lingue, nel tentativo di sfogare una rabbia dovuta all’incomprensione che aveva finito col lacerarli.
«GD sperava che tu venissi…» Furono le prime parole che le rivolse, facendole sparire il sorriso dal volto. «Sapeva che avresti avuto problemi ad entrare e mi ha chiesto di controllare e, nel caso fossi venuta davvero, di portarti da lui.»
«Io…» Lo disse con la voce spezzata, come se anche lei fosse combattuta su ciò che sarebbe stato giusto fare. Vedendo la sua indecisione, Taehee aggiunse:
«Il concerto è appena finito…»
«Io non so se…» …se fosse davvero giusto farsi una cosa del genere, dopo quanto aveva già sofferto. Niente di quello che aveva pensato uscì, però, dalle sue labbra. Annuì soltanto, aspettando che Taehee le facesse strada e seguendolo in silenzio, con l’impellente voglia di scappare man a mano che si avvicinavano al suo camerino.
Taehee bussò alla porta, infilando la testa e borbottando qualcosa in coreano che lei non capì, ferma a quelle poche basi che aveva imparato e che, poi, non aveva più dovuto utilizzare. Sentì qualcuno rispondere con un tono di voce troppo alto e non si sorprese che fosse agitato, le aveva sempre detto che i concerti lo lasciano svuotato e che tutti sapevano di doverlo lasciare da solo per almeno la mezz’ora successiva. Picchiettò la spalla di Taehee per evitare che si beccasse anche qualche sfuriata e gli fece capire di farsi da parte, ringraziandolo mentre lo oltrepassava e si chiudeva la porta alle spalle.
Ci mise un po’ per decidere di abbandonare la sicurezza della presa della maniglia e girarsi, smettendola di dargli le spalle. Non si aspettava di certo di trovarlo poggiato sul piccolo divano che c’era nella stanza, con un asciugamano intorno al collo e i capelli rossi.
In quei mesi, aveva fatto del suo meglio per impedirsi di cercare informazioni che lo riguardassero, però, non le era sfuggito né la pubblicazione del suo album né il fatto che il colore predominante fosse il rosso, e un po’ si era chiesta se quello che si erano detti avesse avuto una qualche influenza sui brani di cui si era categoricamente imposta di non sapere niente, nonostante sapesse comunque.
«Sei venuta…» si limitò a constatare, quasi sorpreso dalle sue spesse parole.
«Tu chiami, io arrivo, Ji. È sempre stato così…» Lo disse con una certa amarezza nella voce, andando ad accomodarsi sull’unica sedia della stanza. La spostò in maniera tale da posizionarla di fronte a lui, che se ne stava ancora con la schiena contro il divanetto e le gambe aperte, vestito come solo lui poteva vestirsi senza risultare ridicolo, e si sedette, accavallando le gambe in attesa di ascoltare quale fosse la ragione che l’aveva spinto a volerla vedere.
Ci fu un lungo momento di silenzio, mentre si osservavano come se si stessero studiando per capire quando attaccare e dove colpire per essere mortali. Jiyong cambiò improvvisamente posizione, asciugandosi la fronte con l’asciugamano che aveva intorno al collo per l’ultima volta, prima di lanciarlo sul tavolo su cui si trovavano tutti i trucchi e mettere i gomiti sulle cosce, riprendendo ad osservarla come se fosse la prima volta che la vedeva.
Lei non era la prima volta che lo vedeva, di certo, e si sorprese di come non fosse invecchiato di una virgola, mentre lei sentiva di aver messo almeno dieci anni in quei nove mesi. Visto da così vicino e col trucco colato non era così perfetto come cercavano di farlo passare nelle campagne pubblicitarie e, per qualche strana ragione, questo non faceva altro che ricordarle perché le era piaciuto così tanto e perché continuava a non esserle indifferente, anche quando, tra loro due, era già finito tutto.
«Mi sei mancata.»
Si limitò ad osservarla negli occhi, come se volesse leggerle nella mente, e lei si ritrovò a sperare che lo facesse, che riuscisse davvero a capire quello cui stava pensando, perché avrebbe solo desiderato ammazzarlo dopo una confessione del genere.
«Capisco, allora è questo il motivo per cui mi hai cercato così spesso in questi mesi. Perché ti sono mancata, ovvio.» Lo disse con il sarcasmo che le marcava l’accento, ma poco le interessava di avere una pronuncia perfetta quando si trattava di lui.
Poco le interessava di tutto, quando si trattava di lui.
Jiyong sorrise, trasformandosi completamente come gli succedeva ogni volta e come l’aveva sempre sconvolta: passava dall’essere questo uomo misterioso e un po’ altero ad essere rilassato e imbarazzato dal fatto che stesse ridendo. Una trasformazione che l’aveva sempre lasciata confusa ed irrimediabilmente attratta. Peccato che, quando litigavano, non fosse così e riuscisse perfettamente ad interpretare il suo ruolo di uomo altero e orgoglioso, portandola spesso a lasciare la stanza prima di passare a rompergli le cose in testa; per non parlare di quando era arrabbiato sul serio, anche in quel caso riusciva perfettamente a fare lo stronzo, finendo col dire cose che non pensava soltanto per allontanarla. Riuscendo, alla fine, a mandarla via definitivamente.
«La tua lingua mi è mancata più di quanto mi sia mancata tu, se devo essere sincero.» Rise e lei non riuscì a prendersela davvero, vedendolo sorridere in quel modo.
«Sì, la mia lingua ti è sempre piaciuta parecchio…» Si mise seduta dritta sulla sedia, portando le spalle in alto e sorridendogli nel modo che sapeva dargli sui nervi. Jiyong decise di lasciar correre, pensando di essersi meritato una tale risposta.
«Non mi dici niente sui capelli?» le chiese, accavallando le gambe e poggiando il braccio sinistro sul bracciolo del divanetto.
«Stai meglio con i tuoi capelli naturali.»
«Non mi dai mai soddisfazioni» scherzò, sentendo la tensione togliere spazio all’ossigeno che condividevano.
«In realtà, sembravi sempre molto soddisfatto, se non ricordo male…»
«Beatrice!» la chiamò, in tono di avvertimento, passandosi una mano fra i capelli.
Non era stato mai del tutto capace di dire il suo nome in maniera esatta, però lei si era sempre accontentata dello sforzo che metteva nel pronunciarlo e non le aveva mai dato fastidio, non quando poi lo sussurrava mentre facevano l’amore – amore? Ma lo era stato davvero?
«Te lo ricordi come ci siamo conosciuti?» Lo chiese con il sorriso sulle labbra, facendole sciogliere un po’ il nodo che le bloccava la gola.
«Certo che me lo ricordo.» Alzò gli occhi al cielo, pensando a come si fossero conosciuti casualmente in discoteca e a come lei non sapesse chi fosse quel ragazzo a cui aveva riso in faccia per il tatuaggio sul braccio.
«Tu eri ubriaca…»
«Leggermente ubriaca» lo corresse, sorridendo. «E tu sei un cretino che si fa i tatuaggi in altre lingue senza prima accertarsi che siano davvero giusti.» Si tolse le scarpe, portando i piedi sulla sedia e le ginocchia al petto.
«Prima di te, non me lo aveva mai detto nessuno.» rifletté, scompigliandosi i capelli in un gesto che aveva sempre avuto un certo effetto su di lei.
«Prima di me, una metà era spaventata dall’immagine del duro G-Dragon, l’altra metà non poteva capire l’errore, invece.»
Più parlavano e meno Beatrice sentiva la voglia di alzarsi da quella sedia per andare a casa, lasciando lui lì. In pochi minuti, le aveva ricordato che significava avere a che fare con lui e, soprattutto, le aveva ricordato perché, per quanto il loro rapporto fosse stato breve, l’avesse lasciata così destabilizzata, perché loro due erano sempre stati in grado di parlare di tutto e di dirsi tutto, discutendo di cose che spesso non avevano a che fare con nessuno dei due, e che, in qualche modo, riuscivano a diventare loro. Si erano detti così tante cose che, quando era finito tutto, le era sembrato quasi un tradimento sapere tutti quei particolari, tutte quelle riflessioni e quelle considerazioni personali quando non avrebbe più potuto condividerle con lui.
Questo le aveva fatto male, più di tutto: trovare una connessione mentale con qualcuno, soltanto per vederla distruggersi a causa della distanza, degli impegni e delle incomprensioni.
Jiyong la osservò di nuovo attentamente, sentendo un certo nervosismo nel dover pronunciare le parole che stava per dire. Si passò la lingua sulle labbra, per inumidirsele e per guadagnare un po’ di tempo prima di dover aprir bocca per parlare, e Beatrice si sentì mancare a quel gesto, perché era stato chiaro fin dalla prima volta che lei fosse sempre stata esageratamente attratta da lui.
«Forse, dovrei ringraziarti…» Si passò una mano fra i capelli e sul collo, assumendo quell’espressione imbarazzata che, invece di renderlo sciocco, glielo aveva sempre reso più umano e più vicino.
«Per cosa?»
Improvvisamente, anche la poca distanza che c’era fra di loro e che prima non avrebbe mai voluto veder diminuire, le stava sembrando infinita, come le era sempre sembrato infinito il tempo che passava con lui e infinitamente lungo il tempo in cui erano lontani. Decise, quindi, di alzarsi, sotto il suo sguardo sempre vigile, e mettersi seduta al suo fianco, con la schiena contro l’altro bracciolo del divano. Per lui, fu quasi automatico portare una mano sopra il suo ginocchio quando Beatrice allungò i piedi sotto le sue gambe.
Visto di profilo, non sembrava così spensierato e lei sapeva che non lo era mai stato davvero.
Forse, si era sbagliata all’inizio, forse, anche lei aveva visto solo quello che aveva voluto vedere, perché, adesso, improvvisamente, le sembrava che anche lui avesse guadagnato degli anni in anticipo in quei mesi. O, forse, li guadagnava da prima e, adesso, erano diventati soltanto più evidenti.
«Stai bene, Ji?» Glielo chiese perché lui le aveva sempre fatto lo stesso effetto: poteva essere arrabbiata come e quanto voleva, ma vederlo perso nei suoi pensieri, con quell’aria nostalgica e con quell’espressione stanca, le aveva sempre messo addosso un vuoto che non si sapeva spiegare. Quando sorrideva, sembrava emanare una luce da dentro che riusciva ad accecare ed attrarre allo stesso tempo, lasciando chi lo circondava confuso e bruciato da quell’interazione troppo breve e troppo inaspettata. Non ottenendo risposta, decise di cambiare domanda.
«C’è qualche motivo particolare per cui hai voluto vedermi?» Lo chiese con delicatezza, sapendo quanto fosse facile farlo sentire in gabbia e come lui avesse così tanta paura di sentircisi da reagire in maniera brusca anche quando non ce ne sarebbe stato motivo.
Jiyong sospirò, prendendo ad accarezzarle distrattamente il ginocchio. «Lo hai sentito l’album?» le domandò, girandosi a guardarla e poggiando la nuca contro lo schienale del divano. Lei quasi si sentì in colpa a scuotere la testa in segno di diniego, come troppo spesso si era sentita in colpa senza un reale motivo quando stava con lui.
«Immaginavo» sospirò, stringendole il ginocchio.
«Ti aspettavi che lo sentissi?»
«Ci speravo, più che altro.»
«Le conosco comunque quasi tutte, ne parlavamo spesso…» tentò di giustificarsi, nonostante non dovesse farlo.
Avevano parlato di così tante cose che, spesso, si sorprendeva quando pensava che ancora se le ricordava tutte. Quando si erano incontrati, lui aveva da poco finito il tour con il suo gruppo e si trovava a Milano per la settimana della moda, cui spesso veniva invitato da quanto aveva capito quando l’aveva conosciuto un po’ di più. Beatrice si trovava a Milano casualmente: arrivata giusto il giorno prima, era uscita quella sera spinta da una sua amica che voleva farle sperimentare la vita mondana milanese prima che tornasse a Roma.
Non aveva la più pallida idea né di chi fosse lui né di come fosse finita a dirgli che il tatuaggio che aveva sull’avambraccio destro era sbagliato. Si ricordava perfettamente come lui l’avesse guardata dall’alto in basso, con le dita aggrappate attorno al collo di una bottiglia di birra e una sigaretta spenta fra le labbra. Quando lei, poi, aveva aggiunto che non si poteva fumare dentro al locale, lui l’aveva guardata divertito e le si era avvicinato chiedendole se volesse andare a fumare fuori con lui, in modo da spiegargli anche che c’era di sbagliato nel suo tatuaggio.
Quando ci ripensava, Beatrice non riusciva ancora a spiegarsi che le fosse preso: nonostante l’alcool in circolo, non le era mai successo di aggredire le persone, per di più sconosciuti, in quel modo e sicuramente non era così ubriaca da credere che fosse sensato seguire uno sconosciuto da qualsiasi parte che non includesse un posto affollato e tanta luce; eppure lo aveva fatto, seguendolo fuori e guardandolo camminare con quell’andatura quasi a rallentatore e col passo cadenzato, con la sicurezza di chi sa che la gente lo seguirà indipendentemente. Quella stessa sicurezza con cui le aveva risposto e che sembrava circondarlo come una seconda pelle, che un po’ l’aveva infastidita all’inizio e, quasi sicuramente, era stata il motivo per cui le era piaciuto da subito. Quel latente fastidio l’aveva provato anche Jiyong a sentirsi dire da una perfetta sconosciuta che il tatuaggio, cui teneva tanto, era sbagliato e, più per sfida che per reale interesse, aveva deciso di ribaltare la situazione a suo favore.
 
***
 
Uscirono fuori e l’aria fresca fece bene ad entrambi.
Beatrice si riprese un po’ dal frastuono della musica alta e dalla sensazione di leggerezza che le dava l’alcool, ritornando con i piedi per terra e prendendo ad osservare il ragazzo che le stava di fronte. Non riusciva a dargli un’età precisa e questo la preoccupava, era poco più alto di lei ed era vestito in maniera oscena, le sembrava che fosse leggermente truccato e, quando afferrò il clipper per accendersi la sigaretta, notò che aveva lo smalto nero tutto mangiucchiato sulle unghie. Per un po’ si chiese chi cavolo fosse e cosa ci facesse lei lì fuori, poi si perse ad osservarlo fumare, nel modo che, successivamente, avrebbe sempre associato a lui: quando portava la sigaretta alle labbra lo faceva posizionandola fra l’indice e il medio e la lasciava lì, quando la riprendeva per espirare il fumo lo faceva usando l’indice e il pollice, come faceva lei quando era più piccola e le era capitato di fumare in gruppo qualche sera. Lo faceva con un’aria così smaliziata e rilassata, osservandola con gli occhi un po’ socchiusi e il mento sollevato, che lei finì per domandarsi illogicamente se quella che stesse fumando fosse davvero una sigaretta e non altro.
«Che c’è di sbagliato nel mio tatuaggio, quindi?» Espirò il fumo dalle narici, appoggiandosi con una spalla ad un lampione lì vicino.
Beatrice ci mise un po’ per capire che le avesse parlato, un po’ per capire le parole che le aveva detto e un po’ per riuscire a pensare ad una risposta che fosse sensata e non la facesse apparire come si sentiva, ovvero tendenzialmente ammaliata dal modo in cui la stava osservando.
«Dovrebbe essere dolce vita, non vita dolce. In realtà, non è neanche sbagliato, ma non suona bene se lo dico come l’hai scritto…» Si strinse nelle spalle, portandosi le braccia al petto, essendo uscita con il vestito sbracciato che aveva messo per quella sera e senza il giacchetto, e continuando ad osservarlo con interesse.
Non riusciva davvero a collocarlo in nessun modo e questo la infastidiva: non era sicura di dove fosse, non sapeva cosa ci facesse a Milano, non conosceva neanche il suo nome e, per di più, lo aveva avvicinato lei senza un motivo preciso. Ben presto, Beatrice avrebbe capito che, quando si trattava di Jiyong, avrebbe fatto bene a non farsi domande che lo avrebbero infastidito, a non cercare risposte che lo avrebbero fatto sentire in gabbia e a non provare a forzarlo a dirle niente, ottenendo come unico risultato il suo allontanamento.
«Cosa ti fa pensare che io non l’abbia voluto scritto proprio così?»
«L’hai fatto scrivere tu così?»
Il ragazzo scosse la testa, confermando ciò che Beatrice pensava. «Beh, allora ho ragione io.»
Il sorriso che le era nato involontariamente sulle labbra come segno di vittoria, le si spense in fretta nel momento in cui Jiyong le si avvicinò, facendola indietreggiare contro il muro del locale e impedendole di vedere la luce del lampione. Le espirò l’ultima boccata di fumo al lato della faccia, lasciandola libera di non inspirarlo se non avesse voluto, e spense la cicca strofinandola sul muro accanto alla sua mano. Mentre continuava a fissarla, Beatrice vide con la coda dell’occhio le sue dita che la lanciavano a qualche metro di distanza, completamente a disagio per la situazione in cui si trovavano, ma stranamente ed incoscientemente per niente spaventava.
Jiyong le portò la mano destra a fianco alla testa, appoggiandola al muro, e avvicinò la bocca al suo orecchio destro, facendola finire ancora più schiacciata contro il muro, divertito dall’imbarazzo che le leggeva negli occhi.
«Aiutami, ti va?» le chiese, sussurrando contro la sua guancia. «Non riesco a capire se stai facendo di tutto per attirare la mia attenzione o se sei una di quelle persone che deve sempre aprire la bocca anche quando a nessuno interessa quello che hanno da dire?»
Beatrice non registrò subito le parole, troppo confusa da quell’eccessiva vicinanza e troppo concentrata sul tono che aveva usato piuttosto che su ciò che aveva detto. Quando il suo cervello decise di uscire dalla trance in cui si era per un attimo perso, la ragazza voltò di scatto la testa in direzione di Jiyong, sentendosi punta nell’orgoglio.
«Prego?» Lo domandò praticamente sulle sue labbra, guardandolo come se l’avesse insultata. «Neanche ti conosco, perché dovrei preoccuparmi di quello che pensi?»
Si fissarono negli occhi per qualche secondo, senza parlare.
Nello sguardo di Jiyong passò un lampo di consapevolezza, sostituito quasi immediatamente dalla sua solita espressione un po’ arrogante.
«Non mi conosci, eh?»
«Dovrei?» Beatrice ribatté confusa, iniziando a pensare di aver avvicinato qualcuno che non avrebbe dovuto.
«Come ti chiami?»
«Beatrice» rispose, senza neanche pensarci due volte, da incosciente com’era diventata quella sera.
«È diverso, mi piace» approvò, come se a lei dovesse interessare qualcosa se lui non avesse apprezzato il suo nome. «Vuoi bere qualcosa con me, Beatrice?»
Il modo in cui disse il suo nome la sorprese non poco, aspettandosi una pronuncia terribile. Non riuscì a fare altro che annuire mentre lui le metteva un braccio intorno alle spalle e la trascinava di nuovo all’interno del locale. Avrebbe dovuto capirlo dal primo momento che Jiyong avrebbe continuato a fare cose che l’avrebbero sorpresa, sia nel bene che nel male.
 
***
 
«Ancora hai questa brutta abitudine di isolarti nella tua mente?» le domandò improvvisamente Jiyong, riportandola sul divanetto su cui si trovava.
Beatrice non rispose, passandosi una mano fra i capelli e poggiando i gomiti sul bracciolo cui si trovava appoggiata.
«Neanche te lo chiedo a cosa stessi pensando,» continuò, con un sorrisetto sulle labbra, «dall’espressione che avevi era abbastanza chiaro…»
«Prego?» scandì ogni singola sillaba, guardandolo con aria di sfida.
«Stavi sicuramente pensando a noi due, a come ero bravo a letto, a quanto ti manca fare sesso con me…» scherzò, facendola ridere.
«Sei proprio un cretino…» borbottò, colpendolo sul petto. Era sempre stato così magro che, le prime volte, lei aveva avuto quasi paura di fargli male se lo avesse toccato in modo troppo sgarbato.
Jiyong le afferrò la mano con cui lo aveva colpito e intrecciò le dita con le sue, spegnendo immediatamente l’ilarità che c’era nell’aria.
«Ji, che fai?» gli domandò, sconfitta dall’evidenza di non voler togliere la mano dalla sua. Indipendente dalla sua volontà, il suo pollice prese a disegnare cerchi sul piccolo tatuaggio che aveva sul dorso della mano e Jiyong la guardò come se gli fosse mancato quel contatto.
Quando gli aveva chiesto il significato di quel tatuaggio, insieme al significato di tutti gli altri, durante quello che probabilmente era stato il giorno più lungo della sua vita, lui le aveva fatto una smorfia, indeciso se fidarsi o meno, e poi aveva sorriso, come se stesse guardando una bambina troppo curiosa. In fondo, lei lo era davvero, una bambina, rispetto a lui, solo anagraficamente, però, perché, fra i due, quello che sembrava più giovane era sicuramente lui.
In realtà, Beatrice ancora si sorprendeva che le avesse parlato così apertamente e tranquillamente dei motivi che si nascondevano sotto i suoi tatuaggi, dopo una sola notte passata insieme e più baci che parole condivise. Alcuni tatuaggi che si era fatto non avevano un significato profondo – come la sfera di Dragon Ball che aveva sulla spalla sinistra e che l’aveva fatta ridere –, altri, invece, avevano un significato forse anche troppo profondo per essere condiviso con lei che, in fin dei conti, era solo una sconosciuta con cui aveva fatto sesso un paio di volte in una notte.
Neanche Jiyong sapeva che cosa lo avesse posseduto quella mattina: quando lei l’aveva guardato realmente interessata al significato dei tatuaggi che aveva accarezzato tutta la notte precedente, lui non aveva trovato né la forza né la voglia di dirle che erano cose private e che non avrebbe dovuto chiedere, perché si era riscoperto improvvisamente ed insensatamente desideroso di dirle tutto, di condividere tutti i suoi pensieri con qualcuno la cui opinione, in quanto sconosciuto, non avrebbe dovuto preoccuparlo.
 
***
 
E così, mentre lei lo guardava seduta con le gambe incrociate sul materasso e con indosso solo la sua maglietta bianca della sera precedente che le lasciava intravedere il profilo del seno, lui iniziò a parlare, partendo dall’inizio e proseguendo in ordine cronologico. Beatrice rimase incantata mentre lo ascoltava parlare dei suoi primi tatuaggi e di come, con il passare degli anni, avessero assunto un significato e un peso emozionale leggermente diverso da quello che avevano avuto all’inizio; tenne a ripetere più volte che non si pentiva di nessuno dei tatuaggi che aveva, alcuni semplicemente non lo rappresentavano più come un tempo, rimanendo pur sempre cose che pensava.
C’erano, poi, dei tatuaggi che aveva fatto per quella che era stata la sua ragazza per così tanto tempo che, quando si erano definitivamente lasciati, dopo un tira e molla che lo aveva sfiancato mentalmente, per un po’ non aveva saputo più che fare della sua vita, senza la consapevolezza della sua presenza costante, anche quando avrebbe fatto meglio a non restargli accanto. Beatrice si strinse nelle spalle, non sapendo cosa dire né se fosse giusto che lei dicesse qualcosa, limitandosi a rimanere in silenzio.
Jiyong riprese a parlare dopo un po’, forse troppo perso nei dettagli di quella che doveva essere stata una persona veramente importante per portarlo a farsi dei tatuaggi di cui, anche dopo che si erano lasciati, lui non si pentiva. Con un gesto della mano, le fece capire di doversi avvicinare e lei gli si posizionò a fianco, un po’ incerta di quello che si sarebbe aspettato che facesse; quando lui le passò un braccio intorno alla vita e le fece intendere di doverglisi mettere a cavalcioni, lei si lasciò trascinare su di lui, abbandonando le braccia in grembo, un po’ a disagio nonostante non fosse certo la prima volta che si trovava in quella posizione – soltanto che la presenza della luce che filtrava dalla finestra della sua camera d’albergo rendeva tutto più reale, mentre le cose che erano successe la notte prima potevano benissimo essere scambiate per dei sogni, il buio, in fondo, riusciva a celare tutto.
Jiyong si sistemò meglio contro lo schienale del letto e poggiò le mani sulle cosce nude della ragazza, accarezzandole dal basso verso l’alto e notando la pelle d’oca che le si formava.
«Come vedi, ho la mia data di nascita tatuata sulla spalla sinistra e, prima che tu dica che è sbagliata, sappi che l’ho voluta io così, perché il numero otto mi sta particolarmente a cuore.» Beatrice alzò le mani in segno di resa, cercando di mantenere un’espressione seria mentre pensava che, se non lo avesse detto prima lui, avrebbe probabilmente avuto da ridire anche su quel tatuaggio. «Sei incredibile, sai?» scherzò, poggiandole le mani sui fianchi e tirandola bruscamente sopra il suo bacino; Beatrice dovette appoggiarsi allo schienale con entrambe le mani per evitare di perdere l’equilibrio e rovinargli completamente addosso. Le afferrò il mento con una mano e la costrinse a guardarlo negli occhi, mentre lei sentiva la sua erezione contro l’interno coscia. «Avresti avuto la faccia tosta di insultarmi un altro tatuaggio…»
Lo sussurrò sulle sue labbra, mordendole quello inferiore per poi baciarla a stampo e lasciarla andare di botto, molto più confusa e accaldata di prima.
La ragazza tornò a sedersi sulle sue cosce, guardandolo sbigottita, incapace di metabolizzare ciò che era successo così in fretta.
«Un paio di anni fa,» riprese a parlare, sospirando, «non stavo passando un bel periodo. Con la ragazza che ti dicevo non andava benissimo, il lavoro che faccio mi ha sempre messo troppe pressioni addosso e troppe restrizioni ed ero arrivato a non stare bene né con me stesso né con gli altri che mi circondavano e che tentavano di aiutarmi…»
Non entrò nei dettagli e lei non chiese per non essere inopportuna, soltanto quando lui sarebbe ritornato in Corea, Beatrice avrebbe scoperto con chi aveva passato due giorni a stretto contatto, grazie ad una semplice ricerca su Internet, finendo per chiamarlo solo per urlargli contro che era stato un incosciente e che avrebbe fatto meglio a cancellare il suo numero, visto che tanto non aveva fatto altro che omettere la verità. Naturalmente, lei, il suo, non era riuscita ad eliminarlo e neanche Jiyong aveva trovato la forza per scordarsi quelle quarantotto ore surreali come se non fossero mai esistite, come se non avesse condiviso niente con lei.
La risoluzione di non cercarsi era durata una settimana e, sorprendentemente, era stato lui il primo a dare bandiera bianca, chiamandola una sera mentre lì era notte inoltrata. Avevano parlato per quasi un’ora e non si erano detti niente che potesse inquadrare meglio la situazione in cui si stavano infilando senza neanche volerlo; e così era poi sempre stato: non erano mai stati ufficialmente insieme, nessuno, che non fosse il suo manager o quelli che poi aveva conosciuto come membri del gruppo di cui Jiyong faceva parte quando era andata a trovarlo in Corea, sapeva della sua esistenza, eppure loro, insieme, lo erano stati per quasi un anno. Alla fine, avevano finito per lasciarsi quando le evidenti difficoltà che aveva Jiyong a legarsi erano venute a galla, facendo riflettere Beatrice sull’eventualità che sarebbe potuto finire tutto male, facendola riflettere sull’enorme distanza che li separava e facendole decidere di chiedergli una pausa che lui, orgoglioso com’era, non aveva accettato, costringendola praticamente a lasciarlo, dopo aver farcito il tutto con un tono di voce esageratamente alto da entrambe le parti e con frasi che era sicura che lui non pensava ma che l’avevano ferita perché, nonostante tutto, lui aveva avuto lo stesso la faccia tosta di dire.
«Non stavo troppo bene ed avevo bisogno di qualcosa da poter guardare giornalmente che mi ricordasse che non dovevo incastrarmi nei miei pensieri e che quello che mi diceva la mia testa non era la realtà. Avevo bisogno di qualcosa che mi ricordasse che ero circondato da persone che mi volevano bene, che non ero solo…» Prese a giocare con il colletto della maglietta che aveva indosso lei, abbassando lo sguardo sulla sua mano sinistra e sorridendo amaramente. «La mano l’avevo sempre sotto gli occhi…» Rilassò le dita, aprendo il palmo e osservando la piccola faccina che aveva tatuata sul dorso, fra il pollice e l’indice. «Questa faccina mi sorride tutti i giorni quando la guardo e mi ricorda che va tutto bene, anche quando non va bene niente. E, poi, mi divertiva il fatto di poterla sostituire alla mia bocca…» Chiuse le dita della mano come se volesse fare una pistola e poi si portò la mano sulle labbra, capovolgendo la faccina e facendola ridere. Senza pensarci, Beatrice si avvicinò e gli lasciò un bacio proprio sul tatuaggio, allontanandosi quasi imbarazzata per quel gesto spontaneo. Jiyong abbassò la mano lentamente, guardandola negli occhi con una decisione che la spaventò; la afferrò dietro la nuca e la trascinò sulle sue labbra, baciandola con una lentezza e un’intensità che la lasciarono senza fiato.
Beatrice si aggrappò alle sue spalle, avvicinandosi istintivamente al suo petto con il seno e accarezzandogli i capelli in punta di dita, mentre si esploravano le bocche vicendevolmente. Le mani di Jiyong scesero dai suoi capelli alla sua schiena, stropicciando e sollevando il cotone bianco della sua maglietta, mentre lei gli passava le braccia intorno al collo e gli accarezzava la nuca, dove c’era un altro tatuaggio che aveva intravisto e che gli rendeva la pelle diversa al tatto, non riusciva di preciso a collocare la sensazione che le dava toccarla ma sembrava quasi di stare sfiorando del velluto.
Beatrice si staccò dalle sue labbra, ottenendo un sospiro di dissenso dal ragazzo, troppo curiosa di sapere la storia del resto dei suoi tatuaggi.
«E questo qui dietro… Qual è il suo significato?» domandò, continuando a carezzargli la nuca.
Jiyong sospirò per l’ennesima volta, alzando gli occhi al cielo e scuotendo la testa.
«La faccina…» espirò, poggiando la fronte nell’incavo del suo collo e parlandole contro la pelle sensibile della mascella, facendola muovere agitata contro il suo bacino nel tentativo combinato di allontanarsi dalle sue labbra, che le provocavano la pelle d’oca strusciando in quel modo mentre parlava tranquillo, e di avvicinarsi, per continuare a sentirlo sempre più vicino. «La faccina, evidentemente, non è stata abbastanza o, forse, non è stata abbastanza la mia voglia di stare bene perché, dopo, è diventato sempre più difficile non dare ascolto a quello che mi diceva la mia testa, diventava sempre più difficile non pensare di essere completamente da solo. Ho iniziato ad avere ansia da prestazione per qualsiasi cosa facessi, sentivo gli occhi di tutti addosso e, a volte, riuscivo perfino a sentirli giudicarmi; l’unico modo in cui riuscivo a calmarmi era inspirando ed espirando e ripetendomi che era tutto nella mia testa, ma era sempre più difficile ricordarsi di respirare quando non riuscivo neanche a pensare che ci potesse essere una via d’uscita da quello che provavo. Ho chiesto aiuto perché mi sono accorto di non poterne uscire da solo e una delle prime cose che mi ha detto il dottore riguardava proprio la respirazione. Mi ha aiutato a dimenticare l’esterno, concentrandomi su quello che provavo e sul mio battito, mentre inspiravo ed espiravo, per tentare di riottenere il controllo sulla mia mente quando questa sembrava volermi sfuggire. L’unico modo in cui riuscivo a farlo era accovacciandomi in avanti, così ho deciso di tatuarmi sulla parte alta delle cosce inhale ed exhale, in modo che mi ricordassi sempre di respirare. Respirare è davvero la cosa più importante del mondo: non respirare equivale a non riuscire a pensare e non pensare equivale a non poter vivere. Per un po’, credo di aver dimenticato come si facesse a respirare e, di conseguenza, credo di aver dimenticato anche come si viveva.»
Beatrice non disse niente mentre lui sussurrava quelle parole come una confessione contro la sua pelle, sentì il cuore stringersi nel petto e si domandò, per la seconda volta, cosa ci facesse ancora con lui, in quelle condizioni.
«Non è stato facile imparare di nuovo a respirare,» continuò, «però, quando ho pensato di stare abbastanza bene e di essere tornato me stesso ho deciso di fare il tatuaggio che ho dietro la nuca. Il punto è che, una volta che ti sei perso, è sempre troppo facile perderti di nuovo e così, anche adesso che sto bene, ci sono volte in cui devo ricordarmi come si respira. Ho vissuto così tanti anni all’ombra dell’identità che mi ero creato che credo di aver dimenticato chi fossi io, io senza tutti gli occhi del mondo addosso. Ci sto lavorando su chi sono…»
Quelle parole non avevano molto senso alle orecchie di Beatrice ma non si arrischiò a chiedere, pensando che, se avesse voluto approfondire, l’avrebbe fatto lui. «Ti sto raccontando tutte queste cose e non ne so neanche una di te…» rifletté, afferrandole il viso fra le mani. Lei non riuscì a parlare e lui dovette compensare il silenzio di entrambi ancora una volta.
«Secondo te, che vuol dire il mio tatuaggio?» Le chiese la sua opinione con un’aria vagamente di sfida, con la volontà, forse, di capire se lei riuscisse a stare al suo passo.
Beatrice accettò la sfida con il sorriso sulle labbra, alzandosi sul materasso e facendogli segno di farsi avanti in modo che potesse posizionarglisi alle spalle ed osservare bene il disegno.
Si sedette, stendendo le gambe ai suoi lati, e Jiyong si lasciò andare contro il suo petto mentre lei passava le dita sul tatuaggio: che fosse un angelo non c’erano dubbi, aveva le ali spiegate e una gamba sollevata, mentre la testa era molto più chiara del resto ed era circondata da una specie di aureola, altrettanto chiara. Un po’ per il suo nome – per Dante –, un po’ per la sua passione per la Letteratura in tutte le sue forme, Beatrice aveva sempre provato un certo fascino per la Bibbia e per le sue interpretazioni, non riuscendo mai, però, a provare lo stesso fascino per la religione.
«Ho due ipotesi…» si schiarì la voce, poggiandogli il mento sopra la spalla e parlandogli direttamente nell’orecchio, mentre gli chiudeva le braccia intorno al busto, in una specie di abbraccio. «Riguardano entrambe due angeli e, devo ammettere, che una mi affascina più dell’altra ma credo non sia quella la risposta.»
Jiyong si voltò sorpreso, forse aspettandosi di essere andato a letto con un’ignorante.
«Spara.» si limitò a dire, tornando a poggiare la nuca contro la spalla della ragazza mentre si faceva cullare dal movimento tranquillo del suo seno.
«Sono abbastanza sicura che si tratti o dell’Arcangelo Michele o di Lucifero.» Fece risalire una mano dal suo addome, lungo il suo braccio, fino ad arrivare alla spalla e ad immergerla nei suoi capelli neri; mentre parlava prese a passargli le labbra sul collo e sulla guancia sinistra, lasciando a tratti dei piccoli baci. «Dalla posizione vittoriosa e dal modo regale con cui è tatuato, sono più propensa per Michele, ma la storia di Lucifero mi è sempre piaciuta di più. Vuoi perché da adolescente pensavo davvero che fosse meglio regnare all’Inferno che servire in Paradiso, vuoi perché Lucifero non ha mai rappresentato la perfezione angelica, ma sempre l’imperfezione umana, quindi, pur non volendo, è sempre stato più abile ad attirare la mia attenzione e la mia compassione, come se riuscissi a giustificarlo per ciò che aveva fatto e a scagionarlo dalle sue colpe. Errare è umano, dicono, eppure lui era stato un angelo, quindi l’errore non poteva davvero concepirlo, ed era stato, fra tutti, il più bello e il più amato da Dio, ma, per colpa della sua superbia, era stato costretto a perdere tutto per trasformarsi nel Male assoluto. Di cosa mi sorprendo, in fondo? Non è forse il male che attrae sempre? Michele, condottiero delle schiere angeliche e quintessenza di tutto ciò che era angelico, è sempre stato troppo lontano dall’imperfezione in cui mi rivedevo e troppo vicino alla perfezione che mi perseguitava per riuscire davvero ad interessarmi. Quando analizzavo la Divina Commedia a scuola, c’era una frase in latino che mi aveva colpito molto… Non ricordo il latino, ma ricordo vagamente la traduzione: era qualcosa che aveva a che fare con la figura di Lucifero e che parlava di come fosse stato chiamato così perché, fra tutti, era il più splendente ma la considerazione della sua bellezza aveva finito per accecarlo.»
Quando smise di parlare, impiegò qualche secondo per rendersi conto dello sguardo sorpreso di Jiyong, che la osservava come se avesse appena avuto un’illuminazione. Beatrice abbassò gli occhi, imbarazzata, e tornò ad accucciarsi nell’incavo del suo collo.
«Questo è certamente Michele, ma tu, Jiyong, chi sei? Chi sconfigge il Male o chi viene sconfitto dal Bene?» Era la prima volta che pronunciava il suo nome da quando glielo aveva detto al terzo drink che le aveva offerto. «Tu sei Michele o Lucifero?»
Jiyong pensò che era la prima volta che qualcuno gli faceva una domanda simile e si ritrovò a pensare a tutti i motivi che si nascondevano dietro quel tatuaggio, all’incapacità di riconoscersi in quello che si era costruito intorno e alla difficoltà di capire se fosse rimasto qualcosa di lui, che fosse soltanto suo e non anche del pubblico. Non riuscì a rispondere alla domanda che lei gli aveva fatto, non a voce almeno, ma riuscì perfettamente ad ammettere a sé stesso di non essere più in grado di vivere come G-Dragon, sacrificando Jiyong, giungendo alla conclusione di non essere né Michele né Lucifero, ma entrambi, perché, come Michele, combatteva giornalmente per riuscire a stare bene e, come Lucifero, era ormai imperfetto e non avrebbe avuto più senso aspirare ad una perfezione apparente e fredda quando poteva imparare a governare il suo caos.
Beatrice neanche si accorse di non aver ottenuto una risposta, quando sentì le labbra di Jiyong premere contro le sue con insistenza, strappandole un gemito che gli permise di baciarla come voleva fare da quando aveva smesso di parlare. Non sapeva neanche lui cosa gli fosse preso improvvisamente, sapeva soltanto che, così com’era, lei era troppo vestita e troppo distante e troppo fredda, mentre lui voleva sentirla nuda, vicina e calda, perché si era sentito troppo esposto quando lei lo aveva inquadrato con una sola frase, senza neanche conoscerlo davvero, e voleva soltanto riuscire a perdersi dentro di lei, per poi, forse, imparare a trovarsi anche.
«Fai l’amore con me…» le sussurrò sulla guancia, mentre entrambi ansimavano alla ricerca di aria dopo quello che era probabilmente stato il bacio più lungo della loro vita.
Jiyong non riuscì a trattenersi dal dire quelle parole che spaventarono la parte più razionale di Beatrice, mentre l’altra sua parte, molto più piccola e incosciente e istintiva, capì subito che l’amore di cui parlava lui non era davvero amore, ma non era neanche sesso e non sarebbe stato giusto sminuirlo in quel modo, quando ciò che stavano vivendo era surreale, come se si fossero scontrati soltanto perché poi potessero incontrarsi mentalmente, riconoscendosi in un modo che nessuno dei due aveva preventivato.
Jiyong si girò completamente, facendola stendere e schiacciandola sotto il suo corpo, mentre con una mano le accarezzava la pancia e saliva, portandosi dietro la stoffa della sua maglietta, fino a toglierla completamente. Così nuda e sensibile, l’avrebbe voluta sempre e quei pensieri che non riusciva ad impedirsi di fare lo spaventavano e lo eccitavano allo stesso tempo, perché, in fondo, l’aveva conosciuta soltanto la notte prima e c’erano tantissime cose che lei ancora ignorava della sua persona, ma era riuscita a capire, in meno di ventiquattro ore, quello che bastava per colpirlo e non poteva fare a meno di pensare cosa sarebbe stata in grado di capire con più tempo.
Beatrice gli legò le gambe intorno al bacino mentre lui oscillava avanti ed indietro e, per miracolo, riuscì a ricordargli del preservativo, che indossò in un attimo, affondandole dentro mentre la osservava dall’alto con quegli occhi scuri che sembravano volerle scavare dentro. Le passò un braccio sotto la testa, tirandola in alto mentre con la lingua le disegnava l’angolo della mandibola, e lei si aggrappò alle sue spalle perché quella era forse una delle posizioni più scomode che avesse mai assunto in vita sua, ma non le importava quando lui la guardava come se stesse facendo alla sua mente quello che stava facendo al suo corpo. Quando sentì di essere arrivata al culmine, si portò la mano destra alla bocca, affondando i denti nella pelle perché non le era mai piaciuto essere troppo rumorosa; Jiyong gliela spostò, bloccandole il polso sul materasso e continuando a spingere fino a quando non ottenne un gemito strozzato e la sentì contrarsi spasmodicamente intorno alla sua intimità, lasciandosi andare contro il suo corpo.
Beatrice tornò alla realtà dopo qualche minuto, sentendosi spossata come mai le era capitato. Jiyong le stava ancora addosso, il suo respiro tranquillo le accarezzava l’incavo del collo e a lei quasi dispiacque doverlo far spostare per andare in bagno. Scuotendogli la testa, tutto quello che ottenne fu un mugugno e una smorfia che la fece ridacchiare e che fece apparire lui ancora più giovane di quello che già sembrava.
«Ji, dai, spostati, devo andare in bagno!»
Senza volerlo, quella fu la prima volta che lo chiamò come avrebbe imparato a chiamarlo sempre, prima di sapere dell’esistenza di G-Dragon, prima di usare il suo nome intero quando era arrabbiata o era estremamente seria in quello che stava dicendo, prima di sapere che quello non era neanche un vero e proprio diminutivo in coreano e che, a lui, andava bene soltanto finché era lei a dirlo.
«Rimani qui, dopo andrai in bagno…» borbottò, scivolandole da dosso ma non lasciandola andare.
«Sei proprio un bambino.»
«Sshh» Le poggiò un dito sulle labbra e, poi, le posò la mano sugli occhi, facendole capire che avrebbe dovuto dormire. Beatrice alzò gli occhi al cielo, sorprendendosi quando lui le si avvicinò per rubarle un altro bacio prima di mettersi nella sua parte di letto e crollare addormentato.
 
***
 
«Non è vero che le conosci tutte le canzoni dell’album…» Le strinse le dita, non rispondendo per l’ennesima volta alla sua domanda.
Jiyong non le aveva mai risposto direttamente e con parole chiare e lei aveva capito subito che forzarlo non sarebbe servito a niente, quindi aveva imparato ad aspettare i suoi tempi.
Beatrice sospirò, arrendendosi a quella morsa allo stomaco che sentiva soltanto guardandolo e sapendo che non avrebbe più fatto parte della sua vita, non come lei voleva vederlo farne parte.
«Come le hai sistemate, alla fine?» domandò, stringendosi nelle spalle e contro il bracciolo del piccolo divano.
Avevano passato intere giornate a parlare di quello che sarebbe stato il suo album, del significato che lui gli attribuiva e di quanto fosse personale, così personale che, per un po’, aveva anche pensato di non farlo uscire.
Jiyong sorrise, voltandosi a guardarla come se non avesse potuto fargli domanda più bella. Beatrice alzò gli occhi al cielo, cercando di impedirsi di sorridere a sua volta mentre lo osservava.
«Aspetta,» lo interruppe ancora prima che aprisse la bocca per parlare, «hai aggiunto qualche canzone rispetto alle quattro di cui avevamo parlato?»
Lui annuì e lei capì perché le avesse detto di non conoscerle tutte.
«Quante?»
«Solo l’outro.» si limitò a dire, stringendosi nelle spalle.
Beatrice si alzò dalla sua posizione, afferrando la borsa che aveva lasciato sulla sedia e rovistandovi dentro, alla ricerca del cellulare. Chiese a Jiyong se avesse un paio di cuffie a portata di mano, individuandole su un mucchio di panni che si trovavano a terra; le afferrò, tornando a sedersi sul divano con le gambe incrociate, a fianco a lui questa volta.
«Lo voglio sentire tutto intero…» spiegò, collegando le cuffie al cellulare, mentre apriva YouTube alla ricerca di quei video che aveva iniziato ad apprezzare quando aveva sentito la mancanza di Jiyong e aveva imparato che l’unico modo per sentirlo più vicino era ascoltarlo cantare. Dall’ascoltare le sue canzoni a trovare le traduzioni il passo era stato brevissimo e, mentre si addentrava nella sua musica, aveva anche capito un po’ più della sua personalità e di quello che doveva aver provato mentre cresceva sotto gli occhi del mondo. Non avevano mai parlato apertamente del significato delle sue canzoni passate, avevano, però, parlato tantissimo dell’album su cui stava lavorando: le aveva fatto sentire le canzoni che aveva già registrato quando lei era andata in Corea e aveva assistito anche alla registrazione di Untitled, 2014.
 
***
 
Quel giorno si era svegliata e la prima cosa che aveva pensato è quanto le mancasse lui, in un modo che neanche lei riusciva a spiegarsi.
Si era alzata dal letto e aveva controllato il cellulare su cui ormai da mesi aveva impostato il doppio orologio, per sapere sempre che ore fossero in Corea. Aveva trovato un suo messaggio ed era finita col fare la prima vera pazzia della sua vita: si era informata ed aveva comprato un biglietto del primo volo disponibile, solo di andata, perché non sapeva quando sarebbe tornata, spendendo soldi che le lasciarono la carta di credito abbastanza sofferente.
Il pomeriggio successivo stava già facendo check-in in aeroporto, con la prima valigia che aveva trovato nell’armadio di casa sua, in cui aveva gettato le cose fondamentali senza preoccuparsi del resto, e con l’ansia di dover affrontare praticamente un giorno di viaggio e due scali completamente da sola.
Quando lo aveva detto a Jiyong, lui si era offerto di pagarle il biglietto, ma Beatrice aveva rifiutato ed era rimasta ferma sul punto: l’idea era stata sua e loro erano solo amici, quindi non sarebbe stato giusto far pagare lui per qualcosa che voleva fare lei e di cui, nonostante le ventitré ore di volo, non era riuscita a giustificarsi.
Durante lo scalo di cinque ore a Bangkok, aveva alternato momenti di noia assoluta a momenti in cui si era chiesta se non avesse appena lanciato dal balcone seicento euro per quel viaggio di cui continuava a non darsi ragione. Era arrivata di prima mattina e aveva dovuto recuperare tutti i messaggi che le erano stati inviati mentre lei era in volo, soprattutto quelli di sua madre che le chiedeva se non fosse definitivamente impazzita. Aveva sentito brevemente Jiyong, che le aveva spiegato come sarebbe dovuta arrivare a Seul dall’aeroporto e quale taxi avrebbe dovuto prendere1, inviandole poi un messaggio con l’indirizzo cui si sarebbe dovuta far portare. Si era scusato più e più volte perché non era riuscito ad organizzarsi in modo da andare a prenderla di persona, ma Beatrice non aveva neanche chiesto che lo facesse, sapendo di aver organizzato tutto all’ultimo e conoscendo tutti i suoi impegni.
Quando arrivò ad Incheon erano da poco passate le otto; dopo aver aspettato la valigia e con lo zaino, che aveva portato con sé sull’aereo e in cui aveva messo una felpa, in caso di necessità, il caricatore del cellulare, le cuffiette, i documenti, il portafoglio e altre cose che avrebbero potuto esserle utili durante quel viaggio infinito, in spalla si incamminò cautamente nella direzione che indicavano le varie frecce e che avrebbe dovuto portarla ai taxi. Si fermò al primo bancomat che si trovò di fronte e ritirò una cifra approssimativa di quanto si aspettava di pagare in base ai chilometri che le aveva detto Jiyong.
La prima cosa che notò non appena fuori dall’aeroporto fu la differenza di temperatura – nonostante fosse sera, dovette togliersi la felpa che aveva indossato in aereo –, subito dopo, notò che i taxi si trovavano proprio all’uscita. Cercò di approcciare il primo tassista che le facesse una buona impressione e, non appena salì dopo aver sistemato la valigia, questo mise in moto facendo partire il conta chilometri. Non fecero molta conversazione durante il viaggio, le chiese giusto da dove venisse e che cosa ci facesse in Corea, facendole domande che era un giorno intero che lei stessa si chiedeva senza riuscire a darsi risposte sensate; gli fece leggere l’indirizzo e gli chiese quanto avrebbe impiegato, scoprendo che fosse un viaggio di più di un’ora. Si appoggiò al sedile con aria sconsolata e finì per passare quelle che diventarono due ore, a causa del traffico, osservando la strada che scorreva fuori dal finestrino, mentre si domandava, per l’ennesima volta, cosa ci facesse lì.
Il tassista si fermò di fronte due enormi grattacieli e lei si chiese quanto famoso fosse davvero Jiyong per abitare in un posto del genere – quella riflessione la spaventò un po’. Pagò il tassista e rimase in mezzo al marciapiede, con la valigia e lo zaino in spalla, chiedendosi come avrebbe fatto a dirgli di essere arrivata senza un cellulare funzionante e senza una connessione da sfruttare.
Sperò nel suo buon senso e, dopo aver aspettato per dieci minuti di fronte a quella che sembrava un’entrata su cui c’era scritto Galleria Forét, decise di sedersi sulla sua valigia e di guardarsi intorno: lo spettacolo non era niente male, la maggior parte delle abitazioni che si trovavano in quei due palazzi avevano le luci accese, tutt’intorno c’era vegetazione facendole capire di trovarsi in quello che doveva essere una specie di parco. Rimpianse di non aver portato con sé la sua macchina fotografica, perché quello sarebbe stato uno spettacolo da immortalare all’istante.
Controllò la batteria del suo cellulare e decise di accontentarsi di scattare qualche foto in quel modo: mentre era intenta a cercare un angolo che rendesse in foto quello che stava vedendo con i suoi occhi, qualcuno dietro di lei si schiarì la voce, spaventandola perché troppo concentrata su ciò che stava facendo.
Si girò, aspettandosi di trovare qualche poliziotto che le dicesse di non poter sostare lì davanti con la sua valigia, ma ciò che vide fu un cappello ben calcato in testa, una mascherina nera e un giubbotto, nonostante il caldo. Impiegò pochi secondi a capire che si trattasse di Jiyong, impiegò, però, molto più tempo a capire cosa stesse provando a rivederlo di persona dopo tre mesi in cui si erano sentiti e visti solo tramite uno strumento tecnologico.
«Mi hai fatto aspettare…» si limitò a dire, alzando la visiera del cappello in modo da riuscire a guardarla negli occhi. Beatrice non si sentiva in vena di scherzare e, in un istante, le crollò addosso l’enormità di ciò che aveva fatto: un viaggio di quasi un giorno, con un biglietto di solo andata, per trovarsi in un paese di cui non conosceva niente e nessuno, se non lui, e senza una reale ragione che giustificasse la mancanza che aveva sentito e che l’aveva spinta a partire.
La colpì come un fulmine a ciel sereno la consapevolezza di essersi affezionata un po’ troppo a lui in quei mesi e si pentì di essere arrivata fin lì, non chiedendogli prima se fosse d’accordo.
«Jiyong, io…»
«Sei pazza?» la bloccò, avvicinandosi di scatto e mettendole una mano sulla bocca. Le successive parole le pronunciò praticamente sul suo collo: «Non pronuncerei il mio nome con tanta leggerezza, non quando le persone sanno che io qui ci abito davvero!»
Beatrice si richiese quanto effettivamente fosse famoso e si scoprì ancora più preoccupata dal conoscere una sua eventuale risposta.
«Vieni!» Le afferrò la valigia con la mano sinistra, mentre le dita dell’altra si intrecciavano con le sue, invitandola a seguirlo. Mentre attraversavano la hall e salivano i vari piani, nessuno si sprecò a guardarli più del necessario, ma lei si sentì a disagio comunque, con addosso una t-shirt, un jeans qualunque e un paio di sneakers bianche; cercò di tenere la testa il più bassa possibile, in modo tale da non dover incontrare neanche lo sguardo di quei pochi che aveva visto salire e scendere mentre osservava il pavimento dell’ascensore. Quando Jiyong le tirò la mano, facendole capire di essere arrivati al suo piano, Beatrice si limitò a seguirlo, alzando lo sguardo soltanto quando sentì la porta sbattere dietro di sé.
«Mi dispiace di non aver mandato nessuno a prenderti all’aeroporto.» sospirò, togliendosi le scarpe all’entrata. «Sarai stanca… e affamata. Non so cosa ci possa essere in frigo, io non sarei in grado di cucinarmi neanche se stessi morendo di fame, ma sicuramente qualcosa riesco a trovarlo. Ti faccio vedere un po’ in giro…» continuò, togliendosi il giubbotto e il cappello e lanciando entrambi sopra il divano che aveva nel salotto. Beatrice notò per primi i vari quadri che aveva appesi alle pareti e, quasi contemporaneamente, si ritrovò a fissare la canotta che indossava, mentre aspettava paziente che lei lo seguisse.
Lui la osservò mentre se ne stava lì, impalata, all’entrata, con ancora le scarpe ai piedi, che lo guardava come se non sapesse come ci fosse arrivata. Quando gli aveva detto di aver preso un biglietto per venire in Corea, la sua parte più razionale si era chiesta che cosa significasse quel gesto, l’altra, invece, aveva semplicemente sorriso, felice all’idea di rivederla di persona. Si era offerto di pagarle il biglietto, perché sapeva che lei era una fotografa, professionista certo, ma non così famosa da potersi permettere un viaggio del genere su due piedi e lei lo avevo completamente bloccato, non volendo sentire ragioni, nonostante i soldi fossero probabilmente l’unica cosa che non gli mancava.
Lei, invece, gli era mancata e non si era accorto di quanto fin quando non l’aveva vista piegata in una posizione strana mentre cercava di fare una foto al suo palazzo con il cellulare. Lo aveva fatto sorridere dietro la mascherina e lo aveva fatto sentire spensierato come durante quei due giorni che avevano passato insieme a Milano, come quelle volte in cui sentiva la sua voce al telefono o si vedevano tramite Skype.
«Jiyong,» cominciò, passandosi una mano fra i capelli, «io non so davvero che mi sia preso. Sono venuta qui con così poco preavviso e tu, nonostante tutto, non mi hai neanche lasciato per strada e non so perché sono qui…» Prese un profondo respiro, mentre continuava ad osservare il quadro che gli stava dietro invece che guardarlo negli occhi. «Non voglio disturbarti, dammi massimo una settimana e me ne vado. Non so neanche perché sono qui, in realtà…» ripeté, spostando finalmente lo sguardo su di lui.
«Non mi dai fastidio, mi fa piacere rivederti di persona…» Ci fu un attimo di silenzio, interrotto dal miagolio di Iye, che comparve dietro le gambe del padrone, strusciandosi contro i suoi calzini ed allontanandosi non appena Jiyong tentò di accarezzarlo. «Levati le scarpe e vieni, ti faccio vedere dove puoi mettere le tue cose!»
Beatrice si abbassò per slacciarsi le scarpe e, mentre era intenta a toglierle, il suo gatto le si avvicinò, circospetto, facendole un giro intorno prima di sdraiarsi a terra, come se volesse essere accarezzato. La ragazza gli passò le dita fra le orecchie, accovacciandosi a fianco a lui.
«È bello vederti finalmente di persona…»
«Io non lo farei, è un gatto tendenzialmente violento con persone sconosciute che invadono il suo spazio» rise, osservandola interagire con quello che, nonostante fosse un animale, era diventato una parte importante della sua vita – una parte che lo aiutava a non sentirsi completamente solo. Non fece in tempo a finire di dire la frase che Iye si girò di scatto, mordendole il dorso della mano.
«Ti ha fatto male?» si preoccupò subito, avvicinandosi per controllarla.
«Non ti preoccupare,» rispose lei, da terra, mentre continuava imperterrita ad accarezzarlo e a giocarci, facendosi graffiare e mordere la mano, «anche io avevo un gatto un po’ violento: credo che lo facesse con l’intenzione di giocare… In fondo, a parte le volte in cui ti piantano gli artigli nella pelle, non fanno mai realmente male.»
Si alzò da terra dopo qualche minuto, sorridendo nonostante la sua mano destra fosse completamente ricoperta di graffi e uno di questi stesse anche leggermente sanguinando.
«Guarda che ti ha fatto…» borbottò Jiyong, afferrandole il polso e trascinandola in bagno; aprì l’acqua del rubinetto e lasciò che scorresse sopra la sua mano, aprendo poi un mobiletto in alto dove teneva il cotone idrofilo e l’acqua ossigenata. Beatrice si lavò la mano, chiudendo il rubinetto, per poi afferrare l’asciugamano che lui le stava passando e tamponarsi i graffi con l’ovatta imbevuta che le diede.
«È inutile che continui a guardarmi con quello sguardo afflitto,» scherzò, «Iye non mi ha fatto niente davvero. Ero abituata a cose peggiori…» rise, mentre Jiyong scuoteva la testa e alzava gli occhi al cielo.
«Ho tre camere, due se non vuoi dormire con me.» Uscì dal bagno, girandosi per farle un occhiolino che le fece alzare un sopracciglio, scettica, mentre lui se la rideva.
«Sei proprio un cretino» gli borbottò contro, seguendolo in quel piccolo giro turistico di casa sua. Beatrice decise di sistemarsi nella prima stanza che le fece vedere e, poi, gli domandò se potesse usare il bagno per lavarsi, considerato il viaggio, e dove potesse trovare gli asciugamani. Jiyong le spiegò che ogni camera aveva il proprio bagno e, aprendo una porta alla sua destra, la fece entrare, facendole vedere dove poteva trovare tutto quello che le serviva. La lasciò da sola, convinto di poter trovare del ramen istantaneo nella sua dispensa e di essere in grado di prepararlo senza dare fuoco a niente, e Beatrice si chiuse la porta alle spalle, riempiendo la vasca di acqua calda.
Non era mai stata una grande sostenitrice dei bagni, preferiva nettamente la velocità e la comodità di una doccia, e, insieme al box doccia, mentre si spogliava e si immergeva nell’acqua, notò, con infinito dispiacere, anche l’assenza del bidet. Cercò di essere il più veloce possibile, ancora leggermente a disagio dall’estraneità di quella casa.
Dopo essersi asciugata ed aver lasciato i capelli bagnati come faceva di solito, indossò la solita maglietta larga e i soliti pantaloncini che usava come pigiama – quando non dormiva direttamente senza niente per il caldo – e si diresse scalza verso la cucina, tentando di non perdersi.
Jiyong la sentì arrivare senza doversi neanche girare per vederla. «È stato abbastanza facile da preparare, sulla busta c’era scritto di farlo bollire in acqua calda per circa cinque minuti e di aggiungere il resto. Non ho le forchette, quindi dovrai accontentarti delle bacchette.»
Si girò con una ciotola in una mano e le bacchette nell’altra e non riuscì ad impedirsi di guardarle le gambe nude, chiedendosi di nuovo cosa ci facesse davvero lei lì e cosa sarebbe stato giusto pensare, visto il loro stato di amicizia.
«Tu non mangi?»
«Già fatto, sono pur sempre le undici.» Nonostante le sue parole, dopo aver poggiato la ciotola e le sue bacchette sulla piccola isola nel centro della cucina, tornò indietro, afferrandone un altro paio e mettendosi seduto di fronte a lei.
«Non è per niente ansioso sentirmi osservare in questa maniera, mentre cerco di evitare di farmi finire tutto addosso…» commentò sarcastica Beatrice, impugnando le bacchette nell’unico modo che le riusciva bene e mescolando i noodles con il resto del condimento.
«Le tieni male,» rise, correggendola, «non devi incrociarle, devi fare leva con le dita.» Le dimostrò come doveva fare prendendo i noodles e portandoseli alla bocca. Beatrice cercò di imitarlo, riuscendoci soltanto per poco e tornando poi al suo metodo, mentre Jiyong se la rideva.
«Com’è?»
«Diverso…» La ragazza era davvero poco interessata al sapore: non mangiava da un giorno e qualsiasi cosa le sarebbe andata bene.
«Diverso come?» insistette.
«Diverso e basta. Buono, ma non mi fa impazzire… Continuo a preferire il sushi e il riso!» concluse, stringendosi nelle spalle e continuando a mangiare.
Jiyong rise, scuotendo la testa come era solito fare per spostarsi i capelli dalla fronte: «Sei proprio come Seunghyun hyung…»
«Intendi T.O.P.?» In quei mesi, avevano parlato anche del suo gruppo: ogni volta che il nome di qualcuno di loro usciva dalle sue labbra – il che succedeva spesso –, gli occhi di Jiyong si illuminavano, rendendo palese quanto ognuno di loro gli fosse a cuore. Vederlo così felice, mentre le raccontava qualcosa che gli era successo quel giorno e che riguardava anche uno di loro, le aveva sempre fatto piacere, così, senza nemmeno accorgersene, aveva finito per imparare anche i loro nomi.
Lui annuì, finendo gli ultimi noodles che Beatrice aveva lasciato quando si era sentita così sazia da non riuscire ad ingoiare più nient’altro. Si alzò per poggiare la ciotola e le bacchette nel lavandino e lei fu abbastanza insistente da convincerlo a lasciarle lavare tutto come ringraziamento per averle dato da mangiare; Jiyong le diede tutto il necessario e asciugò quello che lei sciacquava, poggiandolo al proprio posto.
«Ma non hai sonno?» Le domandò curioso, mentre si sdraiava sul divano di pelle nera che aveva in salotto, subito raggiunto da Iye. Beatrice stava girovagando per la stanza, altrettanto curiosa, mentre leggeva i titoli dei libri che si trovano sui vari scaffali: la maggior parte riguardava arte di vario tipo, da trattati su pittori contemporanei a libri di fotografia, alcuni libri erano completamente in coreano, lasciandola nel dubbio di cosa ci fosse scritto, altri erano in inglese.
«Ho dormito sull’aereo… E, poi, in Italia, adesso, sono le cinque di pomeriggio.»
Un libro attirò particolarmente la sua attenzione: lo prese il più delicatamente possibile e lo sfogliò, sorridendo quando vide che aveva sia la versione originale che la traduzione in coreano.
«Hai letto la Divina Commedia?» gli chiese, con un sorriso enorme, mentre andava a sedersi sul divano accanto a lui.
«Sto leggendo.» la corresse, tirandosi in posizione eretta di scatto e facendo allontanare Iye, spaventato da quel movimento improvviso. «Perché non me la leggi tu?»
Si morse il labbro inferiore, sorridendo a bocca chiusa e poggiando le mani sulle sue ginocchia.
«Non so leggerlo il coreano, ti ricordo. E, se te la leggessi in italiano, tu non capiresti…»
«Ma puoi sempre spiegarmela in inglese» propose, addolcendo la sua espressione come faceva ogni volta che le doveva chiedere qualcosa.
Beatrice rimase un po’ perplessa da quella richiesta. «Non so se sono in grado di trovare le parole giuste per esprimere il senso di quest’opera in inglese.» Si rigirò il volume fra le mani: «Non è un’opera come un’altra, per me, e Dante non è un poeta come tutti gli altri.»
«Per il tuo nome?» chiese, facendosi più vicino.
«Non solo, per tantissime ragioni… Ciò che provo leggendo le opere di Dante, non penso sarò mai in grado di esprimerlo a parole, soprattutto tramite parole di una lingua che non mi appartiene realmente. Lui, con tutte le sue contraddizioni di uomo e di poeta, è stato davvero importante nella mia vita e, nonostante la religione non sia qualcosa in cui mi definisco, la sua visione dell’aldilà mi ha sempre affascinato così tanto che non sono mai stata in grado di ripudiare completamente il Cristianesimo.»
Aprì il libro alla prima pagina, a sinistra i versi in italiano mentre a destra vi era quella che doveva essere la parafrasi coreana. «Ci sono terzine che so a memoria e altre che vorrei tanto sapere; ogni volta che le rileggo, sento un calore che mi pervade e, spesso, mi commuovo di fronte alla sofferenza e all’umanità di alcuni personaggi dell’Inferno, di fronte ad alcuni messaggi che Dante ha cercato di dare – come il fatto che le colpe dei padri non dovrebbero mai ricadere sui figli con l’episodio del Conte Ugolino – oppure l’idea, nel Paradiso, che Dio sia un’entità d’amore, che lui sia l’amore che muove tutto l’Universo e che noi viviamo per ricongiungerci con lui dopo la morte. Non è un’idea che condivido, perché non so neanche se credere alla sua esistenza, ma è un punto di vista che mi affascina, perché dà un senso a tutto il bene e a tutto il male che ci circonda. Nel Paradiso, Dante fa dire a Beatrice che tutte le cose hanno ordine fra loro e che è questo che ci rende simili a Dio, giustificandoci tutti e in tutto perché, indipendentemente da quello che pensiamo di essere e che pensiamo di meritare, ci sarà sempre un posto per noi, ovunque andremo. La prima volta che ho letto e capito questa terzina penso di aver pianto: per la prima volta, ho capito cosa rende il Cristianesimo così gettonato agli occhi di chi crede. L’uomo vuole solo essere accettato per quello che è e questa religione e le parole di Dante ti fanno credere che tu sia già stato accettato completamente e non ci sia bisogno di impegnarti per essere qualcosa di diverso, qualcosa di migliore, perché sei già abbastanza così come sei.»
Osservò la pagina cui aveva aperto il libro, attimi che passarono nel silenzio totale interrotto soltanto dai loro respiri.
«Quando ero più piccola,» sorrise fra sé e sé, ricordando le superiori, «per diverse ragioni, ho avuto un allontanamento da Dante: forse è stata la mia età, forse avevo sempre troppo idealizzato il poeta, dimenticandomi dell’uomo, ma, per un periodo, ho pensato che tutti i poeti fossero ipocriti, perché lui condannava gli altri all’Inferno per i loro peccati ma era il primo che avrebbe tradito la moglie per Beatrice o che, probabilmente, lo aveva anche già fatto, idealizzavano tutti la donna come creatura angelica nelle loro poesie ma, nella realtà, la sua posizione nella società valeva quanto quella di un soprammobile, bello da vedere ma pur sempre un oggetto.» Si interruppe, continuando ad accarezzare le pagine del libro.
«Dicono che più si diventa grandi, più si apprezzano cose che prima non consideravamo neanche. Io sono cresciuta con Dante e, all’inizio, l’ho amato incondizionatamente, poi, l’ho amato un po’ di meno per la sua ipocrisia e, infine, l’ho accettato totalmente. Beatrice, in realtà, non era altro che una poveretta morta giovane con cui lui aveva interagito poco e niente, eppure è grazie alla sua sola esistenza che noi adesso abbiamo la Divina Commedia e la Vita Nova e tutte le altre opere. Sbagliavo quando mi ero convinta che Beatrice fosse soltanto uno strumento per un fine: in Beatrice, Dante aveva visto l’infinito per nessuna specifica ragione, perché lei era stata una ragazza come un’altra, e la sua morte gli aveva arrecato un vuoto così grande da poter essere riempito soltanto dal suo ricordo perenne, impresso su carta per i secoli a venire. La Divina Commedia è un’opera troppo grande per essere spiegata e non so se io sono in grado di farlo al meglio.»
Alzò gli occhi su Jiyong, dopo aver dato sfogo a neanche un terzo dei suoi pensieri sull’importanza di Dante e della sua opera nella sua vita, trovandolo con gli occhi lucidi.
«Stai bene?» si preoccupò, spaventata di aver detto, nella foga, qualcosa che poteva avergli dato fastidio.
Jiyong non rispose alla sua domanda, come al solito, facendone una a sua volta.
«Credi davvero che siamo abbastanza così come siamo? Che ci sia un posto nel mondo per ognuno di noi?» Glielo domandò con un’espressione che lei non gli aveva mai visto, come se fosse un bambino piccolo che cercasse conferme e volesse rassicurazioni. Beatrice si chiese, per l’ennesima volta, come potesse aiutarlo a capire ciò che non gli avevano fatto credere per la maggior parte della sua vita – di non dover essere sempre migliore della volta precedente e di essere abbastanza già così com’era, proprio perché era così com’era.
«Credo che non ci faccia bene ritenerci non abbastanza e spero vivamente che ci sia un posto nel mondo che è solo per noi…»
Successe tutto così in fretta che non riuscì a metabolizzare nell’immediato: Jiyong la guardò con un’espressione decisa, le tolse il libro dalle mani, lasciandolo cadere a terra, e la baciò, approfondendo quasi subito mentre sfruttava la sua sorpresa. Beatrice non riuscì ad impedirsi di ricambiare, mentre lui le passava le mani sotto le cosce, in modo da distenderle e creare abbastanza spazio per sdraiarsi contro di lei. Non sapeva cosa avesse scatenato quella reazione da parte sua, se fossero state le sue parole a colpirlo o se, semplicemente, la fragilità che gli aveva letto nello sguardo lo avesse lasciato così scoperto da renderlo bisognoso di un contatto fisico di qualunque natura.
Se fosse stato quest’ultimo il motivo, Beatrice avrebbe preferito non saperlo.
Le passò la lingua sul labbro inferiore, facendola scivolare ancora più sotto il suo corpo e poggiandole i gomiti ai lati della testa; le morse il labbro e, poi, scese sul suo mento e sul suo collo, lasciando una scia di saliva e di baci che si interruppe soltanto quando incontrò il bordo della sua maglietta. Gliela tolse velocemente, lasciandola nuda dalla vita in su mentre la guardava come se fosse la prima volta che la vedeva. Si alzò a sedere sul divano, trascinandola con sé, in modo che le sue gambe gli si stringessero dietro la schiena, e si tolse anche lui la maglietta, per poter sentire la loro pelle direttamente l’una contro l’altra.
Jiyong le portò entrambe le mani sul volto, guardandola negli occhi e rendendosi conto di essere stato troppo affrettato e troppo inaspettato. Prese a lasciarle baci delicati sulle labbra arrossate e gonfie, che aveva maltrattato fino a quel momento, per spostarsi, poi, sulle guance, sul mento, sulla mascella fino a quando lei non si rilassò così tanto da chiudere gli occhi e sospirare, contenta.
«Non so se riesco a starti lontano…» le confessò, portandole le mani alla base della schiena e tirandola verso di lui, in modo da avere il suo seno contro le labbra. Leccò la pelle dell’incavo mentre con i palmi risaliva la sua schiena, fino ad aggrapparsi alle sue scapole. Quando le prese un capezzolo fra le labbra, succhiandolo, Beatrice gli afferrò i capelli di getto, sentendo uno spasmo percorrerle tutto il corpo; lui le affondò i polpastrelli nella pelle, impedendole di muoversi da quella posizione, mentre dava le stesse attenzioni anche all’altro seno.
«Non so se voglio starti lontano.» Pronunciò quelle parole sulle sue labbra, riafferrandole in un bacio che lasciò entrambi senza respiro.
«Non pensavo sarebbe finita così…» ansimò lei, passandogli una mano sulla fronte in modo da spostargli i capelli e poterlo guardare meglio negli occhi. Lo osservò per qualche secondo rapita, con la testa tirata indietro dalla sua mano, il collo sottile completamente esposto, quelle pupille scure che la seguivano in ogni minima mossa e quelle labbra rosse. «Ma sei vero?» sospirò nella sua bocca, mentre lo baciava, non sapendo se fosse solo lei a vederlo così bello.
Scese con i baci sul suo collo, fino alla spalla dove c’era il tatuaggio di Dragon Ball e dove si fermò per morderlo.
«Mi fai male…» rise contro il suo orecchio, non spostandosi di un centimetro quando lei iniziò a cospargergli il morso con baci a fior di pelle.
«Volevo sentire se fossi vero.» gli rispose, ingenuamente, afferrandogli il mento e strusciando il naso contro il suo.
«Sono molto vero…» Beatrice si allontanò mentre lui cercava le sue labbra, in un tentativo di farsi desiderare che sapeva farlo solo innervosire.
«Beatrice» l’avvertì infatti, quando lei si allontanò per la seconda volta, sorridendo e portando l’indice sulle sue labbra, per tenerlo lontano. Jiyong la guardò storto, passandole un braccio intorno alla vita e ribaltando la loro posizione sul divano: la ragazza tornò di nuovo sdraiata mentre lui se ne stava stretto fra le sue cosce e sopra di lei; afferrò il polso della mano che lei ancora aveva sulle sue labbra e lo portò sopra la sua testa, insieme all’altro, bloccando le sue braccia in modo che non potesse muoverle. La osservò per qualche istante, mentre lei gli sorrideva in sfida dal basso, portandole la mano, che non stringeva i suoi polsi contro la pelle del divano, sulla guancia sinistra; le percorse con il pollice il bordo della bocca e lei socchiuse le labbra, accogliendo il suo dito e circondandolo con la lingua, mentre lo guardava con un’intensità che lo lasciò atterrito.
«Mi farai impazzire…» le sospirò in bocca, cercando la sua lingua mentre il suo pollice le tirava il labbro inferiore, costringendola ad aprirla maggiormente per accoglierlo.
«Per così poco?» ansimò, quando lui le abbandonò la bocca e scese con le labbra sul suo collo. In risposta al suo sarcasmo, Beatrice ottenne una spinta che le fece percepire distintamente il profilo della sua erezione, decidendo che ne aveva avuto abbastanza di preliminari.
«Ji, li hai i preservativi, sì?»
«Se è un modo per sapere se sono stato con qualcun altro in questi mesi, la risposta è no…» rise, lasciandole andare i polsi e alzandosi per andare a recuperare quello che gli aveva chiesto. Quando tornò, trovò Beatrice che accarezzava Iye tra le orecchie: vederla così presa dal suo gatto, mentre se ne stava praticamente nuda sul suo divano, sorridente, mentre gli parlottava in quello che doveva essere italiano e faceva espressioni buffe, inspiegabilmente non fece altro che eccitarlo ancora di più. «Vieni a letto…» le sussurrò all’orecchio, avvicinandosi da dietro.
Diede un’ultima carezza ad Iye e lo seguì in camera sua. «Non era un modo per sapere se sei stato con qualcuna, semplicemente non voglio avere sorprese.» Si strinse nelle spalle, osservando i quadri appesi sopra il suo letto. «Particolari…» borbottò, non sapendo che altro dire.
Jiyong la abbracciò da dietro, poggiando il mento sopra la sua spalla: «Non ti piacciono?» le mormorò contro il lobo dell’orecchio, scendendo con la mano che si trovava sul suo ombelico al di sotto dell’elastico dei suoi pantaloncini.
«Non direi necessariamente che non mi piacciono…» ansimò, quando lui iniziò ad accarezzarla, facendole tremare le gambe.
«Che diresti, quindi?» Prese a mordicchiarle il collo e a massaggiarle un seno con l’altra mano.
«Non è un genere che preferisco, ecco…»
Gemette quando Jiyong iniziò a imprimere una pressione maggiore e gli portò una mano dietro la nuca, aggrappandosi ai suoi capelli.
«Sei bagnata…» Lo sussurrò così piano, soffiandole nell’orecchio, che Beatrice non riuscì a capire se lo avesse detto davvero o lo avesse immaginato lei.
«Per fortuna.» gli rispose, ironica, girando il viso e lasciando baci su tutto il lato destro del suo volto. Jiyong sorrise in quel suo modo caratteristico, lasciando intravedere le gengive, e, a quella poca distanza, Beatrice riuscì anche a vedere il leggero rossore che gli colorì le guance.
Quando, in quei mesi, aveva imparato a conoscere anche il suo personaggio sul palco, G-Dragon, la cosa che l’aveva più sconvolta era stata probabilmente la loro abissale differenza di comportamento: di fronte le telecamere e mentre cantava e con persone che non gli erano vicine, Jiyong era un’altra persona – era G-Dragon –, era la persona distaccata e strafottente e sicura di sé con cui aveva interagito non appena si erano conosciuti e che riusciva a calamitare l’attenzione proprio per questo, così come aveva notato fosse impossibile distogliere lo sguardo da lui durante le loro esibizioni di gruppo; non appena la musica si fermava o la telecamera si girava, tornava ad essere sé stesso, il sé stesso continuamente timido, abituato a coprirsi la faccia con le dita quando rideva e a tamponarsi il sudore sulla fronte con il dorso della mano quando imbarazzato, il sé stesso sorridente cui si era affezionata.
Pensare quelle cose in quel momento e rendersi conto di averlo osservato così attentamente in quei mesi la spaventò non poco.
«Stiamo facendo la cosa giusta, secondo te?» mormorò sulla sua guancia e lui si bloccò subito, togliendo la mano sulla sua intimità e tornando a stringerle le braccia intorno alla vita.
«Non voglio che tu ti senta costretta a fare niente.»
«Non mi fai sentire costretta, lo voglio ed è forse questo il problema. Domani mattina, a che punto saremo? E c’è veramente un punto cui dobbiamo arrivare? Che rapporto abbiamo e perché sono partita così dal nulla soltanto per rivederti dopo tutto questo tempo?» Beatrice fece un respiro profondo, cercando di organizzare i suoi pensieri. «Non ti sto chiedendo niente, davvero non lo sto facendo. È il mio comportamento che non riesco a capire…» Si staccò da lui e andò a sedersi sul letto, poggiando i gomiti sulle sue ginocchia e affondando la faccia fra le mani.
«Ho preso un aereo per vederti di persona, ho fatto ventitré ore di viaggio per vederti di persona… Dio, ho preso un aereo perché mi mancavi!» ripeté, sconvolta dalle sue stesse parole, rendendosi conto, per la prima volta, di quanto fosse stata incosciente. «So di volerti bene e so di essermi affezionata a te in questi mesi, ma il sesso dove si colloca? Non so se riesco a farlo e a continuare a volerti bene come un amico, non so se abbiamo sbagliato tutto già dall’inizio…»
Jiyong le si accovacciò di fronte, poggiando le mani sulle sue ginocchia. Non si era aspettato una conversazione del genere ma avrebbe dovuto saperlo che sarebbe arrivata, considerando quanto aveva imparato di lei in quei mesi – e lei analizzava sempre tutto, troppo.
«Ascoltami,» cominciò, passandosi la lingua sulle labbra secche, «è colpa mia se sei così confusa. Il punto è che anch’io sono confuso e non posso aiutarti a capire qualcosa che non capisco nemmeno da solo.» Le afferrò una ciocca di capelli castani fra le dita, giocandoci. «Non so dove si colloca il sesso fra di noi, ma so che io voglio collocarlo, perché non penso di essere in grado di riuscire a starti così lontano, non fisicamente né mentalmente.» Le accarezzò una tempia, guardandola negli occhi. «Sono contento che tu sia venuta, perché mi eri mancata…» ammise, portandole la mano sulla guancia.
«Siamo lontani.»
«Non adesso…» Le passò il pollice sul labbro inferiore e poi sul mento.
«Ma lo saremo… e io non credo nelle relazioni a distanza.»
«E allora non staremo in una relazione. Beatrice, dammi un po’ di fiducia…»
Beatrice non era molto convinta, ma, qualche tempo prima, si era detta che tutti meritassero il beneficio del dubbio, almeno una volta. Jiyong si alzò, sparendo al di là della porta e ritornando qualche minuto dopo, con la sua maglietta e un libro in mano. Le lanciò addosso la maglietta, facendole un occhiolino, e le poggiò il libro a fianco, sulle coperte.
«Me lo leggi questo primo canto, quindi?»
La ragazza si rivestì, osservando il libro con aria circospetta; infine annuì, alzando gli occhi al cielo. Si spostò contro la testiera del letto, incrociando le gambe, e Jiyong le poggiò la testa sul ventre, mettendosi comodo per ascoltarla leggere.
Prese a leggere dall’inizio, cercando di spiegargli anche quello che diceva e cercando di richiamare alla mente tutte le informazioni che derivavano da quando la parafrasi aveva dovuto farla per scuola. Quando non sapeva come spiegarsi in inglese, finiva per spostargli il libro di fronte in modo che potesse leggere la versione coreana.
«Mi piace sentirti leggere in italiano…» Respirò profondamente contro la sua maglietta, lasciandole un bacio sul ventre da sopra il tessuto. Beatrice gli affondò le dita nei capelli e lui mugugnò, strusciandosi contro il suo palmo come un gatto e rilassandosi contro le sue cosce. Quando chiuse il libro, dopo aver cercato di fargli una panoramica completa del significato del canto, della figura di Virgilio e delle varie allegorie che vi erano e di come potessero e dovessero essere interpretate, si osservarono per un po’ senza dirsi niente.
Beatrice gli lasciò un bacio sulla fronte, uno sul naso e uno sulle labbra e fu quasi fisiologico, per entrambi, approfondirlo, con lentezza, prendendosi il loro tempo.
I vestiti sparirono in fretta, ma per un po’ loro non fecero altro che accarezzarsi e guardarsi negli occhi. La penetrò lentamente, intrecciando le dita alle sue e lasciandole baci sulle guance, mentre lei gli accarezzava la schiena e gli stringeva i bicipiti, baciandogli i tatuaggi cui riusciva ad avere accesso.
Quella divenne una sorta di tradizione: non appena riuscivano ad avere un momento libero, lei gli leggeva un canto della Divina Commedia e loro finivano quasi sempre per fare sesso, dopo.
Restò in Corea per quasi tre mesi, utilizzando tutto il tempo a sua disposizione.
Conobbe il manager di Jiyong, che non fu per niente sorpreso quando lui gliela presentò, e i membri del gruppo che, invece, furono parecchio sorpresi di conoscerla, costringendolo a spiegare come si fossero incontrati per filo e per segno e ritenendosi molto offesi di non averne saputo niente prima.
Considerando la sua abilità con Photoshop e il suo lavoro da fotografa, non fu difficile trovare un lavoro part-time, soprattutto grazie a Jiyong che le fece conoscere alcuni suoi amici e la propose per qualche servizio fotografico. Quando lui non c’era o quando era impegnato in qualche progetto per cui avrebbe dovuto essere filmato, lei preferiva non andare per non dare nell’occhio e, poiché Taehee doveva stare con Jiyong, quando era libero, era Seungri a portarla un po’ in giro – sempre incappucciato – e a farle compagnia a casa di Ji. Diceva che gli era stata simpatica da subito e che Jiyongie – come lo chiamava – sembrava più contento del solito, rendendo di riflesso più felice anche lui. Così, quando lui aveva partecipato ad una mostra a Londra, era stato Seungri ad intrattenerla per due giorni di fila, facendola morire dalle risate mentre le raccontava vari aneddoti che riguardavano sia Ji che gli altri membri del gruppo e facendole capire perché il ragazzo gli fosse così affezionato.
Per un po’, si erano divertiti a conciarsi nei modi più assurdi per riuscire a passare inosservati mentre camminavano per le strade di Seul e Jiyong le faceva da guida turistica; dopo quella volta in cui, però, lui era stato riconosciuto e Taehee l’aveva portata via per evitare scandali di cui la sua carriera non aveva davvero bisogno in quel momento, avevano imparato a preferire le mura di casa, dove nessuno poteva fotografarli e gettarli in copertina da qualche parte, facendo indignare l’enormità di fan che seguiva sia lui che i BIGBANG perché, oltre all’evidente fatto che fosse una ragazza, Beatrice aggiungeva alla lista dei suoi punti a sfavore il fatto di non essere né asiatica né tantomeno coreana. Quando Jiyong le aveva spiegato come funzionava il suo mondo, quanto fossero controllati e quanto poco fosse permesso loro di sbagliare e di deviare dalla perfezione che veniva loro imposta dal basso, la ragazza era rimasta parecchio sorpresa; quando le aveva detto, inoltre, che lei sarebbe stata, per lui, uno scandalo indipendentemente dal modo in cui si sarebbe comportata, soltanto perché straniera, Beatrice era rimasta ancora più perplessa e preoccupata da quello che avrebbero potuto dirle.
Non che si fossero mai detti esplicitamente di stare insieme, comportandosi comunque come se lo fossero ed essendolo agli occhi di tutti quelli che li frequentavano, quindi, tecnicamente, non avrebbero potuto dirle niente; non che Beatrice fosse realmente spaventata da quello che avrebbero detto sui social o preoccupata dall’opinione di persone che non la conoscevano. Per quanto possibile, però, lei avrebbe cercato di evitare che qualcuno lo scoprisse, perché, nonostante tutti i nonostante, non le andava di essere messa alla gogna pubblicamente.
La mattina del suo compleanno, Ji era dovuto andare alla prima visione di un lungometraggio che aveva girato e che, partito come uno scherzo, era diventato molto più serio di quello che pensava. Quando gli avevano proposto il copione, aveva pensato fosse qualcosa di simile a quello che aveva già fatto e, quindi, aveva accettato senza problemi, pensando sarebbe stato divertente. Quando, poi, lo aveva letto, leggendolo anche a Beatrice, lei aveva riso, osservando la sua espressione sconsolata all’idea di dover davvero impegnarsi per recitare nella maniera più decente possibile e afflitto dalla consapevolezza di doversi poi rivedere – cosa che lo imbarazzava tantissimo ogni volta.
«Andrà bene, vedrai» cercò di consolarlo lei, lasciandogli un bacio sulla guancia e arruffandogli i capelli. «Qualunque cosa tu faccia, riesci sempre a farla bene.» Gli sorrise e lui le passò un braccio intorno alle spalle, tirandosela addosso e lasciandole un bacio sui capelli.
La strinse più forte contro il suo petto, prendendo un profondo respiro sulla sua testa; la chiuse in un abbraccio definitivo passando l’altro braccio intorno alla sua vita e rimasero così per qualche minuto, vicini ed in silenzio. Jiyong sapeva di essersi affezionato a lei, lo sapeva da un po’, ma non riusciva ad ammetterlo, non a voce alta e non davanti a lei. Seungri, una volta, gli aveva chiesto che cosa significasse tutta quella situazione, che cosa fosse lei per lui e se veramente valesse la pena rischiare un possibile scandalo quando loro due erano comunque così distanti.
Non era stato capace di dirgli niente e lui aveva capito tutto.
Quando le aveva raccontato di Kiko e di quella che era stata la loro situazione per anni, dei tatuaggi che aveva fatto per lei, della canzone che aveva composto quando aveva metabolizzato la loro rottura definitiva e delle parole che aveva scritto, Beatrice non aveva avuto niente da dire. Non aveva avuto niente di cattivo da dire su di lei, ammettendo anche che fosse davvero bella, e non aveva detto niente sui suoi tatuaggi, confessandogli di aver sempre strettamente collegato anche lei il modo in cui poteva essere suddiviso together al suo significato.
Quando l’aveva portata in studio durante la registrazione di Untitled, lei si era commossa, ascoltando solo la base e il modo in cui lui cantava il testo, e, poi, era caduta in un mutismo che lo aveva fatto riflettere sul fatto che lei, probabilmente, avesse finito col pensare a cose che la riguardavano e non al fatto che lo stesse ascoltando cantare una canzone che aveva composto per la sua ex. Lo aveva un po’ infastidito non ottenere nessuna reazione, abituato a ragazze che dimostravano gelosia anche quando era fuori luogo.
Lei non lo aveva bollato come suo, probabilmente non lo pensava neanche che fosse suo, non era gelosa di ragazze che avevano fatto parte della sua vita ed erano state importanti, non si era dimostrata infastidita da quei tatuaggi che le avrebbero sempre ricordato che, prima di lei, c’era stata qualcun’altra tanto importante da fargli decidere di marchiarsi la pelle per tutta la vita e si era commossa ascoltando quella canzone che era sostanzialmente una preghiera per poter tornare indietro e non fare gli stessi sbagli, per non perderla ancora. Quando Jiyong l’aveva vista con gli occhi lucidi e silenziosa, le aveva chiesto se le avesse dato fastidio qualcosa e Beatrice gli aveva semplicemente risposto che lo capiva, che capiva il suo senso di colpa e che capiva la sua nostalgia, che non era infastidita perché sapeva – o, almeno, sperava – che quella nostalgia non derivasse da un’effettiva voglia di tornare con lei, ma dalla consapevolezza di aver sbagliato. Gli disse che sapeva cosa significasse pentirsi di alcune azioni fatte, cosa significasse riflettere su quelle azioni fino a farsene logorare, nella speranza di tornare indietro e poterle sistemare o, comunque, potersi comportare diversamente. Gli disse che il modo in cui la cantava le aveva fatto sentire una morsa allo stomaco e che essere gelosa non avrebbe avuto senso, perché, se lui avesse voluto davvero tornare con lei, Beatrice non avrebbe comunque potuto fare niente per impedirlo.
Parlò lentamente, sussurrandogli nell’orecchio, mentre nello studio era calato un silenzio innaturale. Quando finì, gli sorrise, sollevando soltanto un angolo della bocca, incapace di essere davvero contenta dopo aver ricordato quello che cercava sempre di spingere sul fondo della sua mente, lontano dalla sua coscienza, e lui non riuscì a dire una parola, guardandola di nuovo come se gli avesse detto chissà quale verità, guardandola con la stessa sensazione di essere capito senza dover spiegarsi della prima volta che aveva aperto bocca per dire quello che le passava per la testa, la mattina dopo che avevano fatto sesso per la prima volta. Riuscì solo a baciarla, prendendosi il suo tempo e cercando la loro profondità, ignorando completamente tutte le altre persone nella stanza.
Non gli era mai piaciuto baciare qualcuno in pubblico, perché pensava che dovesse rimanere una cosa privata, quindi, quando si staccò delicatamente, lasciandole un bacio sulla fronte e girandosi verso i mixer, non si sorprese di vedere l’espressione sconvolta di Youngbae – che aveva insistito per assistere alla registrazione. Lo guardò come se non lo riconoscesse più per, poi, spostare il suo sguardo su di lei, osservandola come non si era preoccupato di fare prima, come se improvvisamente la vedesse davvero, mentre lei continuava a stare in silenzio, con quell’aria nostalgica che non l’avrebbe abbandonata per almeno tutto il giorno e le dita intrecciate a quelle di Jiyong.
Non era riuscita a finire di spiegargli la Divina Commedia in quei tre mesi, così quando l’aveva accompagnata in aeroporto, tutto incappucciato, con l’ombra dei baffi e del pizzetto che si era lasciato crescere in quell’ultimo periodo e che lei trovava estremamente provocante, l’aveva abbracciata, sussurrandole, poi, nell’orecchio che pretendeva che finisse di spiegargliela.
Jiyong le aveva fatto una sorpresa per il suo compleanno, venendo a trovarla a Roma, nonostante fosse parecchio impegnato con l’album, e fermandosi per due settimane.
In quell’arco di tempo, finì di leggergli la Divina Commedia e riuscirono a litigare parecchio, sbottando per ogni minima cosa e finendo sempre per fare pace sul letto, in un circolo che la lasciò stremata e piena di domande su cosa fosse giusto per loro e per lei. Per i suoi vari impegni e non riuscendo spesso a far coincidere le loro giornate, avevano finito per passare giorni interi sentendosi solo tramite messaggi, interagendo in un modo che, a causa del loro reciproco nervosismo e della loro incapacità di comunicare che spesso si concludeva in un enorme fraintendimento che lasciava entrambi arrabbiati e poco volenterosi di fare un passo indietro ed ammettere di aver sbagliato, dopo otto mesi, l’aveva fatta riflettere sempre di più su cosa significasse continuare in quel modo e se fosse giusto farlo, soprattutto.
 
***
 
Non appena aprì il video che aveva trovato con i sottotitoli già inseriti, non poté non far cadere lo sguardo sul titolo della canzone conclusiva.
«Quando l’hai scritta?» mormorò, col fiato in gola, togliendosi una cuffietta dall’orecchio e girandosi a guardarlo negli occhi.
«Poco dopo che ci siamo lasciati.»
«Non siamo mai stati insieme ufficialmente…» lo contraddisse, aggrappandosi a quella formalità.
«…ma lo eravamo lo stesso.» Le portò una mano sulla guancia, accarezzandola con il dorso e spostandole i capelli sulla schiena.
«Ti sei fatto lasciare e non ti sei fatto più sentire.» constatò, spostandosi bruscamente dal suo tocco.
Jiyong sospirò, riportando la mano, ancora sollevata, sul suo ginocchio.
«Ero arrabbiato quando mi hai detto che volevi una pausa… Non sto cercando di giustificarmi, non ci sarebbe comunque niente da giustificare, sto solo cercando di spiegarmi.» chiarì, alzando le spalle ed inspirando profondamente. «Quando mi hai chiamato, quel giorno, credo di non aver più capito niente e credo di essermi sentito tradito. Ho sempre pensato che le pause fossero soltanto l’anticipazione di una rottura e che, chiederle, equivalesse a dire che qualcosa era già rotto. Quindi, perché non lasciarsi e basta direttamente? Le cose, una volta rotte, sono difficili da riparare e, anche se riparate, non saranno mai come quando erano tutte intere, perché semplicemente non lo sono più per davvero...»
Beatrice lo osservò, sentendo una distanza più mentale che fisica.
«Ho detto cose che non pensavo, su di te e su di noi, ma ero così arrabbiato e so che non è una giustificazione ma le ho dette col solo intento di farti male. Non appena le ho pronunciate, me ne sono subito pentito. Il punto è che, con me, è sempre così, capisci? E le persone non possono sempre comprendere le mie intenzioni, non possono sempre giustificarmi, io non posso sempre giustificarmi, pentendomi di qualcosa soltanto dopo che l’ho già detta.» Si passò le mani sulla faccia, scompigliandosi i capelli e guardandola come se avesse accettato di averla persa dall’inizio di quella conversazione.
Inspirò di nuovo, poggiando la fronte sul palmo della mano e guardando dritto davanti a sé. «Non ti ho più chiamato perché mi sentivo una merda…»
«Che hai fatto?» Beatrice lo chiese con un tono di voce incerto, avendo già un’idea di quello che avrebbe scoperto e non sapendo come avrebbe potuto reagire ad un’informazione del genere.
«Quando mi hai chiuso il telefono in faccia, mi sono sentito così arrabbiato, con te e con me stesso, che non sono più stato in grado di riflettere lucidamente. Per l’ennesima volta, una mia relazione finiva ed io non potevo farci niente, alla lista già troppo lunga di ex, si aggiungeva anche il tuo nome e…» Si strofinò le mani sul volto, mordendosi il labbro inferiore alla ricerca di parole. «Ed era un altro fallimento, capisci? Per l’ennesima volta, avevo fallito… Avevo di nuovo sprecato tempo e investito sentimenti in qualcosa che era comunque finito, come era finito sempre tutto quello che ti aveva preceduta. Mi sento maledetto, a volte… Poi, ragiono e capisco che sono io il problema, che un motivo deve esserci se non riesco a concludere niente; se, prima o poi, mi lasciate tutte, devo essere per forza io quello sbagliato…»
«Jiyong…» sospirò lei, facendo per alzarsi e accovacciarsi vicino a lui, bloccata nell’azione dalla sua mano.
«Sono andato a letto con un’altra.»
Beatrice sentì un contraccolpo e si accorse di essere ricaduta a sedere sul divanetto, sbattendo la schiena contro il bracciolo. Si era aspettata una rivelazione del genere quando lui aveva iniziato a parlare, ma c’era una grande differenza fra aspettarsi qualcosa e sentirla realmente. Si morse l’interno della guancia, cercando di evitare che gli occhi le diventassero lucidi e fallendo miseramente.
«Che ti aspetti che ti dica?» mormorò, portandosi le braccia intorno al petto nel tentativo di farsi sostegno da sola, mentre tutto il dolore che aveva provato nei mesi precedenti le ricadeva addosso, seppellendola totalmente.
«La sera stessa…» continuò, intenzionato a dirle tutto. «Sono uscito con alcuni amici perché volevo davvero ubriacarmi fino a dimenticare persino il mio nome e c’era questa ragazza, che avevo visto un paio di volte, che era carina e disponibile e ci stava palesemente provando con me… Un bicchiere alla volta ho iniziato a parlarci, a ridere e scherzarci finendo col ballare. Quando è arrivato Seungri e mi ha visto con lei, si è incazzato tantissimo ed ho finito per litigare anche con lui...» Si interruppe, poggiando la schiena di nuovo contro il tessuto del divano e continuando a non guardarla.
«Se devo essere sincero, litigare con Seungri mi ha dato il colpo di grazia. Dopo quello, ricordo poco e niente: ho vari flash di facce che non riesco a collocare, di bicchieri che mi venivano messi in mano, delle luci e della musica alta, ma non riesco davvero a focalizzare un punto preciso; appena credo di poterlo fare, è come se mi scappasse. Mi sono risvegliato nel letto della ragazza che ti dicevo, sono abbastanza sicuro di averci fatto qualcosa e, insieme al mal di testa e alla nausea, ho subito sentito anche una sensazione di schifo. Non che mi giustifichi…»
La guardò finalmente negli occhi, con quello sguardo dispiaciuto e quell’espressione mesta disegnata sul volto, e Beatrice non riuscì a controllare la rabbia che le salì in gola.
«Sei più contento, adesso?» lo chiese alzandosi in piedi ed allontanandosi.
«Come…?»
Lo sguardo confuso che le rivolse non fece altro che farla arrabbiare di più.
Poche volte, mentre litigavano, Jiyong l’aveva vista davvero infuriata: Beatrice aveva sempre cercato di fare del suo meglio per evitare che la situazione, già difficile di per sé, diventasse ancora più complicata, era, di suo, una persona abbastanza razionale, che non credeva di dover avere sempre ragione e che, dopo aver detto quelle cose strettamente dettate dalla rabbia, ritornava spesso sui propri passi per scusarsi e trovare un punto di incontro, una cosa che andasse bene ad entrambi. Mentre cresceva, aveva imparato a ridimensionare il suo ego e a controllare il suo orgoglio, in modo che non dovesse più ritrovarsi completamente da sola, poiché incapace di gestire rapporti di qualunque natura senza considerarli sfide a chi riusciva a far soffrire di più l’altro senza soffrirne a sua volta.
Sapere quelle cose da Jiyong l’aveva improvvisamente riportata indietro nel tempo e poco le interessava di essere diplomatica e razionale in quel momento.
«Sei più contento adesso che ti ho ascoltato e che ti sei tolto questo peso dalla coscienza?» Quando era arrabbiata non riusciva a stare ferma e quella volta non fece eccezione: pronunciò quelle parole gesticolando esageratamente con le mani e tamburellando con il piede a terra. «No, perché tanto la nostra relazione è sempre stata questa, giusto? Io che ti ascoltavo e cercavo di capirti e tu che parlavi, pretendendo di essere capito…» Sapeva di non star dicendo la completa verità, ma sapeva anche che Jiyong le aveva sempre detto che, spesso, si sentiva di opprimerla con i suoi problemi e lei, in quel momento, era stanca, stanca di doverlo capire, stanca di cercare una giustificazione alle sue azioni, stanca di pensare prima di parlare per evitare scontri, quando lui, evidentemente, tutti questi problemi non se li era mai fatti.
«Ma, poi, esattamente, che senso ha dirmelo adesso, eh? E che senso ha avuto mandarmi quel messaggio chiedendomi di venire? Ti diverti o pensi che diverta me questa situazione? Ma, in fondo, che ti frega, no? Tu sei il grande G-Dragon, puoi pure calpestarli i miei sentimenti, no? Tanto chi sono io? Nessuno.» sbottò, appoggiandosi con le spalle al muro e tirando un respiro profondo. Dal nervosismo, avevano iniziato a tremarle le mani.
«Ma la sai la cosa che mi diverte di più?» Lo disse con un tono che, di divertito, non aveva niente, mentre gli occhi le tornavano lucidi. «Che sei stato tu a chiedermi fiducia e io te l’ho data, quindi, alla resa dei conti, l’unica stupida sono stata io…»
«Beatrice…» tentò di intervenire, senza alcun successo.
«No, adesso, stai zitto! Mentre io stavo male per te, perché era finito tutto, anche se, ironicamente, non è mai iniziato un bel niente visto che non siamo mai stati ufficialmente insieme, no?»
«Già ti ho detto che questa è una cazzata!» si intromise di nuovo, alzandosi in piedi, alterato anche lui.
Jiyong non era mai stato bravo a gestire la rabbia e, nonostante si stesse impegnando per capire quanto lei fosse delusa per dire delle cose del genere, che non erano vere – come non erano state vere le cose che lui le aveva detto quando gli aveva chiesto una pausa per capire –, queste lo avevano ferito lo stesso – come le sue parole avevano ferito lei.
«E io già ti ho detto che devi stare zitto!» Alzò il tono della voce, sbattendo una mano contro il muro. «Mentre io stavo male per te, chi lo sa quante te ne sei scopate, tu…»
«Quella è stata l’unica volta!» si difese, alzando il tono della voce in risposta al suo.
Tra loro, era stato sempre così quando finivano col litigare, in fondo: una gara a chi riusciva a perdere la voce prima.
«E mi vuoi far credere di aver passato nove mesi in convento?» Rise, per niente divertita, guardandolo negli occhi. «Ma sai che c’è? C’è che non mi interessa… Non sei stato in grado neanche di far finta di essere dispiaciuto per una giornata, prima di finire a letto con qualcun’altra, a questo punto mi chiedo se devo preoccuparmi anche per tutti i mesi che non ci siamo visti e in cui siamo stati insieme.» Fece le virgolette con le dita, pronunciando l’ultima parola con un tono fortemente sarcastico.
«Adesso, stai esagerando. Se credi davvero che ti abbia tradito tutto questo tempo, questa conversazione non ha senso…»
«Infatti, non ha avuto senso dall’inizio, come non ha avuto senso scrivermi quel messaggio, come non ha avuto senso venire qui sperando chissà cosa…» Gli si avvicinò, mentre parlava, assumendo l’espressione strafottente che lui aveva sempre detestato. «Il punto è che non ti farò uscire pulito da questa discussione, come ne sei sempre uscito. Non sono io ad essere nel torto se penso che potresti avermi tradito anche prima, sei tu ad essere nel torto perché lo hai fatto davvero.» Finì di parlargli praticamente ad un soffio dal viso, puntandogli il dito contro il petto e aspettando che lui le rispondesse a tono.
Jiyong sospirò, sentendola così vicina – infuriata ma pur sempre vicina – e ripensando a tutte le volte che avevano litigato di persona e a come fosse finita, ogni singola volta.
«Mi ha sempre infastidito questo lato del tuo carattere…»
«Beh, non ti preoccupare, non dovrai vederlo mai più.» Gli passò di fianco, afferrando la borsa che ancora se ne stava abbandonata sulla sedia e accovacciandosi per prendere le scarpe e andarsene scalza, troppo instabile per riuscire a camminare su quei tacchi.
«Non è solo la canzone, che ho scritto pensando a quello che mi avevi detto…» ammise, tornando ad abbassare la voce e sperando che quello fosse abbastanza per evitare che andasse via. «Ho progettato tutto il tour pensando a te che mi leggevi la Divina Commedia. È diviso in tre parti, così come ho sistemato l’album in maniera che ci fosse un’intro, tre canzoni ed un outro. Ho pensato a quella volta che mi hai spiegato quanto fosse importante la numerologia per Dante e come avesse costruito la sua opera in maniera da essere divisa in tre cantiche perché tre era il numero che rappresentava l’unità e la trinità di Dio, che è uno dei misteri più importanti per il Cristianesimo. Do un significato estremamente intimo a questo album – questo già lo sai – e questo tour doveva essere la mia rinascita… Come il viaggio di Dante attraverso i tre regni ultraterreni doveva essere la sua rinascita come uomo consapevole di quale fosse la verità, così questo tour doveva essere la mia riscoperta come Jiyong e non più come G-Dragon. Ho attraversato anch’io il mio Inferno – scrivendo quest’album e vivendo tutti questi anni dovendo essere qualcuno che non sono realmente –, questo tour doveva essere il mio Purgatorio – mi sarei purificato, cantando, e liberato dal peso di dover essere sempre all’altezza di G-Dragon – e la fine di questo tour sarebbe stata il mio Paradiso – perché, finalmente, tutti avrebbero saputo chi sono io realmente, dietro di lui. Eppure, il paradiso non mi è mai sembrato così lontano e irraggiungibile come in questo momento e non so se questo tour, se tutta l’incertezza che ho provato per scrivere questo album, se tutta l’ansia che provo giornalmente se penso che adesso ho trent’anni2 e che non ho realmente concluso ancora niente nella mia vita, se penso che, in tutti questi anni, non ho fatto altro che accumulare successi dal punto di vista discografico e fallimenti dal punto di vista sentimentale…» inspirò, chiudendo gli occhi. «Ecco, non so se tutto questo mi abbia davvero aiutato o mi abbia semplicemente sfiancato… Sono stanco, Beatrice, stanco di ferire le persone e vedermele scivolare fra le dita, stanco di eliminare conoscenti che mi cercano soltanto quando hanno bisogno di qualcosa, stanco di dovermi comportare tenendo sempre bene a mente che qualsiasi mio passo falso porterà ad uno scandalo, stanco di sentirmi giudicare e stanco di persone che pensano che, con tutti i miei soldi, non dovrei avere problemi del genere. Con tutti i miei soldi,» sottolineò, sarcastico, «compro quadri che servono a colmare quel vuoto che provo quando mi ritrovo a casa da solo e mi accorgo di non avere nessuno, perché, invece di vivere la mia vita, l’ho presa e barattata fin da subito per un po’ di successo che non durerà per sempre.3 Sono stanco di essere solo…»
«Non è avendo qualcuno accanto che i tuoi problemi si risolveranno, Ji…»
Beatrice ritornò sui suoi passi, contro il suo buon senso e il suo senso di preservazione, e si sedette sul divano, aspettando che lui decidesse cosa fare. Quando Jiyong la raggiunse, le si sedette a fianco, poggiando le mani in grembo, mentre entrambi guardavano lo specchio che avevano di fronte.
«Mi dispiace per averti fatto soffrire, non era mia intenzione. Sei davvero l’ultima persona che avrei mai voluto ferire…» mormorò, passandosi nervosamente le mani sulle cosce. Lei si voltò ad osservarlo mentre lui continuava a guardare di fronte a sé, studiando quel profilo che aveva e che l’aveva sempre fatta impazzire. Le passarono davanti tutte le volte in cui Jiyong l’aveva guardata di lato, con la coda dell’occhio, facendole quel mezzo sorriso che le faceva sempre quando voleva essere provocante e mordendosi il labbro inferiore, e tutte le volte che lei aveva riso di quell’espressione, imbarazzandolo e portandolo a coprirsi la faccia con il dorso della mano destra. Sorrise, con un’accettazione nuova, arrendendosi all’idea che non si erano neanche mai detti quello che provavano realmente, limitandosi sempre a dire di essersi affezionati l’uno all’altra, di essere importanti l’uno per l’altra e niente di più. Beatrice non aveva nemmeno mai trovato il coraggio di chiedersi se l’avesse mai amato, anche se c’erano stati momenti precisi in cui non era riuscita a quantificare il calore che sentiva a livello del petto quando lui la guardava dritto negli occhi, come se volesse entrarle in testa, e, poi, le sorrideva, con un semplice ti voglio bene.
«Ji, io non lo so se riesco a perdonarti…» sussurrò contro il suo orecchio, poggiandogli il mento sulla spalla sinistra e chiudendo gli occhi.
«Non ti sto chiedendo di farlo…»
«Che mi stai chiedendo, allora?»
Glielo domandò riaprendo gli occhi e guardando anche lei di fronte a sé, nello specchio, per incontrare il suo sguardo, mentre gli spostava i capelli tinti di rosso dalla guancia sinistra a dietro l’orecchio.
«Ti sto chiedendo di restare con me per un altro po’, perché non me la sento di stare da solo, non adesso e non quando tu sei così vicina…»
Jiyong si voltò, spezzando il contatto visivo che avevano instaurato tramite lo specchio solo per poterla guardare direttamente negli occhi. Poggiò la fronte contro la sua e sospirò, mentre lei scendeva con le dita ad accarezzargli i capelli sulla nuca, sentendogli duri al tatto come tutte le volte che se li era tinti da quando lo conosceva – spesso si era sorpresa che avesse ancora dei capelli da tingere in testa.
Beatrice non riusciva a capire cosa la rendesse così incapace di recidere di netto quel rapporto: l’aveva fatta stare benissimo e l’aveva fatta stare malissimo, ma era evidente che, loro due, così com’erano, non avrebbero mai funzionato realmente insieme e si sentiva anche un po’ sciocca o, forse, solo un po’ masochista a tentare di far combaciare con tutte le sue forze qualcosa che, evidentemente, non era nata con i bordi complementari.
«Mi dispiace di aver detto cose che non pensavo prima e che, comunque, non erano vere… Non sei mai stato un peso, per me.» si scusò, arricciando il naso, e Jiyong le spostò i capelli dietro l’orecchio sinistro, poggiandole le labbra chiuse sulla fronte e lasciandole la mano destra sul collo.
«Resti giusto un altro po’, sì?»
«Sì, resto giusto un altro po’…» ripeté, affondando i denti nel suo labbro inferiore, nel tentativo di convincersi di star facendo la cosa giusta.
Gli poggiò la fronte contro la guancia, espirando, e Jiyong portò il braccio sinistro intorno alle sue spalle, poggiandole il palmo contro la nuca.
Rimasero così per un po’, in totale silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NdA:
1.      Ci sono diversi tipi di taxi in Corea del Sud: generalmente, quelli neri sono per gli stranieri ed il colore diverso sta a significare che l’autista è in grado di parlare e capire l’inglese.
2.      Mi riferisco all’età coreana.
3.      Reinterpretazione personale del passaggio “while others grew, I listed stocks. That’s why I’m a little short” (traduzione inglese), da Divina Commedia.
  
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