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Autore: Fabio Brusa    10/09/2018    0 recensioni
Nella calda estate romana la vita di Furio Valente, professore mancato, marito infedele e abbandonato, scrittore senza pubblico, stenta a risollevarsi dalle ceneri dopo la separazione. La fiacca monotonia della sua quotidianità viene sconvolta dalla richiesta d'aiuto di un vecchio compagno di università, che gli spedisce l'indizio iniziale di un'improbabile caccia al tesoro, per poi scomparire senza lasciare traccia.
Comincia così l'avventura di un uomo eccezionalmente normale alle prese con testi antichi, segreti impronunciabili e domande fondamentali sull'esistenza di Dio. Ma sopratutto Furio sarà costretto a misurarsi con il peso delle proprie azioni passate e la necessità, per la prima volta, di lottare per ciò a cui tiene davvero.
Scelta da Extravergine d'autore.
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Stringendosi nelle spalle, Farsi si abbandonò all'abbraccio rassicurante del laboratorio, il suo ambiente naturale, lontano dal vuoto dei corridoi. Qualsiasi fosse la natura del materiale trovato da el-Nasser, presto l'avrebbe scoperto.
Passò il resto del pomeriggio a sistemare accuratamente i testi sui quali stava lavorando. Per quanto improvvisa, la possibilità di mettere mano per primo a un nuovo ritrovamento lo eccitava moltissimo. Le novità non erano certo la norma nel campo, un mondo che si muoveva fra le diapositive di giorni ingialliti dal tempo. Restaurare un vecchio manoscritto miniato dai frati poteva essere interessante, certo, ma ormai non gli offriva più una sfida mentale avvincente. Il più delle volte si ritrovava a dare una spolverata a libri vecchi, nemmeno antichi, che sarebbero poi finiti in un museo o nella collezione privata dei sovvenzionatori della biblioteca. Ma essere il privilegiato esploratore di antiche pagine sconosciute gli avrebbe fornito lo stimolo che cercava per ritrovare tutto l'entusiasmo di un tempo.
Nel laboratorio erano abitualmente impiegate altre quattro persone, due professori e due dottorandi. Quel sabato, però, era giorno di riposo, così solo il vecchio Farsi, che non abbandonava mai la sua amata prigione di sapere, era presente ad accogliere il nuovo arrivo. Prese una lattina di Coca-Cola dal distributore automatico e andò ad accendere gli impianti della stanza isolata per l'atmosfera artificiale.
Il laboratorio era ben attrezzato per ogni necessità, chiunque se ne sarebbe reso conto. I giusti macchinari, gli spazi adeguati, il personale qualificato. Farsi era fiero di essere al comando di quel piccolo mondo dove poteva curare i classici greci o latini come un medico i propri pazienti.
Il rumore delle ventole di refrigerazione creava un sottofondo fastidioso a cui il professore aveva ormai fatto l'abitudine. Per poter conservare al meglio i manoscritti più fragili era necessario ricreare le condizioni ottimali di temperatura e umidità. La stanza a clima artificiale, intitolata ad Howard Carter, l'egittologo scopritore della tomba di Tutankhamon, era dotata di tutto il necessario. Con estrema perizia e delicatezza avrebbe potuto, in quell'ambiente, dispiegare il sapere racchiuso tra i sottili fogli di papiro di migliaia di anni prima.
Ancora non aveva visto i testi, ma già si era fatto un'idea di cosa lo stesse aspettando. Nell'area palestinese il papiro era stato abbandonato come materiale per la scrittura con l'introduzione della pergamena, meno costosa e più resistente agli effetti del tempo, il che gli dava un'idea sulla possibile datazione. Ripensando però al luogo del ritrovamento, le sponde del Giordano, rimase perplesso.
Erano solo le quattro del pomeriggio e pensò di avere ancora parecchio tempo prima che le lungaggini burocratiche e i pigri inservienti gli permettessero di cominciare il proprio lavoro. Decise di tornare nelle sale di consultazione per sfogliare qualche testo sui ritrovamenti dell'area, ma fu bloccato sulla porta da un uomo con un carrello montacarichi.
«Mi scusi, professore, questo è per lei».
Con un passo indietro fece entrare il fattorino nel laboratorio. Evidentemente aveva sbagliato supposizione.
«Lo porti nella stanza Carter, per favore».
Una volta scaricata la cassa, non senza qualche difficoltà, l'uomo se ne andò.
«Buon lavoro, professore».
«Grazie, anche a lei» rispose distrattamente. In una frazione di secondo ogni distrazione era scomparsa dalla mente di Farsi. La sua attenzione era completamente catalizzata. Entrò nella sala Carter e chiuse le porte stagne. Solo dall'ampia vetrata sullo stanzone principale si potevano osservare i movimenti del professore, pur senza intralciarne il lavoro.
Oltre le doppie porte, un'anticamera separata consentiva ai restauratori di indossare gli abiti pesanti prima di accedere al cuore del laboratorio: all'interno faceva freddo e il lavoro richiedeva lunghe permanenze. Aprì la cassa con la chiave che il fattorino gli aveva lasciato e trovò un cofanetto in metallo. Gran parte della scatola esterna era stata riempita con una copertura termica, essenziale per trasportare in assoluta sicurezza i delicati papiri. Ma ora non ce n'era più bisogno. Sollevato il cofanetto più piccolo, lo poggiò sul tavolo in mezzo alla stanza.
Con un gesto rituale si sistemò gli occhiali e si sedette sulla sedia, puntando le luci opache sul contenitore. L'aprì, sentendosi proprio come l'uomo a cui era dedicata la sala, al momento dell'entrata nella tomba del faraone. Invece di gioielli e vasi canopi che avevano accompagnato il defunto nel suo ultimo viaggio, ad attenderlo c'erano pochi fogli di papiro, segnati da un leggero inchiostro nero intaccato dal tempo.
Prestando la massima attenzione, li estrasse uno ad uno, disponendoli sul piano in successione. Nel giro di pochi minuti stava fissando quindici reperti con sguardo compiaciuto.
«Bene», si disse, «ora si comincia».
Impiegò più di tre ore solo per svolgere gli esami preparatori. Prelevò dei campioni di materiale da spedire al laboratorio di analisi per la datazione e perché rilevassero eventuali presenze di corpi estranei nella trama del papiro. Era talmente immerso nel lavoro che lo scorrere del tempo divenne qualcosa di estraneo. Venne la notte e poi il mattino senza che Farsi si fosse concesso un attimo di sosta. Solo i crampi della fame lo convinsero a fare tappa al distributore di snack fuori dalla stanza. Poi si rituffò a capofitto fra le antiche lettere in aramaico.
Aveva studiato per anni quella lingua morta ma ciononostante impiegò quasi due settimane per tradurre esaurientemente il testo. Furono i tredici giorni più intensi, eccitanti e sconvolgenti della sua vita.
Circa una volta ogni quarantotto ore el-Nasser veniva a fargli visita. Sistematicamente gli assistenti di Farsi dovevano fargli un resoconto dei risultati del professore, che non era più uscito dalla Carter se non per mangiare e dormire. Lo osservavano ogni giorno lavorare ossessivamente, come se non potesse fermarsi per nessuna ragione al mondo. Se all'ora di pranzo e di cena qualcuno non si fosse preoccupato di portargli qualcosa da mangiare avrebbe saltato il pasto senza nemmeno accorgersene.
Pur informando l'esterno sui progressi che stava compiendo, Farsi volle mantenere il segreto sul contenuto dei quindici papiri. Era troppo presto, troppo avventato e troppo rischioso. Si trattava di un lungo testo composto in versi irregolari, in uno stile solenne di almeno duemila anni prima. Man mano che procedeva era sempre più evidente la somiglianza con i famosissimi rotoli del Mar Morto. Proprio lui, che aveva studiato per così tanto tempo i Vangeli, si ritrovava ora fra le mani quel testo sconvolgente. Si ripromise che avrebbe scelto con attenzione le parole da utilizzare nel momento in cui avrebbe rivelato alla direzione ciò che aveva scoperto.
Otto giorni dopo l'inizio del suo isolamento forzato arrivarono i risultati dell'analisi sul materiale. Coincidevano perfettamente con le valutazioni di Farsi: i papiri erano del primo secolo dopo Cristo. Come si fossero conservati in così buono stato gli parve quasi scontato: seppur vicino al Giordano, dovevano aver riposato in un luogo riparato e incredibilmente asciutto. Ritrovare opere leggibili a prima vista era qualcosa di estremamente raro.
I dubbi sull'autenticità dei testi, dopo due settimane, rasentavano lo zero. Quella era una scoperta straordinaria, un ritrovamento che uno studioso come Farsi poteva immaginare solo nelle fantasie più sfrenate. Aveva decifrato le parole, datato il periodo di compilazione, verificato l'attendibilità storica. Il momento del giudizio finale era giunto.
Improvvisamente, senza lasciar presagire nulla ai propri assistenti, alle quattro meno un quarto di mercoledì pomeriggio, Farsi schizzò fuori dal laboratorio e si diresse dal direttore della Bibliotheca come se avesse le ali ai piedi. Ancor prima di tirare il fiato spalancò la porta dell'ufficio.
«Devo andare a Roma» sentenziò. Nella fretta si era persino dimenticato di bussare.
Da dietro un paio di occhiali spessi un uomo sulla settantina lo stava fissando. «Professor Abbou, cosa sta facendo?». Seduto alla sua scrivania, Ismail Serageldin, il direttore della Bibliotheca Alexandrina, aveva uno sguardo confuso.
«Mi scusi l'irruenza, direttore, ma si tratta di un fatto di estrema importanza».
«Lo immagino» commentò quello in tono pacato. Non aveva mai visto il professore in tale stato. «Ma prego, si sieda, mi racconti dall'inizio».
Sentendosi ora in imbarazzo, Farsi si chiuse delicatamente la porta alle spalle e andò a sedersi su una delle due poltrone in pelle marrone, di fronte alla scrivania. «Suppongo che abbia terminato lo studio sul materiale che le è stato recapitato». «Esattamente, direttore». Mentre parlava, Ismail si versò una tazza di infuso alla menta. Quindi ne versò anche per Farsi, che lo interruppe quasi subito con un cenno della mano, impaziente. «Si tratta di una scoperta sensazionale».
«Come molte delle opere qui conservate» osservò il direttore, senza lasciarsi trasportare dall'emozione.
«Assolutamente no: non c'è nulla in questa biblioteca che sia minimamente paragonabile». Ismail arricciò il naso.
«Di cosa sta parlando?».
«Le sto dicendo, direttore, che ho assoluto bisogno di andare a Roma con i testi. È necessario, anzi impellente, che io consulti la Biblioteca Vaticana e sottoponga i papiri al vaglio degli studiosi della Santa Sede».
«Ma è sicuro di quello che sta dicendo? In fondo sono solo due settimane che lavora sui papiri, non può certo saltare alle conclusioni».
«Nessun salto, glielo assicuro». Farsi era talmente serio in volto che Ismail appoggiò la tazza fumante sul tavolo, visibilmente preoccupato.
«Di cosa stiamo parlando, professore? Cos'ha scoperto?».
Senza prendere fiato, Farsi pronunciò velocemente poche, pesanti parole, alle quali seguì un silenzio immobile. «Giù in laboratorio c'è il Vangelo autografo di Giuda Iscariota».

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