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Autore: Restart    11/09/2018    0 recensioni
2003
Sarah Habbott ha vent'anni ed è all'inizio del suo ultimo anno alla Queen Mary.
Non ha ancora deciso che lavoro fare, che vita cominciare.
Ha un'ipotetica vita da favola, ma in realtà non è tutto rose e fiori. Soprattutto quando viene a sapere che al posto della sua adorata professoressa di letteratura è arrivato uno sfigato epico, uno che va a giro in bicicletta, che ha un ridicolo accento scozzese e aspetto piuttosto insipido.
Nessuno sa il suo nome, si conosce solo come Il Professore.
Ma in lui c'è qualcosa di molto più profondo, che Sarah scoprirà man mano che il tempo passa.
Genere: Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sarah
Il resto della sera lo passo arricciata sul divano, pensando a tutto quello che è successo nel pomeriggio. Penso alle nostre mani che si sono strette, al calore della sua pelle sulla mia, al suo profumo e mi chiedo come possa essere successo tutto questo. Com’è potuta nascere questa strana sensazione in così poco tempo? Soprattutto perché il mio odio sembra essersi volatilizzato in un battito di ciglia?
Stringo le palpebre e cerco di scacciare quei pensieri dalla mia testa, m’impongo che non devo più pensarci, che non posso farmi ammaliare da lui. Potrebbero licenziarlo e potrebbero espellermi nel caso in cui dovesse nascere una relazione.
E alla fine riesco a convincermi. Devo tenere duro fino a luglio, quando riuscirò a prendere la laurea. Forse. Sempre che lui non me lo impedisca.
Alla fine mi addormento tra i grandi cuscini rossi che sanno ancora di mia madre, del suo intenso profumo di Saint Laurent.
Sono risvegliata verso l’una dal ticchettio di un paio di tacchi. Holly.
«Hey sorellina» la chiamo e vedo la sua ombra sussultare. Si affaccia e nella penombra riesco a vedere il suo sorriso che arriva da un orecchio all’altro.
«È andata alla grande, vero?» Lei annuisce vigorosamente, senza smettere di sorridere.
«Una delle serate più belle della mia vita» risponde. Non ci diciamo più niente, so già che è successo, lo si capisce da ogni suo movimento, da ogni suo gesto.
Andiamo nelle nostre camere nel completo silenzio, augurandoci solo dei deboli saluti.
23 novembre 2003
Mi trovo sola dentro un caffè a South Bank. Oggi avrei dovuto avere un incontro con il professore, l’unica dopo quel pomeriggio passato alla National Gallery. Ma non ce l’ho fatta ad andare. Non me la sentivo di passare del tempo da soli. Tradotto: ho deciso che smetterò questi incontri pomeridiani per cercare di smettere di pensare a lui. Le due domeniche precedenti sono riuscita a trovare dei pretesti, sebbene estremamente stupidi, per evitarle. Ma non so che mi è passato per la testa giovedì quando ho accettato il suo invito. Forse delle scimmie urlatrici.
Fatto sta che cinque minuti dopo me ne stavo già pentendo. Enormemente. Perciò oggi mi sono rifugiata dall’altra parte della città, sicura che qui non mi avrebbe trovata.
Mi porto alle labbra la tazza e sorseggio appena il delizioso caffè. Dio, com’è buono. Ci potrei fare il bagno dentro. Vedo Lizzie, mia ex compagna di liceo e cameriera al Lafferty, uno dei miei posti preferiti a Londra, schizzarmi veloce accanto, rivolgendomi uno sbrigativo sorriso. Fino ad un paio di anni fa, cioè quando non stavo ancora con Mike, questo era un appuntamento settimanale fisso, ma da quando ho cominciato la Queen Mary non ho un pomeriggio libero da dedicare ad un caffè e ad un muffin al cioccolato di questo posto.
Ma oggi mi sono decisa a togliermi questo sfizio.
Mi sono posizionata fuori, sotto il tendone, in un minuscolo tavolino all’angolo sinistro, da cui si vede tutta la città che inizia a illuminarsi. La osservo estremamente ispirata e orgogliosa, tanto che potrei cominciare a piangere. Vedo la gente passeggiare tranquilla, coppie mano nella mano, anziani con i nipoti, gruppi di ragazzini chiassosi.
Poso la tazza e prendo in mano Cime Tempestose, che tra parentesi è il mio libro preferito, e comincio a leggerlo per la quinta volta. Ogni tanto m’interrompo e lancio un’occhiata alla città e sorrido come un ebete.
La quarta volta che alzo la testa, scorgo qualcosa d’insolito alla mia destra. Dei capelli biondi, luminosi, le mani grandi, ruvide, il cappotto blu abbottonato e la sciarpa attorno al collo. E per poco non mi strozzo con il boccone di muffin che ho in bocca.
Non mi aspettavo di vederlo qui.
Improvvisamente vengo colta dal senso di colpa: mi sono comportata veramente di merda con lui, merita almeno delle scuse sincere. Con la coda dell’occhio lo vedo sorseggiare assorto il suo thé, mentre con una mano sta tenendo quello che sembra un copione.
Prendo tutto il mio coraggio e decido di sedermi accanto a lui. Dal canto suo fa uno salto sulla sedia notevole. Sembra realmente scioccato da me. Cerco di sorridergli, ma quello che viene fuori è solamente uno sbieco abbozzo di quello che intendevo fare. Vi spiego perché:
Uno: sono terribilmente in imbarazzo, visto che non ho mai fatto un gesto così audace e poi perché ho fatto una grande figuraccia con lui.
Due: la sua bellezza è sconcertante. Veramente, non riesco a descriverlo con le parole. È disarmante, è disumano.
Mi sono appena accorta che non ho specificato di chi si tratti. Ecco, non è il Professore. No, lui probabilmente mi sta aspettando davanti a London Eye, guardando disperato in mezzo alla folla, sperando di scorgere una testa a pinolo coperta da una cascata di capelli corvini.
È Nathan. Il famoso Nathan l’attore, l’amicone di Michael. Nathan con gli occhi dell’oceano e i capelli d’oro. Ehm, forse è meglio fermare questa specie d’ammirazione sconfinata. Sono ancora fidanzata. Teoricamente. Ma ritorniamo al presente.
Piano piano la sua espressione turbata cambia in una sorpresa (positivamente aggiungerei, se fossi ottimista. Ma io e l’ottimismo procediamo su binari paralleli, quindi negativamente). Ammicca ad un minuscolo sorrisetto, e vidi appena i suoi denti perfetti.
«Penso tu fossi l’ultima persona che mi sarei mai aspettata qui» mi dice lentamente, al suo solito. Io mi sento appena arrossire e balbetto qualcosa come fuga dal presente, o una cavolata del genere, giusto per rompere il ghiaccio. Alla fine mi schiarisco la voce e inizio a dire ciò che era mia intenzione.
«Senti Nathan, vorrei scusarmi per quella sera. Sono stata una vera stronza, e tu avevi ragione»
«Esatto» conferma, portandosi la tazza alle labbra. Io rimango appena di stucco. Mi sarei aspettata un “ma no Sarah, anche io sono stato uno stronzo, ti ho risposto male eccetera”. E invece no. Lui ha detto esatto. Che stronzo.
Cala tra di noi un silenzio angosciante, un silenzio del quale lui pare fregarsene altamente. Continua a bere il suo fottuto thè e leggere il suo copione, come sei io non ci fossi.
Mi trovo in un limbo: andarmene, oppure rimanere qui come se nulla fosse? Gradisce la mia presenza, vuole che me ne vada? Forse è meglio così. Scosto la sedia e faccio per alzarmi, ma il suo braccio si allunga velocemente ed afferra il mio in una stretta solida.
«Per favore, resta.» Alza gli occhi dai suoi fogli e mi fissa a lungo, ammutolito. E ancora una volta tra noi scende un silenzio, ma questa volta non è più angosciante come quello di prima. Ora siamo solo noi due, nessun altro attorno, non c’è più il lieve brusio del Lafferty, il tintinnare delle tazze, dei cucchiaini. Ho i brividi, non so come fermarmi. Lui non stacca gli occhi dai miei, quasi ipnotizzato.
Ed è proprio adesso che faccio ciò che non avrei mai dovuto fare: mi chino verso il suo viso e avvicino il mio naso al suo. Le nostre punte di strofinano dolcemente per qualche secondo, finché non mi decido a baciarlo. Un forte odore di agrumi m’invade, mi riempie la bocca.
Non dura tanto, giusto qualche secondo. Ma quando ci stacchiamo io ho subito voglio di ritornare lì, sulle sue labbra morbide e rosee.
«Non possiamo farlo» mi sussurra, invitandomi a sedermi di nuovo. Lo guardo a lungo, un po’ ferita dalle sue parole, un po’ sollevata, perché so che io non sarei mai stata in grado di dirle. Alla fine mi siedo lentamente, non lasciando il contatto con lui. Le nostre mani sono ancora intrecciate, il suo pollice ruvido sta ancora accarezzando il mio.
Non so dire per quanto tempo rimaniamo così, immobili, senza dire parola, concentrati sui nostri sguardi, con solo i nostri respiri a farci compagnia.
Alla fine decido di andarmene. Lui non prova nemmeno a fermarmi, i suoi occhi pieni di vergogna non incontrano nemmeno i miei. E io gliene sono grata. Non lo sopporterei.
Il viaggio di ritorno verso casa lo faccio a piedi, cercando di non pensare a cosa ho fatto. Ma è inutile. Le domande mi ronzano in mente, un perché sovrasta l’altro.  Quando passo davanti al British, vedo il professore seduto sugli scaloni. Ha lo sguardo concentrato a cercare qualcuno tra la folla. Tiene in mano un busta, se la rigira tra le dita lunghe e affusolate, leggermente screpolate per il freddo.
Rimango a fissarlo a lungo, forse più del necessario. Quando si alza, i suoi occhi incrociano i miei. Li vedo pieni di disappunto, di delusione. Poi distoglie lo sguardo e si concentra sulla donna bionda che gli sta andando incontro. L’abbraccia, si abbracciano, e poi lui la bacia, con una delicatezza infinita. E dopo essersi staccati se ne vanno, lentamente, con le mani intrecciate, scomparendo nella folla.
Ritorno a casa ancora più affranta, con i piedi e le gambe pesanti, ogni passo mi costa un’infinità di energia. Ringrazio il cielo che non ci sia nessuno in casa e mi chiudo in camera, a riflettere.

Michael
Peter sta bevendo il secondo Long Island. Di seguito. Ha gli occhi lucidi dalle lacrime e dall’alcool.
«Perché vedi, io l’amavo veramente, quella stronza» biasciaca stropicciandosi gli occhi. «Non credevo che mi lasciasse così, mentre ero in ginocchio con un anello tra le mani» continua a lamentarsi, ma io non riesco a sentirlo. Sono tra le nuvole da qualche giorno. O meglio, da quando sono tornato da Londra. Sento una sensazione strana allo stomaco, una sorta di stretta che non decide di andarsene.
«Ehi, Mike, se non mi vuoi ascoltare vai pure via, tanto c’è Alan» dice Peter indicando con il bicchiere quasi vuoto verso Alan, il barman, nostro compagno d’università.  Lo vedo rivolgermi un’occhiata sofferente, come per dirmi “non mi lasciare solo con questo qui, per favore”. Sbuffo piano, cercando di non farmi sentire da Peter che nel frattempo ha ricominciato la sua lagna, senza che io gli dicessi niente. Ma io non riesco a sentirlo. Un po’ perché sono sempre gli stessi discorsi, un po’ perché una bella ragazza si è seduta accanto a me. Ha gli occhi color nocciola e dei corti capelli biondi. È carina, semplice, mille volte meglio di tutte quelle eccessivamente truccate che si sono sempre avvicinate.
«Ciao»
«Ciao» la saluto, quasi timidamente. Per fortuna è lei ad attaccare bottone, sennò non avrei avuto idee. Sono così arrugginito per queste cose. L’unica ragazza con cui sono stato è Sarah, e tra di noi c’è stato un inizio piuttosto veloce. Non ci sono stati discorsi nel mezzo, no. Quella sera siamo passati direttamente al bacio.
Immediatamente la mia mente viaggia a lei. L’amore della mia vita. Ne sono sicuro. Nel mio futuro la vedo al mio fianco.
C’è un però. Sono sempre giovane, ho ventidue anni, ho voglia di fare qualche esperienza. E magari anche lei.
Ci siamo detti questo a Heathrow, quel giovedì pomeriggio quando ho lasciato l’Inghilterra. Ci siamo presi una di quelle famose pause. Dieci minuti per respirare. E devo dire che non è tanto male.
Fa male dirlo, è vero, ma mi sento quasi sollevato senza di lei, senza la tremenda morsa della gelosia, della nostalgia.
La ragazza fa allungare la mano sul mio braccio e mi sorride, un sorriso brillante, senza paura, senza voglia di aspettare un momento di più. Mi sta chiedendo di andarcene, di andare a casa mia magari. Ci penso un po’. Magari no, rispondo, la casa è un macello. Andiamo a casa tua, propongo allora e lei si limita ad annuire, a prendermi per un mano e trascinarmi fuori dal bar, nel freddo newyorkese.
Camminiamo per le lunghe strade intorpiditi dal vento gelido e ammutoliti da un imbarazzante silenzio. Ogni tanto, con la coda dell’occhio la vedo aprire la bocca, per poi richiuderla subito, scuotendo appena la testa.
È bella, con i suoi capelli che le arrivano a metà schiena, come uno scivolo d’oro lucente. Tutto il contrario delle ciocche ebano di Sarah. Proprio l’opposto.
Mi ficco le unghie le carne del palmo perché ho pensato di nuovo a lei e mi sono ripromesso che non lo avrei fatto. Almeno per qualche settimana, almeno fino a Natale, quando verrà qui.
Nel frattempo lei mi ha trascinato dentro un atrio stretto e buio alla fine del quale di vede un bagliore chiaro e fastidioso. La porta verde scuro si apre dopo qualche spintone e ci rivela una stanza in perfetto ordine, con un forte odore di pulito a impregnare ogni tessuto.
«Vivi qui?» domando mentre faccio scendere le spalline del suo abito viola, troppo leggero per essere indossato a novembre. Lei annuisce silenziosamente, mentre infila le mani gelide dentro la mia camicia bianca. Mi bacia lentamente e io mi sento invadere dal suo profumo di fiori freschi. Nel frattempo mi aiuta a sganciarle il reggiseno e lo butta sul divano rosso, dove poi ci sdraiamo.
La mattina dopo vengo svegliato dallo sbattere delle padelle sui fornelli. Intravedo le sue gambe nude e l’orlo di una lunga maglietta grigia, macchiata di vernice. Sorrido in silenzio, assaporando la pace di una domenica in tranquillità dopo un sabato frenetico. Lei smette di cucinare, facendo scivolare i pancakes sul piatto. Mi si avvicina e finalmente riesco a vederla in maniera chiara in viso.
Mi rimangio tutto.
Per poco non mi prende un colpo.
Le parole mi escono tremolanti dalle labbra. «Jasmine, ma che diavolo..?»
E lei sorride maliziosa.
   
 
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