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Autore: rolly too    11/07/2009    3 recensioni
«Ehi!» lo chiamai ad alta voce, cercando di sovrastare il rumore della pioggia. La voce mi uscì più roca e vibrante di quanto avessi immaginato, ma non ci feci caso. Lui non rispose. Non si mosse, e non diede nessun segno di avermi sentito. «Ehi!» ripetei più forte, e solo allora si voltò verso di me. Una macchia di sangue scuro gli copriva la parte sinistra della fronte e il liquido scarlatto, unito alla pioggia, gli era colato sul volto e sulla maglietta inzuppata di acqua. Rabbrividii, mentre il cuore iniziava a rimbalzarmi in bocca e mi coglieva un fortissimo senso di nausea. Mi si offuscò per un attimo la vista, mentre il fischio nelle orecchie si faceva insopportabile. Che cosa avevo fatto?
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Martedì 21 Ottobre.

La pioggia cadeva incessantemente da più di due ore, e le strade illuminate dai lampioni erano lucide per l’acqua.
Il barbaglio dei fanali del mio motorino si rifletteva sull’asfalto liscio e mi colpiva gli occhi, ma non ci feci caso. Conoscevo quella strada tanto bene che non avevo bisogno di voltarmi per seguire le indicazioni, e la mia velocità era talmente moderata da farmi ritenere che non ci fosse particolare pericolo a viaggiare in quelle condizioni. Ero in ritardo, e mia madre non avrebbe tollerato un’altra assenza a una delle sue importanti cene di famiglia, perciò accelerai e mi sporsi leggermente in avanti per contrastare la forza del vento che mi colpiva.
Accadde tutto in un attimo.
Mi sbucò davanti all’improvviso e si bloccò in mezzo alla strada, lo sguardo puntato su di me e sul mio mezzo. Frenai di colpo, e sentii le ruote che scivolavano sulla strada, fuori dal mio controllo. La moto slittò verso di lui e nel patetico tentativo di evitarlo perdetti l’equilibrio. Caddi a terra a meno di un metro da lui e potei distintamente vedere il motorino che si arrestava con un guizzo improvviso e cadeva esattamente sopra al ragazzo, che non si era spostato di un millimetro, e lo nascondeva dalla mia vista.
Mi assicurai velocemente di essere ancora intera, tolsi il casco e corsi verso di lui, terrorizzata. Con le mani che tremavano per la paura di avergli fatto del male sollevai il motorino e lo spostai con tutta la forza di cui fui capace. Ignorai il colpo che provocò il contatto della moto con l’asfalto.
Guardai il ragazzo, incapace di dire una parola. Mi sentivo tremare, e avvertivo un fischio incessante alle orecchie. Era seduto a terra, immobile, la testa china. Era impossibile determinare se si fosse ferito, e feci più volte per avvicinarmi, ma tutto ciò che ottenni dalle mie gambe fu un tremolio di protesta che mi fece capire che non sarei riuscita a muovere un passo.
«Ehi!» lo chiamai ad alta voce, cercando di sovrastare il rumore della pioggia. La voce mi uscì più roca e vibrante di quanto avessi immaginato, ma non ci feci caso. Lui non rispose. Non si mosse, e non diede nessun segno di avermi sentito. «Ehi!» ripetei più forte, e solo allora si voltò verso di me.
Una macchia di sangue scuro gli copriva la parte sinistra della fronte e il liquido scarlatto, unito alla pioggia, gli era colato sul volto e sulla maglietta inzuppata di acqua.
Rabbrividii, mentre il cuore iniziava a rimbalzarmi in bocca e mi coglieva un fortissimo senso di nausea. Mi si offuscò per un attimo la vista, mentre il fischio nelle orecchie si faceva insopportabile.
Che cosa avevo fatto?
Avanzai barcollando verso di lui, che si era voltato e in quel momento fissava la strada, apparentemente privo di qualsiasi emozione. Lo afferrai per un braccio e lui si girò verso me con uno scatto sorpreso. Osservandolo alla luce pallida del lampione mi accorsi che non doveva essere molto più grande di me. Più pallido che mai, mi scrutò a lungo, gli occhi azzurri che vagavano veloci sulla mia figura, attenti, ma non disse nulla. Sembrava non essersi accorto di essersi ferito.
«Ce la fai d alzarti?» domandai ad alta voce indicandogli la fronte insanguinata. Si passò una mano sulla ferita, senza fare caso a me, poi osservò le dita sporche di sangue. Annuì debolmente e in un attimo fu in piedi accanto a me, che ancora gli tenevo il braccio.
«Sei ferito?» gli chiesi ancora, la voce che si incrinava sempre di più. Volevo che parlasse, che mi dicesse qualcosa, qualunque cosa, che mi insultasse: volevo accertarmi che stesse bene, che ciò che avevo fatto non era grave come mi sembrava.
Com’ero orrenda a pensare una cosa simile! A prescindere dall’entità delle ferite, la mia noncuranza avrebbe potuto trasformarsi in una tragedia, e c’era mancato davvero poco che accadesse davvero; come potevo sperare di trovare un modo per mitigare il mio senso di colpa? Era giusto che fossi terrorizzata, era giusto che mi sentissi male: mi sarebbe servito per ricordare di fare più attenzione, la prossima volta. Involontariamente, prima che riuscissi a fermarmi, sentii le lacrime che iniziavano a scendermi lungo le guance, nascoste dalle gocce di pioggia che continuavano a cadere fittissime e che ormai avevano inzuppato entrambi.
«Sei ferito?» ripetei con un urlo strozzato quando mi resi conto che non aveva ancora risposto. Perché si ostinava a non parlare?
Mi osservò con attenzione, fece un passo indietro per costringermi a lasciargli il braccio e fece un sorriso debole e forzato.
«Sto bene.» Forse lo mormorò soltanto e lo scroscio insopportabile della pioggia coprì le sue parole, o forse fu un’affermazione muta: di fatto, però, non sentii la sua voce.
Mosse qualche passo verso il mio motorino, ancora a terra, poi raccolse il casco che avevo gettato nella fretta di accertarmi delle sue condizioni e me lo porse.
«Tutto a posto?» domandò a bassa voce. Un tuono sovrastò le sue parole, e io riuscii a cogliere ciò che mi diceva solo grazie al movimento delle sue labbra.
Annuii.
«Certo.» replicai. Non ero io quella che era stata investita, non doveva preoccuparsi delle mie condizioni! Avrebbe piuttosto dovuto controllare di essere ancora tutto intero, invece che fare caso a me!
Mi lanciò un’occhiata scettica e si strinse nelle spalle. Mi affrettai ad afferrare il casco che mi porgeva e rimasi a guardarlo mentre lui, senza più badare a me, riprendeva la strada che l’avevo costretto a interrompere.
Camminava rapido, con la testa bassa e le mani affondate nelle tasche dei jeans fradici. Sparì dalla mia vista in poco tempo, e io rimasi ferma in mezzo alla strada, pietrificata.
Rendendomi conto di quanto fosse pericoloso restare lì, benché non fosse un posto molto frequentato, presi il mio motorino e lo trascinai sul lato della carreggiata.
Improvvisamente sentii le forze venirmi meno, e mille luci colorate esplosero davanti ai miei occhi mentre i rumori e i suoni si facevano più distanti.
Mi affrettai a sedermi sull’orlo del marciapiede e afferrai il cellulare che avevo nella tasca dell’impermeabile con la mano che ancora tremava violentemente. Tentai di fare il numero, ma non ci riuscii. Scoppiai a piangere, un senso di colpevolezza che mi schiacciava il petto.
E se quel ragazzo si fosse ferito gravemente? Avrebbe dovuto farsi controllare quella ferita, andare all’ospedale: e se si fosse procurato un trauma cranico? Avrei dovuto costringerlo a restare, obbligarlo a farsi medicare e chiamare la polizia per denunciare il fatto, ma in quel momento non c’avevo pensato. E ora era troppo tardi.
Quando finalmente riuscii a comporre il numero di mio fratello ero scossa da singhiozzi incontrollabili, tanto che lui faticò a capire ciò che gli dissi.
«Puoi venirmi a prendere?» balbettai non appena sentii la sua voce.
«Totta!» esclamò lui quando sentì il mio tono tremolante e i singulti che mi procurava il pianto. «Dove sei? E’ successo qualcosa? Sei ferita?»
«Sto bene.» mi affrettai a rassicurarlo rendendomi conto del panico che l’aveva invaso. «Non mi sono fatta niente.» Non io. Cercai di riprendere il controllo della mia voce, tirai un profondo sospiro e proseguii: «Sono in viale Roma, davanti alla stazione.»
Non feci nemmeno in tempo a finire la frase che lui mi interruppe.
«Arrivo subito.» Non mi diede il modo di replicare, perché riattaccò il telefono.
Rimasi lì, imbambolata, con la testa tra le mani, per quella che mi parve un’eternità.
Vidi la sua macchina sbucare dalla curva in fondo alla strada e tirai un sospiro di sollievo. Avevo freddo, avevo fame, e i vestiti e i capelli bagnati che mi si erano attaccati alla pelle formavano una barriera gelata che mi faceva rabbrividire.
Scese dall’auto ancora prima di frenare del tutto. L’abbandonò in mezzo alla strada, senza nemmeno darsi pena di chiudere lo sportello, e in due balzi fu accanto a me. Mi afferrò per i polsi e mi costrinse a guardarlo, scrutandomi attentamente in cerca di ferite o lividi.
«Dimmi subito che cosa è successo.» ordinò lanciando un’occhiata terrorizzata al motorino che giaceva accanto a me e al casco poggiato sul marciapiede. «Sei stata aggredita?» attraverso lo scroscio dell’acqua mi sembrò di sentire la sua voce vibrare, così mi affrettai a scuotere la testa.
«Ho investito un ragazzo.» soffiai mentre un singhiozzo mi scuoteva da capo a piedi. Rabbrividii e lasciai che mi aiutasse a rimettermi in piedi.
Alessandro si immobilizzò.
«E’ ferito?» domandò, rigido.
«Non lo so!» esclamai, la voce più acuta che mai. «Aveva un taglio sulla fronte, ma si è alzato, mi ha detto che stava bene e se n’è andato! Non ho fatto in tempo a dire niente…»
Mio fratello sorrise, mi carezzò i capelli fradici e mi abbracciò.
«Se camminava da solo significa che non si può essere fatto più di tanto male.» commentò. «Stai tranquilla. Andavi veloce?»
«No, il motorino era quasi spento quando gli è caduto addosso.»
«Allora vedrai che si riprenderà prestissimo. Magari sarà un po’ ammaccato per qualche giorno, niente di più.» Rialzò la mia moto e la parcheggiò in un angolo, poi mi condusse alla macchina e si mise al volante.
Non parlammo per tutto il viaggio. Sentivo la gola secca, mi girava la testa e il cuore batteva all’impazzata. Spensi la radio quando lui l’accese, e non diedi segno di voler intavolare una conversazione quando cercò di farmi qualche domanda.
Non appena arrivammo in garage sentii i passi frettolosi di mia madre che scendeva le scale.
«Parlerai tu con lei?» implorai a bassa voce scendendo dall’auto. Alessandro annuì.
Mi sospinse su per le scale e fermò mia madre che, con gli occhi sbarrati per la paura, mi era corsa incontro.
«Non ha voglia di parlare.» lo sentii dire. «E’ molto scossa, forse faremmo meglio a lasciarla stare per un po’.»
Corsi in bagno e mi sbattei la porta alle spalle. Mi tolsi i vestiti in fretta, con rabbia, gli scagliai sul pavimento di marmo e aprii l’acqua della doccia. Il suo rumore mi fece rabbrividire.
Troppo, troppo simile alla pioggia sull’asfalto.

Tremavo ancora quando uscii dal bagno. Fuori della porta, ad aspettarmi, c’erano i miei due fratelli insieme a mia madre. Alessandro le cingeva le spalle per tranquillizzarla; Mirko, accanto a lui, più alto e dinoccolato che mai, con gli occhiali poggiati in bilico sul naso adunco, reggeva tra le mani una tazza di cioccolato caldo fumante. Me la porse non appena mi vide.
«Con tanto zucchero.» annunciò mentre afferravo la tazza. «Stai bene?»
Annuii mentre sorseggiavo piano quella bevanda bollente.
«Voglio andare a dormire.» borbottai dopo un po’. Forse mi sarei svegliata la mattina dopo e avrei scoperto che tutto ciò che era successo non era che un brutto sogno.
Non dissero nulla, ma mi seguirono con lo sguardo fino alla mia stanza. Quando chiusi la porta ci vollero dieci minuti buoni prima che sentissi i loro passi allontanarsi.
Mi stesi sul letto e tirai le coperte fino agli occhi. Ero stanca, ma sentivo ancora il terrore nel petto e il freddo nelle ossa. Avevo paura di chiudere gli occhi, temevo di vedere qualcosa che non mi sarebbe piaciuto.
Quando, al limite delle forze, mi costrinsi a cercare di dormire, mi accorsi che non era così difficile ignorare gli avvenimenti e lasciarsi cullare del calore delle coperte e dal profumo di bucato del cuscino…
Quando mi svegliai erano le dieci della mattina. Mia madre, evidentemente, non aveva ritenuto opportuno svegliarmi in tempo per andare a scuola. Il ricordo dell’incidente della sera prima mi appariva quanto mai lontano, sfumato, e a ripensarci mi dava l’impressione di vedere quelle immagini attraverso uno schermo, come se si fosse trattato di un film.
Andai in cucina, ancora assonnata, e trovai mio fratello Mirko seduto sull’orlo del tavolo, con un grosso volume tra le mani. Leggeva chino, con il naso che sfiorava le pagine ingiallite.
«Ed ecco la Totta!» esclamò trionfante quando si accorse della mia presenza. Richiuse il libro con un tonfo e saltò giù dalla tavola. Mi si avvicinò e mi sorrise sornione. «Alessandro ha detto che sei una piratessa della strada.» mi apostrofò. Gli lanciai un’occhiataccia sbieca e lo spinsi da un lato.
«A me a detto che sei un idiota.»replicai, stizzita. «Non dovresti scherzare su queste cose.»
Lui sbuffò, poi mi si avvicinò e mi scompigliò i capelli.
«Ho guardato tutti i notiziari, questa mattina. Nessun ragazzino è stato ucciso da un motorino azzurro con le coccinelle, perciò suppongo che il povero malcapitato sia ancora vivo.»
«Se n’è andato camminando sulle sue gambe.» lo informai mentre aprivo il frigorifero e tiravo fuori la bottiglia del latte. Ne versai un po’ in una tazza e ci aggiunsi del cioccolato in polvere e della cannella. Mi sedetti a tavola e afferrai la ciambella che Mirko mi porgeva.
«Ale ha detto anche che il motorino gli è caduto addosso.»
«E’ stato così, infatti.»
Lui scrollò le spalle.
«Allora non può essersi fatto tanto male. A me è successo un sacco di volte e sono ancora qui, vedi?» Agitò una mano e improvvisò un balletto. Scoppiai a ridere.
«Torna ai tuoi libri, Mirko. Non sei fatto per la danza.» Mi lanciò un’occhiata volutamente affranta, fece finta di asciugarsi le lacrime e parlò con la voce più afflitta che riuscì a modulare.
«Sei ingiusta, Carlotta. Io ho sempre sognato di diventare un ballerino, come Billy Elliot.»
Scossi la testa, ridendo, e non risposi. Finii la mia colazione in silenzio, mentre mio fratello tornava al suo libro.
Tornai nella mia stanza. Improvvisamente, il senso di colpa per ciò che avevo combinato mi attanagliò nuovamente lo stomaco. Com’ero stata stupida a lasciarlo andare via in quel modo! Perché non avevo pensato di fermarlo? Se avessi almeno conosciuto il suo nome, avrei potuto cercare di rintracciarlo per vedere se, a distanza di qualche ora dall’incidente, aveva recuperato abbastanza lucidità da dirmi se stava bene o no.
Mi alzai di scatto e corsi in salotto. Dovevo assolutamente trovare qualcosa da fare per evitare di pensare alla sera prima.
Mi sdraiai in divano e accesi la televisione, la sintonizzai su una televendita e rimase immobile ad ascoltare uno speaker che, entusiasta come un gabbiano sulla discarica, elogiava i miracoli del triplo fondo sventolando una pentola in acciaio risplendente.

Rimasi ferma davanti alla televisione per tutta la giornata, alzandomi solo per affrontare uno stressante pranzo durante cui mia madre cercò di convincermi che la colpa dell’incidente della sera prima era senza dubbio del ragazzo che avevo investito. Non sarebbe dovuto sbucare fuori dal nulla, Totta. Non hai niente di cui preoccuparti. Aveva ripetuto per diverse volte, fino a che, al limite della sopportazione, Alessandro aveva bruscamente cambiato argomento, aggiornandoci sulle sue ultime avventure all’università.
Solo all’ora di cena finalmente mi riscossi. Uscii di casa che era già buio da un pezzo, perciò mi ripromisi di rimanere fuori solo per qualche minuto, giusto per prendere una boccata d’aria. Feci il giro dell’isolato per un paio di volte, poi decisi che forse era meglio andare a letto e puntare la sveglia, giusto per essere sicura di non dover passare un’altra giornata a casa a far nulla. Se fossi andata a scuola, almeno, avrei potuto parlare con le mie amiche e distrarmi.
Quando rientrai cercai di evitare mia madre, che lavava i piatti canticchiando, e i miei fratelli.
Mi rifugiai nella mia stanza e afferrai il libro di storia, sperando che una lettura veloce potesse aiutarmi a superare il compito che mi attendeva il giorno seguente.


«Credo che quando il professore leggerà il mio compito avrà un attacco di cuore.» mi lamentai con Francesca durante la ricreazione. Le prime due ore erano state, per me, un’agonia indicibile che era culminata con la consegna del test di storia peggiore della mia carriera scolastica e, dalla faccia sconsolata della mia amica Ines che, accanto a noi, non aveva ancora detto una parola, capii che forse non ero stata l’unica a fare un disastro.
«Dici sempre così.» mi rimbrottò Francesca scrollando le spalle «E poi te la cavi. Se poi per una volta prendi un’insufficienza, non sarà mica una tragedia.»
«La fai facile tu.» pigolò Ines dallo scalino su cui si era seduta. «Non hai idea di quello che mi farà mia madre quando scoprirà che mi è andato male un’altra volta…»
«Tua madre non dirà niente, come sempre.» replicò l’altra con aria stizzita. «Ti farà promettere che la prossima volta studierai di più e ti lascerà in pace. Piuttosto, non indovinerete mai che cosa è successo questa domenica!» esclamò e a quelle parole parve animarsi.
«Hai ritrovato il rossetto?» s’informò subito Ines, ma Francesca la fece tacere con un gesto impaziente della mano.
«Ho rinunciato a cercarlo, in fondo era solo uno stupido rossetto…»
Ines la interruppe con un grido strozzato.
«Che, oltre a essere introvabile, era mio.» sottolineò, ma già sorrideva, pregustando il pettegolezzo.
«Te ne comprerò un altro.» la liquidò Ines. «Piuttosto… Sono uscita con Uri!»
«Racconta tutto!» la spronai battendo le mani. Erano cinque anni che Francesca cercava di rimediare un appuntamento con lui, che in qualche modo aveva sempre rifiutato, ed ero felice di sapere che finalmente la mia amica aveva ottenuto ciò che desiderava. E, a giudicare dal suo sguardo entusiasta, si era anche divertita parecchio. Anche Ines si era fatta attenta, e si era leggermente sporta verso di lei per poter sentire meglio, sopra al frastuono dei ragazzi che giocavano a pallone e il rombo delle automobili che passavano per la strada.
«Mi ha portata al cinema.» raccontò Francesca parlando velocemente. «Il film non era un granché, ma lui è stato dolcissimo, e poi siamo andati a fare un giro in centro e abbiamo chiacchierato tutta la sera e quando mi ha riaccompagnata a casa mi ha detto che gli farebbe piacere uscire ancora!»
«Wow!» commentò Ines con un’occhiata eloquente. «Alla fine ha capito, allora!» mi lanciò un’occhiata complice.
«Credevamo che lo avresti aspettato per l’eternità.» completai io, poi scoppiammo a ridere.
Fu in quel momento che vedemmo avvicinarsi Uri. Rideva con un amico, un tipo che non conoscevo, ma era evidente che stava cercando di liberarsi di lui a gesti e parole.
Quando arrivò da noi era solo. Il suo amico era tornato a concentrarsi sulla partita di pallone che si stava svolgendo sul campo d’atletica.
«Ciao!» ci salutò con un sorriso radioso che metteva in mostra i denti bianchissimi. Si voltò verso Francesca e le lanciò un’occhiata intensa, carica di significati nascosti, gli occhi neri puntati sui suoi. «Vieni con me?» le domandò a bassa voce.
Lei annuì senza pensarci due volte, ci salutò con un gesto della mano e si allontanò.
Ines e io restammo in silenzio a osservarla mentre rideva insieme a Uri, poi la mia amica si alzò e fece per andarsene.
«Torno in classe.» annunciò. «Devo copiare la versione di latino prima che arrivi la prof. Ci si vede tra un po’.»
«Il mio quaderno è nello zaino!» le gridai quando era ormai giunta alla porta. Sollevò il pollice alle proprie spalle per farmi intendere che aveva capito e sparì dalla mia vista.
Rimasta sola, non trovai niente di meglio da fare che guardarmi i piedi. Mi accorsi di avere le scarpe slacciate, così mi chinai per rifare i nodi.
Mentre ero ancora inginocchiata a terra, due scarpe nere comparvero nel mio campo visivo.
«Ciao.» sentii dire da una voce maschile che non conoscevo. Era roca e bassa, completamente nuova per me. Non mi ricordava nessuno dei ragazzi con cui avevo parlato, magari anche una sola volta.
Alzai lo sguardo, e quando riconobbi il ragazzo che mi stava fissando mi sentii morire il fiato in gola.

 

Ed eccola qui. La storia a cui sto lavorando da più tempo (si parla di quasi due anni) e che, davvero, è quella che sento più mia tra tutte quelle che ho scritto. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate.

Baci,
rolly too

   
 
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