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Autore: TellMeRose    12/09/2018    3 recensioni
Anna avrebbe davvero tanto voluto stringere la mano a quel tassista. Ormai il ragazzo parlava senza più filtro alcuno, un flusso di coscienza così intenso che avrebbero potuto trovarsi in una foresta nera, su una spiaggia deserta o nella tundra rinsecchita e arida, che l’atmosfera non sarebbe cambiata di un grado. Anna ascoltava, il Tassista parlava, nessuno dei due minimamente consapevole del perché.
"La luce pensa di viaggiare più veloce
di qualsiasi altra cosa, ma si sbaglia.
Per quanto veloce viaggi, la luce scopre
che l’oscurità arriva sempre per prima,
ed è lì che l’aspetta"
Questa storia partecipa al contest "NON HO PAROLE", indetto dalla speciale milla4, che ha avuto un'ottima e stimolante idea geniale.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Questa storia partecipa al contest,
“NON HO PAROLE”
indetto dalla compagna di scorpacciate di Criminal Minds,
Milla4
 
 
 
 

La città senza di me

 
 
 
 
La luce pensa di viaggiare più veloce
di qualsiasi altra cosa, ma si sbaglia.
Per quanto veloce viaggi, la luce scopre
che l’oscurità arriva sempre per prima,
ed è lì che l’aspetta.
Terry Pratchett
 
 
Tutto ha il suo tempo, ogni cosa ha il proprio momento, il proprio posto ordinato nella lineare e spietata scala cronologica della vita; bisogna saper attendere, con perseverante pazienza, l’istante esatto per ogni circostanza; e Anna lo sapeva bene.
C’è un tempo per alzarsi al mattino, al richiamo reiterato della sveglia; un momento per dormire fino a tardi e uno per svegliarsi alle luci purpuree dell’alba. Un tempo per vivere; un tempo per morire. Un momento esatto per tagliare i capelli; uno per immergere le mani nel terriccio umido e piantare dei fiori, un istante preciso per raccoglierli e donarli a qualcuno. Ci sono le condizioni adatte per cercare, quelle giuste per perdere e poi per trovare; un tempo per ballare, uno per ridere e uno per amare. C’è un attimo preciso, inequivocabile, quasi soppesato, per prendere delle decisioni.
Per questo aveva scelto quella mattina, quella e nessun’altra, per partire; partire, andare lontano e forse non tornare mai.
Anna aveva preso molte altre decisioni nella sua vita e credeva ciecamente nelle sue scelte: aveva scelto di seguire il suo sogno, la sua passione ancestrale, e fare la giornalista; aveva scelto di non vivere più con sua madre, da tre anni ormai non si parlavano più se non per sporadiche chiamate di convenienza; aveva scelto di andare a vivere con la sua migliore amica; aveva scelto lui.
C’erano tante e definitive decisioni a delineare le tappe della sua storia; per dirne una, ricordava ancora il rumore sordo e deciso delle forbici, quando al liceo aveva deciso di tagliare i capelli corti. Da maschio, aveva detto la sua migliore amica, da delinquente, aveva detto sua madre; quello, per altro, era stato l'ultimo dei tanti litigi privi di senso, prima che lei se ne andasse sbattendo la porta di casa. Anna sapeva che quello era il momento giusto per tagliare i capelli, e pensava che non avrebbe mai voluto tornare indietro. Né con i capelli, né con sua madre.
 
Nella penombra dell’abitacolo il tassista, bloccato nel traffico di Milano, scorse un’immagine rapida ombreggiare lo specchietto retrovisore: la donna, prima statuaria, che occupava i sedili posteriori, si era toccata con gesto nervoso la nuca, tastando i radi capelli. Anna aveva dimenticato la sensazione di percepire la lunga e setosa chioma scivolare tra gli spazi concavi delle dita di una mano, ricordava come la spazzola in mano a sua madre si faceva strada tra lunghi fili neri e spessi, mentre lei se ne stava seduta sulla sedia imbottita, prima di andare a dormire. In gola le si formò un nodo, che solo per quei discreti osservatori della vita poteva definirsi nostalgia, le impediva di respirare tranquilla, come una grossa ciliegia.
 
 
 
Anna, apprendista alla redazione di Vogue Italia, amava scrivere e amava la moda; lodava come si potesse delineare una vera e propria arte nell’abbinare un colore piuttosto che un altro; e apprezzava l’accostarsi poetico che assumevano le parole ordinate, in fila indiana, con l’unico scopo comune di incantare il lettore col loro sofisticato suono d’insieme. Aveva deciso, contro i progetti e le grandi intenzioni di parenti avvocati, zie mantenute e un padre con una società da portare avanti, di iscriversi all’università di Lettere e di dedicarsi poi alla stesura di articoli per la famosa rivista. Era stata una decisione fin troppo facile, che non aveva richiesto una turbolenta meditazione a riguardo: era perfetta per quel tipo d’occupazione, almeno così pensava. Allora perché, dopo già due anni di apprendistato, si ostinavano ancora a farle parzialmente gestire La Posta Della Moda? Una sciatta rubrichetta mensile dove il compito più arduo consisteva nel fingersi, nel modo più convincente possibile, dei guru della moda, dispensando vuoti consigli ai disperati mittenti, quelli che affidavano a Vogue le loro lettere impestate di piagnistei.
Il mio talento si sta annichilendo, queste erano state le esatte parole di congedo che avevano siglato, in modo definitivo, la fine del suo periodo di apprendistato a Vogue. Si era licenziata quella stessa mattina: una decisione affrettata avrebbe giudicato chiunque, ma non Anna, lei sapeva che era il momento proficuo per compiere un simile passo.
 
Il rumore di frizione tra fogli di carta patinata riscosse il cipiglio concentrato del tassista; impegnato poc’anzi a dirigere una sinfonia di clacson, colonna sonora della giungla milanese, ora osservava la donna posare la borsa nera di nuovo tra le gambe. La curiosità lo spinse a riflettere sulle azioni caute e clandestine che si stavano svolgendo nell’abitacolo, senza trarne, però, alcuna risposta, se non il dubbio che tra le riviste ordinatamente adagiate sul sedile destro, a disposizione per ogni cliente, ne fosse apparsa una nuova.
Anna sentiva che doveva abbandonare ormai anche l’ultimo ricordo che la legava a quel passato; quindi gettare fuori dalla borsa la copia del primo mensile a cui aveva lavorato era stato come salpare l’ancora, liberarsi di un peso che tuttavia sembrava ancora schiacciarle il petto, più forte di prima.
 
 
 
Anna si era trasferita tre anni fa; aveva scelto un piccolo appartamento in Porta Romana, un trilocale, al quarto piano di una palazzina dai toni rinascimentali, ampio, luminoso, dalle pareti ocra e le finestre grandi; lo condivideva con la sua migliore amica. Tutto nella sua nuova vita si stava disponendo secondo un inappuntabile equilibrio, tanto che immaginava non avrebbe neppure sentito la mancanza della madre. Anna era felice, e mai avrebbe creduto a nessuna sciagurata anima che avesse provato a raccontarle come invece realmente si sarebbero susseguiti gli eventi, fino ad arrivare a quel giorno.
Il giorno in cui la convivenza si era fatta soffocante, la presenza di una per l’altra era diventata scomoda e l’amicizia, che prima sembrava rimpolparsi ad ogni giorno vissuto insieme, ora sembrava corrodersi ad ogni parola, come bagnata da un acido. Avevano urlato, avevano litigato, e Anna aveva sbattuto la porta di casa per andarsene per sempre; sapeva da chi rifugiarsi.
 
Il tassista s’insospettì nell’udire un sommesso trambusto nell’abitacolo, si chiese cosa stesse accadendo; non voleva, davvero, spiare, ma si trattava di un tassista curioso; quindi si voltò. Fossero ringraziati gli angeli e tutti santi, si trattava anche di un tassista molto religioso, per essersi voltato: la donna taciturna stava nervosamente tentando di accendere una sigaretta, le dita tremavano al pari della fioca fiamma e il pacchetto di Marlboro rosse rivaleggiava con il denso nero del cappotto, sopra il quale era stato buttato malamente.
«Signorina, non si fuma!».
«Mi scusi».
Il tassista non poteva certo sapere che Anna non aveva mai fumato una sigaretta in tutta la sua vita, come non poteva sapere che quel pacchetto di Marlboro rosse era dell’amica, e che l’odore del fumo la riportava in modo così vivido a stamparsi sulle pupille, che sembrava quasi di averla a un palmo di mano. In tutta onestà, probabilmente, la sigaretta sarebbe rimasta accesa, mai portata alle labbra, immobile, in procinto di essere fumata, tra dito indice e dito medio, mai compiuta, creata solo per richiamare in una spirale di fumo l’essenza di lei. Lei che, volente o nolente, ad Anna mancava.
 
 
 
Anna aveva preso molte decisioni, ma forse la più importante era stata scegliere lui. Un giorno di Febbraio, il 21 se non ricordava male, ma lo ricordava benissimo; sotto la pioggia insistente e con gli occhi grandi, lo aveva scorto nei pressi del portico dell’università, come il disperso scorge l’oasi nel deserto. Come i bambini che trovano la via di casa, come le rondini leggere che nei lunghi e rigidi inverni toccano terra nei paesi caldi e afosi. Lui come centro del mondo, il baricentro stabile, l’asse portante, la sua personale e perfetta chiave di volta che dava equilibrio alla sua vita. Lui dallo zuccheroso odore di brioche, dalle mani grandi e ruvide, lui che era mille novantatré giorni e mille novantatré notti, e albe e tramonti e risa e pianti, lui che sapeva d’imprevisto e di partenza, di affetto e di ritorno, lui che, come tutte le certezze assodate della nostra vita, pensava triste Anna, si rivelò non essere tale.
L’aveva accolta, dopo che se ne era andata dalla casa in Porta Romana, come un gatto da amare e di cui prendersi cura; e come un gatto poi, l’aveva abbandonata a se stessa, rendendola randagia di qualsiasi rapporto umano.
Non ti amo più e, forse, non l’ho mai neanche fatto.
Provare dolore è umano quanto respirare, ma Anna di umano non percepì nulla. Schiacciata, aveva pesato chilo per chilo la verità; era una verità pesante, cattiva, perché evitata, fraintesa, improvvisa. L’evidenza le aveva schiaffeggiato in faccia la realtà con una tale violenza da lasciarla sconvolta; la verità, nel frattempo, le aveva sibilato meschina che, in fondo, lo aveva sempre saputo: lui la tradiva.
Dalle ceneri di uno scheletro di certezze crollato su se stesso, Anna era rinata morta, con il solo e insistente pensiero di allontanarsi il più in fretta che poteva, dall’immagine della catasta di macerie a cui si era ridotta la sua vita.
 
L’improvvisa folata d’aria fredda imperversò sul collo del tassista come un colpo di frusta, provocando un’immediata pelle d’oca, che con effetto domino pervase l’intero suo corpo, dalla punta dei capelli, giù per la colonna, fino alle dita dei piedi. Dallo specchietto retrovisore sinistro, scorse in ordine, prima un finestrino abbassato, in pieno Gennaio; poi il volto della giovane donna bagnarsi di pioggia sotto le grigie nuvole che ricoprivano Milano quella mattina. Gocce di pioggia sul naso, sui ciuffi radi, sulla fronte rilassata, potevano quasi sembrare lacrime di un pianto più grande; se possibile la pelle d’oca aumentò d’intensità; gocce sulle labbra, sul collo, gocce sulle ciglia.
Poteva forse immaginare, il tassista, quanto fosse gravoso il peso che schiacciava il petto di Anna, come poteva capire che in quel finestrino era stata individuata la sola e unica via di fuga da un’atmosfera gonfia e carica di ricordi spiacevoli, di cui la pioggia ne stava lavando via i residui. Un opprimente senso di nausea pervase entrambi.
 
 
 
 
 
 
Perché la luce sia splendente,
ci deve essere l’oscurità.
Francis Bacon
 
 
 
In ognuno di noi, nascosto tra cuore, polmoni e anima c’è un orologio; oro, argento, plastica, digitale, d’antiquariato, non ha importanza; ad ognuno il suo particolare. Tutti gli orologi sono minuziosamente programmati per conoscere esattamente il momento perfetto di ogni cosa. Se presti un po’ d’attenzione, lo senti palpitare, trillare come una sveglia, risuonare come un tamburo, pompare insieme al cuore: e quello, dunque, è il momento di agire.
Anna aveva smesso di credere ciecamente nelle sue scelte e nell’orologio che giaceva inerme, in un luogo non troppo definito, dentro il suo petto: ogni sua decisione era stata un errore che aveva comportato ripercussioni drastiche nelle sua idilliaca vita. Forse quell’orologio era rotto, o difettoso, o semplicemente il suo udito non era eccezionale.
Ma quella volta lo sapeva, ne era sicura Anna, quella volta aveva sentito giusto, quello era precisamente il momento di partire e lasciarsi alle spalle quel cumolo ingombrante di errori, ed era partita. Aveva preso un taxi, si era addentrata nelle strade intricate del ventre di Milano e ora attendeva paziente di arrivare a Malpensa per prendere il suo aereo.
 
Il tassista espirò aria calda dai polmoni, mimò qualcosa a labbra schiuse, come una prova generale di uno spettacolo, senza emettere suoni.
«Dove sta andando?».
Chiese poco dopo, piano, discreto; pentendosi pochi secondi dopo dell’apparente indiscrezione della domanda.
«Non sono affari suoi».
Tagliente, diretta; la risposta pugnalò la gola del tassista, arrestando il flusso di parole che sarebbe, normalmente, dovuto conseguire tra le tonsille e la punta della sua lingua, lasciando tutto a metà; sospirò paziente, si mordicchiò l’interno di una guancia, forzò la vista dietro le spesse lenti degli occhiali, per poter distinguere qualcosa sotto la cascata di pioggia che bagnava Milano.
«Mi scusi, sono stata irreparabilmente maleducata».
Il tono di voce profondo echeggiato dal retro dell’abitacolo fece sussultare il corpo sottile del tassista, che dovette scalare dalla terza alla seconda, chiedersi se quelle parole fossero state pronunciate realmente, arrestarsi al semaforo rosso e poi sillabare una risposta, senza neanche troppa nonchalance.
«Non si preoccupi».
Ovviamente la ragazza non rispose.
Era il capitolo dodici, se non ricordava male; dell’inutile opuscolo di regole che lui e colleghi avevano dovuto saper recitare a memoria, per ottenere la licenza; in quel capitolo si chiariva come fosse buona maniera non intrattenere conversazioni indesiderate con il cliente, se non ricordava male.
«Brutta giornata?». Domandò, ma lo ricordava benissimo.
«Sì».
La voce della ragazza era stata rigida e dura, quindi il tassista, forse per alleggerire quella tensione, quell’attrito che stava producendo echi di scintille nell’aria, si decise a proseguire quella assai imperversa chiacchierata.



«Anche la mia giornata non procede per niente bene».
Ancora lei non rispose.
Il tassista corrugò la fronte e s’interrogò sul motivo scellerato per cui si trovava, ora, in procinto di raccontare ad una perfetta sconosciuta, per altro antipatica, la sua grigia giornata; nonché una buona dose di questioni personali.
«Mia madre ha avuto un infarto, proprio stamani» cercò di far assumere un tono neutro, di cronaca, alla faccenda, senza ottimi risultati, com’era prevedibile «è stata portata al pronto soccorso immediatamente; solo pochi minuti fa i medici mi hanno avvertito che è viva, per miracolo addirittura, e per quello che può, sta bene».
Snocciolò tutto senza riflettere troppo, ticchettando nervosamente il volante dell’auto con i polpastrelli caldi delle dita; Anna aveva le mani gelate e non rispose per l’ennesima volta.
Sul viso del tassista si tirò un sorriso che sostituì per un attimo il ben delineato cruccio preoccupato, temendo di aver spaventato la ragazza.
«Forse si starà chiedendo come io abbia potuto saperlo solo pochi minuti fa, o più ragionevolmente, per quale motivo io non sia accanto a mia madre in questo momento».
Era incerto, tentennante, dubbioso, si torturava con la lingua la leggera concavità formata dagli incisivi superiori.
 
Il tassista non ricevette risposta alcuna nemmeno questa volta, ma la mente di Anna stava lavorando copiosamente, più precisamente in quell’esatto istante si concentrava sulla camicia da notte a fiori di sua madre. Era passato davvero tanto tempo da quando la sua pelle, ancora adolescente e acerba, era entrata in contatto con quella stoffa ruvida di troppi lavaggi. Che odore aveva sua madre? Si sforzò e l’unico pensiero che le tornò alla mente, fu di quel giorno sul carosello alla fiera di paese, il sapore dolciastro dello zucchero filato, il sorriso allegro e soddisfatto di una madre che rivede la stessa allegria negli occhi della figlia; sapeva di zucchero filato sua madre, di dolce e di profumatore per ambienti al mughetto. Anna sentì stringersi il cuore al ricordo del sorriso tiepido e rassicurante di quella donna da cui era scappata tre anni prima, desiderava solo addormentarsi nei suoi materni abbracci, chiuse gli occhi.
 
 
 
Li riaprì non appena il tassista parlò di nuovo; lo osservò per la prima volta, era giovane, avrebbero potuto avere la stessa età; la sua voce suonava profonda ma vivace, era insicura a tratti, ma si colorava spesso di entusiasmo, cominciò a prestare più attenzione a ciò che diceva: si rizzò dritta a sedere.
«Io lavoro troppo duramente e guadagno troppo poco persino per permettermi di andare ad assistere mia madre in terapia intensiva. E mio padre se n’è andato quando ero piccolo»
«…».
«Mi crederà insensibile ad averla abbandonata in tale maniera, sicuramente lei avrebbe momentaneamente affidato sua madre alle cure, per lo meno, di un caro amico»
«…».
«Vede, ho perso tutti gli amici all’università, quando ero troppo impegnato a studiare ciò che più m’importava nella vita. E sarebbe andata bene, mi sarebbe bastato, se non fossi miseramente finito a fare il tassista… senza amici».
Neppure questa volta la bocca di Anna proferì parola.
«Lo studio era per me diventata una ossessione, dedicavo ad esso tutte le ore della mia giornata, non potevo e non volevo approfittare ulteriormente della pazienza e della comprensione dei miei amici».
«…».
«Così i messaggi insistenti divennero frequenti, questi ultimi divennero occasionali e infine rari. Non li vedo o sento da anni…».
 
Anna percepì una strana sensazione intorpidirle le membra, per avvertire in seguito uno strappo vertiginoso a livello dello stomaco. Quello strappo le riportò alla mente un ricordo sbiadito, un quadretto dagli angoli smussati, un’impressione di una sera di un anno fa: ricordava che c’era una bellissima luna fuori dalle grandi finestre della casa in Porta Romana, ricordò di aver acceso lei stessa lo stereo e l’immagine della sua amica che cominciava a ballare si formò così concretamente da poterla abbracciare con le palpebre. Risentì in bocca il sapore dolciastro dell’alcol, la testa cominciare a girare. E risa, urla, salti, abbracci, i libri di studio ad osservare discreti sul pavimento freddo. Giochi, ricordi, dignità violate, intimità conquistate, era stato come ritornare ad avere cinque anni. Giri, emozioni, pelle d’oca, sentimento, caldo e freddo e la vita davvero sembrava sorridere sotto le note musicali di quella canzone.
Il piedino nell’ombra dell’abitacolo, avvolto nelle ballerine rigorosamente nere, cominciò timidamente a muoversi ad un ritmo che soltanto adesso ricordava.
 
 
 
Davvero dispiaceva, ad Anna, che a quel tassista dai capelli corvini lunghi fino sotto la nuca, dalle mani sottili che parevano fredde solo a guardarle, dalle spalle strette e il pullover blu scuro, non fosse rimasto neppure un amico.
«Lei mi considererà sicuramente un pazzo, ma amavo veramente quello che studiavo, quando l’ammirazione per i libri che ritrovi tra le tue mani è morbosa, quando l’affetto per quelle righe sbiadite su pagine ingiallite muta in ossessione, quando l’amore per la conoscenza diventa sanguigno è difficile trovare e creare lo spazio per qualcos’altro».
«…».
«Eppure io ero riuscito nell’impresa, sa? Non è certo per fare dell’autocelebrazione gratuita, ma io avevo creato dello spazio per qualcosa, per lei».
Anna non rispose, ma avvicinò il busto al sedile anteriore, in atteggiamento attento, la testa poggiata sul dorso della mano e il tassista fu spinto a continuare.
«Lei era come l’oasi nel deserto, come la via di casa per i bambini, come i paesi caldi e afosi per le rondini leggere durante i lunghi e rigidi inverni. Lei era il mio centro del mondo, il baricentro stabile, l’asse portante, la mia personale chiave di volta che dava equilibrio alla mia vita. Lei dal farinoso odore di spezie, dalle mani piccole e affusolate. Lei che era tutti i miei giorni e tutte le mie notti, e albe e tramonti e risa e pianti, lei che sapeva d’imprevisto e di partenza, di affetto e di ritorno; lei che mi tradiva. L’ho lasciata».
 
Una mano invisibile rinserrò l’animo di Anna, avrebbe davvero tanto voluto stringere la mano a quel tassista.
Ormai il ragazzo parlava senza più filtro alcuno, un flusso di coscienza così intenso che avrebbero potuto trovarsi in una foresta nera, su una spiaggia deserta o nella tundra rinsecchita e arida, che l’atmosfera non sarebbe cambiata di un grado. Anna ascoltava, il Tassista parlava, nessuno dei due minimamente consapevole del perché.
 
 
 
 
«Lei mi aveva abbandonato e insieme all’amore per quella meravigliosa creatura svanì l’amore per la materia dei miei studi».
«…»
«Strappai la tesi che stavo per scrivere, sciolsi gli accordi che avevo allacciato per il dottorato, me ne andai come un pazzo fuori di testa, accecato dalle ingiustizie della vita».
Anna spalancò impercettibilmente le palpebre.
«Non diedi spiegazioni a nessuno, nemmeno alla mia famiglia; volevo scappare, estinguermi, sparire. Immaginavo una città senza di me e la percepivo perfetta, giusta, equilibrata. Sognavo di ricominciare, di riprendermi il doppio di ciò che mi era stato tolto, ma qualcosa è andato storto».
Per un attimo il tassista si pentì di questo risultante quadro intimo e personale, dipinto con pennellate sincere e sfacciate; gli sembrava di essersi dato in pasto alle bestie, ma la ragazza che lo osservava guardinga, era tutto tranne che una bestia feroce, non ebbe più paura.
«Ora faccio il tassista, vede?».
 
Anna lo vedeva bene.
 
 
 
Il taxi si fermò davanti alle porte sovraffollate dell’aeroporto, la voce profonda inchiodò un’ultima volta la ragazza al sedile posteriore.
«Se vuole un ultimo consiglio, signorina, non rinunci mai alla sua vita, mai ai suoi successi, rispetti sempre le sue scelte, dia credito in ogni istante ai suoi progetti, alle sue idee, ai suoi sogni. Ma non abbia paura di un insuccesso, non si scoraggi in fronte al vento che cambia, sia sempre pronta a ripartire, ma non da zero, ripartire da dove era arrivata e si era fermata».
Ma chi diavolo era quel tassista, si chiese Anna, punta sul vivo.
«O si troverà a fare la tassista pure lei».
La risata amara dell’uomo trafisse come mille coltelli il petto di Anna, si vide passare davanti agli occhi, neri come la pece, tutti fotogrammi della vita che stava per abbandonare, tutte le emozione, i sogni e i progetti che fino a quella mattina aveva programmato di gettare al vento.
Quando vale veramente la pena di lasciarsi alle spalle la propria esistenza? Dove si trova la forza per non vedere la madre per tre lunghi anni? Dove l’astio per non rivolgere più la parola alla propria migliore amica? La voglia di lasciare la città tanto amata, solo perché il fidanzato ha tradito? Dove si trova il coraggio per licenziarsi dal lavoro che tanto si ha sognato, solo per la codardia del voler scappare? Dove si trova il fegato per tagliarsi i capelli cortissimi e non ammettere a nessuno che così non ci piace più?
La mano sottile poggiata sul sedile, vicina alla spalla del tassista tremava come una foglia, gli occhi di Anna incontrarono per un attimo gli occhi del tassista, solo un riflesso, solo un’immagine nello specchietto: quelli di lei profondi e pieni di lacrime per la consapevolezza di quanta vita era pronta a buttare, quelli di lui azzurri e acquosi, velati di un rammarico amaro per una vita già buttata.
E quell’istante durò ore, mesi, anni, vite, finché Anna non si riscosse, avvinghiata alla valigia, conta, soldi e resto, normalità.
«Grazie».
Finalmente il tassista tornò a sentire la voce della donna, era un grazie pieno di sentimento, un grazie che vuol dire tante cose. Il tassista non si pentiva più di averle parlato della sua vita, perché qualcosa in fondo al suo cuore suggeriva che il segreto sarebbe stato suggellato nel suo petto e gelosamente custodito, condiviso e finalmente alleggerito. Si sentiva bene e una piacevole sensazione di calore gli avvolse lo stomaco mentre, con occhi carichi di emozione, osservava quella ragazza, ormai lontana, superare l’ingresso dell’aeroporto.
 
 
 
L’atmosfera in aeroporto era caotica e cianciosa; gli occhi di Anna sfogliavano velocemente tutte le persone che entravano nel raggio del suo campo visivo; ma non ne vedeva veramente nessuna. Le dita erano strette, con le nocche sbiancate dalle sforzo, attorno al manico della valigia; non riusciva a compiere nemmeno un passo, come se un campo di forza invisibile, ma prepotentemente reale le impedisse di fare ancora un solo altro passo.
Così, senza chiedersi perché, senza accorgersi che si sentiva subito meglio, Anna digitò, pesati ed esitati, i numeri sulla tastiera del telefono cellulare, lo ricordava ancora a memoria.
La mano sinistra stretta nel numero 34 di Teen Vogue, la sua rivista, recuperata in fretta dal sedile in un lampo di consapevolezza, prima di scendere dal taxi: forse più tardi avrebbe contattato la redattrice, forse era ancora in tempo. In quell’istante alla radio, confusa e dispersa nella grande sala d’attesa, diedero proprio quella canzone: emozione, palpitazione e sorriso; leggerezza d’animo, nostalgia e voglia di ricominciare: i suoi occhi si bagnarono di lacrime di gioia nell’udire la canzone che con la sua amica aveva ballato quella sera. Il telefono suonava libero, tubava gentile nel suo orecchio, qualcuno rispose.
«Pronto, mamma, sono io…».
 
 
 Una donna dai capelli corti, un trolley e il cappotto nero, una donna che oggi, ha deciso, non partirà, si avvicina ad un taxi in partenza, a passo deciso; il finestrino si abbassa all’ultimo minuto.
«Piacere, mi chiamo Anna»
«Marco, io mi chiamo Marco».
 
 
 
 
Per quanto oscuro sia il presente,
l’amore e la speranza sono sempre possibili.
George Chakiris
 
 
 
 
 
 









SPAZIO AUTRICE 
Intanto, se siete arrivati fin qua in fondo, grazie. Perché non c’è niente di più bello che sapervi qui, con le mie parole ancora nella mente.
Ringrazio anche milla4, il giudice che ha indetto questo stimolante contest, le citazione ad inizio, intermezzo e fine racconto sono tutte citazione della serie tv Criminal Minds. In modo particolare:
  • La luce pensa di viaggiare più veloce di qualsiasi altra cosa, ma si sbaglia. Per quanto veloce viaggi, la luce scopre che l’oscurità arriva sempre per prima, ed è lì che l’aspetta. (Terry Pratchett); STAGIONE 4; EPISODIO 20
  • Perché la luce sia splendente, ci deve essere l’oscurità. Francis Bacon; STAGIONE 4; EPISODIO 22
  • Per quanto oscuro sia il presente, l’amore e la speranza sono sempre possibili. George Chakiris; STAGIONE 4; EPISODIO 22
Che dire infine, questo testo mi è nato in modo strano, io abituata a scrivere pagine, pagine, pagine, mi sono trovata faccia faccia con un racconto molto breve, mi sembra quasi una lunga poesia, qualcosa che valeva la pena di scrivere.
Come al solito ricordo la contentezza irrefrenabile nel leggere le vostre recensione, anche un pensiero, una critica, un consiglio, quattro chiacchiere. Vi aspetto di là…
 
Baci, Rosie
  
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