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Autore: Slytherin_Divergent    13/09/2018    1 recensioni
La loro relazione era sempre stata di sole due fasi. "Sconosciuti" e "odio". Invece, doveva continuare. Doveva continuare, e mancavano ancora tre fasi per concludere quel viaggio che stavano affrontando, che era iniziato quando Envy aveva visto per la prima volta Edward, e che non si sarebbe concluso con il suo suicidio.
Tratto dal testo: capitolo 1
"Una cavia preziosa, così lo avevano definito i militari giunti dall'alto. Un mostro, così lo aveva definito il colonnello Mustang. Naturalmente, ne aveva tutto il diritto. Non era stato proprio lui, in fondo, a uccidere il suo amico Hughes? E non solo lui. Quante persone aveva ucciso? Di quante vite si era appropriato? Quanti umani erano stati sacrificati, per colpa sua? Inutili esseri, continuava a definirli."
!!ATTENZIONE!!
Shonen-ai [EdwardxEnvy]; Het [EdwardxWinry]
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Envy, Roy Mustang, Winry Rockbell | Coppie: Edward/Winry
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Una cavia preziosa, così lo avevano definito i militari giunti dall'alto. Un mostro, così lo aveva definito il colonnello Mustang. Naturalmente, ne aveva tutto il diritto. Non era stato proprio lui, in fondo, a uccidere il suo amico Hughes? E non solo lui. Quante persone aveva ucciso? Di quante vite si era appropriato? Quanti umani erano stati sacrificati, per colpa sua? Inutili esseri, continuava a definirli. Eppure, quegli esseri inutili erano più intelligenti del previsto. In fondo, non erano riusciti a catturarlo? Non lo avevano fatto tornare alla sua forma umanoide, per poi iniettargli a tradimento quel sonnifero? Dove lo avessero trovato, poi, lo sapevano solo loro. E poi, non lo avevano legato ad un lettino e continuato a iniettargli farmaci e sostanze dalla dubbia fattura per una settimana? Avevano avuto anche la brillante idea di rinchiuderlo in una cella d'isolamento per una seconda settimana, in preda a qualsiasi tipo di male che lui normalmente non avrebbe mai avuto.

Non aveva chiuso occhio, come al suo solito, ma si sentiva morire di stanchezza. Non aveva mangiato, come al suo solito, ma moriva di fame. Non aveva nemmeno bevuto, ma moriva di sete. Perché aveva quelle sensazioni? Cosa gli avevano fatto?

Un esperimento, così lo aveva definito Mustang, una volta che l'effetto del sonnifero era svanito e lui si era ritrovato steso su quel tavolo di metallo, legato fino al midollo e impossibilitato. Aveva provato a trasformarsi, a scappare. Tutto inutile. Non sapeva di cosa fossero fatte quelle catene e quelle fasce, ma avevano resistito con tutte le loro forze ai suoi svariati tentativi di liberazione. Cosa ancora più grave, ogni volta che aveva provato a scappare da quella presa della morte, catene e lacci si erano stretti ancora di più attorno a lui, quasi a soffocarlo.

Lo soffocavano come l'aria in quella cella dal duro pavimento di cemento. Nessuna finestra, nessuna luce, nessuno spiraglio o condotto di ventilazione. Nessun rumore, come fosse composta da materiale isolante. Oppure era lui a non percepire nessun suono? No, quello era impossibile: sentiva chiaramente il suo respiro pesante e roco come mai era stato in quei secoli in cui aveva vissuto.

Inizialmente, aveva provato a scappare. Aveva preso a calci la porta fin quasi a rompersi le ossa delle dita scalze, aveva graffiato le pareti imbottite, aveva provato a sfondare il soffitto con il letto di metallo che aveva scardinato dalla parete. Aveva anche provato a trasformarsi, con il solo risultato di non riuscire a cambiare forma di una virgola. Aveva provato a chiedersi di cosa fossero fatte quelle dannate pareti, ma non gli era venuto in mente molto. Si trovavano per caso sotto metri e metri di terra? Addirittura più sotto del loro nascondiglio? Alla fine, non ottenendo nessun risultato, si era arreso, e si era rintanato in un angolino.

Certo, avrebbe potuto scegliere la via più facile, come aveva provato a fare prima che lo catturassero, e avrebbe potuto suicidarsi pur di non dar loro soddisfazione. Eppure, qualcosa dentro di lui gli suggeriva di resistere. Resistere e dimostrare a quegli inutili esseri umani che non sarebbe crollato. O almeno, così gli sarebbe piaciuto. Quelle sensazioni tanto sconosciute lo stavano lacerando da dentro, e gli sembrava di non aver più un briciolo di forza. Non riusciva nemmeno più a muoversi. Quante volte aveva già perso conoscenza, in quei giorni? Una ventina? Una trentina? Oramai ne aveva perso il conto. Ciò nonostante, ogni volta si sentiva sempre più esausto, come se avesse bisogno di una lunga dormita. Mai che riuscisse a dormire veramente, sveniva prima di prendere sonno.

Una settimana esatta di reclusione, due contando gli esperimenti, e tre ore più tardi del suo arresto, erano quelli i tempi che aveva passato al buio e senza forze. Una settimana esatta e tre ore più tardi dopo l'ultima volta che aveva visto la luce, era steso a terra, agonizzante. Una settimana esatta e tre ore più tardi dopo l'ultima iniezione, la porta della cella finalmente si aprì.

La luce del corridoio bianco lo accecò: era troppo potente, troppo fastidiosa. Con un mugugno sommesso, spostò molto lentamente il volto dall'altra parte, mentre le sei figure entravano all'interno della stanza. Erano il colonnello Roy Mustang, l'Alchimista di Fuoco, con indosso i suoi speciali guanti bianchi che lo avevano quasi bruciato a morte; Edward Elric, l'Alchimista d'Acciaio; il fratello minore, Alphonse Elric, all'interno del proprio corpo; un medico dalle fattezze parecchio giovanili, ma che aveva sulle spalle svariati anni di esperienza; e due soldati con fucili puntati contro il ragazzo steso a terra.

La scena che si presentò loro davanti, tuttavia, era diversa da quello che si sarebbero aspettati. Urla, lotte, trasformazioni improvvise. Era quello il motivo per il quale si erano muniti di proiettili impregnati di pesanti dosi di sonnifero, che a quanto pareva aveva funzionato alla perfezione per catturarlo. Eppure, osservare la figura immobile a terra, senza forze per ribellarsi, per loro non era altro che un segno: ciò che avevano provato con quegli esperimenti aveva funzionato alla perfezione. Ora, non mancava altro che perfezionare il prodotto e renderlo un piccolo e apparentemente innocuo proiettile.

―Edward, vai ad informare i superiori che l'esperimento ha avuto successo.― Mustang si voltò verso Alphonse Elric, e indicò il letto di metallo, mentre Edward spariva dalla loro vista. ―Acciaio, provvedi tu?

Alphonse fu più che felice di dover utilizzare la propria alchimia per riparare un letto invece che combattere un suo nemico, e batté allegramente le mani tra loro, posandole per terra e rimettendo al suo posto quel materiale. Al suo contrario, il ragazzo steso a terra non era del tutto allegro di quella notizia. Quale esperimento avevano condotto su di lui? Perché lo avevano imbottito di strane sostanze e lasciato in preda a sé stesso per una settimana?

―Portate la barella!― il giovane medico si era affacciato dallo stipite della porta e aveva iniziato a gridare ordini ai medici di supporto che lo avevano accompagnato, e che erano rimasti fuori per sicurezza. L'aria di tensione con cui erano arrivati tutti quanti aveva lasciato spazio al conforto e alle grida di gioia. Il ragazzo mosse lo sguardo e lo posò su Alphonse. Lo osservò con occhi spenti per qualche secondo, ma entrambi percepirono l'inconscia domanda che tormentava il ragazzo. Cosa stava succedendo?

Alphonse si inginocchiò di fronte a lui e lo guardò negli occhi con uno sguardo che lasciava intravedere quasi un lieve velo di commiserazione diretto al prigioniero. ―Tra poco sarà tutto finito.― esclamò sottovoce. Avrebbe potuto anche parlare normalmente. Con quella confusione, nessuno lo avrebbe mai potuto sentire. Erano tutti troppo impegnati a festeggiare la riuscita di quello che avevano continuato a definire "esperimento". Il ragazzo ebbe un fremito involontario. Con quel "finito", intendeva per caso che lo avrebbero ucciso? L'esperimento era andato a buon fine, quindi non avevano più bisogno di lui? Sarebbe morto comunque? Umiliato dagli insulsi umani più di quanto avrebbe mai potuto sopportare?

Si sentì sollevare e posare su un materasso, un materasso vero, non come quello che definivano letto, quel pezzo di metallo che lui stesso aveva scardinato. Era vagamente consapevole del fatto che Mustang e Alphonse lo stessero seguendo, mentre veniva condotto in chissà quale nuovo posto. Era anche vagamente consapevole del fatto che i vari medici stessero urlando ordini a destra e a manca, e che ci fosse più movimento del solito. Sembrava che l'aria si fosse imbevuta di una boccetta di felicità, e che fosse diventata come un panno lasciato a bagno. Quell'aria allegra gli dava la nausea, più di quanta già ne avesse. No, lui non era nauseato. Era affamato, come mai lo era stato, anche perché lui non aveva certo mai avuto la necessità di mangiare.

Si rese conto di essere in un grande ascensore, ad un certo punto, poi ricominciò il soffitto bianco su cui erano installati quei lampadari tanto moderni. Ci fu un secondo ascensore, questa volta più duraturo, poi un terzo corridoio e volti a lui sconosciuti. Sembrava che la voce del successo fosse arrivata già lì, oppure erano i dottori che trasportavano la barella che stavano gridando? Non riusciva a capirlo. Era tutto così confuso. Quando il soffitto aveva incominciato a turbinare? C'era forse un terremoto? Sembrava che tutto oscillasse pericolosamente. Aveva la sensazione di cadere. Stava crollando tutto? Eppure, i volti deformati delle persone erano così allegri, e continuavano a sorridergli, li vedeva addirittura parlare, e qualcuno talvolta gli dava qualche pacca sulla spalla. Era lui a non star bene? Non lo capiva. Erano giorni che era in quello stato. La sensazione di cadere lo accompagnava quasi sempre, da quando era stato catturato. Stava per svenire? Non voleva svenire. Voleva sapere cosa stesse succedendo, cosa gli avevano fatto, dove stavano andando. Voleva risposte. Eppure, sembrava che avrebbe dovuto attendere ancora un po'. Si sentiva così stanco, faticava anche a tenere gli occhi aperti. Quell'odiosa sensazione così conosciuta e nuova al contempo... la odiava, la odiava con tutto sé stesso. Il mondo si oscurò, e lui perse conoscenza.

***

Riprese conoscenza dopo parecchie ore, e forse fu l'effetto delle parole di Edward Elric, che continuava a chiamare il suo nome. Si sentiva frastornato, e dannatamente stanco. Non riusciva ancora a muovere un muscolo. Gli occhi, però, si socchiusero quel poco da poter vedere ciò che succedeva.

Era in una stanza, e ricordava molto una di quelle d'ospedale. Era disteso su un letto, coperto fino alla vita da un lenzuolo. La finestra era spalancata, e una leggera brezza faceva sventolare le tende di lino. Tutto dannatamente bianco, in quella stanza. Aveva le braccia collegate a dei cavi, e di fianco a lui un apparecchio emetteva un debole suono ritmico, mentre attorno alla sua vita era stretta una catena che assomigliava molto a quelle che avevano utilizzato durante la prima settimana. Al suo fianco, seduto su una sedia, c'era Edward Elric, e teneva in grembo un vassoio con una minestra e un bicchiere d'acqua.

―... nvy! Svegliati, svegliati! Envy!― continuava a riperlo con insistenza, e quando si accorse della coscienza dell'altro, un piccolo sorriso si fece largo sul suo viso, e sospirò di sollievo. ―Meno male, pensavo che fossi morto!―

Envy non rispose. In primo luogo, non aveva assolutamente voglia di parlare con lui, in secondo luogo, non ne aveva la forza. Edward posò il vassoio sul comodino al fianco del letto, poi si piegò verso il terreno, e girò una manopola. Improvvisamente, lo schienale del letto incominciò ad alzarsi, e in pochi secondi il ragazzo si ritrovò quasi seduto. Edward si tirò nuovamente su e afferrò di nuovo il vassoio.

Afferrò il cucchiaio che era posato sul vassoio e prese un po' della minestra dal piatto, avvicinando la stoviglia al volto dell'altro. Avrebbe voluto voltarsi dalla parte opposta. Avrebbe voluto sputare contro quel cucchiaio. Avrebbe voluto tirare una testata a quella mano metallica che avvicinava quella minestra al suo viso. Avrebbe voluto fare tutto, men che mangiarla. Si rifiutava categoricamente. Non aveva bisogno di mangiare, eppure il suo stomaco era convinto del contrario. Edward fece pressione con il metallo della stoviglia sulle labbra dell'altro.

Puzzava. Puzzava da morire quell'impasto, e sembrava che ci avessero mescolato dentro carne, verdure e chissà cos'altro, però, il sapore, almeno, era decente. Sputò il cucchiaio e deglutì. Cos'era quella sensazione di benessere che lo aveva invaso appena aveva inghiottito quella minestra? Che razza di esperimento avevano fatto per renderlo così? Si sentiva quasi... umano.

Edward prese una seconda cucchiaiata e avvicinò al viso dell'altro il cucchiaio. Questa volta, Envy non si fece pregare, e afferrò il cucchiaio tra i denti, inghiottendone il contenuto con avidità. Il biondo davanti a lui scoppiò a ridere, mentre, con lentezza, il contenuto del piatto si riduceva a qualche rimasuglio di minestra qua e là, sul fondo della ceramica e sul pigiama azzurro che Envy non si era nemmeno accorto di indossare.

―Hai apprezzato, vedo.― esclamò l'Alchimista d'Acciaio. Afferrò il bicchiere d'acqua che era rimasto e lo porse al ragazzo. Envy mosse una mano, sorprendendo entrambi, e portò quel vetro alle labbra. Inghiottì di colpo l'acqua, rischiando quasi di strozzarsi. Si asciugò la bocca con la manica del pigiama e diede il bicchiere nuovamente ad Edward. Il biondo appoggiò il vassoio nuovamente sul comodino e rimase ad osservare Envy, forse nella speranza che dicesse qualcosa. Lui, però, non spiccicò parola per lunghi minuti. Osservava il cielo fuori dalla finestra.

La quiete che era calata tra loro venne interrotta dal suono della maniglia della porta che veniva spalancata. Roy Mustang fece il suo ingresso nella stanza con aria tronfia, seguito dal tenente Riza Hawkeye e un medico, lo stesso che era entrato nella stanza che era stata dedicata alla sua reclusione. Il tenente Hawkeye teneva nella cintura una pistola apparentemente carica, e sembrava pronta a sfoderarla da un momento all'altro, al primo movimento sospetto. L'Alchimista di Fuoco fece qualche passo verso Edward, lanciò uno sguardo indagatore al vassoio vuoto posato sul comodino, poi osservò Envy.

Lui non fece una piega nella sua espressione, che non era cambiata da quando aveva perso le speranze di scappare dalla cella, nel momento in cui la rabbia, il dolore e la delusione avevano lasciato posto alla noia e all'indifferenza. Aveva osservato passivamente i medici che erano entrati a prenderlo, e così aveva fatto mentre Edward gli consegnava quella minestra. Nello stesso modo, guardava Mustang: con occhi spenti e vitrei, come fossero quelli di un morto. Ed era esattamente così che si sentiva. Morto. Senza più uno scopo, svuotato della propria dignità. Era stato ucciso tante di quelle volte in così poco tempo, ed era stato ridotto alla sua forma originale ben due volte. Aveva tentato di uccidersi, e non gli era stato permesso di decidere della sua vita, quindi era stato catturato da coloro che odiava con tutto sé stesso e utilizzato come fosse una bambola di pezza. Si erano permessi di giocare con la sua esistenza, con la sua vita, nell'esatto modo in cui gli avevano impedito di agire. Lo avevano contagiato con sostanze di cui non conosceva nulla, lo avevano rinchiuso e ridotto praticamente ad un cadavere marcente. Infine, si erano ricordati della sua esistenza e gli avevano dato quel poco di energie di cui necessitava per non rischiare veramente la morte. Però, che senso aveva continuare a vivere? Non aveva più obiettivi. Non aveva più dignità. Non aveva il diritto di scappare, di tornare dai suoi vecchi compagni, o di fare più nulla. Quindi, cosa gli rimaneva? Niente. Non gli era rimasto più niente. Probabilmente neanche la morte avrebbe potuto ridargli ciò che gli era stato portato via con la forza.

―Come ti senti?― la domanda di Mustang lo sorprese. Stava veramente domandando del suo stato, dopo che lui stesso lo aveva voluto ridurre in quella maniera? Avrebbe dovuto sapere meglio di lui come si sentiva. Envy non rispose. Si limitò ad osservare il colonnello con uno sguardo vuoto. Vuoto come lui: privato di forze, sentimenti, obiettivi e diritti.

Mustang non si diede per vinto, e tornò alla carica. ―Vedo che hai mangiato tutto. Ti sentirai sicuramente meglio, vero?― per la seconda volta, Envy mantenne il silenzio. Non che lo facesse apposta, ma non aveva nemmeno una maniera per rispondere. Come si sentiva? Come poteva rispondere a quella domanda, se non si sentiva affatto?

Un occhio di Mustang ebbe un fremito, poi la palpebra si contrasse di colpo. Il colonnello osservò il ragazzo con occhi quasi sgranati. ―Rispondi, dannato bastardo... non ti ho lasciato vivere per ricevere una scena muta da te. Ci servono le tue informazioni, quindi parla.― si avvicinò a lui e lo afferrò per il colletto del pigiama, sollevandolo leggermente dal materasso, e gridò. ―Avanti, lurido bastardo assassino! Dì qualcosa! Insultami! Urla! Ribellati! Fai qualcosa!―

Envy non si mosse. Non emise un suono. Continuò semplicemente ad osservare il colonnello in maniera spenta. L'uomo, non vedendo nessuna reazione, ringhiò di rabbia e di frustrazione, e alzò una mano. Fu un gesto veloce e forte, e lo schianto della mano sulla guancia del ragazzo risuonò chiaro e forte nella stanza. La pelle della guancia colpita si arrossò di colpo, mentre il volto del ragazzo rimaneva piegato di lato. Cos'era successo? Gli aveva dato uno schiaffo? Eppure, lui non aveva sentito niente.

―Colonnello!― il tenente Hawkeye si avvicinò con rapidità all'uomo e lo afferrò per una spalla, costringendolo a lasciare la presa sul ragazzo. Questo crollò sul letto nuovamente, rimanendo immobile.

Il colonnello ringhiò di frustrazione una seconda volta, e cercò di raggiungere nuovamente il ragazzo, ma le tre guardie che erano entrate nella stanza dopo aver assistito alla scena lo tenevano saldamente fermo, assieme al tenente. ―Rispondi! Dì qualcosa! Smettila di fare l'indifferente!― poi, si rivolse ai soldati. ―Lasciatemi! Lasciatemi andare! Devo far parlare quell'assassino!―

Venne trascinato a forza fuori dalla stanza, e la porta venne chiusa di colpo dietro di lui. Il dottore e Edward, rimasti pietrificati per tutto il tempo, posarono lo sguardo su Envy, prima di decidere di lasciar perdere la questione del colonnello. Il dottore sorrise e si avvicinò al letto.

―Sono il dottor Robert. Non devi temere, sono qui per controllare che tu stia bene. Ti dispiace se faccio qualche controllo?― domandò il giovane uomo, avvicinandosi al letto. Envy non rispose, e il dottore sospirò. Si assicurò che vista e il respiro funzionassero adeguatamente, anche se non potè essere certo che l'udito fosse in regola. Non avendo dato alcun segno di risposta, era abbastanza complicato. Ciò nonostante, potè affermare quasi con certezza che non vi erano danni collaterali al suo corpo.

―Mi sembra abbastanza naturale che non abbia risposto a nessuna domanda. Si vede chiaramente che è sotto shock. Non posso dire con certezza che ci riconosca, o che sappia cosa gli è successo, e neppure se ricordi qualcosa della sua vita prima di essere arrestato dal colonnello Mustang.― esclamò l'uomo, sfilandosi dalle orecchie i tubolari che gli permettevano di udire il battito cardiaco. Edward osservò il dottore.

―Quanto pensa che durerà questo stato?― domandò, e la sua espressione si fece preoccupata.

Il dottore alzò le spalle. ―Normalmente, varia da individuo ad individuo. Per quanto ne sappiamo, dato il suo stato attuale, potrebbe durare qualche giorno come intere settimane. Avrai sicuramente sentito ciò che hanno riferito le guardie della cella. Ha cercato di sfondare le pareti per un giorno intero, poi si è fermato, e non si è più udito niente. Sembra come se fosse diventato un guscio vuoto. Per quello che ne sappiamo, sta benissimo e recepisce tutto alla perfezione, comprendendo perfettamente le nostre parole e azioni. Il problema è che non si relaziona, né positivamente né negativamente.― spiegò.

Edward sospirò e annuì, abbassando lo sguardo. ―Capisco.― esclamò. Il dottore infilò la mano in tasca e estrasse una lunga siringa, già carica di un liquido azzurrognolo.

―Ora ti farò riposare un po', d'accordo?― esclamò, rivolto al ragazzo che, immobile sul letto, fissava le coperte bianche. Lentamente, lo schienale del lettino si abbassò, e il ragazzo tornò ad essere steso, lo sguardo rivolto al soffitto bianco. Spostò le iridi spente su Edward. Il ragazzo le osservò, e rifletté sulle parole del medico. Non si relaziona, né positivamente né negativamente. Dov'erano finiti quegli occhi color ametista? Perché quelle iridi, in quel momento, erano di un lilla tanto apatico?

Lo sguardo del ragazzo si andò a posare sul medico. Lui sorrise, prima di passare una pezza di cotone bagnato nell'incavo del gomito. Successivamente, prese delicatamente quel braccio che era diventato tanto sottile, e avvicinò la punta dell'ago alla pelle. Iniettò con precisione tutto il liquido, poi tamponò nuovamente la pelle. Si alzò, e lo stesso fece Edward. Il dottore fu il primo a sparire oltre la porta. Il biondo, al contrario, si prese la premura di chiudere le tende e di spegnere le luci. Nella semi oscurità, illuminato solo dallo spiraglio di luce della porta socchiusa, si lasciò sfuggire un sorriso triste, prima di sparire oltre la soglia e chiudere dietro di sé la porta, lasciando Envy solo in quella stanza, che ben presto si fece buia alla sua vista, tanto velocemente quanto il mondo attorno a lui perse consistenza mentre il suo corpo reagiva all'effetto del sonnifero.

   
 
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