IL DIO PALLIDO
Si erano esauriti i giorni fatti di gloria e di splendore.
Non c’era più un tesoro immenso da osservare ogni mattina, mentre i canti degli
uccelli risuonavano nelle immensità di un palazzo leggendario.
Ora erano rimaste solo le catene, imposte da un dio tornato
nella terra in cui si era reso uomo.
Montezuma ricordava
bene il giorno in cui uno dei suoi sudditi più poveri era giunto al suo
cospetto, ricoperto di luridi stracci. Egli riportava la notizia di un
avvistamento incredibile; infatti, pareva che alcuni esseri strani e dalla
pelle pallida fossero giunti dall’oceano, e fossero sbarcati lungo una remota
spiaggia, distante dal cuore del fiorente impero.
Nervoso, l’Imperatore
si era affrettato a mandare uomini di sua fiducia a dare un’occhiata, ed essi
avevano confermato le precedenti affermazioni.
I preti avevano gridato
in coro che Quetzalcóatl era tornato, e lui non si era potuto opporre al volere
divino.
In realtà, provò a fare
uccidere il dio, ma egli si dimostrò così scaltro da meritarsi gli ornamenti
più belli dell’impero.
Ornato come la creatura
più appariscente del mondo, egli era giunto a Tenochtitlan venerato e osannato
da tutti, mentre i componenti di ogni popolo abbassavano il capo quando lo
vedevano. Era un dio bellissimo.
Il colore della sua
pelle e quella lunga barba incolta lo rendevano un idolo vivente.
E poi, cos’era successo? Perché il dio buono, un principe
saggio(1), aveva cominciato a comportarsi male?
Accompagnato dai suoi fedeli luogotenenti, aveva confiscato
tutto il tesoro imperiale, e poi aveva distrutto il vastissimo giardino di
Montezuma. I rarissimi uccelli lì raccolti erano stati uccisi, le piante
tropicali deturpate.
All’Imperatore era bastato tutto questo per capire che colui
che aveva al suo cospetto non era un dio, bensì un uomo, solo che la sua pelle
era di un colore differente. Era tuttavia già troppo tardi per fare qualcosa,
poiché la falsa divinità l’aveva messo in catene.
“Chi sei tu, per potermi fare questo?”, aveva proferito
l’Imperatore, sconvolto da cotanta barbarie, ma mantenendo la dignità.
L’essere aveva sorriso, prima di degnarsi di rispondere.
“Piacere, sono dio”, tradusse infine la traduttrice.
Marina(2), era il nome straniero della traditrice. Un tempo
schiava dei Messicani, adesso era lei a mettere le catene a chi era stato suo
padrone.
Aveva cambiato nome e aveva accettato quello che chiamavano
il battesimo.
Aveva seguito il suo uomo, il falso dio bianco, mentre
distruggeva i templi e faceva abbattere le statue delle divinità. Era stata a
letto con lui, e portava in grembo la vita che era stata generata da
quell’unione.
Una sera andò dall’Imperatore, quando egli ormai era stremato
dalla prigionia; aveva perso peso, le catene gli facevano male.
“Ora sai cosa vuol dire essere schiavo”, gli sussurrò,
malevola.
“Non puoi piegarti a quel mostro. Dice di essere un dio, ma
non lo è…”, rispose Montezuma.
“Lo è, invece, e assieme daremo vita a una lunga stirpe di
divinità”, affermò la donna, “tu invece perirai, schiacciato dal suo infinito
potere”.
“Toglimi le catene, donna!”, le ordinò l’Imperatore, sperando
che i suoi comandi, un tempo rispettati da tutti, avessero ancora effetto.
Marina però rise e non si mosse.
“Sarà meglio che la smetti di dare ordini. Se lui dovesse
sentirti, potrebbe farti del male…”.
“Io sono l’Imperatore”, la interruppe l’uomo.
“Lo sei, ma sei anche formato da carne e ossa, così come i
tuoi figli e le tue mogli. Ora il nostro dio ti vede come un suo giocattolo,
quindi dovrai solo obbedirgli e continuare a ripetere ciò che ti ordina,
altrimenti la tua discendenza sarà sterminata e le tue consorti violentate. Ho
visto cosa fanno i suoi sottoposti alle donne della città; per loro sono come
oggetti, così come lo siamo tutti quanti”.
Montezuma restò in silenzio, aveva perso le speranze.
“Obbedisci, se vuoi continuare a vivere e se hai a cuore la
tua famiglia e il tuo popolo”, concluse la donna, per poi andarsene.
Infine, il dio aveva obbligato l’Imperatore a guardare la
morte dei suoi fedeli servitori, bruciati vivi. Montezuma ormai era piegato,
nel corpo e nell’animo.
Fu obbligato a implorare il suo popolo arrabbiato di non
attaccare i prepotenti, poiché essi erano esseri divini invincibili, ma già i
suoi uomini ne avevano uccisi alcuni e sapevano che era tutta una farsa.
Per un po’ andò avanti così, con un Imperatore schiavo che veniva
obbligato a parlare a un popolo sull’orlo di una rivolta epocale.
Giunse però il momento in cui Montezuma desiderava solo la
morte, non potendo più sopportare la vita. Le giornate scorrevano tutte uguali,
tra digiuni, violenze e sofferenze.
Quando era stato portato per l’ennesima volta al cospetto del
suo popolo, con le catene a tenerlo immobile, non provava più niente dentro di
sé, era come svuotato.
Quando la freccia scagliata da uno dei suoi sudditi entrò
nelle sue carni e le dilaniò a morte, fu come una vera liberazione.
Solo allora la sua interiorità si risvegliò, riportandogli
alla mente diverse scene della sua esistenza… tutte bellissime. Ma ora che lui
moriva, cosa sarebbe successo all’impero intero e alla sua famiglia?
Spirò angosciato, all’aperto come il più umile degli schiavi.
Quando era stato proclamato Imperatore, aveva promesso di
difendere la popolazione da ogni insidia, ma alla fine era stato costretto a
capitolare al cospetto di un falso dio.
NOTE
(1); Quetzalcóatl era
un dio dei Toltechi, assorbito dal variegato pantheon degli Aztechi. Si narra
che egli fu uomo, poiché si fuse con un principe casto e puro, inizialmente suo
fedelissimo sacerdote. La sua pelle bianca e la lunga barba gli conferivano un
aspetto un po’ strano e originale.
Il principe-dio era sfavorevole ai sacrifici umani, in più si
dedicava a lunghi digiuni e alla continua preghiera. Innervosito e invidioso
del fratello, uno dei suoi fratelli minori lo ubriacò e lo mise a letto con la
loro sorella, macchiandolo per sempre di disonore (attenzione; alcune leggende
narrano che il principe fu invece sedotto da divinità maligne, ma la sostanza
non cambia, poiché alla fine si macchiò di tali e identiche colpe). Una volta
scoperto, e messo al centro di uno scandalo senza precedenti, l’innocente
principe non poté far altro che andarsene in esilio.
Incredibilmente, l’esilio di questo principe-dio traspare in
molte leggende dei popoli dell’America Centrale, anche presso i Maya, che
tramandarono i racconti dei suoi vagabondaggi nella loro regione, datati tra il
987 e il 1000 d.C.
Poi, esso scomparve, e si narra che affrontò l’oceano con una
zattera…
La leggenda tolteca narrava che egli sarebbe tornato, un
giorno, per riprendere il suo posto.
Si trattava tuttavia del dio più benevolo, per questo aveva
schiere di fedeli che credevano fermamente nel suo ritorno.
(2); Malinche, poi battezzata col nome cristiano Marina. Di
origine azteca, fu venduta come schiava da bambina per via di un conflitto
familiare insoluto. Quando incontrò Cortes, il conquistatore spagnolo che
approfittò delle credenze azteche, lo seguì e condivise il suo giaciglio. I due
ebbero un figlio, tuttavia pare che non ci fu alcuna storia d’amore a legarli.
Cortes poi avrà anche un altro figlio con una delle figlie di Montezuma.
NOTA DELL’AUTORE
Questo breve raccontino sicuramente aiuta chiunque abbia
letto Il ritorno del Serpente Piumato
a farsi un’idea ben precisa di ciò che probabilmente ha vissuto Montezuma
durante i suoi ultimi giorni.
Grazie alla giudice di questo Contest, che mi ha offerto
l’opportunità per tornare ad affrontare la Storia degli Aztechi.
E grazie a voi, che siete giunti fin qui ^^
Il racconto è composto da 874 parole, note escluse,
ovviamente.