Storie originali > Thriller
Ricorda la storia  |      
Autore: TheWalkingNerd    15/09/2018    7 recensioni
L'uomo di fronte a lei boccheggia. C'è una rosa di sangue all'altezza del taschino, rosso e denso; spruzzi rossi colorano anche la neve attorno.
Sono passati quindici anni da quando Melissa ha ucciso per la prima volta. La vendetta è diventata un lavoro, sporcarsi le mani il suo pane quotidiano. Non ha molta scelta: quelli per cui lavora non ammettono esitazioni.
Finché, un giorno, quel grilletto non riesce a premerlo più.
[Quarta classificata al contest "Racconti al profumo di frutta" indetto da Dollarbaby sul forum di EFP]
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Storia partecipante al contest "Racconti al profumo di frutta" indetto da Dollarbaby sul forum di Efp.
 

Rosso come il sangue







L'uomo trema tra la neve. Ha i polsi legati dietro la schiena e gli occhiali storti sul naso; la cravatta cade lenta sul collo. Un rivolo rosso scende dalla tempia, dal punto in cui l'hanno colpito, forse.
«Ti prego.» 
Una lacrima riga la guancia avvizzita. Una morsa serra lo stomaco di Melissa. Non piangevi in tribunale.
Se lo ripete ancora, mentre tende il braccio. La pistola è un macigno tra le dita. La canna trema. Prendere la mira è impossibile.
Sparagli.
Toglie la sicura con uno scatto nel pollice. È il punto di non ritorno, ma la sua vita non è più la stessa da quei due lenzuoli bianchi sull'asfalto, coperti da una spruzzata di rosso. Il rosso si era allargato anche per terra, fino alle sue scarpe. È colpa sua, si ripete, eppure l'indice anchilosato rifiuta di premere il grilletto.
La mano sulla sua spalla non allenta il nodo alle viscere.
«Uccidilo.» 
Melissa inghiotte un sasso. Ha firmato la sua condanna quando le hanno messo la pistola tra le mani. Sarebbe facile lasciarla cadere a terra e correre fino a non avere più fiato, fino a non sentire nemmeno l'impatto dei piedi sul suolo, ma è troppo tardi.
Perciò, inghiotte e tende le braccia. 
Un singhiozzo scuote le spalle dell'uomo. «No.» Il viso è contratto, tutto rughe e lacrime. Il moccio cola dal naso, tra i baffi grigi. «Ti prego.» 
«Ricorda cosa ha fatto.» 
La voce sopra di lei è una coperta nel freddo, eppure pizzica sotto la pelle come lame di ghiaccio. Non è un suo amico, non è lì per tenerle la mano. Ha fatto una scelta e quello è il prezzo.
«Lui non ha avuto la stessa pietà.» 
«Ti prego!» 
La stretta sulla spalla si fa più forte. Non può più aspettare.
Melissa punta la canna al petto e chiude gli occhi. Adesso è sotto casa sua, la bicicletta nuova è caduta per terra e ci sono due lenzuola a coprire due sagome fin troppo familiari. Somiglia a quello che vede quando li svegliava la mattina di Natale, ma stavolta sono sull'asfalto e ci sono due macchie rosso scuro in corrispondenza della testa. Non glieli fanno vedere, ma il mondo attorno a lei si sgretola lo stesso e le crolla addosso con tanta rapidità che le ginocchia cedono.
Apre gli occhi e preme il grilletto.
Lo sparo è una stilettata nei timpani. La pistola scivola tra le dita. Qualcosa di umido e caldo riga la guancia. Il mento trema, ma, dentro, Melissa ribolle. Non vuole piangere davanti a lui. Ha promesso che quella in tribunale sarebbe stata l'ultima volta.
L'uomo di fronte a lei boccheggia. C'è una rosa di sangue all'altezza del taschino, rosso e denso; spruzzi rossi colorano anche la neve attorno. 
L'uomo cade a faccia in giù, immobile.
 
*
 
Quindici anni dopo.
 
Una Cinquecento verde scuro sfreccia tra le sbarre della ringhiera, sotto di lei. Ghirigori di fumo si sollevano dalla sigaretta, il filtro bollente scotta le dita. L'aria pizzica la pelle scoperta; Melissa ne inspira l'odore frizzante, con un retrogusto di bruciato. Oltre i palazzi, il cielo si tinge di rosa.
Atene non ha nulla a che vedere con la sua vecchia casa. La città che conosceva è sepolta sotto vernice bianca e bancarelle per turisti; è cresciuta, come lei, e nasconde le crepe sotto lo stucco. Le è mancata così tanto che quasi non la riconosceva.
Anton glielo aveva detto, quando le aveva consegnato la pistola. In quello studio al sapore di legno vecchio, soffocato dai libri, quelle parole non avevano importanza: contava solo lenire lo squarcio che si era aperto al centro del petto.
Come sarebbe stata la sua vita, se non avesse premuto il grilletto?
A volte, rivede il tavolo da disegno di sua madre in uno studio pieno di luce, vede le sue mani colme di cicatrici stringere una matita. Vede una delle tante vite che prende in prestito ogni giorno e che si scrolla di dosso come la pelle di un serpente. Si vede attraversare la strada ed entrare in un bar prima di andare al lavoro, senza la sensazione di avere un bersaglio sulla schiena. Un bilocale, un lavoro sottopagato, la libertà di guardarsi allo specchio senza sentire il bisogno di scappare.
Non avrebbe mai funzionato.
Scrolla la cenere dalla sigaretta e aspira. I passi alle sue spalle la fanno irrigidire. La mano sguscia sotto la maglietta, sfiora il freddo della lama. Il legno scricchiola. La pistola è sotto al cuscino, ma il coltellino andrà benissimo. Già lo vede nella gola dell'intruso, il sangue che zampilla fuori e le macchia le mani e i vestiti.
«Ho un lavoro per te.» 
Immaginava. Anton non viene mai solo per farle visita. Non è un tuo amico. A volte si comporta come se lo fosse, ma sarebbe troppo facile cascarci. È abituata alle tele dei ragni.
Aspira di nuovo e spegne la sigaretta sul davanzale. «Chi e dove?» 
 
*
 
La musica martella nel cranio ad un ritmo incessante. Le luci stroboscopiche catturano frammenti di corpi lucidi, braccia in alto e drink fluo. L'aria rovente sa di alcool e sudore e le fa girare la testa. In ogni istante un gomito colpisce la pancia, il braccio, lo sterno.
Melissa sguscia nella bolgia come un serpente. Qualche sguardo la segue per perderla subito dopo; c'è abbastanza gente perché nessuno la noti, ma non le basta. 
Si guarda attorno. Una ragazza in bikini muove le anche sul cubo; due buttafuori grossi come armadi sorvegliano l'ingresso, di spalle; un uomo dai capelli biondi si sporge verso la barista. La maglietta si solleva, scoprendo la croce celtica tatuata sulla pelle.
È lui.
Melissa si muove tra braccia e fianchi. Un tacco si ficca tra le dita dei piedi, ma la fitta le arriva ovattata, come il battito del suo cuore nelle orecchie. Stringe il coltello. Preme il piatto della lama contro la coscia e gli si avvicina.
La discoteca non è il luogo migliore. Vogliono che soffra, quindi deve rinunciare ad un lavoro pulito. Dovrai sporcarti le mani. Anton le aveva detto anche quello. I lavori puliti sono quelli che preferisce, perché basta arrivare alle spalle della vittima, premere la canna sulla nuca e sparare. Se ne vanno con un sonoro botto, e lei sparisce prima ancora che qualcuno possa accorgersene.
L'uomo si dirige verso il bagno. Melissa lo segue a passo svelto. Scontra la spalla contro qualcun'altro, la botta saetta lungo la clavicola. Una goccia fredda bagna il piede, ma non ha importanza. È ad un metro scarso da lui. 
Adesso.
Allunga il braccio e lo sbatte contro l'uscita di emergenza.
L'aria pizzica la pelle accaldata. L'uomo incespica sul gradino e indietreggia, il viso contratto e i denti stretti.
«Che cazzo fai?» 
L'asfalto scintilla sotto il lampione. La puzza di immondizia e piscio le fa storcere il naso. Melissa gli pianta una mano nella spalla e solleva il braccio. La lama del coltello manda un riflesso che gli fa socchiudere gli occhi. 
«No, aspetta, ti prego!»
Affonda la lama nella carne, ancora e ancora. Scatti rapidi, fitte al braccio e macchie di sangue sul bianco della pelle e sulla maglietta. Si allargano come bocche, mentre quella dell'uomo è spalancata in un grido muto. Un altro punto di non ritorno.
Agli occhi scuri dell'uomo se ne sovrappongono due di ghiaccio, un viso rugoso tra la neve e sangue che macchia il bianco. Il sangue si allarga sulla maglietta dell'uomo e le sporca la mano.
Lo lascia cadere per terra, senza fiato. Ne ha visti pochi limitarsi a chiudere gli occhi; molti implorano, cadono in ginocchio, come se avesse davvero scelta. Deve essere quello che chiamano istinto di sopravvivenza. Il suo, invece, le dice che è meglio non pensare.
Melissa pulisce il manico del coltello con un fazzoletto e lo lascia cadere per terra. Non ha importanza che lo trovino: basta che non risalgano a lei. A loro. Sarà su un aereo prima ancora che arrivino gli sbirri.
Lancia un'occhiata al cadavere riverso per terra, molle come i sacchi neri della spazzatura che lo circondano. Una macchia rossa si allarga sull'asfalto, verso le sue scarpe.
Le note ovattate rimbombano nelle orecchie. Melissa chiude gli occhi e inghiotte.
Mi dispiace.
 
*
 
Fuori dal finestrino, il cielo è rosso e grigio, il sole è una corona di fuoco oltre i palazzi in rovina. Una luce si accende, al secondo piano. Il transito delle rotaie sul treno scioglie i nodi tra le scapole e le svuota la testa. Lì dentro, può fingere che non ci sia una pistola nella borsa, che i documenti che ha in tasca o il riflesso nel vetro le appartengano, che le sue mani non siano macchiate. A quell'ora ci sono pochi passeggeri: fingere di essere come loro è più semplice. Ne indossa la pelle per quanto può, quanto basta perché resti un fantasma. Un fantasma, però, non possiede davvero nulla.
Le cuffie nelle orecchie non le impediscono di sentire i passi che si avvicinano. Mai distrarsi. Neanche quando sei su un treno mezzo vuoto e hai un coltellino nella manica. Non ha mai visto un altro come lei, dopo l'addestramento, ma immagina che sarebbe facile sollevarle la testa e tagliarle la gola e scendere alla prossima fermata. Un lavoro pulito: pochi testimoni, nessuno in grado di identificarlo.
Quasi sente una fitta di dispiacere.
«Non è di queste parti, vero?»
Melissa stira un sorriso. «Si vede così tanto?» 
La verità è che non c'è più un posto che le appartenga: entra in punta di piedi e se ne va ancora prima di poter disfare la valigia. È così da anni e non se la sente di mettere radici, quando un colpo di vento potrebbe estirparle. Nemmeno Atene è più il suo posto sicuro.
«Un po'.» L'uomo di fronte a lei sorride. Indica il sedile di fianco al suo. «Posso?» 
«Prego.»
Restare anonimi. Un'altra lo avrebbe fatto sedere, magari gli avrebbe chiesto il numero. Il suo cellulare finirà in un bidone della spazzatura entro un paio di giorni.
«Mi chiamo Dominik.»
Le porge la mano. Melissa sfila una cuffietta e la stringe. «Marja.»
 
*
 
Il battito del suo cuore rimbomba nelle orecchie congestionate. I polmoni bruciano, ma sott'acqua le scariche sotto la pelle si attenuano abbastanza da placare i suoi demoni. Sott'acqua non è un'assassina. Sott'acqua è solo Melissa.
Nemmeno il suo corpo le appartiene. È estranea alla sua stessa pelle. Potrebbe andarsene, ma sarebbe solo per i pochi istanti di un sogno ad occhi aperti. Non durerebbe a lungo, lì fuori.
Potrebbe rimanere sott'acqua appena più del necessario, sentire il bruciore al petto, cullata dal battito del suo cuore. Sarebbe un modo dolce di andarsene. Una fine che alle sue vittime non è concessa.
Riemerge in un rantolo. Il freddo punge la pelle come spine e la riporta alla realtà, alla stanza completamente bianca, alla pistola di fianco al lavello, all'ennesimo punto di passaggio. Fuori dalla finestra, il cielo è di nuovo striato di rosa. Sarajevo è macerie ed equilibri precari. Un po' come lei, in fondo. Gli infissi sono scrostati e cigolano ad ogni soffio di vento, odorano di un passato che non conosce. Un'altra delle cose che non le appartengono. Melissa ruota i palmi sott'acqua. 
Ha premuto la pistola sulla fronte della donna e poi il grilletto. Nessuno spazio per le lacrime sulla pelle bruna o per le mani che si aggrappavano alle sue, non un attimo a fissare le orbite vuote. Anche la morsa nel petto è ovattata, come i rumori sott'acqua. 
Imploreranno. Lo faranno in molti, se non tutti. Vi abituerete. Controluce, il bianco della barba di Anton sembrava illuminarsi. Imparerete a non sentirli nemmeno.
È quello a farle più paura.
Cosa diventerà, se perde quella fitta di rimorso?
Ha strofinato la pelle finché non si è arrossata, finché nella spugna non si è formato un buco dalla forma delle sue nocche, ma non può cancellare gli occhi spalancati, fissi su di lei. Gli ultimi di una lunga serie.
Nei casi migliori, la sua vittima crolla in ginocchio, una rosa di sangue tra i capelli, e sfrega la guancia per terra. Ma a volte vogliono che la vedano, che piangano, che implorino di vivere ancora. A volte, il suo lavoro non sembra nemmeno quello di uccidere.
Stringe le ginocchia al petto e chiude gli occhi. Un singhiozzo la scuote. L'umido che riga le guance è tiepido, gli occhi sono quasi secchi. Sarebbe stato tutto più semplice, se fosse morta insieme ai suoi genitori su quel marciapiede. Se fosse fuggita, invece che entrare nello studio di Anton. Una famiglia che non è la sua, cibo nel piatto, bollette da pagare, il suo nome stampato su un documento. Il ricordo dei due lenzuoli sull'asfalto a tenerla sveglia di notte, e non quello di occhi vitrei e sangue sulle mani.
Melissa riempie i polmoni e si lascia cadere sott'acqua. Di nuovo, il battito del suo cuore anestetizza il groviglio di spine che ha in testa.
 
*
 
I palazzi sono sagome scure nel cielo, nuvole viola oscurano le stelle. Bucarest ha i contorni dei castelli delle fiabe di cui leggeva da bambina, la fa sentire di nuovo come quando camminava tra sua madre e suo padre, stringendo una mano a entrambi. 
Mai tornare nella stessa città, a meno che non ci sia un lavoro.
Adesso è in congedo, però, quindi è libera. Fino al prossimo incarico.
La palestra che ha scelto è mezza vuota. I neon si riflettono in un alone sulla finestra, lame roventi dietro gli occhi pesanti. Dovrebbe riposare, ma i fantasmi che occupano la sua mente la terrebbero sveglia lo stesso. Tanto vale assopirli nell'unico modo che conosce.
Melissa sfila la giacca e colpisce il sacco da boxe. Le nocche si spellano ad ogni colpo. Le scariche sulla pelle la tengono ferma sui piedi, impediscono alla sua mente di allontanarsi. Senza fiato, non c'è spazio per nulla, se non i tonfi che rimbombano per la palestra, le suole che sfregano sul pavimento.
«Di chi è la faccia che vedi?»
L'uomo del treno afferra il sacco e si sporge. Ha i capelli neri più folti, il sorriso contagia gli occhi azzurri. Melissa irrigidisce la schiena. Che ci fa qui?
Ma è lei, l'intrusa. Non ricorda nemmeno quale maschera indossava, il giorno in cui l'ha visto. Mai abbassare la guardia.
Dominik scrolla le spalle. «Scusa. Di solito, quando qualcuno è così furioso, ci vede sopra una faccia.»
Melissa riporta lo sguardo sul sacco e gli assesta un gancio. L'imbottitura attutisce il tonfo.
«Più di una.»
 
*
 
Le distrazioni portano solo guai, i guai non sono ammessi.
C'è un obiettivo a pochi chilometri. Un lavoro da mezza giornata.
Melissa avvolge i capelli in una retina e indossa una parrucca bionda. La giacca di due taglie più grande nasconde la fondina ascellare.
Mi aspetto che il lavoro sia finito entro mezzanotte.
Ogni passo sul marciapiede le annoda le viscere. Il sole crea arabeschi tra le foglie degli alberi. Non l'ha mai fatto di giorno. Di notte, è un'ombra come le altre. Di giorno, invece, gli sguardi pizzicano sulla pelle. Di giorno esiste, e chiunque può dire di averla vista.
Le cuffiette le penzolano davanti, ma nelle orecchie rimbomba il battito del suo cuore. 
La donna della foto esce da un palazzo con la porta in vetro, un caffé in mano e il cappotto nell'altra. Niente borsa. Porta il cellulare all'orecchio e attraversa spedita, per quanto le consentano la gonna al ginocchio e i tacchi. È così che sarebbe diventata, se non avesse preso la pistola dalle mani di Anton?
Melissa la segue con una mano già sotto la giacca. Un uomo e una donna dai capelli bianchi camminano sul marciapiede dall'altro lato della strada. Un raggio di sole brilla sul cranio rasato dell'uomo che le sfreccia di fianco, nella direzione opposta. Una donna dai capelli rossi spinge un passeggino, poco più avanti. 
Troppi testimoni. La seguirà fino al primo vicolo buio, le tapperà la bocca e sparerà un unico colpo in testa. Getterà il cappotto nel sacco della spazzatura e se ne andrà dritta all'aeroporto.
La donna si ferma sotto una pensilina. Il tram si sta avvicinando, ma Melissa non è abbastanza vicina per trascinarla di lato. Il cuore martella lo sterno. Non può lasciarsela sfuggire.
Solleva il braccio e spara. Uno strillo acuto squarcia il silenzio. Attorno sono troppo occupati a guardare il buco che la donna ha in faccia per rincorrere lei. 
Getta la giacca e la parrucca in un cassonetto e sale sul primo aereo. Dominik la aspetta nella caffetteria di fronte la palestra: Melissa ha lasciato cadere il biglietto con l'indirizzo nella pattumiera quella mattina. 
È meglio così. Non potrebbe nascere nulla che duri più di una notte, e lui non sembra interessato a chiuderla lì. 
Lo ammazzerebbero prima che possa anche solo pensare di dirgli qualcosa. E non si può amare una maschera.
 
*
 
«Che ne pensi di un partner?»
Melissa si stringe nelle spalle. Ha perso il diritto di pensare nel momento in cui le hanno messo una pistola tra le mani.
Un raggio di sole filtra dalle finestre e illumina il pavimento. Lo studio di Anton è legno e pagine vecchie, odora di chiuso, eppure essere lì è quasi come essere sott'acqua. Lì dentro, il dolore si attenua. È l'unico punto fermo in una vita in punta di piedi.
«Si chiama Basil. Per questa missione, lo chiamerai Evan.»
 
*
 
Attraversa l'aeroporto a passo spedito. Spalle larghe, maglietta e jeans neri come i capelli. Sono gli occhi a tradirlo: lo sguardo duro e opaco che rivede nello specchio ogni mattina.
«Da quanto fai questo lavoro?»
Il borbottio del motore copre il silenzio. Aveva immaginato che un altro come lei non avesse voglia di parlare. Due animali feriti difficilmente si accucciano di fianco. Però, non ne ha mai visto un altro - uno come lei, con la pistola nel borsone e quello sguardo spento.
L'odore dei sedili riempie le narici. Melissa alza le spalle. «Cinque anni.»(1)
Ogni giorno che passa sembra un secolo. Della bambina con la pistola in mano resta un involucro. La mano non trema, non versa lacrime per i proiettili che spara. Cambia coltello ogni viaggio e ha una fiala di stricnina nella borsa. Dipende tutto dai soldi che contiene la busta bianca che le porta Anton. Sarebbe più facile, se avessi una casa. Potresti permettertela. Più di una. Ma non può piantare radici in un terreno arido. 
«Io dieci.»
«E sei ancora qui.»
Il taxi sguscia tra i vicoli di Birmingham. Fuori dal finestrino, il mondo è ovattato e intoccabile, come quelle palle di vetro in cui cade neve finta. Non può macchiarlo, da lì dentro. Può solo fissare lo scorrere dei palazzi e delle vite degli altri, perfette come dietro una patina lucida.
Basil le lancia un'occhiata. «Ho alternative?»
Scrolla appena le spalle. Melissa si volta di nuovo verso il finestrino.
Una sola.
 
*
 
«Non è stata una mia scelta.»
Toledo è salsedine e mura stuccate di bianco, aria rovente nei polmoni. L'insegna del locale di fronte sfarfalla, colorando la stanza di rosso.
Melissa appoggia i gomiti al davanzale, la canottiera incollata alla pelle. Basil è il pezzo che aveva perso con la polvere da sparo sulle dita: con lui è come fermarsi a respirare dopo una corsa, con il cuore che batte in gola e i polmoni in fiamme. Non ha bisogno di parlare. A lavoro finito, sanno entrambi come leccarsi le ferite.
«Non lo è stata per nessuno.»
Un fruscio di lenzuola. Basil si puntella su un gomito. Il rosso rende marcate le ombre sul suo volto. Somiglia alla statua di un angelo vendicatore; un'etichetta che non si addice a nessuno dei due.
«Come hai iniziato?»
Con un cadavere tra la neve. Con il rosso che macchia il bianco, attorno al corpo di un uomo a faccia in giù. 
Melissa afferra il pacchetto di sigarette e ne accende una. La contrazione allo stomaco è familiare, ormai. È come strapparsi le viscere dal corpo a mani nude, centimetro per centimetro, e gettare del sale sulle ferite aperte.
«Volevo vendetta. Anton me l'ha promessa.»
E mi ha messo una pistola tra le mani.
Sono un uomo di parola. Lo è stato. Quello che non aveva menzionato era che nemmeno raschiando via la pelle lo sporco sarebbe colato via. Che le vite che prende non le avrebbero restituito quelle che ha perso.
Melissa soffia fuori il fumo. È una ferita infetta: può nasconderla sotto qualunque bendaggio, ma lei continuerà a gonfiarsi e pulsare. A ricordarle la sua presenza
Quegli occhi vitrei non la lasceranno.
«E tu?»
Basil stringe le spalle. «Problemi economici. Anton mi ha offerto un lavoro.»
Abbassa lo sguardo sulle lenzuola. L'indice sfiora il braccio, una costellazione di buchi richiusi adorna la pelle bianca. 
A ognuno i suoi fantasmi.
Melissa spegne la sigaretta sul davanzale e siede sul letto. «Come lo sopporti?»
Basil scrolla le spalle. «Non credo ci sia un modo.» 
Potrebbe pesarti quello che vedrai. Dovrai sopportarlo lo stesso. Stesso concetto, parole diverse; quello di Anton era il discorso rigido di un capo. Basil le parla da pari, da qualcuno che si ritrova a fissare il soffitto di notte, con le lenzuola incollate alla schiena per il sudore.
Melissa si sdraia sul fianco. Le ombre si allungano sul pavimento, ad ogni angolo sembrano nascondersi due occhi di ghiaccio, il foro di un proiettile sulla fronte. La svegliano sempre meno spesso; non sa se sia un bene o no. Mi sto abituando.
È quando la mano di Basil sfiora la sua che si accorge di aver affondato le dita nel cuscino.
«Fai il tuo lavoro e dimentica.»
 
*
 
A volte afferrare la valigia e correre fuori, fino a non avere più fiato né riferimenti, è il canto di una sirena. 
Che sapore ha la libertà?
Il sedile di un treno, l'aria fredda sulla pelle e il martellio del cuore nello sterno. Un conto alla rovescia invisibile sopra la sua testa e un target dietro la schiena. La fine nascosta dietro ogni ombra.
«A volte vorrei andarmene.»
Mai abbassare la guardia, diceva Anton. Non fidarti di nessuno. Chi comunica i suoi segreti a un altro ne diventa schiavo.(2)
Basil è come l'analgesico che prende ogni volta che qualcosa va storto e si ritrova a dover suturare il buco di una pallottola nel bagno di un autogrill. È la sua parte mancante. Parlare con lui è come fumare: accesa la prima sigaretta, non può fermarsi finché i polmoni non ne sono saturi.
Melissa guarda fuori dalla finestra. Il rosso avvolge Roma come una coperta, rovine vecchie di secoli si mescolano alle più recenti. I vetri attutiscono lo strombazzare dei clacson. Bella e piena di crepe nel profondo, mura in equilibrio precario su pilastri antichi. Potrebbe quasi abituarcisi.
Basil tira il carrello della Desert Eagle e la ripone sul letto. «Sì, ma non farlo. Non ti piacerebbero le conseguenze.»
Sarei morta prima di arrivare in fondo alla strada.
Melissa abbassa lo sguardo sulle scarpe lucide. Ha soldi in abbondanza e licenza di uccidere, qualcosa per cui molti venderebbero tutto, eppure non le basta.
Lo sguardo di Basil pungola la nuca.
«Ci farai l'abitudine.»
Le viscere si annodano.
È questo che mi preoccupa.
 
*
 
Il brusio sovrasta le parole del giornalista alla TV. Tintinnii di posate, l'odore del caffè caldo, una macchia rossa sulla superficie fredda. Nel bar è di nuovo un'ombra tra le altre, può fingere di essere quella che dicono i documenti in tasca. È tentata di voltarsi, ma Basil non c'è e il suo fianco è di nuovo scoperto, per la prima volta dopo molto tempo.
L'uomo alla sua sinistra beve senza staccare gli occhi dalla TV. Troppo occupato per notare che lo segue da due isolati e che non piega le braccia per non svelare la pistola sotto la giacca. Una distrazione può segnare la fine.
«Marja, giusto?»
Melissa irrigidisce la schiena. Lo sguardo del suo obiettivo pizzica una guancia. 
Dominik sorride. «Non pensavo di rivederti.»
Nemmeno io.
Melissa stira un sorriso, mentre il sangue cola dalla faccia come cera calda. «Ho avuto problemi a lavoro.»
Il cucchiaino tintinna contro la tazzina con troppa foga. Un nodo serra la bocca dello stomaco. L'uomo di fianco non la perde di vista. Adesso non è più un'ombra.
Rilassati.
Ha ancora il coltello dalla arte del manico: l'uomo non sa chi è, non sa perché è lì. Non sa che sul proiettile in canna c'è il suo nome sopra. 
Sei troppo tesa. Comunque vada, deve portare a termine il lavoro. Non ha importanza se la vede.
Dominik appoggia un gomito al bancone. «Ma ora sei qui.»
Non per molto.
Melissa sorseggia il caffè. Lo zucchero impasta la lingua. Inghiotte un sasso e ripone la tazzina sul piattino. «Sono qui.»
«Che lavoro fai?»
«Rimedio ai casini degli altri.»
Domink sorride. «Avvocato?»
 
*
 
«Viaggi spesso?»
Quasi ogni giorno.
«Abbastanza.»
Un'auto sfreccia fuori dalla finestra del bar. È tesa come le corde di un violino, anche a chilometri di distanza se ne accorgerebbero. Il suo obiettivo batte le dita sulla tastiera di un portatile. C'è troppa gente, lì dentro. Deve attirarlo fuori.
«Non ti fermi mai?»
Gli occhi di Dominik non la perdono un secondo. Sarebbe fin troppo facile parlare con lui, ma non è Basil: se sapesse, scapparebbe a gambe levate. 
Se sapesse, si ritroverebbe con un buco in fronte prima che possa pensare di andare alla polizia.
Melissa sorride. «Solo a volte.»
E adesso non dovrebbe. L'uomo è ancora seduto al bancone, ma potrebbe alzarsi e uscire da un momento all'altro. E lei non può perderlo di vista.
«Non sei un tipo di molte parole, vero?»
Non demorde, come un cucciolo che decide di morderti la caviglia. Ma non può affezionarsi, per quanto quella sensazione di palmi sudati sia nuova. Nessun altro ha mai tentato di conversare con lei così, prima. 
Melissa scrolla le spalle. «Lascio che siano le azioni a parlare.»
 
*
 
La volta successiva sono tra le lenzuola, un groviglio di gambe e braccia sudate, le unghie di lei nella schiena di lui. Melissa si inarca e geme, la bocca di Dominik cerca la sua.
Lo sparo riecheggia nella stanza.
Melissa sguscia fuori dal letto e si appiattisce contro il muro. Il fuoco nel basso ventre si spegne come dopo una secchiata d'acqua gelida. Spalanca gli occhi e trattiene il fiato. Il lampione per strada evidenzia un profilo fin troppo familiare.
«Perché?»
Basil scrolla le spalle. «Anton mi ha affidato l'incarico non appena sei partita.» 
Raccoglie il bossolo da terra e si china sul corpo di Dominik. Tasta un lato del collo. Il sangue cola sulle lenzuola, una macchia rossa si allarga sul bianco. Melissa distoglie lo sguardo.
«A quanto pare, era una spia dei sovietici. Voleva informazioni da te.»
Melissa sussulta. Una rosa di sangue si apre sulla fronte di Dominik, il rosso cola sugli occhi ancora aperti. È la prima volta che guarda un cadavere e prova l'impulso di sparargli in fronte di nuovo. 
Ecco perché insisteva.
Basil apre il borsone in un angolo e lo lascia cadere sul letto. Un registratore, una reflex, un coltellaccio, un grimaldello, due passaporti. Melissa ne prende uno e lo schiude: il nome è Gregorij Kresnik.
Si passa una mano sulla faccia. Le dita tremano. «Cazzo.»
Lancia un'occhiata al corpo esanime sul letto. Cos'ero, per te? Il trofeo di una notte o la missione di una vita?
Basil le tocca una spalla. «Non è colpa tua.»
«Sì, che lo è.» 
Le distrazioni non sono ammesse. Dovrà tatuarselo dentro.
 
*
 
Stilettate fredde pizzicano la pelle. Cubetti di ghiaccio galleggiano nella vasca, l'aria di Berlino in confronto è una carezza tiepida. Riflessi dorati scintillano sulla Sprea, fuori dalla finestra. L'insegna del locale sotto è rosso e blu sull'asfalto lucido.
«Non lasciarti coinvolgere.»
Se Basil le fosse stato accanto qualche anno fa, forse le avrebbe risparmiato notti con gli occhi spalancati e sussulti ad ogni scricchiolio. Ma Basil è arrivato quando ormai la morsa nelle viscere non la abbandona più. Non sussulta più ad ogni sparo, ad ogni affondo del coltello o ad ogni goccia di veleno che versa. Il dolore è lontano, ovattato come quello dei lividi sotto il ghiaccio.
A volte le vittime reagiranno. Anton passeggiava in cerchio nello studio, le mani dietro la schiena. È giusto così. Ci si aggrappa sempre alla vita.
«A cosa ti riferisci, in particolare?»
Basil lucida la canna della Desert Eagle, seduto sul bordo della finestra. 
«A tutto. Gli obiettivi, le distrazioni.»
Distrazione è debolezza. Adesso lo sa.
«Dovresti uscire con qualcuno, soddisfare le voglie.» 
Le lancia un'occhiata. Non scende mai oltre il viso, eppure, sotto quello sguardo, Melissa si sente sempre così: nuda, al freddo. 
«Non puoi rimanere sola per sempre.»
Basil a volte lo fa: a volte è lo scatto della serratura a svegliarla, prima che il materasso si inarchi alle sue spalle.
«Lo faccio.» 
Ma non ora: la pelle brucia ancora per le sue carezze. A guardarsi indietro, sa di aver abbassato la guardia senza ragione; quello che brucia di più è che sarebbero state delle parole gentili a vincerla. Nessuna minaccia, nessuna tortura. Un lavoro pulito.
Come una bambina.
Melissa artiglia il bordo della vasca. Dominik è stato uno sbaglio. Anche se non fosse stato una spia, lasciarsi andare avrebbe condotto lei tre metri sotto terra. Avrebbe quasi potuto dirglielo, del sangue sulla neve, della pistola che porta sempre dietro, e gli avrebbe fatto un favore.
Niente più debolezze.
 
*
 
«Andrete in America.»
Melissa osserva Anton con le mani dietro la schiena. Non discute gli ordini nemmeno nella sua testa, adesso: attende il momento in cui si sveglierà in un groviglio di lenzuola, in cui il rosso macchierà il bianco ancora una volta.
«I Valentzas ci hanno chiesto rinforzi. Sarete ai loro ordini.»
Sono in cinque, stavolta. Non ha mai visto gli altri tre. Basil annuisce, dritto come un fuso, di fianco a lei.
Una fitta attraversa lo stomaco. Non ha mai messo radici. Entrava in punta di piedi e usciva con uno sparo, la valigia mai disfatta, un nome diverso ogni volta. Vite a malapena sfiorate, prese in prestito per un battito di ciglia.
E allora perché quella morsa alle viscere?
Anton si ferma davanti a lei.
«Immagino che non ci rivedremo per un bel po'.»
Melissa serra le labbra. Non è suo amico, le ha messo una pistola in mano e ha fatto in modo che la usasse, ma era la cosa più simile ad una colonna portante in una vita piena di crepe.
Cambio di padrone. 
 
*
 
La vista da lassù le fa girare la testa. Deve essere la bottiglia di gin che si sono scolati in due, o forse è solo l'aria diversa.
Melissa dondola una gamba, a cavalcioni sulla finestra. Il vento le scompiglia i capelli. Basterebbe sporgersi a destra per essere libera. Una caduta, un bacio al sapore di asfalto, e poi più nulla. Niente pistole, niente passaporti, niente sangue.
«Vieni dentro.»
Melissa svuota la bottiglia. Le guance accaldate, la gola in fiamme. Basil le prende una mano e la trascina dentro. Non traballa, lui, eppure non ha mai bevuto così tanto da che lo conosce.
«Voglio che sia tu ad uccidermi.»
Basil aggrotta la fronte, non lascia la sua mano. Il letto ha lenzuola rosse, scure come il sangue sulla neve. Il groviglio nella sua testa martella le pareti del cranio, pulsa come un secondo cuore. 
«Se dovessi fare qualche cazzata.»
Le auto sfrecciano tra grovigli di strade, comete nel buio. Come una palla di vetro: le scorrono sotto senza che possa toccarle.
«Sei ubriaca.»
La tira dentro. Melissa fa un passo indietro, come se fosse il contatto con il davanzale a farla respirare.
«Dico davvero. Tu non vorresti che fossi io a farlo?»
Basil stringe le labbra. Gli occhi la scrutano. Sa cosa pensa. 
Chi comunica i suoi segreti a un altro ne diventa schiavo.
«Nessuno dei due farà cazzate.»
Sfiora il palmo con il pollice e le lascia la mano. Melissa lancia un'occhiata alla strada. I capelli le ricadono sulla faccia come un sipario. Nascondono il suo viso, l'ombra che attraversa occhi per un momento.
«No.»
Tu no.
 
*
 
Lo sparo rimbomba nel vicolo, esplode nei timpani come una bomba. La donna si accascia per terra, molle come una bambola. 
Melissa abbassa la pistola. Il sangue cola lungo la fronte color dell'ebano, uno spruzzo rosso macchia il bianco dell'intonaco. Ormai non sente quasi più il nodo alle viscere. Ci farai l'abitudine. Il bourbon aiuta, lì ha quasi preso il posto dell'acqua.
Il cigolio la fa voltare.
Il bambino ha gli occhi fuori dalle orbite. Un lago rosso si allarga sul pavimento, fino alle sue scarpe, e lui spalanca la bocca.
Cazzo.
Melissa punta la pistola contro la soglia. Il bambino stringe la porta e non muove un muscolo. La guarda con gli occhi grandi, enormi, di un marrone quasi nero. Come me. La guarda come lei guardò quell'uomo dai capelli bianchi, fermo accanto ai due lenzuoli sull'asfalto.
La mano trema di nuovo, come quindici anni prima.
«Uccidilo, che aspetti?»
Niente distrazioni, nessuna pietà. Ma quello non è un vecchio tra la neve: quel bambino non merita di finire per terra, a soffocare nel suo stesso sangue.
Melissa abbassa il braccio. 
Il bambino scappa. I passi rimbombano nel corridoio. Per qualche istante, sente solo il pulsare nelle tempie, il suo stesso cuore che martella la cassa toracica. Che cosa ho fatto?
Il sangue cola via dalla faccia come cera. È un testimone. Se l'è fatto scappare.
«Cazzo.»
Basil le sfila la pistola di mano e gli corre dietro. Deve seguirlo, fermarlo, ma le gambe sono blocchi di cemento. «Basil, no!» 
Lo sparo rimbomba tra le pareti.
No. Ti prego, no.
Melissa corre dentro. Basil le viene incontro a passo svelto, in due falcate le afferra le spalle e la inchioda alla parete.
«Che cazzo fai?»
Non ha mai visto il viso di Basil così contratto. Non con lei. È questo che prova una vittima. Per un attimo, sembra di nuovo la statua di un angelo vendicatore. 
«Era solo un bambino.»
«Era un testimone.»
Basterebbe un colpo sotto lo sterno e una rotazione del braccio per sfilargli la pistola; non lo fa. 
Basil la scuote. «Che cazzo fai?» ripete. Mi ammazza. Le punterà la pistola alla tempia e premerà il grilletto: un battito di ciglia, e lei sarà nulla di più di un cadavere da gettare in fondo all'Hudson. Eppure, il respiro si fa regolare.
Fallo.
Basil la lascia andare e si allontana. Serra la mascella. Con una manata, apre la porta di emergenza.
 
*
 
«Non lo dirò.»
Melissa aspira dalla sigaretta. È la terza in cinque minuti. Le tempie pulsano, è come avere un martello pneumatico nel cranio. Dondola una gamba, a cavalcioni sul terrazzo. Basterebbe un tuffo. La testa le gira al pensiero.
«È il tuo primo sbaglio. Eri spaventata.»
Basil le siede di fianco. Un tempo il nodo allo sterno si sarebbe sciolto, ma adesso è diverso: adesso è come se ci fosse uno sconosciuto con lei. 
Non è il primo. Il primo è stato molto tempo prima.
«Non succederà più.»
New York è un groviglio di asfalto e cemento. L'oceano scintilla sotto il ponte di Brooklyn. Nella famiglia non sono ammessi errori. Nemmeno se hanno il volto di un bambino con gli occhi sgranati.
Basil le prende una mano. Le stesse mani che sollevano la pistola sfiorano le sue. Con il pollice percorre il palmo.
No. Non succederà più.
 
*
 
Le porte del treno si schiudono di fronte a lei. È il punto di non ritorno. O forse lo era la pistola di Anton tra le sue mani. 
Melissa infila le mani nelle tasche ed entra. È come camminare nuda. Siede con la schiena rigida, stretta nelle spalle. È di nuovo la bambina sola, di fianco alla chiazza di sangue sulla neve.
Basil la troverà. È bravo a seguire le tracce e con lei ancor di più. Sa cosa pensa, dove andrebbe, chi diventerebbe. Ha studiato le sue parrucche con un'occhiata distratta, il modo in cui colpisce, gli alberghi che visita. Non ci sarà legame che tenga, quando le punterà la pistola alla testa.
Melissa lancia un'occhiata al binario. Un neon sfarfalla, lasciando la piattaforma in penombra. Come la sera in cui conobbe Dominik. Un altro sbaglio da aggiungere alla lista.
Può ancora scendere e tornare in albergo. Direbbe di essere uscita: Basil saprebbe che mente, ma la lascerebbe in pace. Immergersi nella vasca la farebbe sentire meglio.
Fino al prossimo bambino con gli occhi spalancati. 
Non posso.
Le porte si chiudono. Melissa chiude gli occhi e sospira.
Le sue mani saranno sempre macchiate di rosso, gli occhi di quell'uomo la troveranno ovunque vada. Ma non ci saranno altri nomi sulla sua coscienza. Niente più occhi spalancati pronti a trovarla nei suoi incubi. Niente più rosso.
Solo bianco.




 
NdA: Questo raccontino nasce come storia delle origini per un personaggio che fa parte di un'altra storia, un po' più lunga e articolata. Quella di Melissa era una storia che conoscevo a grandi linee, ma è stato il pacchetto "mela" del contest a darmi la giusta ispirazione per scriverla.
Ci sono un sacco di storie di assassini in giro, ne sono consapevole; per questo, ho cercato di concentrarmi un po' di più sulle conseguenze psicologiche del "mestiere". Volevo che la presa di coscienza di Melissa fosse graduale, ma che fosse presente fin dall'inizio.
Qualche appunto:
(1): I cinque anni di cui parla Melissa sono quelli effettivi: ho immaginato che ci fosse un qualche addestramento, prima.
(2): Chi comunica i suoi segreti ad un altro ne diventa schiavo è una frase di Baltasar Gracián y Morales.
Molte delle frasi in corsivo sono ricordi delle parole di Anton: non li ho segnalati tutti perché sono tantissimi, ma spero si capisca lo stesso.
Una piccola curiosità: Melissa ha l'abitudine di usare nomi che iniziano per "M" per le sue identità false.
Un enorme grazie a chi è arrivato a leggere fino alla fine!
   
 
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Thriller / Vai alla pagina dell'autore: TheWalkingNerd