Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: istherelifeonmars    15/09/2018    0 recensioni
Brighton, anni Cinquanta. Danny e Joe si conoscono per caso e sempre per caso le loro vite si intrecceranno immancabilmente, la loro è un'amicizia che cresce negli anni appena seguenti alla Guerra, in cui tutto è nuovo e ciò che è vecchio deve essere demolito e ricostruito. Gli anni più fiorenti dell'Inghilterra, che a quel punto ballava sulle punte dei piedi le canzoni dei Beatles e degli Who, faranno da sentiero ai nostri due protagonisti.
Una storia un po' romanzata, ma basata su avvenimenti reali - o almeno così mi piace pensare.
Ora che torno indietro con la memoria capisco che cosa vidi in Danny che negli altri non vedevo: allora lui era una scoperta, qualcosa di completamente nuovo con cui io avevo a che fare. Non era come gli adulti – impegnati a discutere sempre di politica, denaro o nuove ricette – ma nemmeno come gli altri bambini: stonava con l’ambiente in cui vivevamo. Stonava con tutto. Ha sempre stonato. Per il ragazzetto curioso che ero allora lui era una benedizione: un nuovo mondo da esplorare, questa volta per davvero.
Storia partecipante al contest Concorso a tema (l'amicizia), indetto da dramkath sul forum efp.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



III. Il microfono e la folla

 

 

 

Ho procrastinato per giorni la stesura di quest’ultima parte, terrorizzato dall’idea di mettere un punto alla nostra storia. Come ogni altro essere umano sono spaventato dalla parola fine, non importa quante persone abbia visto perire nei miei vent’anni di carriera: ho ancora paura della morte.
Tutto quello che costruiamo con perizia negli anni, tutto quello in cui mettiamo una parte della nostra anima, verrà cancellato subito dopo il nostro ultimo respiro. Ho faticato così tanto per arrivare alla posizione in cui sono ora e so che quando io smetterò di esistere anche la mia carriera e le mie conquiste svaniranno nel nulla, saranno perse per sempre. Una cosa però l’ho imparata e l’ho resa lo scopo della mia vita, me la insegnò Danny durante tutti i pomeriggi passati a guardarlo produrre arte: non importa quando si va via, l’importante è lasciare qualcosa che continui a vivere dopo di noi
E Danny era un artista.
E Danny fece esattamente così.

 

Il resto della mia vita, ora privata della presenza del mio migliore amico, fu stranamente tranquillo. Posso dire di ritenermi fortunato come pochi: all’università conobbi Lucy, una ragazza dalla chioma bionda e dal sorriso affilato, studiava farmacia e aveva sempre una risposta pronta. Allora io ero un ragazzo pacato, leggermente introverso, ma soprattutto orientato sugli studi e sul successo: Lucy mi prendeva in giro per le mie manie di controllo e cercava di distrarmi in tutti i modi dallo studio; devo dire che ci riuscì egregiamente. Al primo appuntamento andammo al cinema, ancora ricordo che ci precipitammo nella sala che proiettava Arancia Meccanica senza nemmeno sapere di che cosa parlasse – ora questo è un aneddoto che ancora ricordiamo ridendo, ma allora la nostra reazione fu diametralmente opposta. Ci sposammo tre anni dopo, quando lei aveva iniziato a lavorare nella farmacia del padre e quando io mi dividevo tra il tirocinio all’ospedale e la specializzazione in cardiologia.
La nostra fu – e tutt’ora è – una storia d’amore che, se potessi, augurerei a chiunque: ci siamo amati così tanto che dividerci è sempre apparso impossibile. Certo, con gli anni la passione sfuma lentamente, ma mai una volta ho osato immaginare una vita senza la mia Lucy e mi piace pensare che così sia stato anche per lei. Nel ‘75 nacque la mia primogenita, Ambra, che pur essendo la copia carbone di sua madre – stessi capelli biondi e ondulati, stessi occhi azzurri carichi di energia – aveva ereditato da me il mio carattere un po’ spigoloso e introverso. Ligia alle regole, la ricordo come una bambina esemplare; mai un capriccio, mai una protesta, ho quest’immagine stampata nella mente: lei che sfogliava un libro illustrato seduta alla scrivania accanto a me che leggevo un tomo sulle malattie cardiovascolari congenite. Due anni dopo fu il turno di Jane, con in testa una matassa di capelli rossi e una moltitudine di idee rivoluzionarie, è inutile che parli di quanto sia stato difficile cercare di domarla, anche perché non ci sono mai riuscito.
Alla mia famiglia mai parlai di Danny, quando narravo della mia infanzia tracciavo storie dai contorni labili, l’idea che potessi essere in qualsiasi modo ricollegato a uno come Danny mi metteva a disagio, così come trovavo angustiante la prospettiva che i miei familiari scoprissero del modo in cui l’avevo trattato. Avevo strappato al mio passato una parte di fondamentale importanza e cercavo di ricucire quello che mi rimaneva come meglio potevo, convincendomi che l’influenza di Danny su di me era stata minimale. Con gli anni il fantasma del mio migliore amico smise di perseguitarmi, non lo vidi più in una chitarra, in una biglia o in un paio di occhiali da sole, mi ero indotto a cancellare qualsiasi memoria troppo dolorosa e avevo avuto successo nel mio intento.
Passarono venticinque anni dall’ultima volta che vidi Danny. Un quarto di secolo condotto a vivere una vita agiata, borghese, di cui comunque non mi sono mai pentito.
La nostra quotidianità si protraeva pacifica: il ‘93 sarebbe stato l’anno in cui Ambra avrebbe iniziato a frequentare la facoltà di Biotecnologie: in lei rivedevo molta della mia determinazione giovanile, forse ancora più affilata. Diceva di voler fare la ricercatrice – come poi effettivamente è stato – e che quello era un ottimo modo per lasciare un’impronta tangibile sul mondo, in modo da essere ricordata con gloria. Jane, dall’altra parte, sembrava aver smesso di dare problemi, almeno per un po’. Aveva quindici anni e si legava costantemente i capelli in una coda alta, che lasciava libera solo la frangia, ascoltava il blues rock degli anni Settanta e ogni volta che riuniti a tavola guardavamo il telegiornale lei aveva qualcosa di ridire o puntualizzare. Dietro gli spessi occhiali che portava il suo sguardo di muoveva irrequieto, come se aspettasse solo il momento giusto per combinare l’ennesimo disastro. In lei rivedevo qualcosa di Danny che però non sapevo identificare con certezza: forse erano le convinzioni o la passione per la musica, oppure, per essere poetici, anche in lei era accesa dalla stessa fiamma che faceva brillare così tanto il mio amico. In quel periodo quel fuocherello che le bruciava dentro sembrava essersi chetato: finalmente ci lasciava privi di preoccupazioni. Per premiarla di quei momenti di pace che ci stava regalando, in accordo con Lucy, decisi di andare a comprarle un disco una volta finito il turno all’ospedale. Ricordo che quel giorno pioveva su Brighton così forte che dovetti rifugiarmi nel negozio di musica per una buona mezz’ora: si potrebbe pensare che un quarantenne inglese si sia ormai abituato al clima atlantico, ma io perseveravo a voler recarmi al lavoro in bici e, quando possibile, a piedi: le automobili non hanno mai esercitato su di me alcuna sorta di attrattiva.
Al riparo dal tempaccio britannico mi presi del tempo per me stesso, quello era un periodo impegnato. La mia vita era di nuovo piena; così piena da straripare, questa volta: mi preparavo a una promozione che aspettavo da tempo e nello stesso periodo avevo in cura un paziente di un certo spessore. Non posso fare nomi, perché ancora oggi ricordo che lui non volle che si venisse a sapere della sua miocardite, ma sulle mie spalle avevo la vita di una delle persone più importanti dell’Inghilterra Meridionale. La notte faticavo a dormire e ormai, quando a casa la mia parola veniva contraddetta, scoppiavo in pochissimo tempo – ero così pieno da essermi trasformato in una bomba ad orologeria, farcita di chiodi e schegge di vetro. Quel disco rappresentava per me e Jane una riconciliazione, il primo passo per ricercare la pace.
Costretto a passare del tempo all’interno del negozio, sotto un braccio un vinile dei Doors, iniziai a bighellonare attraverso la sezione delle cassette. Alcune rimanevano nascoste e impolverate, frutto di anni passati tra gli scaffali, alcune, le più nuove, splendevano tra le prime file, ancora birllanti nelle loro copertine dai colori appariscenti. Suppongo che sia stato il Destino, perché altrimenti non mi spiego un avvenimento del genere, o quel filo rosso che ha sempre collegato me e Danny anche dopo un quarto di secolo, che posai gli occhi su una cassetta bianca, nascosta da una degli Animals. Quando lessi la dicitura, ricordo di aver sentito le mie ginocchia cedere e fui sopraffatto da un senso che non saprei definire: era come se mi fossi accorto solo allora di forze più grandi che operano tramite noi. Sul bianco accecante era stato scritto Daniel H. Preston – Wild Side.

Dopo venticinque anni incontrai Danny di nuovo in un negozio di musica, anche allora era sporco e malmesso – quella cassetta era probabilmente usata, o altrimenti non avrebbe potuto essere così malridotta. Trascurando la pioggia e il vento così forte da scompigliarmi i capelli e da alzare il cappotto che indossavo, comprai Wild Side e uscii all’aperto, con l’unico obiettivo di ascoltare quell’album.
Mia moglie sole spesso raccontarmi che mi precipitai in casa senza rivolgere un saluto e che mi chiusi nel mio studio a chiave. Io ricordo solo che avevo le mani tremanti quando iniziai a maneggiare il mangiacassette, iniziavo a percepire un principio di tachicardia: per anni avevo cercato di allontanare il passato e ora tutto ciò che avevo cercato di dimenticato era tornato ad assalirmi come un’onda, mi sentii sopraffatto e spaventato; ma quei sentimenti vennero presto messi da parte dalla nostalgia che iniziò a serpeggiarmi nel petto appena sentii la voce di Danny.
La mia infanzia e la mia adolescenza erano in vendita in un negozio di dischi: Danny cantava di piste di biglie e di biciclette-avvoltoi, cantava di una via con case tutte uguali, cantava di occhiali da sole rossi e di tesori che provenivano dalle Americhe. Il castello di carte che io avevo distrutto quella sera di vent’anni prima era stato ricostruito con minuzia da quell’artista, da Danny, il mio migliore amico, e allora che ascoltavo le sue canzoni quasi cedetti alla commozione. La mia vita – e la mia amicizia – erano state trasformate in un’opera d’arte usufruibile da tutti.
Dovetti sedermi sulla poltrona di pelle e chiudere gli occhi. Era tutto lì, era sempre stato tutto lì. C’eravamo io e Danny seduti sulle banchine del porto e c’erano i gabbiani che volteggiavano su di noi, c’erano le corse attraverso il viale alberato. Ogni volta che abbassavo le palpebre la mia mente proiettava diapositive di una vita passata che quasi mi dimenticavo di aver vissuto. Tutti le pezze sotto cui avevo nascosto accuratamente parte della mia esistenza saltarono via in un momento e io fui costretto ad accorgermi che alcune cose non possono essersi semplicemente fermate, sono come un fiume in piena – si può solo ammirare lo spettacolo.
Quando il bussare alla porta di Lucy divenne troppo insistente e fui costretto ad aprirle, il mio volto doveva essere così sbiancato che lei corrucciò le sopracciglia preoccupata.
«Tutto bene?»
«Ti ho mai raccontato di Danny?»

Passò diverso tempo prima che io lo rintracciassi.
La casa discografica con cui allora lavorava allora non era legalmente obbligata a offrirmi notizie su di lui, mi liquidarono velocemente con il monito di non volermi più sentire. Del resto c’era poco da biasimare, ero io l’estraneo che chiedeva informazioni su uno dei loro cantanti. Passai il resto della giornata chino su libri e giornali, telefonando a qualsiasi negozio di musica pur di scoprire qualcosa in più su Danny: dopo una settimana avevo gli occhi cerchiati da borse livide e recarmi al lavoro era diventato una noiosa distrazione: mi sembrava che non ci fosse abbastanza tempo, ne avevo sprecato così tanto.
Ero così disperato che mi sembrava di annaspare in un pozzo buio in cui io stesso mi ero calato, fu allora che la mia famiglia mi venne in aiuto. Innumerevoli furono i pomeriggi passati con Lucy, seduti alla scrivania, alla ricerca della chimera che Danny era sempre stato. Tra una telefonata e l’altra solevo raccontare aneddoti della mia infanzia, farcendoli di particolari che ora mi apparivano di massima importanza: iniziavo ad avere paura di dimenticare – perché qualora Danny non fosse mai più ricomparso, di lui mi sarebbero rimasti solo i ricordi. Ritagliai articoli di giornale e recuperai interviste radiofoniche, il tutto con la smania di poter immaginare come sarebbero stati gli anni dell’età adulta se solo io non mi fossi comportato come invece avevo fatto; tornai un po’ il bambino che ero stato: ossessionato da quel nugolo di enigmi che era Danny. E Danny per me tornò ad essere la scoperta che era sempre stato, mi sorpresi che a quasi quarant'anni passati uno come me potesse ancora scoprire qualcosa di nuovo.
Infine, l’indirizzo del mio migliore amico mi venne dato dalla prima casa discografica indipendente per cui aveva lavorato. Allora quasi in fallimento, non ne rimaneva molto se non il vecchio portone arancione e l’affissione Neon Records. Più tardi venni a conoscerne il proprietario, un uomo modesto, ormai sulla sessantina, dalle mani affusolate come quelle di un pianista. Ricordo con estrema nitidezza il cordiale sorriso che mi rivolse mentre mi annotava l’indirizzo di Danny su un foglietto sgualcito – un sorriso che mascherava parole volutamente taciute: egli mi aveva detto che tutt’ora intratteneva una corrispondenza con Danny, ma omise dettagli di maggiore importanza. Forse fece il giusto, forse se mi avesse detto come stavano veramente le cose io non avrei avuto la forza per inseguire in capo al mondo il mio amico e avrei preferito abbandonare tutto. Di nuovo.
Fatto sta che una mattina di Agosto presi un giorno di ferie – il primo negli ultimi nove anni – e salii sul primo treno per Leeds, perfettamente conscio che quello che inseguivo era un semplice indirizzo scarabocchiato con lettere grossolane, non una verità assoluta. E mentre me ne stavo sul sedile, irrequieto come un ragazzino, mi sembrava di essermi imbarcato su una navicella spaziale pronta a riportarmi indietro nel tempo. Mi sentii energico come non lo ero mai stato, preso da un fervore quasi adolescenziale, e feci tesoro di quelle sensazioni che mi penetravano sottopelle, perché sapevo che non sarebbero mai più tornate. Tornai ad avere undici anni, elettrizzato all’idea di fumare al vecchio porto al Sud di Brighton, nascosto agli occhi sospetti di quelle creature così strane e tristi e monotone che erano gli adulti. Nuovamente dimentico dell’ombrello, camminai per la cittadina inglese attento a non bagnarmi troppo a causa della leggera pioggia che ormai mi scivolava sulla fronte. Poco dopo riscoprii che sporcarsi la giacca buona o le scarpe nuove non era una prospettiva così malvagia e che correre sotto il piovasco inglese mi provocava sempre un moto ilare, come quando ero ragazzino.
Non so che cosa mi aspettassi quando al mio bussare mi venne aperta la porta, forse mi immaginavo che dall’altra parte apparisse il ambino che Danny era stato anni e anni prima, con quella zazzera confusa di capelli color pece e lo sguardo estremamente concentrato, troppo piccolo per i suoi vestiti – oppure poteva aprirmi un sedicenne estremamente allampanato, i capelli ondulati che gli arrivavano alle spalle e il naso leggermente aquilino a sorreggere un paio di occhiali da sole rossi. Non so che cosa mi aspettassi quando al mio bussare mi venne aperta la porta, ma quando vidi la figura che si stagliava controluce fui colpito da tutti gli anni che erano passati e si erano depositati sul volto del mio migliore amico. Magro come non lo era mai stato, sul viso emaciato iniziavano a stagliarsi piccole rughe che si allargavano come sottili ragnatele. E fui di nuovo scosso da quel senso di impotenza: avevo perso troppo tempo, ed io e Danny ci eravamo trasformati nei fantasmi di chi eravamo. Mi ritrovai ad annaspare qualche tipo di scusa, del resto mi ero presentato a casa sua senza nemmeno un avviso: per quanto ne sapevo lui avrebbe potuto non riconoscermi.
Allungai una mano: «Sono Joe, quello di Edburton Avenue.»
Un nome e una provenienza, entrambi ormai svestiti del loro vero significato. Con il passare degli anni avevo smesso di usare quel diminutivo, preferendogli un più formale John; mentre Edburton Avenue non era altro che un indirizzo di cui preservavo poche memorie, avendolo venduto quasi una dozzina di anni prima, in seguito alla morte di mia madre. Eppure, se Danny se mi avesse mai ricordato, mi avrebbe ricordato per la persona che ero stato; la stessa cosa valeva per me, che faticavo a indovinare i tratti di Danny nella persona in piedi di fronte a me.
«Mi dispiace per l’improvvisata, ma non avevo il tuo numero di telefono. Altrimenti ti avrei chiamato. Se è un brutto momento non è un problema.»
Quello che mi ricambiava era uno sguardo così intenso che avrebbe potuto trapassarmi come la punta di una lancia, gli occhi di Danny sembravano analizzare ogni mio dettaglio e ogni mia parola – ecco, solo quello non era cambiato: quel suo sguardo che sapeva metterti a nudo.
«Vuoi entrare?» domandò neutro; dall’altra parte della porta, aperta per metà, sentii provenire dei passi. Contrassi la mascella, ora perfettamente conscio dell’idiozia che avevo appena compiuto, piombare a casa di uno sconosciuto era di quanto più scortese potessi fare. Deglutii: «Non voglio disturbare.»
Calò un silenzio pesante: era troppo tardi per andarsene ed era troppo tardi per cercare di rattoppare un rapporto così sfilacciato, era sempre stato troppo tardi. Furono gli stessi passi di prima a riempire quell’assenza di suoni che si era creata, da un parte indistinta dell’appartamento cui avevo bussato sentii provenire una voce maschile: «Chi è?»
Danny non mi distolse lo sguardo di dosso: «Un vecchio amico. Non ci vedevamo da molto tempo.»
«Fallo entrare, ma digli che qui è un porcile.»
E i passi si allontanarono.

Danny è sempre stato strano, e lo era anche allora. Parlava a voce bassa e con lui era difficile intavolare una conversazione leggera, da quando mi sedetti sul suo divano sgangherato – in seguito scoprii che si sarebbero trasferiti in un paio di settimane – lo vidi sprofondare nella sua poltrona rossa. Teneva le gambe incrociate e quando beveva il té si sporgeva pericolosamente verso il tavolino da caffè che ci separava, sembrava un contorsionista nell’atto di esibirsi nel suo spettacolo.
Ora Danny portava i capelli corti e una montatura quadrata di occhiali, ma dietro le ciglia folte si intravedeva quella irrequietezza che lui aveva sempre cercato di nascondere con i suoi modi pacati e la voce soave. Per una buona mezz’ora parlai io e, incapace di trovare un argomento appropriato, iniziai a raccontare di ciò che era stato di me negli ultimi venticinque anni, delle mie figlie e di Jane, che in qualche modo era riuscita a riportarmi dal mio migliore amico – ma non ebbi il coraggio di pronunciare quella parola in sua presenza, ero ancora pieno di vergogna e risentimento. Lui mi osservava attento, talvolta passandosi una mano sul mento.
Ricordo, pur essendo passati dieci anni, di aver visto gli acari di polvere danzare in controluce in quel vecchio appartamento su a Leeds, si alzavano appena uno si spostava sul divano o alzava la tazzina dal tavolo. Li ricordo perché Danny fece un breve commento su quelli, a mezza voce, dicendo che alla fine gli stessi continuavano a scontrarsi, in un modo o nell’altro. Io non dissi niente, ma sapevo che lui aveva intuito che avevo capito.
Dopo un paio d’ore passate a colmare i silenzi, a venirmi in aiuto fu quello che io poi appresi essere Andrew – allora stimai che avesse qualche anno in meno di noi, con quella folta matassa di capelli bruni e un sorriso brillante, da attore del cinema. Appena ne sentii la voce, intuii che era stato lui a parlare sull'uscio della porta– non che avrebbe potuto esserci qualcun altro, stipato in quei cinquanta metri quadrati di un quarto piano –, mi chiese se volessi accompagnarlo in cucina mentre Danny si faceva una sigaretta e il suo tono prese un’inflessione così seria che quasi mi sentii obbligato a seguirlo nella piccola stanza. Aveva un modo di fare cordiale e benevolo, che un poco cozzava con la mia introversione e il mio modo di fare schematico, teneva legato ai fianchi un grembiule e prese a lavare le tazze che avevamo appena usato.
«Dan mi parlava spesso di te.» disse, senza abbandonare quel mezzo sorriso che da là in poi avrei sempre collegato a lui. «Specie i primi anni, quando ci eravamo appena incontrati.»
Mi dovetti trattenere dal domandare che cosa dicesse di me, se avesse raccontato la storia senza omettere dettagli. Di nuovo, la vergogna mi colpì come una freccia in pieno petto; mi mossi a disagio.
«Per lui devi essere stato una specie di eroe. Quando era piccolo ti doveva guardare con un’ammirazione!»
Una seconda freccia, una allo stomaco: il rimorso tornò a farsi sentire con una tale forza che non riuscì a tacere: «Non credo proprio, tra i due era lui a essere l’unico
«E credi che ne fosse felice? Non sai che cosa gli hanno fatto passare i genitori.»
Fui costretto ad annuire, le spalle al muro: solo allora mi resi conto di quanto per tutta la sua vita uno fosse stato osservato come un oggetto fuori posto, alla fine anche io ero arrivato a vederlo come un qualcosa da aggiustare, quando ancora sognava di fare il musicista e leggeva i racconti di Poe. Danny aveva sempre remato controcorrente, anche contro di me.
Non risposi e nemmeno Andrew aggiunse niente, spostò l’argomento della conversazione su argomenti più leggeri, come la collezione di vinili che Danny conservava nella camera da letto, gli uni impilati sugli altri. Ma io avevo smesso di ascoltare.

Le mie visite a Danny si fecero un’abitudine, una volta al mese prendevo il treno per Leeds al mattino e tornavo a Brighton la sera, stanco e pieno di malinconia, ma comunque felice. Danny iniziò a parlare sempre di più, ma raccontava solo della musica e dei suoi bizzarri sogni, smozzicava che si era preso una pausa per scrivere nuove canzoni e che non appena le avesse avute pronte sarebbe tornato in radio, come gli era successo con il suo ultimo album cinque anni prima. Danny era sempre più magro e si muoveva a scatti, nervosamente, mentre beveva il tè o fumava una sigaretta nel silenzio del suo salotto. Dopo quasi un anno di incontri ancora non ero riuscito a esprimere quelle parole su cui rimuginavo quasi ogni sera prima di andare a dormire: cercavo di scusarmi, ma ogni volta mi sembrava meno adatta, mi pareva di risultare fuori luogo o privo di tatto come il ragazzino basso e grassoccio che ero stato. E allora stavo in silenzio, sempre in silenzio, continuando a ripetermi che se non mi fossi sbrigato sarebbe stato troppo tardi.
Ma a Danny devo anche dare questo: implicitamente, con i suoi modi pacati, mi insegnò che non c’è mai un momento giusto e poiché non ce n’è mai uno, allora ogni momento è quello giusto. Non era mai il momento giusto per chiedere che cosa uno pensasse della morte, ma lui me lo chiedeva lo stesso da dietro la sua sigaretta stropicciata, non era nemmeno il momento giusto per confessarmi che da giovane aveva passato un periodo di dipendenza dall’eroina, eppure me lo diceva lo stesso, con una noncuranza che quasi mi spaventava. A tal proposito, scoprii che il suo, a Londra, fu un periodo infernale: Danny mi aveva detto, in quell’ultimo giorno di gioventù, che lui si sentiva felice. Ma uno come Danny, un alieno sceso in terra come per un esperimento, sarà sempre un estraneo, anche nella sua stessa casa. Venni a conoscenza di tutte le droghe che aveva sperimentato e lui me ne parlò come se la cosa nemmeno lo riguardasse, mi disse che a tal proposito aveva scritto una canzone, ma che quella era rimasta inedita, sicché la casa discografica di allora non trovava gli argomenti pertinenti. Nel raccontare quell’aneddoto sorrise appena, ancora lo ricordo: era la prima volta che lo vedevo sorridere da quella serata nel pub di Londra. Ma quello di allora era un sorriso amaro.
Consapevole che ormai non avrei mai potuto trovare il momento giusto, una sera, prima di tornare a casa, appoggiato all’ombrello blu che ancora ho in casa, vomitai tutte le parole che avevo ingoiato per un quarto di secolo.
«Volevo solo dirti che mi dispiace Danny, per tutto quello che ho fatto. Non te lo meritavi, avrei dovuto capirlo, avrei dovuto comportarmi da amico. E non l’ho fatto. E mi dispiace. Avevi bisogno di qualcuno che lottasse con te contro il resto del mondo e io non ero la persona adatta – non lo sono mai stato –, eppure non avrei comunque dovuto farti del male così, voltandoti le spalle. Se potessi tornare indietro troverei un modo per cambiare le cose. Mi dispiace così tanto.»
Danny mi fissò con quell’aria concentrata con cui aveva fissato la mia pista di biglie trentacinque anni prima, osservò ogni mio minimo dettaglio senza dire una parola – questa volta in volto aveva l’espressione di un anziano, di un saggio. Aspettai, con la mascella contratta, una sua risposta. Non rispose mai nulla, mi guardò solo con quei pozzi neri che aveva al posto degli occhi e annuì. Credo che avesse capito.
Danny è sempre stato una di quelle persone destinate a rimanere sole per sempre, una persona difficile da amare e a cui legarsi. Io e Andrew ci avevamo provato, in modi diversi – dalle loro occhiate si comprendeva che ci fosse qualcosa di più che una solida amicizia, talvolta si stringevano una mano o i loro sguardi indugiavano qualche secondo in più –, entrambi consapevoli che Danny non avrebbe mai potuto ricambiare nel modo in cui avremmo sperato. Cercare di trattenerlo, o aspettarsi da lui una risposta alla confessione che io gli avevo fatto, era impossibile. Fui però irrimediabilmente contento di quel semplice gesto del capo, fui orgoglioso che uno come me potesse aver inciso qualcosa nella vita di uno come lui e a tempo stesso mi odiai per non essermi mosso prima, per aver aspettato che il tempo mi piegasse a suo volere..

La mia promozione iniziò a richiedere sempre più sacrifici e le visite a Danny si fecero sempre più rare. Tre all’anno, quando riuscivo. Nella mia mente continuavo a ripetermi che lui comunque aveva Andrew dalla sua parte, qualcuno con cui compartire i momenti di vita quotidiana, qualcuno che lo appoggiasse e da appoggiare. Un paio di volte mi accompagnò Lucy e in seguito mi riferì che Danny aveva il potere di metterla a disagio: le sembrava di vedere un vecchio nel corpo di un uomo – allora nemmeno lei capiva.
Il volto di Danny si fece scavato e a un certo punto divenne palese che qualcosa in lui non andasse. Aveva le mani nodose e talvolta gli tremavano, cosicché presto prese a declinare i té che mi offrivo di fargli. Dimagriva a vista d’occhio e la pelle si era fatta pallida e secca, piena di irritazioni, all’inizio del ‘95 doveva pesare poco più di sessanta chili e i pantaloni gli si erano fatti così larghi che sembrava sprofondarvi dentro ogniqualvolta che si sedeva sulla sua poltrona. Quando si alzava per andare a prendere qualcosa lo vedevo traballare come un equilibrista su un filo estremamente sottile; aveva addirittura smesso di suonare la chitarra e i suoi spartiti erano stranamente scomparsi dal tavolino su cui erano impilati.
Vidi Danny consumarsi da dentro come un fiammifero che si sta per spegnere, ma anche allora guardai dall’altra parte, cercando di indovinare nella persona che era diventata i comportamenti che da giovane mi erano familiari: il tirarsi su gli occhiali sulla punta del naso, la sua risata a singhiozzi, la sua camminata dinoccolata.
Quando la situazione divenne troppo evidente, fu Andrew a prendermi da parte, anche lui sembrava essere invecchiato negli ultimi due anni e sotto gli occhi si erano formate grandi occhiaie che mi parevano lividi.
«Come ti sarai accorto, Dan non sta bene. Non vuole farlo sapere, ma ormai è evidente, tu non dirgli che te l’ho detto.»
La mia mente, allenata a passare anche più di diciotto ore nei corridoi di un ospedale, corse a elencare tutte le malattie di cui poteva soffrire, fu un riflesso incondizionato: prima dell’apprensione sopraggiunse quella smania di capire di quale infermità si trattasse. Mi ci volle quasi mezz’ora a capire che Danny, il mio migliore amico, quello della pista da biglie, era divorato via da una malattia incurabile.
«È AIDS. L’ha contratto tre anni fa, i medici gli hanno dato cinque anni al massimo.»
Rimasi fermo, paralizzato da una paura ancestrale. E di nuovo, sentii di essere travolto da qualcosa di più grande di me, di qualcosa che non riuscivo a comprendere.
«Come?» riuscii solo a chiedere, la gola improvvisamente secca.
Andrew mi rivolse un sorriso amaro, era la prima volta che glielo vedevo in volto: «Un omosessuale con un passato da tossicodipendente, Joe. Io e Dan ci conosciamo da tanto tempo, ha avuto una storia difficile da quando è uscito dalla cupola di vetro di casa sua. Molti dei nostri amici sono già morti, ora andare a un funerale è quasi un'abitudine.»
Gli lacrimavano gli occhi.

Mi precipitai rispondendo che conoscevo persone pronte a visitarlo, che io ero dell’ambiente, se voleva avremmo persino potuto provare cure nuove, era un rischio che valeva la pena di correre.
Andrew alzò le spalle: «Lui crede ancora di star bene, non vede nemmeno la necessità di prendere le medicine che devo somministrargli a forza. Ma forse puoi parlarci tu.»

A volte, nella vita, non possiamo fare altro se non correre in cerchi. Ora che ho cinquantadue anni sono quasi del tutto convinto che la mia vita sia stata una perfetta circonferenza, l’inizio e la fine si sono confusi e ogni volta che passo per lo stesso punto mi sembra di averlo vissuto migliaia di volte, ogni diapositiva della mia esistenza è alla stessa distanza dal centro rispetto a tutte le altre, quel centro inarrivabile, un punto solo che non riuscirò mai a toccare per quanti giri continuerò a fare. E a ogni giro uno è più stanco e le cose si fanno più difficili, cosicché, quando mi venne fatta quella confessione, mi rividi davanti all’ospedale St. Pancras e rividi un castello di carte rovinare ai miei piedi, questa volta più forte, lasciando solo macerie.
Era davvero troppo tardi e non c’era più tempo.
Quel rapporto che avevo cercato di ricucire e per cui avevo sempre sofferto così tanto si sarebbe presto dissolto e io, stupidamente, mi ero fatto solo del male a cercare Danny quel mattino di Agosto del ‘92.
E lo vidi crollare, quel castello, lo vidi crollare come lentamente vidi crollare Danny. Ma non voglio parlare di lui in quello stato – di come si era ridotto, incapace di vivere come avrebbe voluto. Voglio ricordarlo come quando mi raccontava le sue storie di fantasia e di come rideva – Dio mio, come un matto! - quando io gli facevo una battuta, voglio ricordare i suoi disegni e le sue canzoni così semplici ed eppure così cariche di spessore. Gli occhiali da sole rotondi e rossi, le camicie larghe, le sue mani che si muovevano sapientemente sulla chitarra, le serate al pub, la sua insonnia.
Danny morì il 21 Settembre 2001, a nove anni dalla contrazione della sua malattia. I medici dissero che se ne andò pacificamente, finalmente avvolto da quel sonno che in vita sempre gli era mancato. Non ho potuto vedere le cartelle che lo confermassero, ma mi piace pensare che sia stato così, che magari nel mondo onirico abbia cavalcato una chimera e abbia finalmente attraversato l’Atlantico in cerca di oro.
Danny era una persona diversa e questo lo sapevamo tutti.
Conoscevo i suoi genitori e sapevo quanto imbarazzo provavano persone a modo come loro ad avere un figlio come lui, specie in quegli anni. Ma Danny non era un malato, uno scansafatiche. Era un visionario, era un artista: mentre tutti noi – io, i suoi genitori, il nostro quartiere – cercavamo una vita stabile, correndo come matti per prendere il nostro salario, lui strimpellava la sua chitarra. Eravamo noi i pazzi, non lui. Non so se lui se ne sia mai reso conto, se mai per un singolo secondo della sua vita abbia compreso che genere di persona fosse, ma io ora ho preso coscienza del dono che è stato e voglio che ne prendiate coscienza anche voi.
Stiamo tutto il giorno guardare un televisore e a rincorrere un titolo di studio e a volte ci dimentichiamo di quello che fama e gloria non contano nulla nello schema della vita. Quello che conta è lasciare qualcosa, e Danny ha lasciato così tanto: io sono una delle sue tante impronte e mi piacerebbe passarvi il testimone.
Ancora tante scuse, Danny, avevi ragione tu.
Hai sempre avuto ragione tu.
Ora lo vedo anche io l’occhio nella mia pista di biglie.”

 

 

 

 

- dal discorso di John Malcom Anderson per la cerimonia di anniversario
di morte di Daniel H. Preston (1950 - 2001)

 

 

 

 

Note dell'autrice: questa è una storia breve, o un racconto lungo, vetevela voi, ma per me è stata di enorme importanza. La prima storia a cui metto un punto finale da quasi due anni che, per quanto corta possa essere stata, è stato un ottimo universo in cui rifugiarsi in questi pomeriggi estivi. Vorrei ringraziare tutti quelli che di qui ci sono passati per caso e tutti quelli che mi hanno lasciato una recensione d'incoraggiamento.
Ancora una volta: vediamo di non dimenticarci di tutti i Danny nel mondo, ce ne sono uno in un milione ma sono il miglior tipo di persona che si possa mai incontrare.
Alla prossima.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: istherelifeonmars