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Autore: Vanya Imyarek    15/09/2018    3 recensioni
Italia, 2016 d.C: in una piccola cittadina di provincia, la sedicenne Corinna Saltieri scompare senza lasciare alcuna traccia di sé. Nello stesso giorno, si ritrova uno strano campo energetico nella città, che causa guasti e disguidi di lieve entità prima di sparire del tutto.
Tahuantinsuyu, 1594 f.A: dopo millenni di accordo e devozione, gli dei negano all'umanità la capacità di usare la loro magia, rifiutando di far sentire di nuovo la propria voce ai loro fedeli e sacerdoti. L'Impero deve riorganizzarsi da capo, imparando a usare il proprio ingegno sulla natura invece di richiedere la facoltà di esserne assecondati. Gli unici a saperne davvero il motivo sono la giovanissima coppia imperiale, un sacerdote straniero, e un albero.
Tahuantinsuyu, 1896 f.A: una giovane nobildonna, dopo aver infranto un'importante tabù in un'impeto di rabbia, scopre casualmente un manoscritto di cui tutti ignoravano l'esistenza, e si troverà alla ricerca di una storia un tempo fatta dimenticare.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Tahuantinsuyu'
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                                  CAPITOLO 21

 

DOVE  TAHUANTINSUYU  ACCOGLIE  UN/A  NUOVO/A  SCHIAVO/A

 

 

 

Choqo non aveva più avuto notizie di Itzèn dalla loro primissima conversazione durante quella festa. Sulle prime la cosa le aveva anche dato fastidio – tutto quell’impegno per importunarla alla festa, e poi non si faceva neanche più sentire? -, ma gli ultimi risvolti della storia l’avevano poi completamente distratta da lui.

 Adesso però era necessario andare a cercarlo: Malitzin aveva appena fatto il suo ingresso sulla scena. Choqo conosceva a malapena i dati salienti della vita del primo Sommo Sacerdote: uno dei figli del re di Yrchlle, condotto a Tahuantinsuyu come schiavo dopo la conquista della sua terra d’origine, aveva presto iniziato a predicare l’imminente scomparsa dei vecchi dei e la necessità di considerare la massima certezza, la Vita, come unica cosa degna di venerazione. Inizialmente lui e i suoi primi seguaci avevano rischiato la condanna per blasfemia, peccato poi che si fosse rivelato che almeno al primo punto avevano ragione. E Simay e Corinna gli avevano permesso di innalzare la sua piccola setta a religione ufficiale dell’Impero di conseguenza.

 Davvero, il suo interesse in materia religiosa era tanto scarso, che era soddisfatta di non saperne di più, con somma disperazione dei suoi genitori. E adesso stava per apprendere una parte della storia sconosciuta a tutti, meno che agli stessi Sacerdoti. Che ironia!

 Le reazioni dei suoi familiari al suo annuncio di volersi recare al Tempio della Vita furono miste: una metà fu felicissima della sua ritrovata coscienza religiosa, l’altra metà ordinò al conducente del suo Mekilo di tenerla bene d’occhio, nel caso quello fosse un tentativo di fuga per evitare le nozze. C’era da aspettarselo, davvero.

 Il Tempio della Vita, come al solito, ferveva di attività. Se c’era qualcosa che secondo Choqo, ora che ne sapeva di più della vecchia religione, dava qualche credito al loro culto, era la loro disponibilità a prestare aiuto a chi lo chiedesse quando e come capitava, a prescindere da chi fosse il postulante: bastava che fosse vivo, e avrebbe ottenuto tutto l’aiuto di cui chiedeva, fosse stato un mendicante o l’Imperatore in persona. Il rovescio della medaglia era l’assoluto caos che regnava nella loro istituzione: supplici che vi si affollavano a tutte le ore del giorno avanzando tutte le richieste pensabili, Sacerdoti che correvano a procurare loro il conforto emotivo o il sostegno materiale di cui necessitavano, attendenti sconfortati che cercavano di mettere un po’ in ordine gli uni e gli altri. In retrospettiva, era stata una pessima idea non farsi annunciare: probabilmente Itzèn era già occupato con qualcun altro.

 E infatti: non appena ebbe richiesto del giovane Sacerdote a un attendente, la risposta fu di aspettare il suo turno; e così fece, per circa tre quarti d’ora in cui dovette impegnarsi a non mettersi tra i piedi a nessuno. Quando Itzèn si degnò di palesarsi, la ragazza aveva un mal di testa feroce e un umore perfino peggiore di quello con cui solitamente affrontava i Sacerdoti della Vita.

“Era ora” scattò. “Per essere quello che mi ha contattata per prima, non ti sei curato molto della mia strada verso la verità”

 “Stai facendo critiche con frasi scelte a caso perché il loro contenuto suona vagamente religioso?” replicò Itzèn con tutta la calma del mondo.

 Choqo rispose sbuffando. “Allora, questa storia?”

 “Dovrai anche imparare un po’ di seria retorica, cambiare argomento è una strategia piuttosto deprimente. Comunque, hai raggiunto il punto dell’arrivo di Malitzin a palazzo?”

 “Sì, con Corinna che non riesce a decidere se sia un uomo o una donna”

“Immagino sia capitato a moltissime persone. Dunque, per cominciare, tu cosa sai di Malitzin?”

 Choqo riferì.

 “Le basi, a malapena. Per una nostra così ardente critica, mi sarei aspettato una conoscenza più approfondita …”

 “E infatti sto parlando con te. Allora?”

 

 

                                                                     Dal racconto di Itzèn

 

Partiamo dalla considerazione del fatto che, una situazione del genere, Malitzin non se l’era aspettata neanche per sbaglio.

 Innanzitutto, solo i più paranoici avevano potuto prevedere l’attacco di Tahuantinsuyu. Secoli di coesistenza pacifica, patti di non belligeranza, alleanze commerciali, collaborazioni militari non appena qualcuno pareva voler minacciare entrambi i territori, accordi matrimoniali tra le diverse nobiltà. La famiglia reale aveva qualche goccia del sangue del Sole nelle vene, e più di un nobile di Tahuantinsuyu aveva antenati yrchllesi.

 Il popolo e la nobiltà erano talmente abituati a questo stato delle cose, che avevano finito per ignorare due importanti fattori: primo, l’espansione di Tahuantinsuyu fin proprio ai loro confini, e secondo, la convinzione che ogni Imperatore fosse in obbligo di espandere i confini del suo dominio anche solo di un poco di terra in più. Sì, come dici tu, erano degli storditi; ma c’è da considerare che avevano trascorso il tempo da quando Manco era salito al trono a vederlo affaccendarsi in piccole campagne e trattative per acquistare provincie relativamente insignificanti. Yrchlle era tutto, meno che una provincia relativamente insignificante.

 Tlalok, il padre di Malitzin, era rimasto semplicemente di stucco nel ricevere il messo che decantava i vantaggi del diventare provincia di Tahuantinsuyu, e invitava a una resa pacifica; non aveva impiegato una lunga riflessione a rifiutare. L’Impero aveva la maggioranza numerica, ma quella poteva essere facilmente raggiunta tramite alleanze con gli storici nemici delle loro politiche espansionistiche, forse anche sobillando ribellioni interne; l’Impero aveva Sacerdoti che usavano la magia divina nel combattimento, Yrchlle aveva macchine belliche che un Soqar non si sarebbe neppure sognato; l’Impero aveva soldati valorosi e generali brillanti, ma quelli li aveva anche Yrchlle. Lo stesso primogenito del re aveva un’eccellente reputazione come combattente e stratega, e fu presto promosso a generale di tutte le armate. Quanto alla secondogenita, fu data in sposa al sovrano di un regno vicino, e fece ottenere un sostanziale numero di truppe aggiuntive come aiuto alla sua patria.

 Tlalok ebbe qualche difficoltà a sistemare il suo terzo erede, ovvero il nostro Malitzin: non potendo essere definito un uomo, non era stato addestrato alle armi, e non potendo essere definita una donna, davvero non era adatta a siglare alleanze matrimoniali. Non avendo alcuna idea su che farsene, Tlalok decise di tenerlo presso di sé mentre governava il regno in quel tempo di guerra: avrebbe potuto almeno prepararlo a diventare un buon consigliere per quando suo fratello sarebbe salito al trono.

 Piccola falla nei suoi piani: invece di trionfare con la sua forza e intelligenza, il primogenito del re si fece catturare e tenere come ostaggio dalle armate di Tahuantinsuyu dopo aver riportato una spettacolare sconfitta. Neanche il tempo di elaborare bene la notizia, e Tlalok scoprì che i generali di Manco non avevano agito solo su quel versante: il regno con cui era stata stipulata l’alleanza matrimoniale era stato convinto a consegnarsi spontaneamente a Tahuantinsuyu, con la promessa di un numero imprecisato di privilegi che Yrchlle non poteva ragionevolmente garantire; gli amici erano ora nemici, la figlia del re era stata ripudiata e, da regina che era, tenuta come prigioniera.

 Questo fu l’unico momento in tutta la guerra in cui Malitzin, invece di guardare e imparare, cercò di assumere un ruolo più attivo, consigliando a suo padre una resa spontanea: il regno avrebbe senz’altro ricevuto delle sanzioni per la resistenza iniziale, ma nettamente inferiori a quelle che avrebbe ricevuto in caso di conquista forzata; Tlalok avrebbe potuto sperare di mantenere il trono, i suoi figli sarebbero stati liberati, la popolazione non sarebbe stata deportata. Non era la soluzione ideale, ma circondati com’erano, era quella che avrebbe permesso di salvare il salvabile.

 Peccato solo che Tlalok volesse la soluzione ideale: decise di scatenare una nuova offensiva contro le truppe di Tahuantinsuyu, ma quelli nel frattempo si erano procurate rinforzi e armi migliori: quello che doveva essere un attacco si trasformò nella resistenza a un assedio nella capitale Sakana. Assedio si fa per dire: tempo cinque giorni, e le mura furono abbattute.

 Da quel momento in avanti, per Yrchlle fu il disastro: le truppe di Tahuantinsuyu si scatenarono su persone e proprietà, saccheggiando, prendendo schiavi, e massacrando chiunque ancora tentasse di opporre resistenza. Ho controllato alcuni registri dell’epoca, sai: pare che un terzo degli abitanti sani della città, tra uomini e donne, furono uccisi nel giorno della conquista.

 L’Imperatore Manco, però, non si dimostrò completamente spietato: condannò Tlalok all’esecuzione per essersi opposto a Tahuantinsuyu, ma gli permise di contrattare la sorte almeno della propria famiglia. E Tlalok fece il contratto che più gli parve vantaggioso: il suo primogenito sarebbe rimasto come governatore del territorio in cui sarebbero stati inviati metà degli yrchllesi espatriati, sua figlia avrebbe sposato in seconde nozze il generale cui sarebbe stato affidato il controllo dell’altra metà dei deportati. Quanto a Malitzin, sarebbe rimasto come prigioniero dell’Imperatore, per bilanciare le libertà concesse agli altri due.

 E così Malitzin si ritrovò a passare, senza soluzione di continuità, dalla vita di palazzo allo stare segregato in una gabbia montata su un Mekilo, in mano a schiavisti che parlavano in una lingua a lui ignota, lasciando dietro di sé una patria distrutta e una famiglia dispersa.

 Non si lamentò: ciò era quel che la Vita aveva deciso di assegnargli, quella era la situazione in cui avrebbe di buon grado accettato di muoversi da quel momento in avanti. Non avvertì il rimpianto per la patria perduta, né la nostalgia per la famiglia: quando rivide i fratelli, molti anni dopo, li accolse come se la loro separazione non avesse portato con sé alcuna tragedia … sì, esatto, loro lo mandarono a quel paese, ma non erano ancora stati illuminati dalla consapevolezza nella Vita … ah, secondo te avevano ragione loro? Bene, vedremo se alla fine del mio resoconto sarai ancora dello stesso parere.

 Dunque, eravamo rimasti al viaggio verso Tahuantinsuyu. Impiegò circa due settimane, durante le quali Malitzin fu a confronto con Manco in una sola occasione, tramite un interprete: apprese così che Manco era particolarmente lieto di aver acquisito come bottino di guerra proprio un curioso caso della natura come lui, e che aveva già pensato come sistemarlo tra la sua servitù, come nuovo guardiano del suo harem. Del resto, il suo corpo lo rendeva la persona più adatta a quell’incarico: aveva la mente superiore e più affidabile di un uomo, atta a non farsi ingannare dalle eventuali trame di quelle donne, e al contempo era naturalmente privo di altre parti che avrebbero potuto renderlo preda del fascino e delle tentazioni delle ingannatrici.

 Malitzin replicò di non aver mai sentito una simile interpretazione della sua condizione, ma che ciò non faceva che comprovare, da parte dell’Imperatore, un particolare tipo di intelligenza e di consapevolezza sulla natura degli uomini e delle donne.

 L’interprete tradusse fedelmente, per poi sussultare e guardar storto il prigioniero, ma Manco si rallegrò della lode, dichiarò Malitzin il più saggio all’interno della sua famiglia, gli promise un trattamento di favore tra i suoi schiavi, e lo riconsegnò ai suoi custodi, raccomandando loro di istruirlo nella lingua dei Soqar.

 Costoro, semplici soldati che non erano molto entusiasti di essere assegnati al ruolo di guardiani degli schiavi, eseguirono al meglio delle loro capacità; il che significa che sia a Malitzin che agli altri schiavi della carovana furono insegnate solo parole relative agli ordini che avrebbero ricevuto, e il resto dovettero ricostruirlo da sé origliando le loro conversazioni.

 Chiedi se Malitzin abbia provato a mantenersi in contatto con gli altri schiavi della sua terra, dici? Tentò durante il viaggio di conversare con loro, esponendo le sue idee sull’accettazione della vita per confortarli; ma il fatto che fosse stato uno dei principi, che tuttora gli fossero state lasciate le vesti del suo rango, e che viaggiasse in una gabbia personale anziché stipato come loro in una con troppe persone non lo ingraziarono molto a quella che era stata la sua gente, sebbene il trattamento a loro riservato dai soldati fosse pressochè lo stesso.

 Quando finalmente arrivarono ad Alcanta, dopo due settimane di viaggio e un lungo tramestio, alle porte della città, per disporre adeguatamente tutti in una parata trionfale, il nostro fondatore non ne fu particolarmente impressionato. Quanto a conformazione e attività, non gli pareva tanto diversa da Sakana e da altre grandi città che aveva visitato; l’unica cosa che lo sorprese fu il numero di Templi, la loro posizione nel bel mezzo della città, e soprattutto la serenità con cui la gente vi si recava.

 Pareva che Tahuantinsuyu avesse una visione della divinità molto più positiva di quel che vigeva a Yrchlle; forse, pensò, quello sarebbe stato terreno più fertile per la sua predicazione?

Non fu un pensiero su cui potesse soffermarsi, nell’immediato; presto fu raggiunto il palazzo reale. Questo fu più una sorpresa: a giudicare dal cortile in cui la parata fece il suo ingresso, la nobiltà di Tahuantinsuyu non disdegnava di vivere accanto ai propri schiavi e artigiani, al contrario di quella di Yrchlle che segregava i servitori del palazzo a vivere lontano dal palazzo stesso; le differenze di classe erano comunque visibili, con i nobili riccamente vestiti a contemplare in prima fila il trionfo dell’Imperatore, e via via fino agli schiavi schiacciati contro le pareti, che allungavano i colli per riuscire a scorgere qualcosa.

 Malitzin si trovò soggetto della maggiore attenzione tra tutti gli schiavi, lì come per tutto il resto della processione; la cosa non lo turbò, era abituato fin dall’infanzia alla confusione di chi interagiva con lui. La curiosità sfacciata del popolo di Tahuantinsuyu era anzi, a modo suo, preferibile agli sguardi di disagio e ai bisbigli dei nobili di Yrchlle.

 Dal cortile polveroso da cui erano entrati, la processione sfociò in un giardino più familiare al concetto che Malitzin aveva di ‘palazzo’; lì la processione si fermò, e tra gli inchini generali, il sovrano fu fatto scendere dalla sua portantina, per poi entrare nel palazzo. La gente si accalcò dietro di lui; visti dall’alto, parevano un brulicare di insetti sempre in procinto di schiacciarsi a vicenda. Alcuni schiavi dovettero faticare non poco a tenerli a bada abbastanza da permettere l’ingresso anche ai generali.

 I soldati, invece, iniziarono il trasporto del bottino: grandi ceste in cui portare i preziosi, l’apertura delle gabbie degli schiavi, che vennero legati in modo da essere trascinati tutti assieme all’interno del palazzo (con l’unica eccezione dello stesso Malitzin, che si ritrovò sì legato, ma sempre da solo).

 All’interno del palazzo, Manco stava in piedi in un’ampia sala, dando le spalle a un elaborato scranno in oro. Teneva un discorso che Malitzin non fu in grado di afferrare nella sua interezza, ma diede per scontato riguardare o le imprese eroiche compiute durante la conquista di Yrchlle, o la ricchezza dei territori conquistati e la gloria che avrebbero portato all’Impero, o entrambe le cose. Accanto a lui, su un trono leggermente più piccolo e semplice, stava una donna in avanzato stato di gravidanza, il cui sguardo sembrava analizzare ogni aspetto della sala. Malitzin non seppe neppure spiegarsene la ragione, sulle prime, ma quella che era evidentemente la sovrana lo turbava molto più dell’Imperatore stesso.

 Il discorso terminò, in un’ovazione generale, e le spoglie di guerra furono spinte in avanti, a sfilare sotto gli occhi di tutti, mentre quello che sembrava un ufficiale decantava il pregio delle merci e le qualità degli schiavi. Malitzin fu fatto svestire, perché tutti i presenti potessero effettivamente osservare la sua natura a metà, dai genitali una via di mezzo tra maschili e femminili. Solo alla fine del discorso gli fu consegnata una tunica e dei calzoni di lana grezza, identici a quelli che portavano gli schiavi maschi (udì la donna che glieli aveva consegnati lamentarsi che non aveva idea se dargli abiti da uomo o da donna, decidendosi sui primi solo per il suo ruolo di custode dell’harem).

 La donna lo condusse poi attraverso il giardino, brontolando troppo in fretta perché Malitzin potesse capirla. Gli fece raggiungere un ingresso decorato, forse il più eccentrico di quel poco che aveva visto del palazzo, e lì lo lasciò, entrando per chiamare a gran voce qualcuno. Tornò dopo pochi minuti, accompagnata da un vecchio schiavo che si reggeva in piedi con un bastone e alcune giovani donne, che di per sé sarebbero state belle ma erano coperte da una tale esagerazione di gioielli da farle apparire quasi deformi.

 La donna robusta che l’aveva portato lì gli urlò qualcosa che finalmente era comprensibile: il vecchio era il guardiano dell’harem, sarebbe stato il suo maestro, e avrebbe dovuto fare come diceva lui. Il vecchio, dal canto suo, protestava l’ingiustizia di licenziarlo così, da un giorno all’altro, per rimpiazzarlo con uno straniero, e che avrebbe dovuto fare ora data la sua età; sottolineò queste ultime parole tentando di colpire Malitzin col suo bastone. Una delle donne dovette bloccargli i polsi e urlargli in faccia la verità della situazione per fargliela comprendere e finalmente accettare la presenza del nuovo arrivato.

 “Uno è sordo e l’altro non capisce un cazzo” la donna robusta brontolò finalmente qualcosa di interamente comprensibile. “Perfetti come maestro e allievo”

 Una delle donne intervenne suggerendo di fare da interprete, ma ciò le fu proibito per ragioni che non furono subito chiare. La donna robusta se ne andò, l’uomo richiamò l’attenzione di Malitzin con una bastonata sugli stinchi.

 “No fare uscire loro” sbraitò, indicando le donne e l’esterno, per poi fare gesti di diniego. “No fare entrare uomo. Chiaro? No uomini dentro!”

 Dopodiché si accucciò sull’uscio, si sfilò qualcosa dalla tasca, e iniziò a masticarlo senza degnare il suo allievo di un’altra occhiata. Le donne nell’edificio ridacchiarono, prima di ritirarsi negli interni delle stanze. Malitzin si lasciò cadere a terra a sua volta.

 Bene, il compito di guardiano dell’harem sembrava semplice e singolarmente noioso, a giudicare di come, malgrado le celebrazioni all’esterno, le donne non avessero messo piede fuori, né qualcuno sembrava intenzionato ad avvicinarsi alle loro stanze. Di ciò si poteva esser grati: forse, se avesse saputo giocare bene le sue possibilità, avrebbe potuto uscire, parlare con i locali, imparare qualcosa sulla loro religione.

 Aveva già notato che sembravano avere un rapporto con la divinità molto più positivo rispetto agli abitanti di Yrchlle, e questo poteva essere sia un vantaggio che uno svantaggio. Avrebbero potuto accogliere l’idea di venerare solo la Vita stessa come una naturale evoluzione del loro credo, o ritenerla un’eresia e far fare al suo profeta una ben misera fine. Certo, tutto questo sempre assumendo che non si fosse sbagliato.

 Intanto, la sua scarsa conoscenza degli usi e costumi locali non gli permetteva di capire se nella folla recatasi a rendere omaggio all’Imperatore trionfante vi fossero religiosi, e nel caso, che accoglienza fosse a questi riservata. Quegli uomini e donne riccamente vestiti, a cui venivano rivolti profondi inchini, erano capi religiosi o nobili laici? Gli invitati che guardavano altri in cagnesco e parlavano loro freddamente, era perché quelli erano in contatto con divinità ostili, o erano semplici antipatie personali tra i conversatori? Impossibile a capirsi, tra la confusione e la sua scarsa conoscenza della lingua.

 E poi, nel bel mezzo della festa, un altro genere di incomprensibile si palesò: che ci faceva lì una Yateveo? E nelle vesti di una schiava, per giunta!

 Sì, apparentemente Malitzin era più familiare con i Duheviq- o come appunto venivano chiamati in yrchllese, Yateveo- della maggior parte dei cittadini di Tahuantinsuyu. Quegli esseri erano, come tutte le creature sacre a una qualche divinità, parte dell’educazione di ogni cittadino di Yrchlle: dovevano pur essere riconosciuti ed evitati. La maggior parte degli yrchllesi ne aveva solo sentito descrizioni e visto illustrazioni, ma i giovani delle famiglie nobili venivano, almeno per una volta, accompagnati da un sacerdote in un luogo sacro, dove quegli esseri potevano essere osservati direttamente.

 Malitzin ricordava ancora di come quelli che sulle prime erano sembrati grossi e contorti arbusti, dalle strane foglie filamentose, si erano mossi spontaneamente e riarrangiati in figure umane, che li chiamavano invitandoli a raggiungerli. Naturalmente lui e i suoi fratelli erano stati troppo terrorizzati per farlo, e la situazione era stata sul punto di degenerare quando alcuni degli Yateveo più intraprendenti avevano cercato di assalire la piattaforma mobile su cui si trovavano; il loro maestro li aveva cacciati agitando una torcia, spiegando loro l’alta infiammabilità di quegli alberi mutaforma.

 Malitzin, che allora aveva circa sette anni, aveva passato settimane a indovinare in ogni sconosciuto il volto di un Yateveo; sua sorella aveva avuto incubi per tutto un mese; suo fratello aveva dato a entrambi dei vigliacchi, ma da allora aveva evitato accuratamente ogni territorio che confinasse con quello degli alberi. Quindi, vedersene venire una incontro, come se fosse stata la cosa più normale del mondo, fu senz’altro l’esperienza più bizzarra di tutta quella giornata, battendo di gran lunga la sua nuova condizione.

 “Lascia passare lei” urlò il vecchio, facendo voltare qualche testa infastidita nella loro direzione. “Schiava di orafo. Però controlla porti soli gioielli”

 “Solo questo, e un messaggio” replicò la Yateveo, con la classica voce arrochita che usciva alla sua razza quando ne imitava una umana, mostrando l’involto di stoffa che reggeva tra le mani. Il vecchio si limitò a scatarrare e a far cenno a Malitzin di seguire la pianta.

 Quella entrò disinvolta nell’edificio, squadrando il suo accompagnatore da capo a piedi. “Nobile di Yrchlle” lo interpellò poi – sapeva che lui sapeva che era una Yateveo, bel gioco di parole – “Io autorizzata, ma gente superstiziosa. No parlare di me”

 Di questo, Malitzin aveva i suoi dubbi. Non appena avesse imparato meglio la lingua locale, si ripromise di indagare sulle eventuali scoperte di cadaveri disseccati nella città.

 “Linca!” l’albero succhiasangue fu allegramente e con la massima tranquillità salutato dalle donne dell’harem. “Allora, cosa possiamo aspettarci …”

 “Un bel niente per le prossime settimane” tagliò corto Linca. Malitzin non riuscì a capire se l’Imperatore avesse ordinato la fusione e riforgiatura di lastre decorative in oro di Yrchlle, o avesse ordinato la creazione di lastre d’oro con raffigurazioni che celebrassero la sua impresa, o tutte e due le cose assieme. Comunque, quel che era certo era che il progetto avrebbe completamente assorbito l’attenzione dell’orafo, e dunque nessuna di loro avrebbe potuto ordinare gioielli fino a nuova comunicazione; quelle che l’avevano già fatto, si aspettassero un ritardo nella consegna.

 Una delle donne protestò qualcosa a proposito di un diadema, e Linca confermò che sì, era l’unico lavoro che era stato ultimato per tempo, e lo estrasse dal suo involucro. Ignorando i brontolii delusi delle sue compagne, la donna ammirò il gioiello, poi annuì, e se lo pose immediatamente in capo.

 “Calza perfettamente” dichiarò con un sorriso stanco. “Ottimo lavoro come al solito”

 La schiava disse qualcosa a proposito di organizzare una festa privata che lì era un mortorio, una delle donne brontolò qualcosa di incomprensibile con voce bassa e rabbiosa. Linca annuì, e si avviò verso l’uscita, con Malitzin al seguito.

“Ehi, yrchllese” gli disse a bassa voce. “Non scocciare se festeggiano. Hanno vita difficile”

 Il nuovo guardiano annuì, lungi da lui impedire un qualsiasi tipo di celebrazione.

 E quello fu l’evento più peculiare della giornata: il resto trascorse di guardia alla porta, a osservare i festeggiamenti altrui. Questi si protrassero fino a notte inoltrata, ma non appena gli ultimi invitati se ne furono andati, ecco comparire l’Imperatore stesso, dall’andatura furtiva e nervosa come se stesse compiendo un sotterfugio anziché esercitando un suo diritto. Il vecchio si alzò e si defilò in una stanzetta poco lontana dalla porta, nella quale erano stati sistemati due pagliericci: potevano dormire per quella notte, Manco avrebbe ben saputo provvedere al dovere di guardiano nelle ore a venire.

 Questa fu la prima giornata di Malitzin a Tahuantinsuyu. Il mattino dopo, il guardiano si installò nelle stanze delle donne a controllare le loro attività, relegando il nuovo arrivato a sorvegliare la porta. Non si trovava lì che da una manciata di minuti, quando sopraggiunse una donna: alta, sulla trentina, ben vestita, una delle attendenti dell’Imperatrice, a quanto gli era parso di capire.

 “Tu” esordì, per poi dire qualcosa a proposito di un incarico supplementare. Poteva essere un occasione di imparare di più sulla cultura locale?

 “Ai vostri ordini, signora” rispose Malitzin con un sorriso. O meglio, credette di aver risposto così: all’udirlo la donna prima sbiancò, un’espressione esterrefatta in viso, poi contorse il volto in un’espressione furiosa, urlando qualcosa che il nostro non riuscì a capire.

 Alle urla fece eco una voce più giovane, e una ragazza sui sedici anni piombò sulla scena. La ragazza era chiaramente una schiava straniera, ma di certo non di Yrchlle: Malitzin non avrebbe saputo dove collocare i suoi capelli neri con ciocche azzurrognole. La cosa che però risaltava maggiormente di lei era l’impressionante mosaico di lividi bluastri che sfoggiava su tutta la pelle scoperta che aveva, escludendo con ciò metà del volto, avvolto in bende. Il nostro fu subito in allerta: non aveva mai visto segni di percosse così feroci sugli schiavi a Yrchlle, neppure nei casi più estremi. E questa, concia com’era, cercava di mettersi tra lui e una nobile? L’avrebbero ammazzata!

 La ragazza stava dicendo qualcosa, troppo in fretta perché si potesse capire qualcosa più che ‘straniero’ e ‘soldati’. Poi gli allungò una gomitata, chiedendogli una conferma che Malitzin si affrettò a dare, cercando di assumere l’espressione più compita e dispiaciuta che gli riuscì. Per alcuni lunghissimi, snervanti momenti la donna alta non fece che osservarli, accigliata. Poi sospirò e disse qualcosa accompagnato da un cenno noncurante della mano, prima di andarsene.

 La giovane schiava tirò un rumoroso sospiro di sollievo. Poi si voltò a guardare l’altro schiavo, con un gran sogghigno. “Davvero non sai come l’hai chiamata?”

 “Uh?”

 “Quella …” indicò la direzione in cui la donna era scomparsa. “Nobile”

 Malitzin ripeté le ultime parole, ma il risultato fu un accesso di risatine della ragazza.

 “Tu imparato nostra lingua da soldati, sì?”

 Cenno di assenso. La ragazza scrollò il capo.

“No, dico …” la ragazza indicò di nuovo la direzione della nobile, poi sé stessa, poi il proprio petto, per poi assumere un’espressione tra l’imbarazzato e l’infastidito e ripetere una parola già pronunciata. Finalmente il nostro ebbe l’illuminazione: la parola per dire ‘donna’ era, a Tahuantinsuyu, completamente diversa da quella che aveva usato a tale scopo nella conversazione con la nobile.

 “Quindi io non avere dire ‘nobile donna’?” rispose, in un soqar stentato.

 “No. Tu hai detto … tu dire … ‘nobile… nobile donna che fa sesso per soldi’”

 Un istante di silenzio.

 “Meno male che io non incontrato prima Imperatrice” commentò poi Malitzin.

 La ragazza a questo punto scoppiò sonoramente a ridere, rivolgendogli poi uno strano gesto di pugni chiusi con pollici alzati. “Lei meritare, ma tu no uscire vivo … uh, viva? Scusa se chiedo … ma sei uomo o donna?”

 “Tu decidi”

 Sì, è da qui che ha origine la nostra tradizione. Malitzin era abituato a queste domande fin da bambino, era cresciuto senza alcuna direttiva in proposito perché di casi come lui non se ne erano mai sentiti, e aveva dovuto inventare una soluzione per sé. Per quanto lo riguardava, pensava di essere uomo e donna allo stesso tempo - come tutti noi del resto - e aveva dunque deciso di lasciare ai suoi interlocutori libertà di decisione in proposito. Del resto, con quale altro tipo di persona avrebbero avuto questo diritto?

 La schiava reagì allo stesso modo in cui la maggior parte delle persone reagiva a udire queste parole: con assoluta confusione.

 “Come ‘io decido’?!”

 “Cosa preferisci io essere?”

 La ragazza lo fissò per alcuni istanti, poi assunse un’espressione più riflessiva, e concluse “Donna? Se non ti offende …?”

 “Io ti ho chiesto, perché offendere?”

 “Sì, hai ragione. Mai sentito un ragionamento simile. Dicevo, tu non uscire viva da insulti a Imperatrice, capisci?”

 “Io sì. Tu non rispettare padroni?” Malitzin accompagnò a questo un’occhiata significativa ai lividi della ragazza, che si limitò a scrollare le spalle.

“Rispetto Imperatrice, o mi ammazzano. Per le altre picchiano solo, ma non così tanto. Questi sono per shillqui di merda”

 “Shillqui? Cosa …?”

 La ragazza disse qualcosa di riguardava un ‘agitarsi’, per poi fissarlo. Malitzin scosse la testa. La ragazza marciò a tamburellare sulla pianta più vicina.

 “Albero. Che agita … così” Imitò i movimenti rapidi e violenti di quelli che Malitzin conosceva come takague.

 “Uh, spiace” mormorò il nuovo schiavo, chiedendosi come accidente venissero considerati gli schiavi a Tahuantinsuyu, perché una ragazzetta nemmeno ventenne venisse spedita per chissà che ragione a quelle piante infernali.

 “No problema. Lividi guariranno. Forse terrò occhio”

 “Perché ti mandare da shillqui?”

 “Prova … passare. Per … fare … sacerdotessa. Tu non dovere andare da shillqui, non preoccupa te”

 Da quel poco che aveva capito, questa era interessante. Primo, la gente poteva accedere alla casta sacerdotale, invece di nascerci dentro ed essere destinati unicamente a quella vita, o esservi costretti come punizione per qualche crimine. E ricollegandosi a quest’ultimo punto, il sacerdozio era qualcosa di desiderabile, o almeno in una posizione superiore a quella di uno schiavo, al punto che era necessario superare delle prove per accedervi come ad un premio. Terzo, la ragazza poteva essere un’ottima fonte di informazioni sulla religione di Tahuantinsuyu, barriera linguistica permettendo.

 “Per che dio vuoi … sacerdotare?”

La ragazza rise. “Diventare sacerdotessa, anche se ‘sacerdotare’ è troppo bello. Pachtu. Dio energia, fulmini, vita”

 Ecco, a questo Malitzin decise di prestare la massima attenzione. Qui c’era un dio della vita, ed era visto come un’entità positiva, non un essere terribile da tenere a bada. Era già qualcosa.

 “Perché volere diventare sacerdotessa?”

 La ragazza fece per rispondergli, esitò un istante, poi disse: “Perché grande dio, voglio …” disse qualcosa di incomprensibile, lo guardò, scosse la testa, e fece diversi gesti di preghiera.

 “Che dio essere? Perché lui? Perché così grande?”

 La ragazza lo guardò per qualche istante, un’espressione quasi imbarazzata, poi concluse “Io dovere lavorare. Ci vedremo dopo … chi sei? Nome?”

 “Malitzin. Tu?”

 “Corinna. Ciao!”

 Corinna si rivelò in breve essere la sua fonte più preziosa di informazioni sul mondo esterno. La donna alta la cui virtù era accidentalmente stata messa in discussione non si fece più vedere, chissà perché. Il vecchio guardiano dell’harem era poco incline alla conversazione anche considerato il suo scarso udito. Quanto alle donne, stavano principalmente segregate nei loro alloggi, e le rare volte che mettevano piede nei giardini o nelle altre aree del palazzo, Malitzin doveva seguirle a breve distanza e senza fiatare. Tutto quel che imparò in quelle circostanze, fu il sacro terrore che le donne nutrivano per l’Imperatrice e la sua corte: era una fuga precipitosa al solo vederle, una situazione che al palazzo di Yrchlle non si era veramente mai vista.

 Una situazione decisamente noiosa, insomma, in cui proprio Corinna portò una ventata di novità: a qualche giorno da quella conversazione Malitzin, nel suo turno di guardia alla porta dell’harem, si vide correre davanti una schiava spaventatissima, che urlava … o che Corinna era stata ammazzata, o che Corinna aveva ammazzato qualcuno, il nostro eroe non riuscì a capirlo così su due piedi. Quale delle due cose fosse successa, non si sarebbe potuto certo immaginare un epilogo così tragico basandosi su quella prima e stentata conversazione, non certo per la ragazza che l’aveva salvato da quel brutto equivoco!

 Qualcosa fu più comprensibile quando entrò nel cortile una Corinna vivissima e coperta di sangue da capo a piedi, che urlava a gran voce qualcosa a proposito di Pachtu … un momento, in quell’Impero non si praticavano sacrifici umani, giusto? Sarebbe stata una delle più gravi violazioni alla Vita pensabili, sanzionata addirittura dallo Stato e dal clero …

 La schiava robusta che a quanto pareva li capitanava tutti corse fuori, mentre Corinna fu fatta sedere a terra, fumante di rabbia, sotto lo sguardo vigile di due guardie armate. La situazione così di per sé non era chiara, ma per fortuna il chiasso aveva attirato alle finestre le concubine imperiali, inclusa quella che aveva dichiarato di parlare yrchllese, e per una volta Malitzin poté ottenere chiarimenti veri e propri.

 La ragazza coperta di sangue era ovviamente sospettata di aver scannato qualcuno, ma lei dichiarava di essere reduce dalla seconda prova per essere ammessa al culto di Pachtu, che comprendeva trangugiare una tazza di linfa di takague e scannare vivo un koomal (noto a Tahuantinsuyu come huytey), cosa che avrebbe spiegato il sangue bene quanto la prima opzione. Dylla, capo della servitù, era appena andata al Tempio di Pachtu a investigare. La donna in questione tornò dopo circa mezz’ora, in cui le rabbiose imprecazioni di una Corinna sempre sporca di un sangue che iniziava a coagularlesi addosso non avevano fatto altro che aumentare, e recò il verdetto finale: sì, era solo un huytey, la testa era appena stata consegnata al Tempio.

 Corinna tuonò quella che era probabilmente una lode a Pachtu, e si lanciò nel pozzo con tutti i vestiti, sotto il naso di Dylla, guardie, e tutte le dame di corte, strofinandosi vigorosamente il sangue via di dosso. Dylla prese a urlarle contro, dopodiché si risolse ad allontanare le guardie –due che ridevano come dei forsennati-, le dame si allontanarono infastidite e un po’schifate con le loro schiave al seguito. Le concubine, dopo essersi permesse qualche risata ai loro danni, si ritirarono, e Malitzin rimase unico spettatore di una Corinna largamente ripulita e bagnata fradicia che riemergeva dal pozzo, litigando con la tunica bagnata che le si appiccicava addosso.

 “Uh, ciao” commentò la ragazza, vedendolo. “Meno male che ti conto come femmina”

 “Ciao Corinna” fu la risposta. “Bello che non ammazzato persona!”

 “Sì, bellissimo, già loro volere giustiziarmi …”

 “Adesso tu essere sacerdotessa?”

 “No. Resta una prova” la ragazza lo squadrò da capo a piedi, pensierosa. “…, loro chiedere … per quella”

 “Cosa?” C’erano almeno due parole incomprensibili.

 “Guardare prova, e dire a sacerdoti che io passata”

 Testimone?” sfuggì a Malitzin in yrchllese.

 “Se vuol dire testimone, sì. Mi sa che hai capito. Vuoi tu fare da testimone?”

 “Io stare qui. Dovere”

 Peccato, una splendida occasione buttata. Avesse potuto osservare lo svolgimento della prova, avrebbe anche dovuto recarsi al Tempio per parlare con i Sacerdoti …

 “Sì, posso fare prova anche qui”

 Che fortuna? Sembrava troppo bello per essere vero!

“Fare testimone, ci sto! Cosa essere prova?”

 

 

 

GLOSSARIO (e qualche trivia):

Mekilo: essere simile a uno scoiattolo, solo molto più grande, con zampe molto più lunghe e la coda in fiamme. Essendo un animale legato al fuoco, non è considerato sacro a nessun dio, ma sfruttabile da tutto il genere umano. Viene usato soprattutto per trasportare merci e persone.

Occlo: bovino ricoperto di squame e con protuberanze lunghe e sottili, simili a serpenti che stanno al posto delle corna e da cui esce fuoco. Anch’esso animale legato al fuoco, ma per la sua pericolosità e la capacità di controllare i loro getti di fuoco sono quasi esclusivamente cavalcature da battaglia.

Kutluqun: capre anfibie con alghe al posto della pelliccia. Sono considerate sacre al dio Tumbe, e per questo, per allevarle o catturarne di selvatiche, è necessaria l’autorizzazione di un sacerdote di quel dio.

Lymplis: pesci volanti, con le pinne coperte di piume. Sono sacri alla dea Chicosi, dunque è necessaria l’autorizzazione di un suo sacerdote per possederne uno. Malgrado ciò, sono popolari come animali da compagnia presso la nobiltà.

Kyllu: uccelli simili a cigni, fluorescenti. Sono sacri al dio Achemay, e allevati solo all’interno del palazzo imperiale. Il loro piumaggio è usato per decorare le corone dei sovrani.

Lilque: creature con corpi simili a quelli degli esseri umani, ma con code di serpente al posto delle gambe. Servitori del dio Thumbe, vivono presso il mare, i laghi e in qualche caso i fiumi, quasi mai in corsi d’acqua più piccoli.

Duheviq: piante dalla capacità di mutare il proprio aspetto, assumendo qualsiasi forma desiderino. Originariamente questo veniva usato per catturare prede dei cui fluidi nutrirsi, ma con l’avanzare della società umana, ne hanno approfittato per integrarvisi. Un tempo servitori della dea Achesay, organizzati in tribù-foreste rigidamente isolate dagli esseri umani; solo i sacerdoti della dea potevano avvicinarli senza essere bollati come cibo. Al tempo di Choqo, mentre i più anziani vivono ancora tradizionalmente, i più giovani hanno preso a mescolarsi con le popolazioni umane, finendo spesso vittime di discriminazioni e relegati ai lavori meno nobili o remunerativi. Mantengono comunque un rigido codice di valori, di cui la fedeltà è il più alto.

Shillqui: piante in cui scorre un liquido per aspetto e consistenza simile al miele, che causa a tutto l’albero di agitarsi violentemente. Se bevuto, questo liquido dà gli stessi effetti agi esseri umani, ma è difficilissimo metterci le mani sopra. Pianta sacra a Pachtu, i suoi sacerdoti ne devono bere la linfa durante le cerimonie.

Likri: fiori simili a gigli rossi, dalle temperature bollenti, che esalano un fumo sottile. Se tuffati in acqua gelida e canditi, sono considerati ottimi per la pasticceria, ed essendo legati al fuoco, l’unico limite al coglierli è potersi permettere buoni guanti protettivi.

Sangue della Terra: erba che influenza la circolazione sanguigna, usato per diversi effetti nelle gravidanze.

Zullma: pianta le cui varie componenti hanno diversi usi; le radici sono considerate un potente lassativo.

Kiquicos: erba di colore blu, parassitaria dei Duheviq. Pericolosa per le sue capacità di depistare animali e viandanti, ma molto ricercata per le sue molteplici virtù.

Guyla: praticamente un Moment.

Tably: erba che secondo le credenze popolari risolve l’insonnia e i problemi di incubi frequenti.

Ago di Luce: essere a metà tra lo stato animale e quello vegetale, si nutre di sangue, ma può essere utilizzato per aspirare anche altri fluidi corporei.

AQI: esseri simili a tassi dal pelo violaceo, che emanano ormoni che fanno marcire le sostanze inorganiche attorno a loro. Soggetti a disinfestazioni a tappeto e contenuti in gabbie speciali, sono frequentemente offerti in sacrificio, con la testa dedicata a Chicosi, il cuore ad Achemay, e il resto del corpo, a seconda che l’animale sia maschio o femmina, a Tumbe o Achesay.

Fylles: insetti con ali a forma di fiore e polline al centro del corpo. Poiché si nutrono di altri insetti, sono molto usati dagli agricoltori, anche se prima necessitano di un permesso di un Sacerdote di Chicosi.

 

Qillori: cristalli di colore azzurro chiaro, molto usati in oreficeria.

Achemairi: cristalli di colore dorato, anch’essi comuni per l’oreficeria.

Tablyk: pietra di colore rosato, usata nell’oreficeria.

Kislyk: pietra dall’aspetto simile alla tablyk, ma molto più dannosa.

 

Notte: entità primordiale da cui tutto il mondo ha avuto origine.

Achemay: dio del sole, entità più importante del pantheon Soqar.

Achesay: dea della terra.

Chicosi: dea dell’aria.

Tumbe: dio del mare, dei fiumi e dei laghi.

Sulema: dea del fuoco.

Pachtu: dio dei fulmini e della vita.

Qisna: dea della morte e delle paludi.

Supay: esseri più collegati al folklore che alla religione vera e propria, sono creature della Notte,

incaricati di torturare le anime dei peccatori che lì vengono gettate.

 

 

 

Ladies & Gentlemen,

bene, credo siano necessari un paio di chiarimenti riguardo a Malitzin. Prima di tutto, la sua condizione non ha nulla di soprannaturale: è una disgenesia gonadica, un difetto nella produzione degli ormoni sessuali (una persona che noi chiameremmo intersex). E in un contesto come quello di Yrchlle e Tahuantinsuyu, dove i cromosomi manco sanno cosa siano e analizzarli per capire che accidenti sia Malitzin è fuori discussione, questi/a viene considerato/a un essere a metà tra maschio e femmina. Il fatto che lui/lei stesso/a sia bigender non li aiuta molto a chiarirsi le idee.

E a questo proposito, tenete presente che intersex e bigender, o genderfluid, o agender, o qualunque altra cosa non sia ‘cis’ non sono equivalenti. Ci sono persone intersex che si identificano come completamente uomini o completamente donne, ci sono uomini e donne tali a livello genetico e fenotipico che si identificano come il sesso opposto, o tutti e due, o nessuno, etc. Sto descrivendo un personaggio e il suo modo di pensare, non una verità assoluta riguardo a un argomento complesso come l’identità sessuale.

Finita la parentesi scientifica, passiamo a quella linguistica: Malitzin è appena arrivato/a a Tahuantinsuyu, e ha praticamente ricostruito la lingua per conto suo basandosi sulle conversazioni che ha sentito. Migliorerà, certo, ma adesso è ancora agli inizi. Per quanto riguarda il termine ‘yateveo’ con cui definisce i Duheviq, è stato tratto da una creepypasta che tratta di un albero con caratteristiche molto simili, che ho letto solo di recente. E questo albero dovrebbe trovarsi in America Centrale, che sarebbe un po’ l’equivalente del nostro mondo di Yrchlle.

Fine di tutte le parentesi, che ancora un po’ e superavano il capitolo stesso: grazie a tutti quelli che hanno commentato o anche solo letto!

 

 


  
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