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Autore: yonoi    16/09/2018    11 recensioni
Un paese di montagna, un liceo di città: al liceo, una normale mattina di lezione si trasforma in terrore.
Quindici anni e un fucile da caccia, un ragazzino introverso e un alter ego deciso, dominante, senza sensi di colpa. E poi i giorni difficili in cui occorre riprendere in mano le proprie vite, rimettersi in cammino ed affrontare un viaggio: nella bellezza estrema e impervia delle montagne o semplicemente tra le piante da far crescere in un vivaio, alla ricerca del Dio delle Vette e della semplice libertà che la natura offre.
Perché ci si mette sempre in cammino verso una meta, per poi scoprire, a volte, che la meta è il viaggio stesso, sono gli incontri e i cambiamenti del cuore.
Prima classificata al contest "In viaggio" indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP a pari merito con "Lultima battaglia di Resen-Law di Old Fashioned
Seconda classificata al contest "Specchi, ombre e presagi: il doppelganger" indetto da Shilyss, sul Forum di EFP, e vincitrice del premio speciale "Angst e dramma, questa vita è solo angst e dramma".
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Dies Irae

 
 “L’ira è il mio cibo.
Io mi nutro di me stesso
e così morirò di fame
a forza di nutrirmi”
(W. Shakespeare)
 
La malvagità che mi insegnate
la metterò in opera
e sarà difficile che io non abbia
a superare i maestri”
(W. Shakespeare)
 
 

1. Il cibo dell’ira

 
            Nell’atrio, le bacheche di legno utilizzate per gli scrutini di fine anno arricciavano gli angoli a una vecchia circolare con i timbri del preside, annacquati e ridotti a una macchia violacea.
         Puntine da disegno erano affisse sulla tela sdrucita, e con una manciata di quelle capocchie metalliche qualcuno s’era divertito a comporre un disegno: un fiore stilizzato, con tanto di petali e gambo.
         Poco più in là, un grande poster ritraeva un gruppo di adolescenti sullo sfondo di un cielo in tempesta, un muro di pietre grezze e pecore a capo chino. Sul prato verde una scritta, Vacanze studio in Scozia, vivi la lingua inglese: di nuovo il timbro del preside, ancora più diluito e simile a un livido. 
         Altri poster e avvisi scritti coi pennarelli - studenti che vendevano chitarre e biciclette, foto di cani e ceste di gattini in cerca di un padrone, cartoline dalle vacanze - si sovrapponevano in un caos pittoresco sulla vetrata della guardiola dei bidelli, in quel momento deserta.  
         Il corridoio del pianterreno era immerso nel più completo silenzio. Cosa del tutto normale durante l’anno scolastico, durante il quale ponendo l’orecchio sulle porte un poco sconnesse, che non chiudevano bene, si poteva avvertire solamente un brusio: il ritmo delle voci scandite dagli insegnanti, qualche replica dei ragazzi, i toni un poco più incerti delle interrogazioni. 
         Ma quel giorno, la quiete che avvolgeva quel primo corridoio che i vigili del fuoco e le squadre operative si trovarono a percorrere, dando seguito all’ordine di fare irruzione, dava più l’impressione di un luogo abbandonato, o di un fuoco insidioso che covi sotto la cenere.
         Di più, il fuoco c’era davvero e se ne intuiva la presenza incombente, in qualche punto ancora da localizzare all’interno dell’edificio.
         Le aule del piano terra apparivano vuote, abbandonate in maniera disordinata, come se fossero state evacuate di fretta: l’ordine dei banchi era stato sovvertito da una fuga scomposta che li aveva trascinati negli inciampi disordinati degli studenti, buttando a terra sedie, libri e zainetti.
         Ai ganci delle pareti erano ancora appese giacchette bianche e nere di tute da ginnastica.         Dalla sporta di un’insegnante rovesciata sotto alla cattedra spuntava la corazza panciuta di un ananas: il resto della frutta, albicocche e ciliegie, era ridotto a strisciate di muco sul pavimento.
         Alcune delle porte avevano ceduto alla spinta in fuga degli occupanti, ed ora ciondolavano divelte dagli stipiti, come vecchi lasciati indietro dai più giovani e svelti.
         Ovunque incombeva una cappa attraverso cui la luce, dal lato soleggiato e spazioso delle finestre, filtrava in lunghe lame di pulviscolo scialbo, come a forare un banco di nebbia.
          Quella caligine greve era venuta incontro ai vigili e agli agenti svelando piano piano quello che conteneva, nel suo levarsi in volute molli verso i soffitti: l’odore di bruciato che si incollava ai nervi, un fumo nero di grasso che prendeva alla gola e stuzzicava il terrore perché il naso capiva, prima ancora del cervello, che cosa c’era in quel miscuglio irrespirabile.
         Non soltanto la cenere di libri e carte ammucchiate, o del legno dei banchi a cui era stato appiccato il fuoco.  
         C’era anzitutto l’acidità del sudore tipico dell’angoscia, e un fetore di grasso inconfondibile anche a chi non lo avesse mai annusato prima: l’odore della carne intrisa di benzina e data alle fiamme.
         D’istinto, suscitava un puro e semplice istinto di fuga: quello che spinge gli animali selvatici a fuggire dal fuoco quando, ancor prima del calore, avvertono l’adrenalina dei loro simili - il sentore inconfondibile, aspro della paura.
         Nella mente degli agenti in rapida perlustrazione delle aule deserte i pensieri vorticavano, mentre quella coltre diventava sempre più densa e irrespirabile: si incollava alle narici e le penetrava con forza, creava una patina sulla pelle e ci sarebbe rimasta per chissà quanto tempo.
         In breve, fu chiaro che i focolai dell’incendio erano circoscritti ai piani superiori. Salirono in tre squadre, i vigili del fuoco e due formazioni di agenti incaricati di tutto il resto: evacuare i locali, proteggere le manovre di messa in sicurezza, soprattutto bloccare con ogni mezzo gli assalitori, probabilmente un gruppo armato di più persone.
         Quel finimondo non poteva essere opera di un solo individuo, malgrado le segnalazioni pervenute, da parte di ragazzi e insegnanti rimasti intrappolati nei locali scolastici, continuassero a riferire che si trattava di uno studente, il che significava un moccioso di quindici, sedici anni.
         -“Figuriamoci”- aveva brontolato uno degli agenti, tossendo per le esalazioni del fumo e la rampa affrontata con le spalle radenti al muro, per giunta di corsa e senza avere più vent’anni -“qui non siamo mica in America, dove i ragazzini vanno a scuola col fucile di papà e in testa i film western”-
         Il collega che lo affiancava, e che procedeva con falcate giovani e svelte, aveva sufficiente fiato per replicare:
         -“Eppure le segnalazioni sono molto precise. Si tratta di uno solo, su questo non c’è dubbio”-
         Una volta di sopra, mentre i vigili del fuoco venivano scortati verso i punti in cui si addensava una cappa sempre più opprimente, a due a due gli agenti diedero inizio alle manovre per l’irruzione: la prima aula si trovava immediatamente in cima alla scala, e a parte il consueto e irreale silenzio, dallo spiraglio sul pavimento non filtrava nemmeno un alito di fumo.
         La maniglia in metallo che chiudeva la solita porta decrepita, in bilico sui cardini, era fredda: segno quasi sicuro che all’interno non c’era nessun incendio, e che gli eventuali occupanti si erano chiusi là dentro per proteggersi. Nella migliore delle ipotesi, naturalmente.
         Mentre gli altri avanzavano e di seguito si dividevano per accedere alle altre aule, l’agente col fiatone e il collega più giovane si fermarono ai due lati dello stipite. Prima di scambiarsi un breve cenno d’intesa e buttar giù la porta con un unico colpo, il più anziano ritenne opportuno precisare:
         -“Se è un ragazzino dell’età di mio figlio, giuro che gli tiro il collo con le mie mani”-
         Divelto dai cardini logori, l’uscio cadde di schianto. La targa sulla porta, un elegante corsivo con la scritta Laboratorio di scienze, esplose in uno schianto di vetri rotti. Alcune schegge finirono a galleggiare in una pozzanghera che s’allargava da un corpo riverso nella prima fila dei banchi.
         Dalla soglia dell’aula, del corpo si scorgeva solamente una mano, annerita e in parte accartocciata dalle ustioni.
         Il fetore di benzina che continuava a saturare l’ambiente, insieme al lezzo di carne bruciata, si appiccicarono come colla al cervello dei due agenti, promettendo molte notti insonni a venire.  Come risultò in seguito, quando tutte le tessere di quell’incredibile vicenda trovarono la loro collocazione, anche se non un senso, dentro al laboratorio un principio d’incendio c’era stato davvero: originato da un’intera tanica versata sul corpo di quel ragazzo che gli agenti trovarono con la testa saltata, e gli schizzi di sangue che erano arrivati fino sulla lavagna. Immerso in quella strana mescolanza di sangue, benzina e litri d’acqua, pareva più un annegato che qualcuno a cui avessero sparato a bruciapelo, dritto in mezzo alla fronte.
         Giaceva a terra con gli abiti incollati in una poltiglia. Negli occhi chiari e aperti sotto alla rosa che gli si apriva sulla fronte, un’espressione di muta sorpresa. A spegnere il rogo appiccato da quel quindicenne impazzito che ancora si aggirava a piede libero per la scuola, era stata la presenza di spirito di uno degli studenti: un capo scout che sognava di diventare vigile del fuoco e che quel giorno aveva avuto la sua occasione.  
         Mentre il resto della classe si accalcava in fondo all’aula, il ragazzo in questione era riuscito a intervenire prima che l’incendio divampasse sgranocchiando i banchi di legno: l’aspirante pompiere era corso al lavandino di cui era dotato il laboratorio, aveva riempito il bidone della carta da riciclo, e aveva scaricato sul cadavere del compagno una quantità d’acqua sufficiente a spegnere le fiamme - e magari ad annegarlo, se fosse stato ancora vivo.
         Con la stessa sicurezza, eppure al tempo stesso con la strana impressione di muoversi dentro a un sogno, lo scout aveva preso in mano la situazione al posto della professoressa di scienze, una donna già anziana che veniva a lezione arrancando col bastone e aveva scelto il momento meno opportuno per accasciarsi a terra e perdere conoscenza.
         -“Cerchiamo di stare calmi”- aveva detto lo scout, tirandosi dietro un paio di altri ragazzi e aiutandoli a sollevare le gambe dell’insegnante, a spruzzarle sul volto un po’ d’acqua fresca -“fuori lo sanno già, tra poco verranno a prenderci. È questione di poco, restate sotto ai banchi e nessuno si azzardi a uscire, che quello è ancora in giro. Se siamo fortunati, qui non tornerà più”-
         I compagni l’avevano guardato allucinati, poi s’erano disposti ad obbedire in silenzio, troppo sconvolti per pensare a un’alternativa. Alcune ragazze s’erano accovacciate con i pugni sul viso e lacrime nervose che uscivano dalle nocche. Prima che quelle lacrime diventassero grida, o anche solo parole, le aveva zittite riparandole sotto a un banco:
         -“È questione di minuti”- aveva ripetuto -“solo pochi minuti e poi arriveranno, ci aiuteranno a uscire. Lui non torna, capito? Con noi, ha già finito”-
         Uno degli studenti, un tipo massiccio a cui era stata affidata la gamba destra dell’insegnante - più che sollevarla, ci si teneva aggrappato - non era molto convinto:
         -“Tu come fai a saperlo, che quello non tornerà ad ammazzarci tutti quanti?”-
         -“Poteva finirci subito, e invece non l’ha fatto. Voleva quello ”- lo scout accennò al corpo riverso tra i primi banchi, da cui ancora s’alzava qualche lenta voluta, come una sorta di ultimo respiro affumicato -“non cercava noi, ma Del Valle: quello che l’ha trattato sempre come una merda”-
         Di lì a poco avevano fatto irruzione gli agenti. Il giovane scout aveva passato le consegne e aiutato i compagni a raggiungere la scala, e di là il piano terra. Erano rimasti, nell’aula, l’anziana insegnante con gli occhi fissi al soffitto e il cadavere nel suo loculo incastrato tra i banchi, che aveva appena terminato di esalare le ultime spirali di carne bruciata.
         L’agente giovane segnalò la presenza di un soggetto non in grado di raggiungere l’uscita con le sue gambe:
         -“Bisogna che veniate a prenderla con la barella”- discuteva coi responsabili che avevano predisposto i soccorsi all’esterno, ma erano poco propensi a entrare nell’edificio -“il piano terra è già stato messo in sicurezza. Prima aula a sinistra, in cima alla scala centrale. Ripeto che questa parte dello stabile è presidiata. Ma quali terroristi islamici di sto’ cazzo….”-
         -“E noi, che ne sappiamo”- brontolò il collega dal fondo dell’aula, dove stava verificando le condizioni dell’anziana professoressa -“preferisco gli islamici piuttosto che un ragazzino dell’età di mio figlio”-
         Stesa a terra con gli occhi aperti, come se tra i lampadari e qualche straccio di ragnatela negli angoli si stesse proiettando una replica di quanto era accaduto solo mezz’ora prima, l’insegnante non mostrava alcun segno di ripresa.
         -“Non ti ci mettere anche tu, adesso”- era sbottato l’agente giovane, che dopo aver chiuso  la comunicazione s’era messo di guardia sulla soglia, muovendosi avanti e indietro in preda a un nervosismo crescente -“adesso tocca aspettare che arrivino su questi con la barella, e poi scortarli di sotto. Sempre che abbiano il coraggio di entrare”-
         -“Signora, stanno arrivando”- assicurò il collega, rivolto all’insegnante: la donna era assorbita dalle sue visioni proiettate contro il soffitto, che continuava a seguire con un’espressione stupita, come se ogni volta si ritrovasse a cogliere nuovi particolari.         
         L’agente anziano si rese conto che non occorreva ripetere le solite indicazioni, stia calma, verranno a prenderla, tra pochi minuti sarà fuori da qui, perché appariva chiaro che la vecchia professoressa era persa nel suo mondo, e non ascoltava niente e nessuno.
         Proprio in quel momento, all’altra estremità del corridoio esplose un pandemonio di cristallerie infrante: una nube di schegge e frammenti d’intonaco si addensò fino a lì, facendo sobbalzare il poliziotto giovane che era uscito ad attendere l’arrivo dei soccorsi.  
         -“La biblioteca”- mormorò la professoressa, e i suoi occhi dilatati ripresero coscienza improvvisamente -“non è possibile, io non ci posso credere”-
         L’edificio scolastico era un pezzo importante di storia della città: un antico convento in parte adibito a museo dove si conservavano pergamene e manoscritti, miniature splendenti sotto a teche infrangibili, alcuni esemplari delle prime opere a stampa risalenti all’inizio del cinquecento.
         L’accesso alla biblioteca era custodito da una serie di vetrate con decori floreali, antiquariato di pregio di inizio novecento che in quel preciso istante lanciava schegge impazzite di smalto colorato, pezzi di rilegatura in piombo come proiettili.
         A quel punto, gli agenti cominciarono a pensare che chi aveva scatenato quell’inferno di fuoco e fiamme disponesse di qualche ordigno più o meno rudimentale.
         Il poliziotto anziano recuperò all’istante i suoi dubbi iniziali:
         -“Un attentato. Decine di punti sensibili presidiati giorno e notte, e quelli chiaramente ripiegano su una scuola. Forse in quella cazzo di biblioteca c’è qualche codice con Maometto all’inferno”-
         Sebbene lo scoppio li avesse colti di sorpresa, l’agente giovane era riuscito a decifrare con precisione i rumori che erano deflagrati là in fondo:
         -“Nessun ordigno esploso. Sono colpi d’arma da fuoco. Forse l’hanno fermato”- e questo lo diceva soprattutto avvertendo una maggior quiete cedere il passo alla tensione, e riempire i singoli ambienti. D’un tratto arrivò la voce:
         -“Primo piano in sicurezza, via libera con cautela”-
         In quel momento arrivarono i soccorritori con la lettiga.
******
 
         A un certo punto, s’era trovato a vagare per i corridoi senza meta, con la sola compagnia della sua solitudine: la stanchezza dovuta alla tensione protratta, alla rapidità con cui aveva agito mettendo in atto un progetto elaborato da tempo, alla fine aveva prevalso.
         Si sentiva svuotato, aveva esaurito fino all’ultima goccia di rabbia.
         Quel sollievo che aveva creduto di provare una volta portato a termine il suo piano, non era mai arrivato: l’entusiasmo che l’aveva dominato nei giorni precedenti, al punto da non lasciarlo dormire la notte mentre metteva a punto i dettagli e se ne compiaceva, e il compiacimento si tramutava in ansia che il giorno stabilito arrivasse al più presto, si era esaurito a un tratto, cedendo il passo a una desolazione senza rimedio.
         Gli facevano male tutti i muscoli che aveva impegnato a reggere quell’arma e le sue conseguenze: le gambe con cui aveva spalancato le porte a pedate, le braccia da cui aveva scaricato la collera sentendola correre fino alla canna del fucile da caccia di suo padre, con una sensazione di cupa esaltazione. Quanto all’odio che era stato la sua spina dorsale, che l’aveva sostenuto nei giorni in cui aveva elaborato il progetto fino al suo compimento, era volato in fumo come i corpi di quei tre che aveva centrato con un colpo ciascuno, e poi dato alle fiamme come si fa con i rifiuti nelle discariche.
         Adesso quelli là non avrebbero più infastidito nessuno, né lui né altri ragazzini più deboli, la tipica selvaggina preferita dai bulli: il compagno con gli occhiali a fondo di bottiglia, quello timido e obeso, la ragazzina troppo alta, troppo bassa, quella col busto. Era finito il tempo dei ricatti e del ti aspetto all’uscita da scuola, devi pagare pegno e se non hai i soldi ti annego nella tazza del cesso, sempre in tre contro uno. A lui, in particolare, non avrebbero più ficcato - per l’appunto - la testa nel gabinetto per poi pisciarci sopra, e quello era già un risultato che ora però assumeva sempre di più i contorni di una delusione.
         Di fronte alle fiamme che s’erano levate da quei corpi ai suoi piedi, al terrore dei compagni che fuggivano inciampando, affannandosi a spinte man mano che lui avanzava, si era sentito padrone del mondo. Quella sensazione, tuttavia, era stata di breve durata: la frenesia che era corsa a fiotti per i muscoli del suo corpo, come se vi fosse ebbrezza al posto del sangue, aveva ceduto il passo a uno strano dolore da qualche parte dell’anima.
         Adesso intorno a lui c’era solo silenzio. Dentro, un vuoto abissale.
         Si sentiva sperduto in uno spazio immenso e lontano da tutto, persino da se stesso.
         Come se anche lui fosse volato in pezzi assieme alla vetrata dell’antica biblioteca, su cui aveva scaricato le ultime munizioni solo per fare chiasso, per sfidare i poliziotti che già avevano fatto irruzione e tra poco sarebbero arrivati fino a lui: per dire che non gli importava più niente di niente, per scaricare gli ultimi residui di rabbia.
         Da quanto tempo la rabbia era divenuta l’unica risposta a tutto quello che gli succedeva?
         Non era neppure più in grado di ricordarlo.
         Tutto era cominciato quando il gruppo dei bulli l’aveva preso di mira, o forse ancora prima.
         Quando suo padre, dopo aver spadroneggiato in casa per anni dettando il bello e soprattutto il cattivo tempo, aveva abbandonato la famiglia tutt’a un tratto per una donna più giovane, per un altro figlio in arrivo.
         Eppure, il Ragazzo aveva fatto di tutto per farsi amare: obbedire e chinare la testa ogni volta, senza azzardare mai una parola in risposta, era ciò che suo padre gli aveva insegnato, talvolta con le buone e più spesso con le maniere forti.
         Lui s’era calato nel ruolo del bravo figlio che non disturba e anzi non esiste, a meno che gli adulti non gli rivolgano la parola: eppure, recitare a perfezione la parte non era servito a conquistare l’affetto di quell’uomo che aveva sempre ammirato con tutta l’anima, né a impedirgli di andarsene.
         La casa era più tranquilla da quando suo padre li aveva abbandonati, portando altrove la morsa di tutte le sue pretese, ma si trattava di una tranquillità apparente, da palude depressa.
         In quell’atmosfera immobile, nell’aria sempre chiusa che li isolava dal mondo, a meno che non fosse lui ad aprire le finestre per richiamare un po’ di vita dal mondo esterno, sua madre coltivava idee suicide nell’humus del divano, i piatti sporchi crescevano una pila in cucina e la tivù blaterava sempre accesa, per dare l’illusione che in casa ci fosse qualcuno a riempire il vuoto.
         La tivù, evidentemente, faceva le veci di quel figlio che aveva imparato fin troppo bene a rendersi invisibile. Al punto che molti compagni e persino alcuni insegnanti, interrogati in seguito sui fatti di quel giorno, riferirono di sapere a malapena che voce avesse il Ragazzo della Sparatoria.
         Al momento, il Ragazzo in questione si trovava intrappolato nel labirinto della sua scuola: alla stessa maniera di quelli che non erano riusciti a fuggire e adesso se ne stavano rimpiattati nelle aule, mentre lui continuava a vagare senza meta.
         Alle spalle e di lato, lo seguivano fruscii spaventati:
         -“Viene verso di noi. Lo sento, sta arrivando”-
         -“Ci ammazzerà tutti”-
         -“Sta’ zitta, è passato oltre”- un ringhio di risposta, reso più aggressivo dalla paura -“Vuoi che ritorni indietro?”-
         -“Voglio uscire di qui!”-
         Indifferente a tutto, il ragazzo continuava a percorrere il corridoio cercando di recuperare il filo dei suoi pensieri.
         Adesso, in realtà, non sapeva che fare.
         Il progetto iniziale era stato portato a compimento, con quei tre colpi mandati a segno dentro ad altrettante teste di cazzo. Con questo, aveva già raggiunto gli obiettivi che si era prefissato: anzi, li aveva centrati con una precisione di cui quell’energumeno di suo padre avrebbe potuto esser fiero, se solo avesse condiviso la sua idea in merito ai bersagli su cui valeva la pena di sparare col suo fucile da caccia. I compagni che in quel momento se ne stavano rintanati sotto ai banchi potevano star tranquilli: non aveva intenzione di compiere una strage, anzi la sola idea di far fuori altra gente contribuiva solo ad accrescere il suo malessere e a fargli salire in bocca un sapore aspro e acquoso, che gli dava la nausea e preludeva al vomito.
         Gli era passata anche la voglia di fare da spauracchio, di andare per le classi sparando in aria e a caso solo per spaventarli. Aveva ormai esaurito tutte le munizioni, ma aveva soprattutto esaurito le energie: la collera, il desiderio, persino il divertimento. Aveva provato maggiore soddisfazione a mettere a punto il progetto piuttosto che a realizzarlo, e adesso poteva dirlo: in tutta quella faccenda, ciò che era mancato era stato proprio lo spasso.
         Quanto al resto, sapeva di avere le ore, anzi i minuti contati.
         Aveva considerato la possibilità di prendere con sé uno degli studenti per riuscire a portarsi in qualche maniera all’esterno. Ma una volta uscito, dove poteva andare? Per lui non c’era scampo e ora se ne accorgeva: la realtà funzionava in maniera diversa dai videogiochi, che a un certo punto puoi spegnere quando non ne hai più voglia, per poi ricominciare daccapo e un’altra volta quando sei di nuovo lucido e la rabbia è una corazza che ti protegge dal mondo.
         Quella festa selvaggia che era riuscito a scatenare in meno di un’ora non era servita a niente se non a bruciare i ponti alle spalle soltanto a lui: alla fine, il vero obiettivo messo a fuoco nel suo mirino, la vittima designata di tutto quel disastro che aveva sparpagliato attorno a sé con tanto impegno, era lui stesso. Là fuori non lo attendeva una vittoria a punteggi, ma poliziotti veri che aveva già intravisto, dall’alto della scalinata centrale, occupare intere porzioni del suo territorio ricacciandolo indietro, in uno spazio sempre più ristretto e indifendibile.
         Aveva udito le segnalazioni che si erano susseguite a partire dall’irruzione, dopo un lungo silenzio che aveva preceduto il via libera al piano terra, e primo piano in sicurezza: era seguito un movimento il più possibile contenuto, di gente che si affrettava verso l’uscita scortata dai poliziotti, troppo intimorita per dire una parola.
         Di fatto, l’avevano confinato nei cessi del secondo e ultimo piano.
         Davanti alle porte chiuse che contenevano ognuna una tazza scheggiata, dozzine di scritte sui muri e non un solo rotolo di carta pulita, correva una fila di lavandini altrettanto malconci: di quel grigiore spento che non viene via neanche a strofinarlo con tutto l’olio di gomito del mondo.
         La manopola per regolare l’acqua più calda o fredda girava a vuoto, buttando sempre lo stesso schizzo rauco e fangoso. Sopra, c’era uno specchio costellato da altri sgorbi e macchie di umidità: là ritrovò il suo volto inquadrato per caso, proprio accanto alla scritta “coglione” e a una freccia che indicava la sua immagine riflessa.
         Catturato nel centro tra la scritta e la freccia, quello che lui vedeva era lo sguardo di un ragazzino tirato a capofitto, suo malgrado, dentro a un disastro. Molto simile a quello che aveva visto sulle facce dei suoi compagni, all’inizio composti nei banchi e un poco annoiati, di seguito stravolti dinanzi a lui che li teneva in pugno e in quel momento si sentiva più che mai Barry Dale, il suo alter ego virtuale: deciso, dominante e senza alcun dubbio. 
         Barry Dale era l’icona con cui con cui il Ragazzo partecipava ad un gioco di ruolo chiamato Dies Irae. Col giorno del giudizio, di cui anche lui aveva sentito parlare al catechismo, quel gioco in realtà aveva poco a che fare, visto che la collera scatenata in quel caso non era quella divina, bensì la rabbia repressa dei singoli partecipanti: questi dovevano assegnarsi un certo numero di obiettivi e riuscire a distruggerli nel più breve tempo e nei modi più fantasiosi possibile.     
         Gli obiettivi non dovevano essere scelti a caso: il punteggio aumentava in ragione della descrizione più minuziosa, che doveva comprendere le ragioni dell’odio e i modi per farli fuori, dalle torture alle stragi di massa. Il tutto era virtuale, ma si muoveva su un crinale pericoloso.
         Tra i giocatori, c’era chi odiava le donne perché non ne aveva mai avuta una, chi ce l’aveva con gli immigrati o col capufficio, c’erano i simpatizzanti nazisti e i ragazzini che prendevano di mira gli insegnanti e i compagni di classe.
         In vetta alla classifica, soltanto pochi eletti: quelli come lui anzi come Barry Dale, che commentava i suoi risultati sul forum del Dies Irae e raccoglieva i consensi di chi condivideva gli stessi deliri, si nutriva dello stesso rancore.  
         La fondamentale differenza tra Barry Dale e gli altri utenti era che gli altri si limitavano a sfogarsi nel recinto della rete come se si trattasse di un far west protetto, dove sparano tutti ma non si fa male nessuno: mentre l’icona di Barry Dale, freddo e senza tormenti, senza inutili stropicciamenti di colpa, a forza di rubare al ragazzo tempo e pensieri inchiodandolo giorno e notte al computer, gli aveva fatto perdere la nozione del tempo, poi quella della realtà.
         Finché un giorno quell’alunno diligente, timido ed introverso, si era ritrovato a sparare sul serio agli obiettivi scelti tra i compagni di classe, quasi senza sapere come c’era arrivato. 
         L’icona di Barry Dale era un’elaborazione al computer del volto del Ragazzo senza tracce d’infanzia, debolezza o rimorso. Un’immagine splendida, di cui però nello specchio macchiato della scuola, sotto alla scritta coglione, non c’era neanche l’ombra.
         Ora, in quel bagno deserto che sapeva di detersivo e acqua sporca, nella scuola in parte evacuata e in parte presidiata da quelli che, prima o poi, lo avrebbero fermato, il Ragazzo della Sparatoria era di nuovo solo. Barry Dale se n’era andato dopo avergli fatto scendere la china fino in fondo: una scia di terrore, di roghi e tre morti - cadaveri veri, non immagini virtuali come quelle che apparivano sullo schermo del computer accanto all’ammontare dei punti totalizzati.
         Proprio in quel momento, accanto al suo riflesso pallido nello specchio apparvero due occhi umidi e scintillanti, lunghi capelli scuri e la preoccupazione sul volto di Nisha: sua compagna di banco, nonché oggetto dei sogni più rispettosi e nascosti del Ragazzo della Sparatoria.
         Nisha non era mai stata tra gli obiettivi: il suo reame non apparteneva al Giorno del Giudizio, bensì a quello dei sogni puliti e senza erbacce, da conservare integri con lo spirito di un cavaliere d’altri tempi. 
         Molte volte il Ragazzo l’aveva protetta, da quando erano ancora alla scuola elementare e lei era una bimbetta cupa e piagnucolosa, figlia di immigrati dello Sri Lanka che parlava soltanto il dialetto del suo paese, e anche quello a stento: con i lunghi capelli arruffati dall’ansia che le finivano sempre in bocca, il sudore reso più aspro dalla paura, gli odori delle spezie forti di casa sua che il naso dei compagni scambiava per puzza.  
         Crescendo sotto la protezione del Ragazzo, con il quale aveva condiviso da sempre l’ultimo banco, seminascosta tra la carta geografica dell’America e il tempo che faceva fuori dalla finestra, Nisha era sbocciata nella grazia affusolata delle donne della sua terra.
         La corteggiavano in molti e la sognavano tutti, ma lei volgeva la corolla nera del capo, i capelli lucenti e ravviati con cura, i grandi occhi scuri verso l’unico che non la guardava neppure, non per disinteresse ma per mancanza di coraggio: il Ragazzo, che aveva coltivato per anni la sua aiuola con cura, proteggendola dalle molestie e un paio di volte facendo addirittura a pugni, si sentiva a disagio dinanzi a quella presenza femminile già adulta, mentre lui a quindici anni ne dimostrava tredici e davanti alle donne se ne sentiva dieci.
         Lei invece ricercava la sua vicinanza con la pacifica naturalezza che era nel suo carattere: gli riprendeva il segno sopra al libro di testo quando si distraeva, gli suggeriva le risposte quando l’insegnante lo vedeva più svagato del solito e gli chiedeva di punto in bianco di ripetere cosa stava spiegando. Purtroppo per lui, il Ragazzo era molto più affascinato da Barry Dale che gli parlava nella testa, discutendo degli ultimi obiettivi: e il tenue odore di gelsomino e di curry che spirava una brezza dai capelli di Nisha non lo sfiorava neppure.
         Solamente una volta, all’uscita da scuola, invece di correre a casa e chiudersi davanti al computer, il Ragazzo aveva accettato un invito a pranzo di Nisha, e l’aveva seguita nella sua casa decorata da stoffe dorate e statuine del Buddha, su altari simili a variopinte case di uccelli.
         Quella di Nisha era una madre silenziosa e scurissima, così diversa dalla sua: si aggirava per casa con una grazia con cui sfiorava a stento il pavimento e lo sorprendeva alle spalle, servendogli piccole ciotole di salse così piccanti da incendiargli la gola e far uscire le lacrime dagli occhi.
         Il Ragazzo era rimasto incantato dalla delicatezza con cui Nisha e la madre passavano le salse e facevano girare i vassoi delle pietanze, con grandi sorrisi bianchi come i chicchi del riso.
         A casa sua, invece, regnava la perenne confusione dei piatti sporchi, ammucchiati in cucina e davanti alla televisione. Quando lui si chinava per ritirarli, lo sguardo di sua madre gli passava attraverso, e solo un cenno del capo accompagnava la voce sprofondata nel divano, resa lenta e impastata dagli antidepressivi:
         -“Levati dallo schermo, fammi vedere Il Segreto. Va’ via, lasciami in pace”-
         Ora, in un altro tempo e in ben altre circostanze, trovandosi di fronte Nisha all’improvviso, il Ragazzo della Sparatoria non aveva il coraggio di guardarla dritta in faccia.
         -“Che ti è successo, così, all’improvviso… perché?”- le sopracciglia sottili di lei si increspavano, insieme alle sue parole -“sono scappati tutti, quando hai cominciato con quello”- abbassò le ciglia verso il fucile che penzolava contro all’anca del ragazzo, come un oggetto diventato improvvisamente imbarazzante.
         Impercettibilmente, il ragazzo si mosse per nasconderlo alla vista della compagna.  
         -“Io sono rimasta, perché mi sembrava impossibile. Mi sono detta, voglio vederlo con i miei occhi…”- si avvicinò d’un passo, lui arretrò cercando di mantenere le distanze.
         La paura si agitava in fondo agli occhi di Nisha, ma lei preferiva credere di essere di fronte allo stesso ragazzo con cui aveva condiviso tante ore di scuola, e che era sicura di conoscere a fondo.
         -“Vattene a casa, Nisha. Le scale sono libere, tra poco loro saranno qui e tu non puoi restare. Ormai è finita, vattene per favore”-
         Lei sollevò un poco le braccia, avanzò leggermente:
         -“Butta via quell’arnese”- accennò brevemente al fucile, che il ragazzo aveva appoggiato contro al muro, dandogli poi le spalle come se non gli appartenesse:
         -“Bene, ora ce ne andremo da qui. Per favore, stai calmo e vieni di sotto con me”-
         Gli tese la mano.
         Immobile nello specchio, il volto del Ragazzo indugiò un istante, incerto sul da farsi: aveva occhiaie profonde, come chi non riposa da moltissimo tempo. Quando si voltò finalmente verso Nisha, lei non c’era già più: in sei lo circondavano con uno sbarramento di armi puntate, altri sopraggiungevano, si accalcavano nello spazio ristretto del bagno.
         -“Le mani sopra alla testa, ragazzo”-
         -“Da bravo, non fare scherzi”-
         Il riflesso dello specchio si riempì di altri volti, di movimenti rapidi che lo accerchiavano, tutti sopra di lui. Lui faticava a capire dov’era, era talmente stanco, le braccia strattonate gli facevano male: si sentiva come chi è immerso in un sonno così pesante da non riuscire neppure a girarsi nel letto.
         Non c’era più Barry Dale a dare ordini nella sua testa, non c’era più Nisha - mentre lo trascinavano di peso fuori dal bagno la vide poco distante, l’onda notturna dei capelli che oscillava ritmica sulle spalle, i passi di lei affiancati da due soccorritori.
         A tratti si fermava, si voltava a guardarlo. I suoi accompagnatori le sfioravano i gomiti per aiutarla a procedere:
         -“Ce la faccio da sola”- la sentì dire, e di nuovo si voltava a cercarlo. Il suo sguardo non era né deluso né incredulo.
         Il corridoio era ancora invaso dal fumo, man mano che scendevano ai piani inferiori l’atmosfera era sempre più da fine del mondo, con cerchi di gesso sul pavimento attorno ai bossoli, calcinacci d’intonaco, vetri rotti e su tutto l’odore di benzina e di carne bruciata.
         D’un tratto, le ginocchia del ragazzo cedettero: i poliziotti al suo fianco dovettero strattonarlo per rimetterlo in piedi.
         Ma negli occhi di Nisha, che sembravano sorgere su di lui da millenni con l’eterna compassione dei grandi Buddha di pietra, c’era una comprensione dolorosa e profonda.
         Mentre lo conducevano lungo la scalinata e verso l’arco di luce splendente dell’uscita, il ragazzo si sentiva protetto da quello sguardo che non conosceva condanna ma possibilità. Al suo fianco, un agente anziano lo sorreggeva con una delicatezza molto simile all’imbarazzo, come se stesse accompagnando un figlio malato.
         Alcune aule erano state recintate con cordoni di plastica, tesi tra i muri anneriti dalla fuliggine, pozzanghere che si allargavano lente: nella foschia impregnata dalle sostanze usate per spegnere i focolai, i vigili del fuoco e altri poliziotti, il personale delle ambulanze e altri tizi in borghese andavano e venivano senza concitazione né fretta.
         Il tutto si svolgeva in un silenzio sgomento, nella calma irreale che segue al compimento, quando restano solamente gli ordini da eseguire e i rilievi da fare.
         L’assenza di rumori suggeriva l’idea di un film danneggiato, in cui le sequenze procedono a sbalzi e il sonoro è una serie di crepitii in sottofondo: presto la pellicola si sarebbe interrotta, squarciandosi in un fiore dai margini arricciati che avrebbe ingoiato tutto.
         Neppure una parola da parte dei poliziotti che scortavano il ragazzo, anzi soltanto una, da parte del più anziano che aveva notato la sua incertezza nel muoversi e coordinare i passi:
         -“Attenzione ai gradini”-
         Avevano appena iniziato a scendere a loro volta, dietro a un gruppo di tre che accompagnava una barella con fleboclisi - il terzo soccorritore si destreggiava per tenere alto il flacone, nell’altra mano una bombola portatile per l’ossigeno - e fu a quel punto che tornò in scena Barry Dale: la sua voce, stridente e aggressiva, occupò tutto lo spazio nella mente già rassegnata del ragazzo - ed era una rassegnazione dal fondo tranquillo, che non si attendeva nulla ma neppure temeva, ancora avvolta dall’ovatta protettiva dello sguardo di Nisha.
         Il Ragazzo fece appena in tempo ad accorgersene: in un attimo Barry Dale aveva preso il sopravvento, voltandosi di scatto con una rapidità che prese in contropiede quelli che lo scortavano, e afferrò la mitraglietta dell’agente che gli stava alle spalle.
         Il Ragazzo avvertì un dolore lancinante ai polsi stretti nelle manette, il contatto col ferro dell’arma, l’esplosione di un colpo che partì improvvisamente , seguito da altri in serie: l’effetto fu di disperdere quelli che si trovavano nelle immediate vicinanze, lanciandoli in un fuggi fuggi generale.
         Si era aggrappato alla mitraglietta con tutto il suo peso, cercando di strapparla all’agente che dopo un attimo di sorpresa s’era aggrappato a sua volta, per impedirgli di arrivare al grilletto.
         Gli altri che lo scortavano gli erano piombati addosso ma Barry Dale era riuscito a impossessarsi dell’arma, segando i polsi al Ragazzo con la sua furia frenetica
         Sulla testa del Ragazzo erano piovuti polvere e calcinacci strappati dai colpi in aria, mentre Barry Dale, forsennato, cercava di rivolgere l’arma contro se stesso.
         Finché, a un certo punto, qualcuno era riuscito finalmente a fermarlo: qualcosa era arrivato, pesante e ben assestato, a colpire in testa il Ragazzo, annebbiandogli la vista con un barlume bianco. La pellicola s’era interrotta con uno squarcio, e lui aveva appena fatto in tempo a sentire lo sguardo di Nisha, la carezza delle sue lunghe ciglia, giungere fino a lui e cercare di proteggerlo ancora e inutilmente.
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         La cucina era avvolta in un tiepido odore di legno grezzo che riposava sulle mensole come un grosso gatto assonnato, tra i barattoli delle conserve e una fila di presine lavorate all’uncinetto.
         Un gatto c’era davvero, un dorso di pelo lucido e una coda tigrata attorcigliata attorno a una sottana lunga, che frusciava a ogni passo e si muoveva rapida su due sandali e piedi scalzi. I passi andavano svelti sul pavimento di cotto, due mani ruvide e esperte liberavano odori di cibi in cottura sollevando coperchi, soffiando sbuffi dallo sportello del forno.
         Dalla finestra aperta entrava la fragranza dell’erba appena tagliata: un ramo fiorito oscillava, incerto se entrare oppure rimanere nel suo quadrato di cielo.    
          La donna aveva un fazzoletto di panno attorno alla testa, un filo di sudore all’attaccatura dei capelli disciplinati con rigore, un bel viso deciso e maniere sicure mentre si affaccendava nella cucina dei genitori. Veniva a visitarli ogni settimana, percorrendo a piedi il tragitto dal monastero nel quale viveva, immerso nella solitudine della vallata e nei lavori del frutteto e dei campi: con sé, nella bisaccia, portava un vasetto di marmellata o una torta appena levata dal forno della comunità, subito dopo la preghiera del mattino. La torta le scaldava il fianco lungo sentieri che d’inverno scricchiolavano sotto i sandali per la neve, come se la terra fosse ancora nuova di zecca: avvolta nella brina come un pacco regalo e non ancora abituata a essere calpestata dagli uomini.
L’alba sulla montagna arrivava in ritardo, perché il sole doveva arrampicarsi ogni mattina sulle alture e i crinali accovacciati nel buio: sorgeva con fatica uno spicchio per volta, poi una volta arrivato all’altezza dei pascoli smuoveva un poco la cenere raffreddata del cielo come nei focolai di un tempo. D’estate bastava un soffio e la fiamma si levava, insieme al canto delle cicale.
D’inverno si scioglieva in una luce incerta che diventava nebbia, e perforava lo sciarpone di suor Pesca con sottili aghi di pioggia.
         Sorella Pesca amava andare per i prati in quell’ora che segna il passaggio tra la notte ed il giorno, convinta che anche al buon Dio piacesse passeggiare nel grande giardino del mondo e che in quel momento, quando la terra pareva fatta nuova e di fresco, fosse più facile incontrarlo: era certa che Lui le camminasse al fianco mentre s’inoltrava nei boschi, per i viottoli in salita che tiravano il fiato corto, nelle discese che mettevano a dura prova la tenuta delle ginocchia.
         Aveva mantenuto anche da religiosa quel nome così strano, che le era stato dato da suo padre nel momento in cui l’aveva tenuta tra le braccia la prima volta, con la fragilità e l’emozione con cui si regge un miracolo. Intimidito di fronte a quella creatura dotata di minuscola perfezione, dalle piccole dita già in grado di stringere e trasmettere calore, Enrico Del Valle s’era scordato del nome che aveva progettato di darle insieme a sua moglie, dopo una lunga scelta sfogliata sul calendario, spigolata da un elenco di attrici e donne dello spettacolo: aveva detto Pesca subito al primo sguardo, osservando le guance da frutto della piccola, respirando l’odore della sua pelle di zucchero.
         Inizialmente s’era trattato di un vezzeggiativo, che poi era rimasto perché a sua figlia calzava preciso come un guanto: malgrado tutti i pronostici, nessuno le aveva reso la vita difficile per via di quel nome che poteva andar bene soltanto a una neonata.
         Era stata Pesca all’asilo, col grembiulino in tinta, e nessuno ci aveva trovato da ridire.
         Anche alle elementari Pesca Del Valle aveva avuto successo, perché ciò che agli adulti era parso un capriccio, un modo dei genitori per mettersi in mostra, nella fantasia dei compagni evocava la magia dei cartoni animati, e possedeva la suggestione dei sogni ad occhi aperti.  
         Insieme alle varie Giada, Jennifer e Pier Filippo, Pesca era cresciuta in armonia con se stessa e con la rotondità delle sue guance, ignorando di essere iscritta ufficialmente all’anagrafe con un nome più adatto a una marca di confetture industriali. Col tempo, si era mantenuta fedele alle promesse contenute in quell’appellativo bizzarro, sbocciando alla stessa maniera del frutto a cui somigliava fin dalla nascita. Quel nome che evocava le fette di pane e marmellata dell’infanzia aveva finito per sottolineare la semplicità del suo carattere, nonché il suo desiderio di conoscere una dolcezza che fosse pari alla sua: quando aveva incontrato l’amore della sua vita, non l’aveva cambiato ed era diventata sorella Pesca della tenerezza di Dio.
         A casa dei genitori arrivava ogni sabato insieme all’alba, e subito cominciava a darsi da fare.
         Spalancava le finestre e scuoteva la polvere, cacciava la sporcizia a colpi di scopa, le mani svelte al lavoro e la mente raccolta com’era solita fare nella cucina del monastero, che era di pietra viva e grande come una grotta: fredda d’estate e inverno al punto che suor Pesca scendeva ogni mattina con sciarpone e cappuccio da spedizione artica, battendo i piedi e stropicciandosi le mani mentre versava il latte nei pentoloni, e avvitava le caffettiere per la colazione di tutta la comunità.
         Mano a mano che cominciava a trafficare, iniziava anche a scaldarsi insieme al borbottio del latte sui fornelli, finché arrivava il giorno e prima ancora il canto degli uccelli nell’orto.
         A quel punto il silenzio della campagna si animava di voci.
         Una novizia assonnata usciva dalla cella e si aggrappava alla corda della campana del dormitorio: la chiamata alla preghiera incominciava il giorno, le ultime stelle in inverno si attardavano un poco e suor Pesca s’imbacuccava di nuovo e di fretta, per salire nel coro attraverso una chiocciola di scala ripida e stretta. I canti terminavano quando nella vallata si stendeva la nebbia inoltrata della mattina, o il canto delle cicale se si era in estate.
         Nei primi anni, quando anche lei era novizia e ancor prima una postulante con quattro maglie, il cui problema principale era il freddo, suo padre veniva a visitarla in parlatorio, arrancando a fatica dietro alla sua vocazione: arrivava con pacchi di vettovaglie per il timore che facesse la fame, coperte e calzettoni perché in comunità mancava il riscaldamento.
         Soprattutto, arrivava con in testa tante domande che continuavano a tormentarlo insieme alla nostalgia. Mentre Pesca sbocciava di giorno in giorno in una felice maturità e il freddo le accentuava i colori del volto, Enrico Del Valle girava attorno ai suoi interrogativi senza risposta: chiedeva se mangiava, se dormiva abbastanza, se aveva bisogno di questo o di quello.
         Si aggrappava alle preoccupazioni per la salute del corpo, non riuscendo a capire che cosa succedeva nell’anima di quella figlia che aveva rinunciato alla laurea e al resto del mondo per andare a zappare nei campi e nell’orto: in nome di un amore che l’aveva afferrata ma che ai suoi occhi presentava l’ostacolo di essere invisibile, inafferrabile, incomprensibile. Un genero con cui non si poteva litigare né al quale si potevano porre delle questioni, ammesso che l’amore, anche quello terreno, fosse qualcosa che si potesse spiegare.
         Suor Pesca aveva percorso le tappe della sua formazione mantenendo inalterati il mistero e l’entusiasmo: all’ingresso in noviziato, suo padre l’avevano incontrata dietro alla grata in abito da sposa, aveva partecipato alla festa della comunità, ma non aveva potuto accompagnarla all’altare.
         All’altare, Pesca Del Valle c’era andata da sola senza voltarsi indietro neppure per un istante, mentre il suo sposo dell’altro mondo continuava a mantenere l’odioso privilegio dell’invisibilità.
         Col tempo, rassicurato dalla serenità della figlia, dall’atmosfera familiare che ogni volta lo accoglieva in monastero e gli restava impressa a lungo dopo ogni visita, Enrico Del Valle era riuscito a mettersi il cuore in pace: accettando l’idea che quando Dio s’intromette nelle vicende degli uomini, pretendere di venirci a capo è impossibile.
         Dal canto suo, Lidia Del Valle si era sempre rifiutata di andare a visitare sua figlia in quel carcere. Volendo pareggiare i conti a tutti i costi - doveva pur esserci, da qualche parte, qualcuno che aveva suggerito, incoraggiato o fatto il lavaggio del cervello - aveva abbandonato di punto in bianco il coro della parrocchia, le visite agli anziani e le lezioni di catechismo ai bambini: a mo’ di punizione per il parroco e quel Dio che i figli li dava e poi se li riprendeva, aveva precisato che in chiesa non ci avrebbe messo piede mai più, neanche dopo morta.   
         Era morto l’altro figlio, invece: per colpa di un adolescente balordo che era entrato in classe con un fucile da caccia e gli aveva sparato un colpo dritto alla testa, e per colpa di quel Dio che non aveva mosso un dito per impedirlo.
         Da quel giorno, Lidia Del Valle s’era rinchiusa nella sua casa e nel lutto, ancor più segregata di Pesca in monastero perché a imprigionarla era una desolazione amara e senza rimedio: passava le giornate nella stanza di Walter che aveva mantenuto intatta come un sacrario, provvedendo lei stessa a spolverarla ogni giorno con l’inutile olio di gomito della sua rabbia, e impedendo a chiunque di metterci piede.  
         Seduta nella penombra, sul letto dalle lenzuola cambiate puntualmente come se il figlio le adoperasse ancora per coricarsi la sera, Lidia Del Valle cullava tra le braccia il suo dolore insieme allo straccio per la polvere. Passava le lunghe ore della sua solitudine sfogliando vecchi quaderni, le pagelle in rigoroso ordine cronologico e le foto di classe: dalla prima elementare, quando Walter era ancora un bambino col grembiule e il fiocco al collo, fino al secondo anno di scuola superiore, nell’ultima immagine scattata pochi giorni prima del fatto.
         Da quella, in particolare, Lidia Del Valle aveva grattato con le unghie il volto di un ragazzo che emergeva a stento proprio dietro a suo figlio: un sorriso forzato e occhi scuri abbassati tra quelli dei compagni che fissavano l’obiettivo disinvolti, tenendosi abbracciati, facendosi le corna.
         Prima di cancellarlo l’aveva osservato a lungo, quel viso così simile a quelli degli altri alunni, che non recava traccia di una follia particolare: nessun segno premonitore di quello che sarebbe capitato di lì a pochi giorni, se non l’aria un po’ assente di chi è costretto a mettersi in posa controvoglia.  
         L’aveva ritrovato sulle prime pagine dei giornali e alla televisione, l’enigma di quel volto che fuggiva gli sguardi, come per impedire di farsi leggere dentro: di nuovo con gli occhi bassi mentre lo conducevano nell’aula dove si svolgeva il processo, il Ragazzo della Sparatoria pareva ancora più giovane e sprovveduto e per questo più odioso, mentre si trascinava come se fosse oppresso da un enorme peso interiore.
         L’avevano inquadrato a distanza ravvicinata durante i servizi mandati in onda al telegiornale, ma un senso indecifrabile di imbarazzo, di superiorità o semplice vergogna faceva sì che di lui si vedessero solo le mani che coprivano il volto.
         Mentre il cronista tornava daccapo a riepilogare i fatti di quella mattina, e prima che apparissero le immagini di repertorio della scuola e del fucile, del giovane imputato si scorgevano solo i capelli tagliati alla stessa maniera di tutti gli adolescenti - compreso Walter Del Valle - la testa tra le mani e i gomiti sul banco, come uno scolaro di fronte a un compito in classe difficile da svolgere.
         A suo marito, quell’atteggiamento dimesso aveva suscitato un senso di pena: Enrico Del Valle aveva avuto persino il coraggio di ammetterlo, per quanto ne era rimasto impressionato.
         Dalla sua postazione in angolo sul divano, davanti alla tivù e ormai distante dalla moglie anni luce, quel senso di compassione era cresciuto in lui a tal punto che senza neanche accorgersene si era lasciato sfuggire queste precise parole:
         -“Diciotto anni di carcere. Si è proprio rovinato la vita, quel ragazzino”-
         -“È quello che gli auguro”- gli aveva fatto eco, imperturbabile, Lidia Del Valle.
 
******
 
         Enrico Del Valle non l’avrebbe mai ammesso neppure di fronte a se stesso, ma vivere in quella casa era diventato un tormento. Per questo, passava la maggior parte del tempo lungo i sentieri del suo mestiere di guida alpina, ci fossero o meno turisti da accompagnare a raccogliere funghi, esplorare i boschi e le fonti d’acque termali, scoprire i minerali e i diversi strati di roccia della montagna. Tornava quando ormai il buio e l’ora tarda non gli fornivano più alcun alibi per l’assenza: solamente all’idea di rimettere piede in casa sentiva crescere un grumo di oppressione che gli gravava addosso più dei tanti chilometri percorsi lungo i crinali.
         Ogni volta era come tornare indietro nel tempo, sempre allo stesso giorno della sparatoria al liceo giù in città, grazie all’ostinazione con cui Lidia Del Valle continuava a scambiare la rabbia per amore inconsolabile.
         Gli anni si trascinavano uno di seguito all’altro, la sentenza di condanna era stata pronunciata e il caso aveva smesso di fare notizia, ma per Lidia Del Valle il tempo s’era fermato con la morte del figlio e lei non aveva cura che del proprio dolore, perché restasse vivo.
         Il calendario segnava sempre la stessa data, a pranzo e a cena un posto veniva apparecchiato per Walter, caso mai gli venisse l’idea di tornare dal remoto aldilà in cui l’aveva spedito quel quindicenne balordo che si faceva chiamare Barry Dale, come se fosse l’eroe di un videogioco.
          Dai recessi ancor più misteriosi del monastero, dalle mura possenti avvolte da una foschia di muschio e di umidità, tornava invece puntualmente ogni settimana suor Pesca della tenerezza di Dio: con un permesso speciale della madre badessa, che l’autorizzava a trattenersi fino all’ora del vespro, Pesca portava con sé la fragranza dei campi che le monache coltivavano ancora con la zappa come cent’anni prima, in un silenzio tale da riuscire a sentire il richiamo della campana che scandiva in lontananza i tempi della preghiera.
         Al sabato mattina, Pesca si sobbarcava le pulizie a fondo di tutta la casa, le maniche rimboccate e il fruscio lungo dell’abito che la inseguiva per le stanze, come il ronzio di un’ape operosa. Quando suo padre scendeva in cucina trovava la colazione pronta sulla tovaglia, il latte e la caffettiera che borbottava disciplinata, il pavimento tirato a suon di straccio e ramazza: un ordine vigoroso che creava un’immediata sensazione di benessere, a cui Enrico Del Valle si abbandonava volentieri.
         Fu durante una di quelle colazioni serene, imbandita con i famosi biscotti ai mirtilli delle monache, che suor Pesca lanciò la proposta che aveva tenuto in serbo fino ad allora: il tempo necessario perché i suoi si trovassero ben disposti ad accoglierla.
         -“Abbiamo tante persone che vengono da noi per parlare delle loro difficoltà. Molte di loro stanno sperimentando un lutto, c’è chi è stato lasciato dalla moglie o dal marito, oppure ha perso un figlio. Così è nata l’idea di creare un gruppo di ascolto, qualcosa di molto semplice: chi lo desidera viene a trovarci alla domenica, partecipa alla Messa con la comunità, poi ci riuniamo in parlatorio per un’oretta - in questa stagione stiamo fuori, nell’orto - e a questo punto chi vuole può raccontare quello che sta vivendo. Magari anche a voi potrebbe interessare…”-
         Ancor prima che Pesca finisse di parlare, sua madre si era già alzata ed era tornata a chiudersi nella stanza di Walter, dove tutto era fermo alla morte del figlio.
         -“Non vuole farsene una ragione”- Enrico Del Valle cercò di scusarsi con sua figlia.
         -“Forse potresti provare a venire tu, papà”- pur avendo tenuto quella proposta a lievitare sotto allo strofinaccio come l’impasto dei biscotti, Pesca era realista e non si era aspettata un risultato diverso. Già convincere Enrico sarebbe stato un successo:
         -“In fondo si tratta di un’occasione per incontrare altra gente, magari addirittura per dare una mano a qualcuno”-
         La domenica seguente, più per accontentare Pesca che per un reale interesse a immergersi senza filtri nelle disgrazie altrui, Enrico Del Valle aveva assistito alla Messa in comunità con la stessa disinvoltura di un cane in chiesa, andando avanti e indietro tra il portale e l’acquasantiera, e il sagrato dai lunghi cipressi riposanti. Secondo suor Pesca, sempre pronta a scovare mistici significati in tutto ciò che vedeva, il cipresso rappresentava lo slancio dell’anima verso il cielo, e l’intreccio dei rami avvolti su se stessi simboleggiava il raccoglimento interiore.
         Guida alpina da quando aveva diciotto anni, Enrico Del Valle era più incline a ricollegare l’idea di Dio all’immensità degli spazi, la Sua voce al silenzio delle cime innevate: da quando era ragazzo, durante le vacanze era solito uscire di casa prima all’alba, un metro e dodici chili di zaino sulle spalle, per trascorrere intere giornate in solitudine tra le cime percorse soltanto dalle traiettorie dei rapaci, e dal fischio del vento.
         Messe e pellegrinaggi con candele, baldacchini e sbuffi d’incenso gli erano sempre sembrati un inutile formicolio di esseri umani, che puntualmente si concludevano con allegre sagre paesane: nulla a che vedere con la semplicità del Dio delle vette.
         Come Dio, la montagna era sovrana e imperscrutabile. Si lasciava avvicinare ma esigeva prudenza, era potente nel fascino ma anche mutevole: capace di svelare agli occhi degli uomini luoghi incontaminati e scorci di una bellezza schiacciante, ma anche di suscitare valanghe rovinose, di scatenare temporali che fulminavano gli incauti lungo le vie ferrate.    
         Dio era incomprensibile, a tratti così prossimo da poterlo sfiorare nelle vesti dimesse dei fiori di campo, ma era anche sovrano dei bastioni imponenti, dove cresceva una vegetazione scalza: miniature di siepi basse di rododendri e ciuffi gialli di papaveri alpini, genziane scaturite dalle rocce come le acque gelide dei torrenti. Il Dio della montagna sapeva essere dolce come gli occhi dei caprioli ma anche inafferrabile come i balzi degli stambecchi, in processione lungo pareti così ripide che le loro vie parevano tracciate nell’aria.
         Spesso Enrico Del Valle accompagnava in escursione gli scout della parrocchia, li aiutava a piantare le tende per la notte e ad accendere i falò. Ma non appena i capi iniziavano a cavare le chitarre dagli zaini se la squagliava svelto, diretto verso il premio della sua solitudine: là dove nessun canto o schiamazzo entusiasta riusciva a disturbare l’altissimo silenzio, eretto tra i pinnacoli che reggevano il cielo. 
         Quella mattina, mentre si aggirava incerto tra l’antica pieve e il viale di cipressi che costeggiava l’orto della comunità, Enrico Del Valle si lasciò catturare dalla novità del canto: era uscito all’aperto non riuscendo a sopportare la noia delle letture, delle orazioni interminabili, la ritualità incomprensibile dell’alzarsi e sedere a comando.
         Appoggiandosi al tronco di uno dei cipressi si era immerso nella fragranza delle resine, dei grappoli di pigne simili a piccoli pugni, che spandevano aromi a ogni soffio di brezza: là l’aveva raggiunto, simile a un’altra brezza che girava su se stessa, levandosi ad altezze sempre più sorprendenti, l’antico canto gregoriano delle monache.
         Era un coro di voci limpide sopra a cui si levava una solista vertiginosa, in grado di innalzare quel canto fino alle volte polverose della chiesa e poi di accompagnarlo a visitare i campi, i pendii immersi nella quiete della domenica: di là saliva lungo i crinali della montagna, a rivestire i pinnacoli di quell’armonia che pareva cosa dell’altro mondo.
         Per ascoltare meglio Enrico Del Valle era tornato sui suoi passi, di nuovo nell’atrio della pieve in penombra. Le pareti di pietra a vista recavano tracce d’intonaco, e nell’oscurità qualcosa aveva attirato la sua attenzione: un affresco in parte deteriorato dal tempo raccontava in due scene una storia, come una sorta di fumetto per i semplici.
         L’antico pittore del borgo aveva rappresentato il caratteristico interno delle case di un tempo, ricorrendo all’espediente di una finta trave per dividere l’ambiente e poter raccontare la vicenda in due atti. Nel primo, il Cristo tendeva la mano a una fanciulla immobile su un saccone, raffigurata con la rigidità inaccessibile della morte. Nel secondo riquadro la stessa fanciulla appariva in piedi, sulle guance il rossore vivo delle intemperie, del sole e del vento, tipico delle contadine della valle: il Cristo le teneva una mano sulla spalla mentre la presentava a una coppia vestita a festa, probabilmente i committenti del dipinto. Con una frase scritta in un latino incerto, e mezzo cancellata dalle crepe del tempo, quel Cristo chiaro e altissimo, che dominava la scena, chiedeva ai genitori qualcosa da mangiare per la bambina.
         -“Sembra una cosa scontata, dar da mangiare a un figlio. Eppure, questa frase nasconde un significato profondo”- la Messa era terminata e suor Pesca si era materializzata alle sue spalle, uscendo dall’ombra del coro. Attorno a lei un gruppetto sparuto di persone, gente che non doveva essere del paese perché nessuna faccia, a un rapido colpo d’occhio, pareva conosciuta, e questo fu un sollievo per Enrico Del Valle, che cominciava già a sentirsi a disagio.
         -“È una specie di ex voto per qualcosa che è capitato da queste parti?”- domandò qualcuno, dal fondo. Di nuovo Enrico Del Valle si sentì rincuorato: per lo meno non era l’unico a mettere piede in chiesa soltanto in occasione di nozze e funerali. L’ultimo matrimonio a cui aveva partecipato era stato il suo, l’ultimo funerale quello del figlio, e all’improvviso sentì di avere in mano due cocci che pungevano da ogni parte, e di cui non sapeva che fare.
         -“Si tratta di un episodio di cui parla il Vangelo”- Pesca iniziò a spiegare, additando le varie figure della scena -“c’è un uomo, Giairo, che ha una figlia in fin di vita, e quest’uomo è anche un capo della sinagoga locale. Eppure nel momento del bisogno non va a chiedere aiuto ai potenti, neppure ai suoi colleghi esperti della legge: va dritto da Gesù e domanda l’impossibile, vuole che quel maestro salvi la sua bambina. A un certo punto, dalla casa del capo arriva qualcuno a dire che la bambina è morta, non c’è più niente da fare. E qui Gesù dice una cosa importante: non temere, tu continua soltanto ad aver fede”-
         Stretti attorno a Pesca con lo stesso smarrimento che, a suo tempo, doveva aver scavato la fossa sotto ai piedi al tizio della storia, gli altri membri del gruppo rispolveravano vecchi ricordi del catechismo e approdavano tutti alla medesima conclusione: è perché non ho avuto fede che mio marito, mia moglie, mio figlio mi ha lasciato? A me pare un’ingiustizia, mica una consolazione.
         -“Aver fede significa che qualunque cosa succeda, il Signore c’è sempre. Lui non ti pianta in asso, anche se a conti fatti sembrerebbe proprio il contrario. Vedete, qui la gente invita Giairo a smetterla di disturbare il maestro, gli dice chiaramente che ciò che gli resta da fare è tornarsene a casa, chiudersi dentro e piangere per il resto dei suoi giorni. A casa, infatti, Giairo trova esattamente questo, gente che piange e si dispera. Ma Gesù gli è vicino. Non gli spiega perché è morta sua figlia: molto semplicemente, rimane accanto a lui”-
         -“Poi però prende per mano la bambina e la riporta in vita”- Enrico Del Valle diede voce ai dubbi e al dolore di tutti -“mentre noi ci dobbiamo tenere i nostri morti”-
         -“È vero, ma possiamo portarli insieme a Lui”- nel frattempo, suor Pesca aveva guidato il gruppo a un tavolino sotto al pergolato dell’orto. Ovunque era la luce intensa del pieno giorno.
         -“Chissà quanti bambini erano malati quel giorno, in quella stessa città o nel resto del mondo. Ma i miracoli non sono delle ingiustizie, sono come messaggi che parlano a noi, adesso: qualcosa può cambiare, un cuore morto e straziato può ricominciare a vivere. E quel cuore è il nostro”-
         Intorno al tavolino e a suor Pesca, le facce continuavano a esser poco convinte.
         -“Io non ce la faccio, mi spiace”- Enrico Del Valle era persino indispettito: oltre a fare e disfare secondo il proprio inconoscibile arbitrio, adesso il Dio delle vette pretendeva che ci si dovesse fidare così, senza una spiegazione. Ripensò alla storiella del tizio che si trova sospeso su un precipizio, aggrappato a un rametto che inizia a scricchiolare, e il tizio chiama aiuto e Dio allora risponde: sono qui, lasciati andare che io ti prendo al volo. E il tizio: aiuto, aiuto! C’è per caso lassù qualcun altro?
         Così si sentiva Enrico Del Valle quella mattina, lui che i precipizi li conosceva bene e, quanto al Dio delle vette, non era mai riuscito a capire che cosa gli passasse per la mente.
         Solo un particolare continuava a turbarlo: suor Pesca vi aveva accennato di sfuggita, ma cosa poteva mai significare dar da mangiare a un figlio, se tuo figlio non c’è più? 
 
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Il cortile era un cubo di cemento e cielo bianco, rinchiuso tra le quattro mura dell’istituto e un cancello che portava all’edificio principale. In parte assomigliava al cortile del liceo, ma senza il parcheggio di biciclette e motorini addossati uno all’altro, a volte arrampicati per mancanza di spazio. La prima differenza era che qui la scuola era a tempo pieno - una modalità che il Ragazzo della Sparatoria, solitario per natura, aveva sempre odiato, per esservi stato costretto fin dalle elementari - e non c’era nessuna maniera di svignarsela alla fine delle lezioni.
         L’edificio era un antico convento da i pavimenti sconnessi, in cui l’eco dei passi risuonava da un capo all’altro e non si capiva mai chi veniva e chi andava: visto da fuori era simile agli altri del quartiere, ridipinto ogni anno dello stesso colore paglierino che alla prima pioggia subito si macchiava degli scarichi delle auto.
         Un quadrato di cielo, simile ad un tendone tirato sui muri, restava appeso estate e inverno ed era sempre quello: accecante nei mesi caldi, livido in quelli freddi, della vita di fuori non lasciava passare neanche un rumore. Non un passaggio di auto, né gli sfiati degli autobus che arrancavano lungo le strade del centro storico.
         C’era però un rampicante, un tralcio di roselline che da qualche giardino esterno e confinante si arrampicava sul muro e faceva capolino incuriosito: una testina fatta di un pugno di petali si sporgeva a vedere che cosa c’era in quel luogo nascosto, interdetto alla città pur essendo costruito nel bel mezzo.  
         In quel primo pomeriggio di un giorno di cui aveva ormai perso il conto - perché i giorni erano tutti uguali e così sarebbe stato per i prossimi diciotto anni, almeno secondo la sentenza di primo grado - lo sguardo del Ragazzo si lasciò attrarre dalla curiosità di quel ramo, appeso a un filo di brezza.   
         Dal suo punto di osservazione, sulla panca di legno che insieme al muro girava tutt’intorno al cortile, sentì arrivare fin lì l’odore dei prati liberi, dei pendii coltivati a filari di mele, dei frutti che iniziavano a tendersi sotto al sole.
         Il cielo era sgombro ed era la prima volta che si mostrava su di lui così puro: il Ragazzo sentiva la vita della terra, la freschezza dei boschi, il fremito delle altezze scorrergli nelle ossa insieme al desiderio improvviso di essere là, a correre a precipizio, senza meta né orizzonti.
         Nei lunghi mesi trascorsi attaccato al computer, a giocare a Dies Irae e a fingere di essere qualcun altro ed altrove, si era completamente dimenticato della montagna: a dir la verità l’aveva sempre odiata, dai giorni in cui suo padre lo portava con sé a caccia e si ostinava ad insegnargli ad ammazzare, a frugare tra i cespugli le prede impallinate in volo o nella corsa - le lepri dalla pelliccia che tremava attorno al cuore, i passeri con le zampe ritratte nell’aria ma con le ali ancora distese nel volo. Lui aveva sempre provato ribrezzo a toccare quei corpi morti, e quel riserbo aveva in sé qualcosa di sacro: il Ragazzo intuiva che quei corpi erano l’anima pulsante della foresta, nati per strappare lo stupore dal cuore coi loro balzi improvvisi, per innalzarsi nel cielo ed essere la voce e il perenne canto degli alberi.
         Sparare ai piccoli animali del bosco gli era sempre sembrata una crudeltà assurda, una manifestazione di forza idiota: lui che si era sempre sentito sprovveduto di fronte al mondo, meno che mai riusciva a condividere l’ebbrezza della caccia, avvertendo piuttosto il panico della preda, il terrore negli occhi degli animali selvatici, che gli impediva puntualmente di far scattare il grilletto.                    Più di una volta aveva addirittura sviato la mira di suo padre con una spinta, oppure spaventando la bestiola in anticipo. In tutti quei casi aveva rimediato un ceffone: e insieme all’ammirazione che provava da sempre cresceva anche il rancore nei confronti di quell’uomo violento, che lo costringeva a fare da riporto insieme ai suoi cani, a frugare le siepi in cerca di quei poveri corpi impallinati, che tremavano e spesso morivano tra le sue mani.
         Quanto l’aveva odiato, e sempre più, fin da allora.
         Il Ragazzo della sparatoria, a quei tempi bambino, era terrorizzato dalle armi e dagli spari: quel fracasso infernale che gli scoppiava nelle orecchie a distanza ravvicinata, cancellando i rumori della natura intorno e facendo morire non solo gli animali, ma anche il ticchettio del picchio nella radura, il canto del torrente.
         Più di tutto, al Ragazzo si annebbiava la vista di fronte al sangue, quell’umore viscoso che continuava a sentirsi addosso per giorni, e lo perseguitava l’angoscia della morte: non voleva sfiorarla, la morte, a nessun costo, figurarsi raccoglierla da terra e mangiarla una volta arrivati a casa, con la polenta e col sugo.
         I pranzi dopo le battute di caccia erano un tormento che il Ragazzo attraversava di volta in volta a testa bassa, come chi si addentra in una tormenta: e le parole dure gli arrivavano in faccia come aghi di neve impazziti per la tempesta.
         Non c’era verso di fargli ingoiare qualcosa, neppure con le minacce e le sberle di suo padre. In quel periodo iniziò a chiudersi in se stesso per la necessità di resistere a oltranza, la testa china sul piatto e la bocca serrata, senza rispondere a nulla e fingendo di essere altrove. A quel tempo aveva già iniziato a sognare per sé un’altra realtà, dove l’arroganza degli altri non esisteva e lui stesso era forte, invincibile e senza dubbi: più tardi, questo alter ego sarebbe diventato il Barry Dale di Dies Irae.
         Eppure ricordava, di tutta la sua infanzia, almeno un giorno vissuto in totale intensità, in cui la montagna gli aveva rivelato un volto inconsueto, di una tale potenza che a ripensarci adesso, ritornava a risentire la stessa emozione del tempo in cui frequentava gli scout della parrocchia e aveva partecipato a un’uscita di gruppo: e questo era stato prima dei giorni della caccia, prima di tutti gli sforzi per abituarvi l’anima e prima che quegli sforzi risultassero inutili, perché alla fine suo padre se n’era andato lo stesso, per dedicarsi a una donna con vent’anni di meno e ad attività più interessanti che non fosse sparare a gambe larghe contro un bersaglio.
          Una vita diversa era esattamente il titolo che, nell’anima del Ragazzo, risultava appropriato per descrivere l’avventura di quell’estate in cui aveva appena compiuto otto anni, e i capi scout avevano organizzato un’escursione in totale immersione nella natura: tre giorni in sacco a pelo, falò e carne arrostita, notti sotto alle stelle. I canti con la chitarra, l’emozione di coricarsi sotto alle tende, poi un immenso silenzio: la quiete della montagna come un manto impenetrabile, al cui cospetto ogni cosa diventava minuscola.
         Per l’occasione era stata contattata una guida alpina, un uomo introverso ed esperto che li aveva accompagnati lungo sentieri e scenari che il Ragazzo non aveva mai immaginato che potessero esistere: tanto meno sapeva che nel suo cuore ci fosse da sempre uno spazio fatto apposta per accogliere la bellezza, e permetterle di piantare radici di nostalgia.
         All’epoca era un bambino in calzoncini e ginocchia rosse, che al pari dei suoi compagni era nato nella città ai piedi della montagna, e là era sempre vissuto: senza mai sperimentare l’emozione dei grandi spazi e il desiderio di percorrerli fino in fondo, di darsi un’altra meta una volta raggiunta la prima e così via all’infinto.
         Più di tutto l’aveva affascinato la guida: l’uomo della montagna era schivo e di poche parole, ma tutti i bambini avevano avvertito la sua sicura protezione mentre affrontavano i punti più ripidi dei sentieri, si aggrappavano alla sua mano durante il guado dei torrenti.
         Il Ragazzo della Sparatoria, pallido come uno straccio sotto al berretto da lupetto, a denti stretti aveva superato lo stordimento delle vertigini pur di restare al passo, accanto a quell’uomo così diverso da suo padre, che gli ispirava sicurezza e apriva un mondo nuovo alla sua fantasia.
         Subito era nato dentro di lui un desiderio, e immediatamente l’aveva promesso a se stesso: quando diventerò grande, io sarò come lui.
         Era stato così entusiasta della scoperta che non appena la comitiva aveva piantato le tende, ed era intenta ad arrostire spiedini sui falò, lui aveva raggiunto la guida in disparte.
         L’uomo della montagna l’aveva accolto bonario, ma senza rivolgergli nemmeno una parola: il Ragazzo si era seduto accanto a lui condividendo lo stesso silenzio, felice di solo di essere lì insieme a un sogno.
         -“Perché ci mettiamo in cammino?”- gli aveva domandato, a un certo punto, quell’uomo.
         Nel punto in cui la guida aveva piantato il suo bivacco solitario, il vento respingeva lontano ogni rumore e soprattutto le chitarre dei capi scout, i canti accompagnati dal battito delle mani: la notte si mostrava senza confini e la città appariva come una manciata di polvere ai piedi della montagna, un crepitio di luci tra due pinnacoli di roccia.
         -“Non saprei”- aveva provato a rispondere il Ragazzo, impacciato -“di solito le persone si mettono in viaggio per andare da qualche parte. Ci vanno con la macchina, col treno, oppure in aereo se devono andare proprio lontano”-
         -“Quindi, si viaggia solamente per arrivare?”- la guida continuava a guardare dinanzi a sé, in un punto imprecisato della notte e del buio. Solo pochi giorni prima sua figlia era partita, percorrendo a piedi il tragitto che l’aveva condotta in una comunità religiosa dall’altra parte della vallata. Non aveva voluto farsi accompagnare in auto, né prendere la corriera che faceva la spola tra i piccoli paesi sperduti tra i pascoli, perché quel viaggio simboleggiava il distacco, l’inizio di una vita diversa e povera: per Pesca Del Valle, postulante dai piedi scalzi e sulle spalle uno zaino contenente soltanto la biancheria di ricambio e due panini al formaggio, si era trattato di un viaggio di nozze nel senso più vero della parola.
         Suo padre, Enrico Del Valle, ancora non riusciva a rendersene conto.
         A un tratto quel bambino che gli sedeva accanto riuscì a strappargli un sorriso:
         -“Nei film, ci sono i cattivi che scappano dalla prigione e rubano le macchine, o saltano sui treni per non farsi catturare dai poliziotti. Da piccolo, anch’io volevo fare il poliziotto che rincorre i cattivi con la pistola”-
         -“E adesso che sei grande, invece, cosa vuoi fare?”-
         Con la complicità della notte che gli copriva il rossore, per la prima e unica volta il Ragazzo della Sparatoria riuscì a confidarsi con qualcuno:
         -“Io da grande vorrei essere come te: uno che viaggia a piedi e va sempre più in alto, e scopre tante cose belle della montagna, e di notte le stelle, che in città mica si vedono. Voglio vedere gli stambecchi come oggi, le mucche e i cavalli, e dare da mangiare il mio panino alle marmotte, e passare a piedi nudi i torrenti senza cascarci dentro”-
         Il piccolo scout non aveva dubbi: in quel momento avvertiva dentro di sé quella particolare certezza che accompagna le scelte definitive, quando d’un tratto appare, all’orizzonte dei giorni, la meta di una vita. Negli anni a venire, non avrebbe più ritrovato una simile sicurezza.
         -“E dopo che avrai dato il tuo panino alle marmotte e avrai attraversato tanti torrenti, cosa conti di fare?”-
         -“Andare avanti ancora. Poi, essere felice”-
         Nel quadrato di cemento che chiudeva il cortile, l’aria ormai cominciava a rinfrescare. Ad aggirarsi da un capo all’altro del quadrilatero, che offriva la stessa visione di mura e cielo a ogni angolo, quel pomeriggio non c’era nessuno perché era sabato, giornata dedicata alle visite.
         C’era stata una visita anche per il Ragazzo, e circa mezz’ora prima un agente era venuto ad avvisarlo: ma per la prima volta lui aveva rifiutato di incontrare sua madre che ogni settimana arrancava fino all’istituto minorile più per sfogare la propria marea di dispiaceri che per altre ragioni.
         Ogni sabato si ripeteva sempre la stessa scena: nello stanzone basso, immerso nel brusio degli altri parenti, sua madre vuotava il sacco su tutto quello che aveva saputo dell’ex marito, del figlio che aspettava dalla nuova compagna, della nuova automobile, delle vacanze in Spagna, in Croazia, mentre di noi si è completamente dimenticato, il giudice aveva stabilito una somma mensile e adesso ci sono anche le spese degli avvocati, di te non s’interessa, mai una telefonata, mai che sia venuto a trovarti una volta, e sì che ti portava sempre a caccia con lui, ricordi quanto ci teneva tuo padre, eravate inseparabili.
         Consegnava al figlio il pacco della roba pulita e continuava a parlare, poi finalmente l’ora finiva e il Ragazzo usciva frastornato dalla sala colloqui, con sulla testa la minaccia puntuale che si rinnovava ogni volta:
         -“Allora, ci vediamo la settimana prossima. Mangia, mi raccomando. E studia, che magari qui riescono a trovarti un buon lavoro. Quando uscirai, avremo bisogno del tuo stipendio”-
         Come se la galera fosse un’agenzia di collocamento.
         Quel giorno, il Ragazzo aveva rifiutato il colloquio: era stata una decisione improvvisa, motivata da un puro e semplice istinto di sopravvivenza. Solo al pensiero di risentire un’altra volta tutta quella trafila si era sentito esaurito: come se da quel sacco velenoso e senza fondo che sua madre gli riversava addosso ogni volta, uscissero macigni capaci di seppellirlo.
         Così, aveva detto all’agente di turno:
         -“S’inventi qualcosa, una scusa qualunque, ma io non voglio vederla”-
         Più tardi, si rese conto che si era trattato di una scelta definitiva.
         Non l’avrebbe mai più rivista, avrebbe rinunciato a tutto l’iter di appelli e tribunali, alle inutili chiacchiere su chi ha fatto che cosa, al corso di computer che aveva cominciato a seguire nell’istituto - non voleva vedere un computer mai più, e d’un tratto sapeva esattamente perché: era la sua vita nuova che germogliava, che radunava le forze per sollevare il capo come quel tralcio di roselline rampicanti che dal muro del carcere faceva capolino alla scoperta del mondo.   
         Una volta uscito di lì avrebbe ricominciato dal principio, a partire da quella notte sulla montagna, coi canti degli scout che venivano a folate e la città ai suoi piedi, scintillante di luci come gioielli.       
         A quel punto, il Ragazzo avrebbe voltato le spalle al caos delle strade e alle parole inutili, avrebbe caricato lo zaino sulle spalle buttando via le chiavi della vita di prima, pronto ad incominciare finalmente il suo viaggio.
         Solamente al pensiero avvertì una scossa improvvisa, come se tutta la sua energia vitale rompesse gli argini a un tratto, per invaderlo con lo stupore e l’incanto di quella notte di veglia in cima alle montagne. Quando sarebbe uscito, nella migliore delle ipotesi avrebbe avuto trent’anni, di cui la maggior parte trascorsa dietro alle sbarre: ma dentro di sé avrebbe conservato fino ad allora il sogno quel bambino di otto anni, e un boccone di pane da offrire alle marmotte.
 
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