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Autore: MomoiDancho    16/09/2018    0 recensioni
«Stiamo mangiando in silenzio, siamo solo io e mio marito.
Questa sarà la nostra ultima cena, da quando ho scoperto che lui, Albert Rookwood, capo della squadra che si occupa di omicidi nella città di Washington, è un serial killer [...].
All'inizio, credevo mi tradisse.
Oh, magari mi avesse tradito. Sarebbe stato molto più accettabile, molto più umano.»
Genere: Generale, Horror, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stiamo mangiando in silenzio, siamo solo io e mio marito.
Questa sarà la nostra ultima cena, da quando ho scoperto che lui, Albert Rookwood, capo della squadra che si occupa di omicidi nella città di Washington, è un serial killer.
Non so bene come abbia fatto a indurlo a scoprirsi, è stato tutto molto confuso: prima sembrava solo molto preso dai casi, ma successivamente aveva sviluppato un interesse morboso per i metodi di uccisione dei killer, immergendosi soprattutto nel caso di Frederick Meraki.
Costui è un serial killer, bianco, un metro e ottanta, settantacinque chili e con origini greche.
Il tratto distintivo di quest'uomo è la sua tendenza a cannibalizzare le vittime, nei modi più macabri che vi possano esistere ed inoltre le lascia sempre con quello che i giornali scandalistici hanno soprannominato "Il sorriso dello squartatore": un taglio a forma di arco che parte dall'altezza dell'ombelico e arriva al basso ventre.
All'inizio non avevo idea del perché mio marito avesse comprato degli strumenti di cucina o perché in generale sembrasse molto più interessato all'idea di prepararsi i pasti in casa e selezionare personalmente il cibo in "allevamenti speciali" o, come li chiamava lui, "selezionatori etici di carne". 
All'inizio, credevo mi tradisse. 
Oh, magari mi avesse traditoSarebbe stato molto più accettabile, molto più umano.
Spariva nel cuore della notte, a volte, e tornava solo in mattinata presto, quando pensava che io stessi ancora dormendo. Come se fossi stata troppo presa dalla mia vita per notare i piccoli, grandi cambiamenti che stava attuando nella nostra quotidianità.
Un acquisto di una casa in campagna, di set di coltelli professionali, l'improvviso interesse per la caccia e la pesca... come ho fatto a ignorare questi allarmanti segnali, vi starete chiedendo.
Volevo credere che lui fosse una persona buona, semplicemente. L'ho sempre voluto credere.
Recentemente, cercando su Google informazioni sul caso Meraki, erano spuntate fuori diverse foto da un giornale scandalistico, foto raccapriccianti. 
In una foto, vi era un uomo con un taglio sul ventre, un taglio che "somigliava tanto a quello di un nuovo killer": l'omicidio era attribuito al greco, ma secondo alcuni, si trattava di un emulatore. Da lì iniziarono i sospetti, finché ieri, stufa delle assenze di Albert, avevo deciso di fare il terzo grado a mio marito.
Dopo aver ascoltato la mia sfuriata, impassibilmente, mentre stavamo cenando, mi disse che quello che stavo mangiando era il fegato di Patrick Nunchi, il ragazzo di origine coreane trovato morto qualche giorno prima. 
Pensavo di non aver sentito bene, di aver avuto un'allucinazione uditiva o di essere semplicemente impazzita. Le Variazioni Goldberg  risuonavano dal giradischi in quel momento e, confusamente lo guardavo. 
Ovviamente non avevo intenzione di toccare più nulla che avesse cucinato.
Notando il mio crescente disgusto, si era fermato anche lui e con aria assorta, mi aveva chiesto se fossi interessata a continuare quella conversazione.
Non ero riuscita a dire nulla, sotto shock lo avevo ascoltato confessare i suoi precedenti omicidi, quattro per la precisione. Mi aveva detto che era rimasto affascinato da Meraki e da volerlo indurre a scoprirsi facendogli sapere di avere un ammiratore: aveva inoltre puntualizzato di aver lasciato delle tracce, abbastanza per far condurre un sociopatico del genere da lui, ma non abbastanza per fare in modo che la polizia lo beccasse; non che avesse da temere, perché lui stesso depistava le indagini. 
Gli avevo chiesto se avesse voluto uccidere ancora, lui mi aveva risposto che stava meditando di farlo, ma che avrebbe aspettato ancora un po'.
Ed e così che siamo arrivati ad oggi. 
Ho deciso che devo farla finita con lui, anche se non so come.
Sto per parlargli, ma lui mi precede: mi dice che ha una sorpresa o meglio, un ospite che vorrebbe fare la mia conoscenza. Non faccio in tempo a fare domande che sentiamo il campanello suonare; Albert corre ad aprire la porta, quando, con un'espressione folle negli occhi, fa accomodare un uomo prendendogli l'impermeabile nero. Lo riconosco subito: Frederick Meraki. 
È la prima volta che lo vedo dal vivo e, prendendo consapevolezza della situazione in cui mi trovo, inizio a sudare freddo.
Non riesco a proferire parola, li sento parlare tranquillamente del tempo, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Ad un certo punto, con estrema velocità, il greco tira fuori un coltello a serramanico dalla tasca del pantalone.
Sono ancora lì, in piedi all'ingresso, quando compie un rapido movimento con cui traccia un arco che parte dall'altezza dell'ombelico e arriva al basso ventre con l'arma. Non riesco neanche ad urlare. Vedo mio marito aggrapparsi a lui, mentre quest'ultimo va maggiormente a fondo con il coltello nella carne. La camicia squarciata, la macchia rosso sangue sempre più evidente con il passare dei secondi. Poi succede una cosa inaspettata: Frederick Meraki mi chiama vicino sé. Meccanicamente mi alzo da tavola e lo raggiungo. 
Vedo Albert che si attacca al mio braccio ed emette un rantolo, mentre con un sorriso mi dice «Sai, dovevamo ucciderti assieme, per poi cucinarti stasera stessa».
All'improvviso, la paura si tramuta in rabbia.
Mi passano in mente tutte le volte che, in un modo o nell'altro, mio marito ha abusato di me. Quando mi diceva che non valevo nulla, quando disprezzava i miei passatempi, quando mi insultava ... quando... quando...e adesso scopro anche questo...
Il greco mi osserva, con aria incuriosita; «Cosa provi, Rebecca?».
Non mi chiedo nemmeno come sappia il mio nome, non mi chiedo più nulla ormai.
Mi porge il coltello.
Lo prendo e all'improvviso non ragiono più.
Inizio a colpire Albert, sentendomi sempre più simile a Meraki, mentre lo guardo soffrire. Penso all'uomo che ho davanti, alle vittime e al suo abuso di potere, fino a che, con il fiatone e la mano insanguinata, non lo vedo agonizzante al suolo.
Sono in una condizione di depersonalizzazione, mi sento in un corpo che non è il mio, come se non fossi stata io a porre fine alla vita di mio marito.
Guardo Frederick, che mi sorride. «Non male, per una novellina».
 
Mi ritrovo nell'auto del greco, con i soldi che avevamo in casa nelle tasche e un odore metallico addosso.
«Ti condurrò nell'aeroporto più vicino, Rebecca».
«Perché mi stai aiutando?» non oso pronunciare il suo nome, mentre la luce rossa di un semaforo gli illumina il volto, facendo in modo che la mia mente lo colleghi spiacevolmente all'immagine del sangue sulla pelle. 
«In primis, mi diverte. Sono curioso di vedere come andrà a finire» mi dice, mentre il verde scatta «In secondo luogo, ho sempre odiato gli emulatori. Bisogna uccidere con un valido motivo, e farlo per adulare una persona non è una valida ragione».
Quando arriviamo all'aeroporto, dopo essere scesa dall'auto, istintivamente mi volto: con un sorriso, una mano ancora macchiata di sangue e facendomi un cenno, Frederick Meraki mi dice «Questo non è un addio, ma un arrivederci. Te lo prometto» e finita la frase, riparte, lasciandomi senza parole, con la sensazione che veramente non sarà finita qui.
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Buonasera! Questa oneshot è il risultato di una serie di idee un po’ confuse su una storia che volevo scrivere e …beh, alla fine le ho mischiate tutte ed è uscita così. Spero vi sia piaciuta comunque, nel caso, lasciate una recensione!
Ringraziando anticipatamente chi lo farà,
MomoiDancho
 
   
 
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