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Autore: Kira Eyler    17/09/2018    6 recensioni
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"[...] «L’agnello, caro bimbo cattivo, simboleggia debolezza, sottomissione, dipendenza dal proprio pastore e la totale obbedienza verso i suoi confronti. Certe volte simboleggia il sacrificio!»
Remezu spiega con malignità, quasi a volerlo deridere. Gli dice in modo indiretto che X crede di averlo come burattino e che se parla con lui, è solo per assicurarsi fedeltà e obbedienza; non lo tratta come un cane, ma come un agnello. E probabilmente, per Aaron si sta avvicinando il periodo del sacrificio.
[...]
Vuole sentirsi di nuovo libero, vuole poter respirare, vuole chiudere gli occhi e dormire, vuole smettere di sentirsi fuori luogo e smettere di essere manipolato senza poter reagire.[...]"
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'ἄπειρον '
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Ennesima storia che non volevo pubblicare, forse perché ero arrabbiata col mondo quando l'ho scritta (grazie scuola, davvero) e non ha proprio una trama. Poi una mia amica, la cara Vale', mi ha costretto a postarla: questo schifo è presente sul sito per colpa sua. Anche se credo di cancellarla prima o poi.

Note da leggere:
-anche se tratta di violenza, NON intendo istigare in alcun modo a queste cose. Questa è una storia, non sono una mafiosa, una serial killer o una persona che vuole dire: "andate ad uccidere qualcuno". Anzi, condanno qualsiasi forma di violenza e prepotenza. Tenevo a precisarlo, quindi fate i buoni;
-no, non credo di avere personaggi mentalmente stabili;
-se ci sono errori, segnalate e provvederò a correggere quanto prima. Ho appena finito matematica e sono leggermente fusa, mi sarà scappato qualche errore... spero non gravissimo...
 
Weeping Sheep
 
Nel centro commerciale c’è aria di gioia e di festa: l’allegro chiacchiericcio rieccheggia per l’intera struttura e dal mirino del fucile da cecchino può notare gruppi di amici passeggiare, bambini correre in ogni direzione, uomini carichi di borse accompagnati da donne e coppie di fidanzati che si tengono per mano.
Se ne sta nascosto, Aaron, impugnando un fucile e con accanto a sé un passamontagna e una maschera intera da coniglio. Quell’aria allegra gli ricorda i tempi di un’infanzia ormai perduta: le grida dei bambini che venivano ad assistere agli spettacoli della sua famiglia; le espressioni gioiose e divertite del pubblico quando suo zio, il clown del circo, faceva i suoi numeri; gli sguardi ammaliati davanti a sua madre e alle sue sorelle, ballerine; e come poter dimenticare gli sguardi inorriditi che diventavano poco a poco più curiosi, quando si presentavano i nani da circo e i gemelli siamesi?
Le labbra, rovinate dal suo continuo morderle e distruggerle, formano un sorriso nostalgico: ah, quanto gli manca quella vita! Ricorda ancora i suoi capricci, quei “Voglio esibirmi pure io!” e quegli sbuffi quando la sua famiglia – non di sangue, ma adottiva – gli diceva che era troppo piccolo per lavorare con loro e come loro.
Come è arrivato a tanto?
Gli occhi grigi, non più azzurri come un tempo, sembrano rispecchiare il suo umore in quel momento: indeciso e nostalgico.
Gli hanno detto che non deve uccidere civili innocenti, non deve ferirli nemmeno per sbaglio; tutto ciò che deve fare è farli solo spaventare per attirare lì la polizia. Polizia che sarà l’unica a pagare per tutti i crimini commessi.
Aaron non ha mai sparato prima d’ora, non sa come si fa, e quel compito gli sembra difficile per uno come lui. Non riesce a tenere le palpebre spalancate, le occhiaie confermano il suo non dormire da più di qualche notte e se riuscisse a sentire qualcosa oltre alla stanchezza, avrebbe paura di sbagliare e colpire un innocente.
Vorrebbe tirarsi indietro, perché sua madre non vorrebbe vederlo ridotto a un assassino.
Vorrebbe, ma non lo fa, poiché non vuole deludere Loro, l’organizzazione: si sono fidati di uno come lui e vuole renderLi orgogliosi.
“È per una buona causa...” si dice per farsi coraggio, poi mira al vetro di una vetrina e fa fuoco.
 
 
“«È per una buona causa!»
Il locale puzza di alcol e fumo. E anche di sudore.
Ci sono così tanti ragazzi, tutti stretti tra loro, che alcuni sono stati costretti a salire sui tavoli pur di vedere l’Incognita parlare su quel palco improvvisato.
Aaron è in prima fila, coi capelli rossi coperti dal passamontagna e con la maschera sul viso; sta a braccia conserte, guarda ammaliato l’Incognita e pende dalle sue labbra. Ogni parola che dice per lui è legge.
«Tanti ragazzi come noi vengono rinchiusi in prigione, o nei manicomi per subire le stesse, identiche e dannate cose: torture, stupri e umiliazioni.»
Il ragazzo sul palco ha una maschera da Kitsune che gli copre l’intero volto e gli modifica la voce, rendendola più robotica e strana; il ghigno dipinto sull’oggetto che indossa sembra il suo.
«Polizia, governo e quella stupida gente credono che torturare i malati e chi ha commesso reati siano cose giuste. Poi, come se ciò non bastasse, li uccidono nel silenzio generale e non rispettano neanche i cadaveri. Se questo vi sembra giusto, mi chiedo cosa ci facciate in questa Famiglia!»
Parte un applauso generale e Aaron non riesce a non partecipare. Sorride, è contento... o forse solo manipolato.
«Se per loro uccidere un uomo poiché pazzo o colpevole di qualsiasi reato è giusto, devo dire che non sono tanto diversi da chi condannano alla pena di morte. E perché se io uccido un uomo rischio l’impiccagione, mentre loro possono impiccare chiunque nelle carceri senza subire la stessa cosa? Non è omicidio anche ciò che fanno loro!?»
Si leva un coro di voci: “La pena di morte è omicidio!”. Tutti sono d’accordo con l’Incognita ancora una volta e quello, sentendosi forte, continua a parlare avvolto nella sua oscurità.
«Non esistono solo vittime e solo carnefici: tutti siamo le vittime di qualcuno e i carnefici di un altro. I nostri compagni ora in prigione, o in manicomio non volevano diventare così: hanno sofferto, sono stati abusati e derisi ogni giorno. Odio che stiano ancora soffrendo quando la maggior parte dei loro carnefici ha la fedina penale pulita... e quando poliziotti e stupidi infermieri tornano a casa acclamati come eroi e salvatori. Non è giusto!»
I ragazzi alzano le loro armi, da coltelli a pistole. Aaron è uno dei pochi a non farlo, anche perché non armato, ma fa un passo verso l’Incognita e gli occhi gli brillano di ammirazione.
«Non smetteremo di uccidere membri di polizia, carabinieri e qualsiasi altra stronzata si inventino se non ci danno ciò che vogliamo. E cosa vogliamo?»
Le pecore gridano parole confuse, ma Lui annuisce comunque, pronto a rispondersi ripetendo ciò che ha iniettato nella mente del gregge.
«Vogliamo che venga abolita la pena di morte, vogliamo che vengano chiusi quei maledetti manicomi, vogliamo una giustizia che si possa davvero definire tale. Fino a quando non cedono, continuate a farli fuori!»
Fischi si alzano e rieccheggiano tutt’intorno; non sono fischi di disprezzo, né di scherno, sono più di assenso. Insieme a loro ci sono altri applausi e qualcuno grida più forte che può per farsi sentire dall’Incognita, tutto per dirGli che sono dalla sua parte e sempre lo saranno.
«Lo facciamo per quelli dei nostri destinati a morire; lo facciamo per chi non è mai stato capito, per chi è stato abusato senza aver avuto giustizia, per gli omosessuali qui discriminati, per i transessuali che si sentono dire di essere malati mentali, per chi vuole un mondo migliore e per chi è stanco di essere trattato come un animale.»”
 
Aaron indossa maschera e passamontagna, afferra il fidato kalašnikov e corre giù per la scala a chiocciola, pronto a gettarsi nella mischia per aiutare i compagni. Come loro spara un po’ a vuoto, cercando di non ferire nessuno dei presenti nonostante le loro grida lo infastidiscano, quasi facendogli scoppiare la testa e sanguinare le orecchie.
La tua mamma non vuole, bimbo cattivo!” gli dice una voce per schernirlo.
Cosa gli importa di sua madre, di Myriad?
Sì, certo: con gli altri membri del circo lo salvò, lo raccolse da quel cassonetto e lo accudì come se fosse suo figlio; gli insegnò addirittura a leggere e scrivere! Era sempre stata al suo fianco, ma... ma ora la odia.
La odia perché aveva creduto alle stupide parole di un finto dottore che aveva detto che lui era schizofrenico. Schizofrenico da un giorno all’altro, secondo quei due. Non era riuscita a farle capire che quelli che lui vedeva esistevano davvero, non erano frutto di una malattia: esistevano, gli avevano detto che erano lì per punirlo e che solo lui poteva vederli, così che tutta la sua famiglia lo avrebbe preso per pazzo. Non era riuscito a farle credere che erano sempre loro, esseri reali, che gli impedivano di dormire.
Adesso per lei era uno schizofrenico.
E per lui, Myriad non è più una madre.
Si nasconde dietro una colonna per ricaricare l’AK-47, irato per quei ricordi e quei pensieri.
Myriad credeva nella religione e trova qui un controsenso: non era stato il Figlio di Dio a dire “Beato chi crede senza vedere”? Si sente preso in giro ogni volta che ci pensa, perché la gente crede in divinità che non possono vedere, ma non crede a quelli come lui. Dopotutto lo disse anche l’Incognita: “Il fatto che tu non possa vedere qualcosa, non significa che non sia reale”.
 
“«Quindi mi credi!?» esclama sconvolto.
L’Incognita annuisce. Indossa ancora la maschera da Kitsune e la felpa larga, nera, col cappuccio che non mostra i capelli e il collo; anche se non può vederlo in faccia, Aaron di lui si fida e si sente onorato.
«Non... Non mi credi schizofrenico?» domanda per esserne sicuro.
L’altro infila le mani nella tasca frontale della felpa, gli risponde e quasi gli fa prendere un colpo per via di quella voce modificata: «Se tu fossi schizofrenico, cosa mi cambierebbe? Assolutamente nulla. Saresti comunque un essere umano, mica un mostro a tre teste e otto braccia!»
Aaron si obbliga a ridere e si passa una mano tra i disordinati capelli rossicci. Il suo idolo gli crede e per lui non c’è cosa più bella.
«Se tu dici di non essere affetto da schizofrenia, allora non lo sei. Ma psicosi o no, contro dei demoni invisibili per me e per altri ci lotti in ogni caso... cerca di non morire, cretino»
«Non lo farò. Combatterò al fianco tuo e del nostro Capo, X.»”
 
Una bambina grida così forte che la testa per poco non gli scoppia. Si volta a guardarla e si rende conto dell’orrore solo in quel momento: accanto alla bimba c’è un uomo a terra, con gli occhi spalancati e un rivolo di sangue che gli cola da un buco al centro della fronte.
“Gli hai sparato tu, Aaron!” dice la solita voce.
“No, non sono stato io” le risponde lui per rassicurarsi e convincersi che è stato qualcun altro.
I compagni, prima intenti a tener lontano i poliziotti e la sicurezza appena arrivata, si voltano a guardare la scena per un attimo e Aaron si sente crollare il mondo addosso: è stato lui, è stato lui per forza, ha sparato alla cieca e mentre sparava, aveva la testa da tutt’altra parte!
Nessuno avrebbe avuto la certezza che fosse stato lui a uccidere l’uomo vista tutta la confusione e i proiettili vaganti, eppure iniziò a sentirsi male: aveva deluso l’Incognita, aveva deluso il loro Capo, aveva deluso tutti disobbedendo a un semplice ordine e ora avrebbe dovuto mentire, dire che non era colpa sua. E a quella bambina cosa sarebbe successo? Se avesse avuto solo quell’uomo come punto di riferimento? Aveva appena subito un trauma?
“Così capiranno che sei stato tu.” lo informa una seconda voce, più maschile e calma... e Aaron sa che ha ragione. Vederlo agitato avrebbe dato sospetti.
Sente le orecchie fischiare e il cuore battergli forte nel petto, non riesce più a capire se stanno ancora sparando perché sente solo quel dannato fischio e il battito del cuore. Una morsa ferrea gli stringe i polmoni, perde il respiro mentre gli gira la testa e la vista si fa man man offuscata.
Deve andare via, deve andare via.
Si guarda intorno e li vede continuare a sparare, è bloccato tra loro e i poliziotti e le vie di fuga a poca distanza da lui sono inaccessibili. Deglutisce a vuoto a causa della mancanza di saliva, ha la bocca asciutta e gli tremano le mani, gli è difficile tenere l’arma in mano; quella dannata maschera, inoltre, lo costringe a boccheggiare e si sente in trappola.
“È stata davvero una buona idea far parte dell’organizzazione?” domanda una terza voce a lui sconosciuta.
Riflette su quella domanda: è stata una buona idea?
Corre via più veloce che può non appena vede altri due fare lo stesso. Non vuole nemmeno sapere il motivo per cui scappano, li segue e basta.
Chissà se qualcuno sta urlando insieme ai demoni che lo perseguitano?
 
***
 
Si fermano tutti in un magazzino abbandonato. Hanno smesso di inseguirli, le sirene non si sentono, lui si è calmato e tutto sembra essere tornato alla normalità.
Aaron decide di indossare i suoi abiti normali come fanno gli altri ragazzi; lasciano sempre lì il cambio, in modo da poter tornare in città senza problemi. Si sfila la maschera, poi il passamontagna e infine la maglia indossata.
«Ma quanto è magro?» sente sussurrare, però ignora il commento del ragazzo. Myriad diceva che non era poi così magro: si vedono solo appena le costole, niente che lo renderebbe anoressico alla vista degli altri.
Indossa il solito felpone largo e nero, simile a quello di Incognita, poi si mette il collare scuro intorno al collo. Questo accessorio non era mai piaciuto alla sua famiglia, soprattutto ai gemelli, che dicevano che lo mettevano solo le poco di buono... e lui, per far loro un dispetto, aveva inserito nel suo outfit anche degli short di jeans e delle calze a rete.
Alla fine gli era piaciuto, ecco perché ancora indossa quelle cose. Forse non sono tanto maschili, forse non è per gente normale, ma lui normale non lo è più da tempo.
I suoi compagni ridacchiano, credono che lui non possa sentirli. Aaron pensa all’incoerenza dei “discepoli”: si battono anche per non far deridere nessuno e poi ridono di lui, del suo abbigliamento.
Nasconde la sua arma e i vestiti usati per la fuga; ora che ci riflette bene, anche Incognita è incoerente.
 
“«Sei qui per un motivo in particolare?»
«Mi annoiavo.»
La risposta del ragazzo con la maschera da Kitsune lascia Aaron privo di parole per replicare.
«Conosci il Killer delle Anime, Aaron?» chiede Incognita, anche chiamato X da molti. Il giovane coi capelli rossi annuisce, quindi X prosegue: «Bene, lo conosco e non al tuo stesso modo»
Ancora una volta non ha parole per lo stupore.
Il Killer delle Anime ha iniziato la sua “carriera” da serial killer a dodici anni e non era stato mai più catturato dopo la sua fuga dal manicomio; di anni dovrebbe averne sedici, uno in meno di lui. Sapere che Incognita conosce persone così pericolose un po’ lo inquieta, ma avrebbe dovuto aspettarselo.
«Se sono qui, divento abbastanza forte e abile da poterlo uccidere»
Aaron lo guarda, inarca un sopracciglio e appoggia la schiena alla parete della stanza del locale.
Il Killer delle Anime era in un manicomio, poi è scappato...” si dice mentalmente “... quindi ha sofferto, indirettamente è come noi e ci battiamo anche per lui. Perché vuoi ucciderlo, X? Ha sofferto anche lui. Non dobbiamo uccidere i nostri fratelli.”
«Non dovresti ucciderlo, no? Le regole dell’organizzazione... Lo dici anche tu...» inizia a parlare, guardandolo stranito, e subito viene interrotto.
«Noi siamo contro i manicomi e la pena di morte: se stiamo facendo una guerra contro la polizia e questo luogo di merda è perché non è giusto che esistano queste cose. Lui non c’entra in questa storia anche se lo stiamo in parte supportando» spiega l’Incognita. Gli occhi, dietro la maschera, sono puntati su un punto indefinito del pavimento.
«Vuoi salvare il Killer delle Anime dal manicomio e dalla pena di morte per poi ucciderlo tu, con le tue mani? Non è stupido?» domanda, sempre più confuso da tutta quella storia.
X fa spallucce, risponde dopo qualche secondo: «No, è vendetta. Io sono stato una sua vittima e anche se lui è stato a sua volta la vittima di qualcuno, non posso fargliela passare liscia... non posso, mi ha fatto troppo male.»
«Allora è inutile lottare contro queste cose, se poi tutti ci facciamo giustizia da soli ammazzando chi stavamo salvando...» commenta Aaron e neanche si rende conto di aver espresso a parole quello che stava pensando.
X fa finta di non averlo sentito. La pelle inizia a bruciargli ed ha l’impulso di chiudersi in un bagno e  strapparsela di dosso.”
 
La pena di morte: uccidere una persona che ha commesso una cosa grave, come omicidi o attentati. La vendetta: uccidere una persona che ci ha fatto del male.
Non sono più o meno la stessa cosa? Fai sì che un uomo abbandoni questo mondo in entrambi i casi e per lo stesso motivo: punirlo. Aaron crede in X, è la sua luce, l’unico cane pastore che seguirebbe in ogni dove... ma ora non lo capisce più. A ricordare quell’episodio, non capisce nulla.
Uccidere i poliziotti perché impiccano criminali non è punirli?
Stanno facendo le loro medesime cose in una ribellione che in fin dei conti non ha senso. Questo pensa Aaron, mentre s’incammina verso casa.
E allora perché è ancora lì, all’interno di quel branco di pazzi assetati di sangue?
Lo ha capito che non segue più le loro idee: non vuole più che venga abolita la pena di morte; non vuole più che vengano chiusi i manicomi; non vuole più uccidere per chiedere che altri non vengano ammazzati, o torturati, o stuprati, o umiliati. Non vuole più perché certe persone ragionano proprio come X e quindi tutto tornerebbe al punto di partenza.
“Perché sei ancora lì dentro, bimbo cattivo?”
Aaron abbassa lo sguardo sul marciapiede e vede Remezu, il demonietto poco più alto di cinquanta centimetri. Quello, anzi, quella, lo guarda con gli occhi da gatto privi di iridi e colmi di nero, tiene le lunghe orecchie rizzate sul capo tondo e poco proporzionato al corpo esile; le labbra dalla forma a zig-zag sono piegate all’insù, in una specie di ghigno, e il colore rossiccio della sua pelle risulta più caldo del solito se lo fissa.
Il ragazzo cerca di ignorarla, affretta il passo e infila le mani nelle tasche degli shorts di jeans grigi. Pur se non vuole farlo, riflette sulla risposta da dare a quella domanda.
Gli occhi cadono su una locandina abbandonata sul marciapiede. Aaron si china, la afferra e torna ritto con la schiena per leggerla: è la locandina di un circo che arriverà in città tra qualche giorno.
«Circo...» sussurra solo con apatia improvvisa.
Gli spettacoli dei suoi zii gli piacevano tanto.
Clown, giocolieri, mimi, funamboli, trapezisti, equilibristi, contorsionisti; li ammirava tutti così tanto, li adorava. E poi c’erano i numeri con gli animali, i numeri dell’orrore che facevano di solito i suoi zii preferiti – Aeges e Aegis –, c’era la vivace atmosfera di gioia e risate.
C’era il calore di una famiglia, c’era l’amore, c’era il vivere liberi e non bloccati in un appartamento: viaggiare di città in città, conoscere posti nuovi e persone sempre più diverse tra loro era bellissimo.
Aveva vissuto così fino ad un certo avvenimento.
“E poi ricordi cos’è successo?” chiese Remezu e lui strinse il pugno libero.
Myriad si stava esibendo con le sue sorelle e lui si era allontanato invece di aspettarla. Fu attirato dal rumore della musica proveniente da un locale vicino, dove c’era una festa.
Era entrato.
Non voleva farlo, Aaron si pente tanto.
L’aveva vista.
Aaron si sente mancare il fiato ancora una volta.
L’aveva fatta ubriacare così tanto...
Non doveva bere, non doveva farlo.
L’aveva toccata e non era riuscito a fermarsi.
Remezu ci teneva così tanto a fargli ricordare quell’orrore.
L’aveva presa con la forza e poi era andato via come un criminale.
“E poi, e poi? Lo so che te lo ricordi!”
Aaron accartocciò la locandina e la lanciò lontano, sotto lo sguardo allibito dei pochi restanti in strada al tramonto; dopo ciò che era successo al centro commerciale, tanta gente per strada non c’era.
“Non ignorarmi, bimbo cattivo. Sei stato punito anche tu.”
Il giorno dopo si era svegliato e aveva iniziato a sentire cose che nessun altro sentiva. Tre voci che dicevano cose assurde e senza senso. Poi dalle voci li aveva visti tutti e tre, demoni viziati, buffi e un po’ inquietanti; nessuno oltre lui, però, li aveva visti.
 
“«Mamma, non mi lasciano dormire! Non ci riesco!»”: questo gridava ogni mattina. Mostrava i graffi, i morsi, i lividi e la sua famiglia gli ripeteva che se li faceva da solo, che quei demoni non esistevano.
 
Era arrivata la diagnosi: schizofrenia con paranoia e insonnia. Era arrivato anche il costo dei farmaci.
Avevano dovuto vendere ogni cosa, stabilirsi in quel maledetto appartamento che gli aveva strappato le ali e tutta la voglia di continuare a vivere. Conobbe quella gente su Internet: si battevano contro la pena di morte, contro i manicomi, contro chi faceva del male agli altri... Ed era entrato perché si sentiva diverso.
Aveva bisogno di sentirsi compreso, di sentirsi accettato e di non essere trattato come un animale che ogni tanto si graffiava e si picchiava. L’Incognita lo aveva compreso fin da subito.
“Ecco perché resto ancora nell’organizzazione, ecco perché non sono ancora uscito. È lo stesso motivo per cui sono entrato” pensa e accenna un sorriso.
 
***
 
Aaron apre la porta di casa e la richiude alle sue spalle più veloce che può, per far sì che Remezu non entri; tutto si rivela inutile e sbuffa nervoso, ma poi sorride e allarga le braccia.
«Sono a casa, mamma! Sono a casa, capito? Scusa se ci ho messo tanto!» esclama allegro.
«Sta’ tranquillo, tesoro» dice una voce femminile proveniente dal salotto, una stanza poco più avanti all’ingresso, sulla destra; «L’importante è che tu non abbia fatto guai!»
Lui ridacchia, fa qualche passo verso il salotto e si ferma sulla soglia della porta aperta.
«Mi conosci, non farei mai guai» mente, giusto per rassicurare la donna dalla voce calda e dolce.
Myriad non accenna ad andargli in contro: resta nel salotto, neanche si volta verso la figura del figlio adottivo e questa volta nemmeno risponde. Aaron crede che non sia tanto convinta e come darle torto? Non si fida nemmeno di lui. X si fida, invece. Gli crede sempre e non fa mai storie.
Rotea gli occhi grigi al soffitto e lascia quella zona, si dirige in camera sua con passo lento.
«Vado ad usare il pc, mamma, se ti serve qualcosa basta chiamarmi. Okay?» le dice nel frattempo che cammina e la risposta, un “Va bene, non preoccuparti!”, non tarda ad arrivare.
Si chiude nella sua stanza una volta che la raggiunge, si siede alla scrivania e accende il computer. La prima cosa che fa è entrare nella chat del gruppo e leggere i messaggi: il capo si lamenta dell’omicidio dell’uomo, forse è meglio che non scriva nulla e resti solo a osservare che succede.
_xParanoiax_ è online, ma come lui non scrive. Aaron si domanda se può mandargli un messaggio privato: X con lui è sempre stato gentile, magari avrebbe potuto confidare che tutto quel casino era opera sua.
Tiene la mano sul mouse, con la freccetta del monitor clicca sul nickname del compagno e fa per digitare un messaggio, quando ne riceve uno proprio da parte sua. Stranito per il tempismo, lo legge: “Hai fatto un danno, cretino?”.
Aaron fa un mezzo sorriso e risponde di sì, poi gli chiede come ha fatto a indovinare che è stato lui a uccidere quell’innocente.
La risposta di X/Incognita/Paranoia gli fa sgranare gli occhi: “Solo un malato che parla col cadavere della madre potrebbe commettere un simile errore”.
 
“«Non sono uno schizofrenico, cazzo! Perché non lo capisci!?» aveva gridato Aaron.
Myriad aveva le lacrime agli occhi e il viso stanco.
«Se solo ti facessi aiutare... Se solo tu accettassi che...» aveva parlato titubante la donna con un filo di voce.
Non era riuscita a concludere il proprio pensiero, che il figlio aveva afferrato un coltello da cucina e l’aveva colpita nell’incavo del collo. Non si era fermato alla disperata fuga di lei, non si era fermato alle sue grida e l’aveva uccisa, continuando a colpirla nei più svariati punti anche dopo che Myriad esalò l’ultimo respiro.”
 
Aaron è offeso: il suo idolo ha osato definire sua madre un cadavere. Ah, non sa che in realtà Myriad è viva e gli parla ogni giorno... solo che è tanto triste e si era fatta male durante un litigio di giorni fa, quindi non usciva più di casa come un tempo! Quelle mosche sono in casa perché continua a lasciare la finestra del salotto aperta. È proprio sbadata, sua mamma.
Arriva un nuovo messaggio da parte di Incognita: “E solo uno che ha bisogno di comprensione per sfogare la sua pazzia potrebbe essere un mio fidato aiutante. Giusto, agnellino?”.
Agnellino: è la prima volta che si sente chiamare così e la cosa non gli piace. Contrae il viso in un’espressione stizzita, accanto al monitor del computer appare Remezu a braccia conserte e lui la guarda, trattenendosi dal dirle di andar via.
«L’agnello, caro bimbo cattivo, simboleggia debolezza, sottomissione, dipendenza dal proprio pastore e la totale obbedienza verso i suoi confronti. Certe volte simboleggia il sacrificio!»
Remezu spiega con malignità, quasi a volerlo deridere. Gli dice in modo indiretto che X crede di averlo come burattino e che se parla con lui, è solo per assicurarsi fedeltà e obbedienza; non lo tratta come un cane, ma come un agnello. E probabilmente, per Aaron si sta avvicinando il periodo del sacrificio.
Il ragazzo sospira, poggia i gomiti sulla scrivania e si prende la testa tra le mani.
Chi è il buono? Chi è il cattivo?
Quale sarebbe la cosa giusta da fare?
Il ronzio proveniente dal salotto lo infastidisce così tanto che stringe forte alcune ciocche di capelli, quasi a strapparle. Vuole mandarle via, vuole mandarla via, vuole far zittire il computer che fa rumore ad ogni messaggio che continua a inviargli l’Incognita.
«Non sono l’agnello di nessuno», replica convinto, strizza gli occhi per il dolore alla testa che tutti quei rumori gli causano.
«Hai detto e pensato che X è l’unico cane che seguiresti in ogni dove,» Remezu ridacchia «sono le pecorelle che seguono i cani. O in questo caso, i lupi. Sei una pecorella smarrita che si è trovata davanti un lupo e ha iniziato a considerarlo al pari di un cane, senza ricordarsi che c’è una minima differenza tra i due animali»
Aaron vorrebbe zittire tutto e tutti. Strappa dei capelli, poi scende a schiacciarsi le orecchie con i palmi delle mani e si accorge che stare con gli occhi chiusi gli fa venir voglia di dormire; è costretto a riaprirli e a trovarsi faccia a faccia col suo incubo peggiore, immerso nel buio più totale.
«Il lupo ha simbologie positive e negative. Tra quelle positive abbiamo protezione, libertà, coraggio di affrontare le proprie paure e furbizia...»
X gli aveva – e gli ha – dato libertà, coraggio e protezione, ecco perché aveva iniziato a vederlo come un idolo e ad accettare ogni cosa che dicesse: solo ora capisce quanto è stato dannatamente stupido e ingenuo.
«... tra quelle negative abbiamo una pericolosa tentazione e il trasgredire alle regole. Tutto combacia, bimbo!»
E Remezu ride ancora.
Aaron è l’agnello caduto nella trappola del lupo affamato.
 
“«Mamma, ma lo sai che è proprio bello viaggiare? Fa sentire così liberi!»
Un bambino balza sulla panchina di un marciapiede e allunga le manine verso il cielo, alzando il capo per guardare il cielo limpido con gli occhi di un azzurro vivo. La mano di sua madre gli carezza con dolcezza i capelli, gli angoli delle labbra si sollevano in un sorriso.
«Continueremo a viaggiare, non è così? Per sempre!»
Myriad ride divertita a quella frase, ma si affretta a rispondere: «Oh, Aaron, che domande! Niente ti strapperà le ali, piccolo mio, e continueremo a viaggiare insieme»
Aaron le salta in braccio e la donna lo prende al volo, lo stringe al suo petto, poi lo coccola come solo una mamma sa fare. Lui si bea di quei dolci tocchi, contento e spensierato, sognando un futuro che vede rose e fiori.”
 
Una lacrima gli solca una guancia e s’infrange sulla scrivania.
Nessuno gli avrebbe strappato le ali e avrebbero continuato a viaggiare insieme.
Era stata tutta una bugia? Qual è la realtà, sempre se ne esiste una?
Aaron si alza, si avvicina alla finestra e la spalanca, poggia le mani sul davanzale tenendo gli occhi alzati al cielo.
Vuole sentirsi di nuovo libero, vuole poter respirare, vuole chiudere gli occhi e dormire, vuole smettere di sentirsi fuori luogo e smettere di essere manipolato senza poter reagire.
Non vede altra soluzione, se non quella di raggiungere la pace.

Se siete arrivati fin qui, complimenti. Se avete vomitato sono pronta a risarcirvi... *si dimentica di avere solo trenta centesimi nel portafoglio* ... in qualche modo...
Ripeto che non intendo istigare alla violenza e mi dispiace per il finale confusionale. Anzi, che dico, tutta la storia è confusionale! Purtroppo era il mio primo scritto con questo personaggio e ha la mente leggermente incasinata... poi niente è come sembra, ma sto zitta o rivelerei troppe cose su questo personaggio. Su X, Incognita, come volete chiamarlo voi, non si sa molto invece e non credo si saprà mai.
Spero che ci sia qualcosa di decente, anche solo l'1%. Grazie a te, lettore, per aver raggiunto la conclusione!
-Kira *manda un abbraccione virtuale*
 
 
   
 
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