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Autore: Enchalott    19/09/2018    5 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le tue ali
 
Le stelle sfavillavano nel buio adamantino del limite del deserto, importunate nel loro struggente chiarore solo dal riverbero tenue delle braci dei fuochi, che stavano ormai languendo.
Le montagne erano un muro non più lontano, schiaffeggiato dai bagliori sbuffanti del temporale che infuriava sulle vette imponenti. Il boato del tuono echeggiava, rimbalzando sui versanti di pietra per poi perdersi in un mormorio nell’immensità sottostante.
L’aria si era fatta fresca, ma non si trattava della consueta escursione termica propria del confine delle sabbie. Era qualcosa di ulteriore, di inopportuno, di eccessivo. Di sbagliato.
Era il mondo che slittava verso la sua fine.
L’accampamento era silenzioso e modesto: solo tre padiglioni di tela chiara impermeabile, destinati agli uomini della spedizione, che si dividevano i turni di veglia, e uno in cui si erano ritirati Adara e Aska Rei.
I soldati avevano spalancato gli occhi e si erano messi a parlottare, quando la loro principessa aveva palesato che avrebbe condiviso il suo riparo con il fascinoso comandante, ma questi li aveva annichiliti con un’occhiataccia. Con lui c’era poco da discutere e, soprattutto, da scherzare. La malizia, in fondo, era per i malpensanti: il giovane trattava da sempre la campionessa del Regno come se fosse una sorella minore ed era stato il suo insegnante per anni. Non era così insolito che non volesse perderla di vista neppure per un secondo, in quel luogo desolato e popolato solo da giovani uomini. La sua espressione severa aveva troncato quelle inutili chiacchiere, mentre abbassava le spesse cortine dell’entrata.
Le sentinelle impugnavano le armi e spingevano lo sguardo ormai stanco nell’oscurità, attendendo con impazienza l’avvicendamento stabilito.
Poco discosto, dormiva l’Aethalas con l’arco posato al fianco. Aveva rifiutato con garbata fermezza di spartire il giaciglio con gli altri e si era arrangiato, costruendo rapidamente una tenda aperta, composta di stoffe incrociate alla maniera della sua tribù. Indifferente alla curiosità altrui e indecifrabile.
Quella sera non aveva rivolto la parola a nessuno ed era rimasto per conto suo a snellire a colpi di pugnale il legno per le aste delle sue agili frecce. Gli uomini lo avevano squadrato, un po’ infastiditi da quell’atteggiamento, senza decidersi se considerarlo disprezzo nei loro riguardi oppure semplice riservatezza.
Solo Adara era riuscita a cavargli la voce, quando gli aveva portato un piatto colmo di lepre arrostita e di radici dolci e gli si era seduta vicino, sul telo variopinto che usavano i nomadi nelle loro soste.
L’arciere si era levato in piedi di scatto, inchinandosi, schermendosi e scusandosi sentitamente per essersi fatto servire la cena dalla principessa di Elestorya; lei si era messa a ridere, sottolineando che in quella missione era soltanto un membro scelto. Lui era rimasto eretto e si era nuovamente accomodato solo dopo ripetuti inviti.
I soldati avevano provato una fitta d’invidia nel vederlo consumare il pasto accanto alla ragazza e persino Aska Rei aveva sollevato un sopracciglio, notevolmente contrariato, quando l’aveva sentita affermare che il guerriero del deserto avrebbe potuto rivolgersi a lei chiamandola per nome, rinunciando alle formalità.
Una folata più intensa di vento fece schioccare la stoffa morbida delle tende e attizzò le braci, che rosseggiarono nel buio come occhi demoniaci.
Poi, all'improvviso, un urlo squarciò la serenità apparente della notte.
Adara balzò a sedere, portando la mano alla spada e scorgendo che il comandante era già in piedi con la lama snudata in pugno.
“Non ti muovere!” intimò lui, precipitandosi fuori.
“Aspetta, Rei!”
Lei si infilò rapidamente gli stivali e lo seguì borbottando, tuffandosi a sua volta nell’oscurità.
 
I soldati, accorrendo concitati, sollevarono contemporaneamente le fiaccole e il buio si vestì di lingue di fiamma vorticanti e crepitanti. Il piccolo spiazzo sabbioso riprese un po’ del suo colore, mentre tutti si guardavano turbati senza capire.
Non c’erano intrusi a prima vista e neppure eventuali belve feroci.
“Che cosa sta succedendo?” domandò Aska Rei, facendosi avanti, la casacca sbottonata sul petto, i capelli neri sciolti sulle spalle. Si allacciò la cintura ai fianchi e il fodero decorato alla gamba. Il fuoco si riflesse sul suo viso abbronzato.
Narsas gli si affiancò, gli occhi scuri assottigliati e attenti che riflettevano la luce delle torce, l’arco alla mano e la faretra in spalla. Si spostò una ciocca ribelle dietro un orecchio e il lungo pendente color sangue scintillò nelle tenebre.
Gli uomini si fissarono l’un l’altro, dubbiosi. Erano solo in nove.
“Non vedo Chara Lyne!” gridò qualcuno.
“E’ vero!” fece eco un’altra voce.
Il nome dell’assente venne gridato e ripetuto nella notte, ma ai richiami rispose solo un silenzio inquietante.
Il tuono ribadì la sua opinione, in lontananza.
“Con chi era?” chiese il capitano della Guardia.
“Con noi, signore! Ma la tenda è vuota!”
“Cercatelo!” ordinò lui “Tutti gli altri stiano bene in vista! Tenete alte quelle torce!”
Adara avanzò alla luce danzante, sollevando a sua volta un tizzone ardente.
“Ti avevo detto di restare là dentro!” ringhiò Rei con disappunto.
“Un paio d’occhi in più possono fare comodo!” rispose lei con pari grinta.
“Non discutere i miei…” continuò il giovane, accigliandosi.
“Non è opportuno lasciare sola la principessa, comandante” intervenne Narsas “La notte è infida nel deserto, dobbiamo rimanere tutti in vista. Non sappiamo che cosa sia successo e il buio non gioca affatto a nostro favore”.
Aska Rei aggrottò la fronte, alquanto seccato, ma dovette riconoscere che l’arciere aveva ragione. Assentì con un rapido cenno del capo, concedendo alla ragazza di accompagnarlo nell’ispezione, prendendola per un braccio con fare protettivo.
“Niente iniziative…” sottolineò severo.
“Ti seguo” rispose lei.
Narsas non si mosse, impassibile come sempre.
Qualcosa di sottile e flessuoso si spostò agilmente nella sabbia, luccicando lievemente sul terreno, scuro e letale, quasi inafferrabile. Si insinuò tra gli sterpi rinsecchiti e i sassi in direzione del fuoco, con le pupille fessurate che saettavano gelide in tutte le direzioni. Sibilò minaccioso e quel soffio animalesco si confuse con il clamore generale.
L’Aethalas sussultò e si girò, certo di ciò che il suo udito sensibile e allenato aveva captato, incoccando rapido una freccia. Il suo sguardo scrutò nell’oscurità, pronto a snidare il nemico sleale che li aveva aggrediti nel sonno.
“Narsas!” gridò Rei, scorgendo il movimento improvviso dell’arco, incerto sulle intenzioni del suo proprietario. Si mise in difesa, fronteggiandolo.
La corda si tese tra le dita forti del guerriero del deserto, che puntò lo strale nella sua direzione, implacabile. Il comandante si parò difronte a Adara, facendole da scudo e preparandosi al duello. La principessa non ebbe neppure il tempo di pensare.
Il dardo partì schioccando, in un fischio sottile, e si abbatté a pochi passi dai loro piedi con un suono ovattato. Qualcosa scricchiolò e soffiò.
Adara osservò la scena come in trance e si riscosse solo quando Aska Rei la prese per la vita e la spostò di peso di qualche metro, trattenendola col braccio.
“Ma che diavolo…!” esclamò il capitano, fissando il suolo, inorridito.
Un orchya color antracite si contorse ancora per qualche istante intorno alla freccia che l’aveva centrato, con le scaglie lucide e nere che pulsavano, mostrando i denti ricurvi e stillanti, poi si irrigidì definitivamente.
Il serpente più letale delle dune. Significava morte certa e dolorosa.
Narsas abbassò l’arma e si concesse un sospiro di sollievo, le iridi scure che bruciavano d’ira. Vide le tracce leggere dell’animale disegnate nell’argilla. Ce l’aveva con se stesso: avrebbe dovuto notarle prima. Sarebbe bastato un attimo di esitazione e l’aspide avrebbe mietuto la sua vittima. Forse, aveva già agito una volta ed era troppo tardi per l’uomo che mancava all’appello. Sollevò lo sguardo e i suoi occhi incontrarono quelli spalancati di Adara.
“Oh, cielo!” esclamò lei atterrita, scorgendo la bestia venefica attorcigliata nella sabbia “Non avrei mai pensato di trovare un orchya anche qui sotto le montagne…”
“Infatti è così” disse Rei tra i denti, aggrottando la fronte, insospettito.
“Ma allora, come…” sussultò la ragazza, visibilmente scossa, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quella morte strisciante che li aveva lambiti.
“Come? Qualcuno ce l’ha portato!” concluse il capitano, la collera nella voce “E lo ha fatto di recente. Quel rettile non sarebbe sopravvissuto un giorno da queste parti. Ha attaccato perché era furibondo fuori dal suo territorio, affamato e aizzato dal clima non familiare…”
Narsas si voltò verso il comandante della Guardia, appoggiando l’estremità dell’arco a terra, soppesando quelle parole come un’allusione ben poco implicita.
“Che cosa state insinuando?” domandò, scuro in volto.
Aska Rei avanzò nella sua direzione, stringendo la spada ancora sguainata.
“Come hai fatto a vederlo? Rispondi!”
“Sapevo che cosa cercare!” ribatté l’arciere, senza farsi intimidire.
“Ma davvero!?” rincarò il primo.
“Sì. Non l’ho visto, per essere precisi. L’ho sentito sibilare… da quello ho dedotto la sua presenza e l’ho cercato”.
“E tu pensi che io ti creda?”
Narsas alzò le spalle e sorrise in segno di sfida.
“Non importa quello che credete voi. Ma abbiate ben chiaro che io non sono un idiota. Se avessi voluto nuocere a qualcuno, non sarei stato così sciocco da usare un orchya. Sono un Aethalas e vengo dal luogo in cui vivono quelle creature, sarebbe stato come firmare l’atto, non vi pare?”.
“Oppure hai agito per la logica degli opposti, in modo da allontanare i sospetti…” sogghignò Rei a sua volta.
“Adesso basta!” sbottò Adara, stanca del battibecco “Se iniziamo ad accusarci a vicenda senza prove, mandiamo a monte la fiducia e la coesione del gruppo! Uno dei nostri non si trova, quella è la priorità!”
L’arciere si inchinò leggermente, grato per quella intromissione. Il capitano, invece, fece per obiettare, ma fu interrotto dal richiamo dei suoi uomini.
“Comandante! Da questa parte, presto! L’abbiamo trovato!”.
 
 
 
Shion cavalcava. Veloce come il vento freddo che gli sferzava il viso. In quello era abile: stare in groppa per ore, senza provare stanchezza.
Ancora non si rendeva conto della direzione che aveva imboccato, il che era una sensazione terribilmente familiare. Non quella fisica, nella quale lo stallone pomellato si librava veloce e sicuro, al galoppo sugli zoccoli ferrati. I sussulti elastici dell’animale in corsa sul terreno accidentato lo cullavano e lo estraniavano da una realtà sgradevole, che lo dilaniava sempre più in profondità.
Lontano da quello che avrebbe dovuto essere il luogo che gli era caro. O forse, proprio perché gli era caro, stava allontanandosene il più in fretta possibile. Più probabilmente, la sua corsa non era dovuta a nessuna delle due opzioni. Si sentì egoista e preda di un’ignavia infamante, che lo aveva portato sull’orlo del baratro da cui stava fuggendo. Oppure era già piombato nell’abisso e stava precipitando inesorabilmente anche in quel momento, senza conoscere la distanza che lo separava dal fondo.
Avvertì la pressione del diadema sulla fronte; lo sfiorò con le dita e si sentì alla stregua di un ladro. Avrebbe dovuto lasciarlo a Erinna, invece aveva dimenticato di indossarlo in quell’attimo in cui qualcosa in lui si era definitivamente spezzato ed era corso fuori dal palazzo reale, inconsapevole del fatto che il prezioso gioiello gli fosse compagno nella partenza impulsiva.
Avrebbe dovuto riportarlo al suo posto, ma il pensiero di fare dietro front e scontrarsi con la concretezza della morte cui aveva assistito era insopportabile.
Non lo voleva, non l’aveva mai desiderato; se c’era in lui una certezza, era il fatto che una parte del male insita nel creato fosse esclusiva responsabilità di quel monile. Sua e del suo gelido gemello custodito al Nord.
Non ricordava più se tale convinzione fosse venuta dalla sua mente o se fosse stato qualcun altro a persuaderlo. Era confuso e stanco. Aveva paura. La Profezia era un fiume infernale in piena che non si poteva più arrestare, perché era dilagata ovunque. Forse avrebbe dovuto parlarne con suo padre al momento opportuno, ma ormai era tardi. Tardi per tutto. Tardi per se stesso.
La strada polverosa si perdeva tra le rocce, come un canale scolpito nella pietra antica e il chiarore morente del tramonto non gli consentiva quasi più di orientarsi.
Il fruscio degli alberi poco lontani gli chiarì il percorso, fornendogli un indizio sul dove fosse in quel momento. Tirò leggermente le redini e fece rallentare il destriero, che sbuffava e schiumava a causa della corsa prolungata cui era stato costretto.
Era la via che portava al Pelopi, il mare che divideva una parte dei confini dei due Regni. Non era una zona sicura, ma paradossalmente lì si sentiva più tranquillo rispetto a quando aveva abbandonato la capitale.
Le prime stelle iniziarono a rilucere, salutando il sole calante. Assomigliavano a sua sorella nel loro delicato splendore.
Gli occhi terrorizzati e impotenti di Dionissa lo avevano scosso ancor più del fatto di essere stato, suo malgrado, latore di quella maledetta boccetta di veleno. Ancor più del vedere la vita spegnersi crudelmente e fuggire da un altro essere umano, che non aveva fatto nulla per meritare quella fine agghiacciante.
Aveva mentito, garantendo che avrebbe indagato sul delitto; aveva imboccato un passaggio secondario ed era fuggito come il peggiore dei codardi. Lui, che avrebbe dovuto un giorno governare Elestorya, aveva preferito l’oblio. Avrebbe voluto odiarsi di più per aver compiuto quell’atto, tuttavia non ne era in grado. Strenuamente tentava di auto fornirsi una ragione plausibile e necessaria.
Allontanarsi dal Sud era stato il primo passo. Il secondo, sarebbe stato quello di liberarsi dai suoi fantasmi e, per raggiungere quell’obiettivo, sarebbe stato fondamentale sparire senza lasciare traccia, per sempre. Senza rimpianti.
Forse, non era stato un caso quello di aver inconsapevolmente recato con sé le Tre Gemme. Forse, anche quel diadema avrebbe dovuto raggiungere la dimenticanza definitiva insieme con lui.
L’immagine di sua madre, che realizzava la sua assenza, lo investì con furia: la regina era una donna forte. L’avrebbe cercato e non si sarebbe rassegnata, ma avrebbe resistito al dolore. Ne era convinto.
Il cavallo procedeva al passo, mentre il crepuscolo rubava la luce al giorno che finiva, in un cielo privo di luna. Presto, avrebbe dovuto fermarsi.
Inevitabilmente, pensò a Adara, che viaggiava verso Iomhar con sulle spalle il peso che lui non era stato in grado di reggere nemmeno per sentito dire. Con il solo Crescente a vegliare sulla sua giovane esistenza. Tutto il resto era inutile a fronte di quel rischio spaventoso cui andava incontro. Un azzardo che lui conosceva bene.
Avrebbe dovuto aiutarla, ma che cosa avrebbe potuto fare un vile come lui, se non metterla ulteriormente in pericolo?
Il purosangue si impennò improvvisamente e Shion d’istinto strinse le ginocchia, per non essere disarcionato. Tirò le redini e si bilanciò sulle staffe, tentando di placare l’animale, che scartava e nitriva roteando gli occhi, terrorizzato.
“Ma che ti prende…” esclamò, guardandosi intorno senza distinguere nulla.
Forse un animale notturno aveva tagliato la strada al quadrupede, che si era imbizzarrito. Però era strano. Un cavallo come il suo era addestrato al peggio e certo non si faceva impressionare per così poco. Eppure, continuava a indietreggiare, piegando le zampe posteriori, desideroso di fuggire da lì.
Poi la vide.
L’ombra che si generava dall’ombra, più tetra della notte, come fumo nero e sfilacciato che prendeva mostruosamente corpo. Era lì, ma non era lì, era pericolosa magia. Una forma ingobbita, che gli si parava difronte con esiziale e inesorabile flemma. Sotto la trama scura che la velava, gli occhi della creatura si accesero come carboni ardenti.
Il giovane sguainò la spada, pur sapendo che era perfettamente superfluo.
“Chi sei? Che cosa vuoi da me!?” gridò.
L’essere emise un gorgoglio, che somigliava a un dirupo franoso più che a una risata e alzò una manica nella sua direzione. La lama si piegò e si sciolse come burro.
Shion mollò la presa sull’elsa prima che il calore potesse ustionarlo.
“Ben trovato, principe di Elestorya…” soffiò quell’aldilà reso uomo.
“Non… non è possibile…” balbettò lui in un suono soffocato “Non puoi essere tu… non qui, non adesso…”
L’oscurità oscillò e le braci che lo fissavano senza pietà si intensificarono.
“Se sai che sono io, comprendi anche che posso essere dove desidero” rispose roca la voce “Piuttosto tu, reggente del Sud, dove stai andando con tanta fretta?”
Shion esitò prima di scegliere una risposta che l’interlocutore conosceva già. La domanda era retorica. Un tuffo al cuore gli restituì la totale coscienza di ciò che stava facendo: scappava. Di ciò che non avrebbe mai dovuto fare: scappare. Dell’intero sé davanti a sé. Di ciò che gli aveva sbarrato la strada.
Raccolse le energie residue, cercando quel coraggio che non gli apparteneva.
“Ho creduto di poter andare lontano, di dileguarmi come unica possibilità contro la rete che si è tesa su di me. Ho permesso che accadesse e il rimorso mi ha spinto fino a qui. Ma ora mi accorgo che la sola via è quella di tornare indietro a casa mia, dai miei cari… perciò rientrerò a palazzo, parlerò con mia madre e con mia sorella, domanderò il loro aiuto come sinora non ho avuto il cuore di fare…”
“Mossa sbagliata, altezza” sogghignò l’ombra “Tu seguirai me perché non hai scelta”.
“Ce l’ho invece! Non riuscirai a impedirmelo!”
La creatura piegò il capo, studiando attentamente il ragazzo che gli stava difronte. Un predatore senz’anima che si preparava a ghermire la preda.
“Allora vai. Non ho intenzione di sprecarmi per te. Racconta tutto. Di’ alla tua famiglia chi sei davvero e che cosa hai creato con le tue scelte, ucciditi con le tue stesse mani. Saranno felici di conoscere i tuoi segreti e ti accoglieranno a braccia aperte”.
Shion esitò, considerando le conseguenze che avrebbe comportato quell’atto di ammissione. Fissando più l’indietro che l’avanti.
“Loro… loro capiranno…”
“Indubitabilmente” esalò la figura scura, sferzante d’ironia “Ti perdoneranno e ti ameranno come prima. Anzi, continueranno a fidarsi di te più che mai”.
Il principe sgranò gli occhi, mentre le sue certezze andavano in frantumi e il senso di colpa prendeva drasticamente il sopravvento.
“Io…” mormorò, mentre le lacrime fuggivano dai suoi occhi desolati.
L’ombra rise, un sibilo trionfante e agghiacciante, che certificava la vittoria assoluta sulla coscienza incrinata e fragile del giovane. Inferse il colpo di grazia più per soddisfazione personale che per necessità.
“Tua sorella Dionissa morirà. Il suo lento spegnersi è connesso all’apocalisse che vi aspetta e non le lascerà scampo. Tua sorella Adara morirà. Il sovrano del Nord non perdona… Anthos è malvagio e non esiterà a farle del male per ottenere ciò che brama. Tuo padre morirà. Gli Aethalas lo riterranno responsabile di ciò che avrà luogo e crederanno di fare giustizia. Tua madre morirà, ma solo dopo aver provato la sofferenza che tu vorresti infliggerle con la tua tardiva quanto inutile confessione, cui seguiranno le realtà che ti ho elencato. La verità è, principe Shion, che io sono la tua unica possibilità. Io sono in grado di sventare la Profezia. Se ciò avverrà, sarete salvi. Quindi, tu e quel diadema verrete con me. A te la scelta. Permettere o scongiurare la fine”.
Il giovane portò la mano al pugnale e lo estrasse, tremando. Se lo puntò al petto.
La figura incappucciata scosse la testa, divertita e implacabile.
“Ma sì, ucciditi pure. Sii il vigliacco che tutti conoscono. Giocati l’unica chance di fare qualcosa per chi dici di amare. Io non ho niente in contrario”
Shion si abbandonò a quella voce. Si tolse il diadema dalla fronte e le Tre Pietre scintillarono mestamente a lutto.
L’oscurità avanzò e li prese entrambi.
 
 
 
Eudiya si diresse rapidamente verso la torre che affiancava il lato meridionale del palazzo. Aveva abbandonato gli abiti lunghi e fluenti, indossando un paio di pantaloni aderenti e un’ampia casacca di lino lavorato, fermata in vita da un foulard dorato. Era il perfetto ritratto di una guerriera Thaisa, con i capelli raccolti nella lunga treccia scura ornata di sete, i polsi ricoperti da spessi bracciali di cuoio e il pugnale allacciato al fianco.
Gli stivali alti al ginocchio ticchettarono sui gradini, mentre percorreva la lunga scala che portava al solaio aperto dove, nottetempo, dormivano gli strik.
Aveva retto con coraggio il duro colpo della malattia di Dionissa, pregando Amathira per lei e imponendosi di non perdere la speranza. Aveva accettato la scelta di Adara, consentendole il rischioso viaggio a Jarlath, arginando i propri sentimenti di madre a favore del bene comune. Aveva fatto buon viso alla prigionia di Stelio, mettendo la sicurezza e l’unità del regno davanti all’amore per suo marito, certa che lui l’avrebbe approvata.
Poi, Shion era svanito nel nulla e quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. La sua improvvisa scomparsa e la morte orribile di Toula, il male che si era insinuato nelle stanze più remote della sua casa non erano accettabili. Non giustificabili. Che lo desiderasse o meno, erano in guerra. I suoi abiti non erano altro che l’esternazione di quella realtà.
Non in conflitto con gli Aethalas in particolare, ma con qualunque cosa avesse deciso di attaccarli. Il tempo delle esitazioni era decisamente concluso.
Gli strik appollaiati pigramente sui loro trespoli si voltarono nella sua direzione, sbattendo gli occhi tondi e aprendo leggermente i becchi adunchi, come un saluto silenzioso alla regina umana che comprendeva il loro linguaggio.
Eudiya si avvicinò al più maestoso di essi, che aprì le ali e le volò sul polso teso.
“Azhulio” disse con dolcezza, fissando lo sguardo in quell’argento liquido “Più che mai, ora, ho bisogno del tuo aiuto. Delle tue ali”.
   
 
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