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Autore: _EverAfter_    24/09/2018    1 recensioni
Otto anni prima.
Iwatobi Swimming Club.
Haruka e Makoto frequentano le elementari. Nagisa è il solito demente. Rin è ancora incastrato alla Sano.
Nel club c'è una bizzarra bambina che nuota a stile libero.
E' distratta. Imbranata. Ha due occhi diversi l'uno dall'altro. Insomma, sembra uscita da uno di quei racconti sugli yokai.
Haruka, tra tutti, non la sopporta; è chiassosa, invadente e priva di tatto. Così diversa da lui.
Ma la vita cambia sempre, e quando la sua antitesi si trasferisce, tutto sembra tornare alla normalità.
Tutto, tranne lui.
Otto anni dopo.
Rin, di ritorno dall'Australia, non è più lo stesso.
Haruka e Makoto frequentano le superiori. Nagisa anche, ma rimane comunque il solito demente.
Un nuovo sogno. Una nuova avventura. Un nuovo club. Un componente che invece di fare atletica si da al nuoto senza sapere come rimanere sul pel d'acqua...
... E due occhi dai differenti pigmenti che si posano sull'insegna dell'Iwatobi High School.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haruka Nanase, Makoto Tachibana, Nuovo personaggio, Rin Matsuoka
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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PROLOGO





    «A me piace il tuo nome.»
    Di tutte le cose che avrebbe potuto dire, quella era di certo la più stupida.
    Non che avesse mai pensato che lei fosse intelligente, al contrario: la maggior parte delle volte aveva creduto fosse debilitata cerebralmente. Certo, era sempre stato ben attento a non dirglielo.
    Sospirò.
    Ogni giorno, finiti gli allenamenti, doveva sorbirsela per un’intera ora, prima che il fratello venisse a prendersela. Si chiese spesso cosa provasse un ragazzo grande come lui a sopportare un continuo terremoto di bambina.
    Per questo era contento d’essere figlio unico.
    La fissò infastidito: s’era sempre sentito orgoglioso del suo modo di interagire col mondo, come se niente potesse sfiorarlo. Eppure, con lei era diverso: lo innervosiva come neppure i suoi erano in grado di fare. S’era chiesto spesso il motivo, ma non vi aveva mai trovato una spiegazione; non era una sorpresa che avesse smesso di pensarci.
    «Ho un nome da femmina, baka.» Ben le stava. Forse avrebbe finalmente capito quanto fosse meglio lasciarlo perdere. Ad uno come lui non era mai piaciuto parlare.
    La vide abbassare lo sguardo e prendere a strusciarsi un piede contro l’altro, dando vita ad un fastidioso strofinio. Stava per dirle di smetterla, quando un’improvvisa risata gli giunse alle orecchie, bella e piena di vita.
    Lo fissò e per un istante si sentì smarrito, senza sapere cosa gli stesse per dire. Stava sorridendo, con quella bocca priva di due denti come spesso capita quando si è ancora bambini.
    «E che importa se è da femmina?» gli domandò infine, sghignazzando. «È sempre un bel nome.»
    Voleva prenderla a schiaffi, ma sapeva che certe cose non si fanno, tantomeno su una bambina. Eppure non la sopportava. Decisamente non la sopportava.
    Scattò in piedi, serrando i pugni nelle mani. «Ti diverti a dire cose senza senso?»
    Non gli rispose, ma rimase a fissarlo con i suoi occhi strani, quegli occhi che tanto gli facevano paura – perché diavolo aveva quegli occhi?
    «Smettila di fissarmi!» le sbraitò contro, distogliendo lo sguardo. Sentiva il suo volto imporporarsi. Avrebbe volentieri voluto lasciarla lì, ma il coach Sasabe si sarebbe arrabbiato e gli avrebbe fatto una bella lavata di capo. Ci mancava solamente quello.
    Immerso com’era in quei pensieri, non s’era accorto che la bambina si era alzata, incamminandosi verso il fratello che, in lontananza, correva per raggiungerla. Odiava quel modo di fare, come se non vi fosse mai qualcuno con lei. Come se fosse autorizzata a non dover mai ascoltare nessuno.
    Sbuffò. Almeno per quella giornata sarebbe finita lì.
    La osservò mentre si voltava verso di lui un’ultima volta; il sorriso che vide non era lo stesso delle altre volte. Per un istante, si sentì privato di qualcosa di importante.
    La bambina chinò rispettosamente il capo verso di lui. Quando lo rialzò, si sorprese di vederle spuntare attorno alle palpebre delle piccole gocce d’acqua: lacrime che non si addicevano per niente al suo sguardo sempre spensierato.
    «Mi ha fatto piacere conoscerti, Nanase-kun.»
    Sbarrò gli occhi, mentre la guardava andare via.
    Non la vide, il giorno dopo. Né quello dopo. Né quello dopo ancora.
    Si sentiva sollevato, davvero. O almeno credeva .





    «Ohi, Haru! Ma che diavolo fai!?» Quel bambino era decisamente incazzato. Era la quarta volta che, nuotando, invadeva la sua corsia.
    «Scusa.»
    «Scusa?!» Si sentì afferrare per gli occhialini attorno al collo. «Stai dormendo?!»
    Non lo ascoltava davvero. L’infante continuava a scuoterlo, ma lui stava guardando da tutt’altra parte.
    Guardava l’ingresso principale. La porta degli spogliatoi. Le uscite di sicurezza.
    Non vi erano altre entrate. Strinse i denti.
    «Ho capito» sbottò infine, schiaffeggiando via la mano che lo scrollava bruscamente. «Non c’è bisogno che t’innervosisci così.»
    Il tono della sua voce era calmo come sempre, ma dentro di sé qualcosa gridava. Non riusciva a nuotare come avrebbe voluto, e tutto questo solo perché quella stupida ancora tormentava i suoi pensieri. Cosa diavolo doveva fregargliene, in fondo? Magari non sarebbe più venuta e basta, non era certo un buon motivo per nuotare così male.
    «E allora perché…?» Era un sussurro, il suo. Nessuno l’avrebbe mai potuto sentire. Però forse lei avrebbe potuto riuscirci. Perché era strana e faceva sempre cose che lui non credeva possibili.
    Socchiuse gli occhi, avvolto nella penombra degli spogliatoi. Makoto era fuori ad aspettarlo. Magari avrebbe potuto parlargliene, così da trovare una soluzione. Sì, dev’essere così.
    «Makoto.» Si fermò, mentre attendeva che l’amico si girasse a guardarlo. Quando lo fece, si era già dimenticato le parole. «A te… tu…»
    «Ti senti bene, Haru?» Il tono della sua voce era gentile come sempre.
    «A te…» Si morse la lingua. «A te piace il mio nome?»
    Makoto rimase un istante in silenzio, con la bocca semiaperta e lo sguardo sorpreso. Un timido sorriso apparve sul suo volto, mentre si passava goffamente una mano tra i capelli. «È un nome da femmina, no?»
    «Che importa se è da femmina?» brontolò, dandosi dell’idiota mentre l’amico gli appariva sempre più perplesso. «È sempre un bel nome.»
    Era ovvio che pensasse che fosse pazzo. D’altronde, una conversazione simile poteva apparire normale solo a lei, che era pazza a sua volta. Di quella pazzia che non aveva mai tollerato, senza un filo logico e priva di buonsenso. Quella pazzia così diversa da lui e che forse, un po’, aveva cominciato a piacergli. Quella pazzia che se n’era andata. E che non sarebbe tornata.
    «Makoto.»
    «Sì?»
    «Mi fa male il petto.»
    «EH?!» Il bambino gli si parò davanti, afferrandolo per le spalle. «Andiamo di corsa a casa, muoviti!»
    Non aveva nulla. Era sano come un pesce. Eppure, quel vuoto che sentiva dentro gli faceva male, un male che non aveva mai provato.
    Il signor Tachibana gli aveva sistemato il futon vicino a quello del figlio. «Ho avvertito i tuoi, Haru-chan. Puoi rimanere a dormire qui.»
    Avrebbe dovuto ringraziarlo, ed invece se ne stava zitto a contemplare il pavimento, in silenzio. Makoto non era ancora tornato dal bagno. Il signor Tachibana gli sedette accanto e il bambino si tranquillizzò: s’era sempre trovato bene a parlare con lui. Sentì la sua mano confortante sulla spalla. «Qualcosa ti preoccupa, non è vero?»
    «Signor Tachibana…»
    «Sì?»
    «Mi sento male.» Si schiarì la voce, ma abbassò lo sguardo, certo di stare per arrossire. «Come se mi mancasse qualcosa.»
    Non lo vedeva, ma era certo che stesse sorridendo. «Non sarà per lei? Sai, Makoto me ne ha parlato.»
    Sbarrò gli occhi, fissandolo come vittima di un brutto scherzo. «E che cosa le ha detto?»
    «Niente di particolare» si affrettò a rispondergli, aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Solo che da quando non viene più non nuoti bene.»
    Tornò a fissare dritto dinnanzi a sé. «Dunque, se n’era accorto.»
    «Haru-chan.»
    «Sì?»
    «Non è che ti piaceva?»
    Che sciocchezza. Non poteva certo trattarsi di quello. E poi lui l’aveva sempre trovata bizzarra, quella bimba.
    «Però…» sussurrò, come se il signor Tachibana fosse stato in grado di leggergli nel pensiero fino a quel momento. Abbassò lo sguardo e per la prima volta l’adulto che gli stava accanto intravide l’ombra di un malinconico sorriso. «Però come nuotava…»
    Il suo sguardo azzurro si smarrì al pensiero delle piccole gambe di lei sferzare veloci a cercare il contatto con l’acqua, le braccia esili e tuttavia energiche, lo sguardo inscurito dal riflesso degli occhialini e la schiena lasciata nuda dal costume ginnico, mentre s’immergeva nel suo elemento chiave, quell’elemento che tanto sentiva appartenere a lei quanto a sé stesso. E forse, se si fosse concentrato attentamente sull’acqua della piscina affollata, avrebbe ancora potuto vederla nuotare, tra quelle onde.
    «Come nuotava lei… nessuno riusciva a farlo.» Il bambino alzò la testa e il signor Tachibana vi scorse una tristezza così genuina da risultargli impossibile da consolare.
    «Questo è mal d’amore, ragazzo» si limitò a dirgli, grattandosi la testa.
    «E sarebbe?»
    L’adulto lo fissò, con quel fare paterno che spesso usava nei suoi confronti. Gli posò una mano sulla testa, strofinandogli delicatamente i capelli.
    «È un gran casino, Haru-chan. Davvero un gran casino.»





Lo sclero di ver

Ciao a tutte/i! Eccomi tornata con una nuova storia, è la prima volta che scrivo su Free! e spero davvero che questa storia possa piacervi.
Per considerazioni, critiche o addirittura per chi vorrebbe aiutarmi sullo sviluppo della storia, ogni consiglio è ben accetto! :D



_EverAfter_
  
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