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Autore: NPC_Stories    24/09/2018    8 recensioni
Perché fai il bardo e l'avventuriero?
Perché ho perso qualcuno che amavo, che altro.
Per fuggire dai ricordi.
Perché il silenzio fa troppa paura, lascia troppo tempo per pensare, per ricordare.
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1295 DR: La musica è fatta anche di silenzi


Le scogliere occidentali dell’isola di Moray erano belle da mozzare il fiato, in quel pomeriggio luminoso d’estate. Due piccole creaturine, non più grandi di due gatti domestici, si rincorrevano e saltavano su un prato spazzato dal vento. Le loro scaglie azzurre erano abbastanza opache da non riflettere la luce, una precauzione di cui la natura li aveva dotati perché non attirassero troppo i predatori.
Dopotutto anche un drago, da cucciolo, è vulnerabile.
“Saelmanestrix! Aspettami!” Gridò uno dei due, inseguendo a grandi balzi la femmina che correva più veloce di lui. Ogni tanto lei apriva le ali, catturando il vento per fare grandi balzi. “Mamma ha proibito di volare!”
“Come sei noioso.” Sbuffò lei, agitando la coda per invitarlo a giocare. “Non sto volando, sto saltando.”
L’altro draghetto provò a seguire il suo esempio, spiccando un lungo salto grazie al vento che soffiava alle sue spalle. Riuscì ad allungare la planata fino a cadere addosso alla sorellina, e i due draghetti rotolarono per qualche metro, aggrovigliati. Quando finalmente si fermarono, stavano già ringhiando per finta sfidandosi alla lotta.
Dopo qualche finto morso e un impressionante sfoggio di pose smargiasse, i due draghetti capirono che nessuno dei due sarebbe riuscito ad intimidire l’altro, e scoppiarono a ridere simultaneamente.
“Ah… ah… non… non dovremmo fare i nostri esercizi?” Domandò il maschietto, il più giudizioso dei due.
“Ma sono stupidi!” Mugugnò la femmina. “Essere un drago è così divertente. Chi ci vuole vivere in forma umosa?”
“Umana.” La corresse lui. “Si dice umana. E lo sai cosa dicono i nostri genitori, dobbiamo imparare, e tornare a vivere nella città. Papà ha i suoi affari laggiù. Quando il nuovo uovo di mamma si sarà schiuso, lei resterà qui con il fratellino e noi andremo in città con papà, perché siamo grandi e responsabili.”
Un drago non può veramente gonfiare le guance, ma Saelmanestrix ci provò comunque.
“Non voglio andare in città. Voglio stare qui con la mamma.”
“Io però vorrei stare con te. Nostro padre non ci lascerebbe qui tutti e due, troppo impegno per la mamma, lo sai com’è quando diventa tutto serio… non voglio discutere con lui, fa una faccia brutta.”
“È solo perché sei un fifone.”
“Non sono un fifone!”
“Sì, certo. Esercitati pure a fare l’umanoso, se vuoi. Io voglio fare il drago vero. Non sono divertenti, gli umani.”
“Ma se non ne hai mai visto uno!” Protestò lui. “Avanti, dobbiamo fare pratica. Trasformiamoci.”
Senza aspettare una risposta dalla sorella, il piccolo draghetto cominciò a concentrarsi. Un giorno gli sarebbe venuto spontaneo, gli sarebbe bastato un pensiero, ma per il momento era solo un cucciolo di tre anni e doveva metterci impegno per cambiare forma. Non si era esercitato quanto avrebbe dovuto.
Le scaglie scomparvero, come se fossero diventate invisibili a causa di un’illusione, ma non era una semplice illusione; stavano sparendo davvero, lasciando la sua pelle glabra e la sua carne così indifesa. Era il momento che odiava di più, della trasformazione: quando era una cosa di forma indefinibile, rosa e vulnerabile come un mammifero appena nato, prima che le sue membra cominciassero ad allungarsi. Poi, passato il momento più imbarazzante, cominciava appunto quello più difficile: le zampe posteriori si stiravano, diventando delle gambe; le zampe anteriori si facevano più lunghe ed affusolate e le mani cambiavano forma, riadattando i letali artigli in dita più snodate, comode per afferrare gli oggetti ma poco adatte al combattimento.
La testa era la parte peggiore. Prima il collo, che si accorciava, lasciandogli pochissima capacità di movimento. Con il suo lungo e bellissimo collo da drago poteva arrivare a guardarsi anche dietro le spalle, mentre la forma umana era così… limitata. Ma non aveva il tempo di pensarci, perché i lineamenti che si riaggiustavano sulla faccia catturavano tutta la sua attenzione. La sensazione era come di formicolio, sia sulla pelle che dentro la testa, e gli faceva venire voglia di starnutire. Per ultimo, ma stranamente indolore, c’era il magico riassorbimento delle ali e della coda, che erano le prime cose a spuntare quando tornava ad essere un drago. Al posto delle ali e della coda, altre cose uscivano dal suo corpo, cose di cui il draghetto non aveva mai capito la funzione.
Alla fine, una donna umana si alzò sulle zampe posteriori, in modo piuttosto instabile.
Il draghetto non era abituato ad avere un corpo così grande, e quei dannati peli lunghissimi che aveva sulla testa gli andavano sempre davanti agli occhi. Le zampe anteriori se ne stavano lì per aria, annaspando per fargli ritrovare l’equilibrio; non erano fatte per dare stabilità stando piantate a terra, servivano a… boh. A qualcos’altro.
La donna umana perse l’equilibrio e cadde all’indietro, scoprendo che le sue forme morbide non erano poi tanto utili per attutire le cadute.
Saelmanestrix aveva guardato tutta la scena con aria di divertita compassione, ma a quel capitombolo scoppiò a ridere senza alcun tatto.
“Questa forma umanosa è buffa! Perché non hai scaglie?”
“Gli umani non le hanno.” La donna, che in realtà era un draghetto, cominciò a strofinarsi le mani sulle braccia per cercare di scaldarsi. Anche d’estate, il vento delle isole Moonshae non era gentile sulla pelle nuda. “Penso che si mettano addosso delle pellicce finte. Si dicono… vestiti.”
“Be’, ma non li hai.”
“Non compaiono per magia!”
Saelmanestrix buttò gli occhi al cielo.
“Scommetto che i draghi d’oro possono trasformarsi in tutto quello che vogliono, non solo in una stupida forma umanosa con tutte quelle strane cose che penzolano a caso. E se anche lo fanno, scommetto che sanno far comparire i vestiti per magia.”
“Bene!” Sputò la donna, scoprendo che un volto umano sapeva veicolare le emozioni molto meglio di uno draconico. Tutti quei muscoli sul viso erano una piacevole sorpresa che andava assolutamente approfondita in un secondo momento. “Nella prossima vita cercherò di nascere drago d’oro, allora!”
“Il punto, caro fratellino, è che essere un drago è comunque meglio.” Spazzò il terreno con la coda, preparandosi a saltare addosso all’altro. “Scommetto che quel corpo senza scaglie non resisterebbe sotto i miei artigli.”
La draghetta era molto più piccola della donna umana, ma quella fece comunque un passo indietro. Con i suoi denti piatti, le dita senza artigli e la pelle morbida, si sentiva davvero vulnerabile.
“No dai… per favore… non è giusto!”
La draghetta finse ancora per un momento di stare per saltare addosso al fratello in forma umana, ma poi gli regalò un sorriso sornione e si tirò in piedi sulle zampe posteriori.
“Guardami, guardami, sono un umano… non so stare in piedi perché ho solo due zampe…” si buttò a terra fingendo di cadere, in preda alle risate.
“Smettila!” La rimproverò l’altro, offeso. “Dobbiamo imparare, quindi non prendermi in giro, sei meno brava di me con questa cosa della forma umana.”
Saelmanestrix aveva la testa dura, ma c’era una cosa a cui non sapeva resistere: una sfida. E suo fratello l’aveva appena sfidata.
Pochi secondi dopo, due giovani donne umane se ne stavano in piedi su quella scogliera protesa verso il mare, intente a fare una strana ginnastica per prendere confidenza con quel corpo così alieno.

“Cosa pensi che siano queste cose che sporgono?” Domandò Saelmanestrix, toccando con un dito una di suddette cose.
“Ma che ne so? Nessun drago le ha… secondo me servono a respirare.”
“Eh?”
“Ma sì, non hai visto che quando respiri si alzano e si abbassano? Mamma dice che tutte le creature di terra hanno dei sacchi di aria nel torace, per respirare.”
Saelmanestrix soppesò quella teoria, e soppesò anche uno dei suoi seni. “Non credo, è troppo pesante per contenere aria.”
“Allora forse è… una riserva di qualche tipo? Come, di acqua?”
“Uhm… sì, può essere. Sono proprio strani gli umani.”
“Hai imparato a sederti e rialzarti? A camminare dritta?”
“Ma sì, ma sì.” Saelmanestrix agitò una mano, con noncuranza. “Abbiamo ancora molti giorni prima che l’uovo di mamma si schiuda. Prima di andare in città, sarò capace anche di fare le capriole.”
Il fratello analizzò il proprio corpo umano con aria critica. “Non credo che sia possibile fare le capriole. Non ci sono le ali, e le zampe sono troppo lunghe.”
La sorellina sorrise con furbizia, come se avesse portato il discorso proprio dove voleva.
“Lieta che tu lo abbia notato. Direi che possiamo tornare a giocare, in un corpo che sa davvero fare qualcosa. Per oggi abbiamo fatto abbastanza esercizi noiosi.”
Senza aspettare la risposta dell’altro, si concentrò per tornare alla sua forma originale. Era un processo più veloce di quello inverso, grazie al cielo. Era bello. Liberatorio. Era come tornare a casa.

“Dai, facciamo i tuffi!” Gridò Saelmanestrix, correndo verso il mare.
“Cosa? Sei matta?” Il fratellino fece appena in tempo a tornare in forma draconica, prima che la sorella sparisse dietro una roccia. “Siamo troppo in alto!”
“Lo so! Cosa credi, non sono scema!” Ribatté lei, svolazzando al di sopra della grossa roccia. “Andiamo in un posto più in basso, più vicino al mare. Daaaai. Lo sai quanto è bello nuotare. È bello quasi come volare.”
Il draghetto non aveva davvero obiezioni a questo. E sapeva per esperienza che era impossibile far cambiare idea a
Saelmanestrix quando lei si metteva in testa di provare un gioco divertente.
Venne fuori che lei conosceva davvero un punto in cui la scogliera era più bassa, appena sei metri, e sembrava davvero un ottimo punto per sfidarsi a vicenda in una gara di tuffi.
I due cuccioli passarono un fantastico pomeriggio, immergendosi nelle acque cristalline di quel tratto di mare, giocando fra le correnti subacquee per poi riemergere e svolacchiare fino a riva. I draghi solitamente volano, quindi non hanno necessità di arrampicarsi, ma sono capacissimi di farlo se vogliono. Quella bassa scogliera avrebbe portato per sempre i segni dei loro piccoli artigli, una traccia per ogni volta in cui avevano scalato la ripida parete di roccia.
Finché ad un certo punto il cielo cominciò ad imbrunire.
E la marea, a cambiare.
I cuccioli non conoscevano gli strani flussi e riflussi della marea, per loro i moti del mare erano semplicemente le onde: avanti, indietro, ancora avanti. Non conoscevano i gorghi e i mulinelli, né lo strano effetto della marea in un golfo come quello.
Saelmanestrix era una vera esploratrice, era quella che si spingeva sempre un pochino più in là, nuotava un pochino più in fondo.
Ad un certo punto, suo fratello non la vide più risalire in superficie.
“Saelma? Saelma, dove sei? Non fare scherzi!”
Nuotò in tondo per un po’, pensando che la sorellina stesse per emergere proprio sotto di lui facendogli un agguato.
Impiegò molto tempo prima di capire che non era uno scherzo, e che non era riemersa da qualche altra parte. Il draghetto provò a cercarla, nell’acqua sempre più scura, ma era troppo debole per lottare contro le correnti, era inesperto e spaventato.
Il mare non restituì mai il corpo.

Suo padre dovette uscire a cercarlo, perché il cucciolo non voleva tornare a casa senza la sorella. L’idea della morte non faceva parte della sua visione del mondo, non sapeva cosa fosse.
Il vecchio drago invece lo sapeva. Prese il cucciolo fra le fauci e lo riportò nella loro caverna, senza dire una parola.
Da quel giorno, nessuno dei suoi genitori gli rivolse più la parola. Non gli dissero mai che lo ritenevano responsabile per la morte di Saelmanestrix. Non ce n’era bisogno.

Dovettero trascorrere altri due mesi, prima che un po’ di luce tornasse nella sua vita.
Per mezzo di un altro fratello.
No, non l’uovo. L’uovo era ancora ben lontano dalla schiusa.
Il draghetto sapeva di avere dei fratelli maggiori, figli di altre covate prima della sua, ma non li aveva mai visti. Sua madre non era mai stata molto feconda, ma era anziana, e aveva avuto almeno altri tre figli prima di lui, tutti maschi.
Saelmanestrix era la sua prima femmina, e quella perdita era stata un colpo al cuore per lei.
In una fresca mattina d’autunno, arrivò sulle ali del vento uno spavaldo drago appena alle soglie dell’età adulta. Si presentò all’imboccatura della caverna, come se fosse nel suo diritto.
Se fosse stato un drago sconosciuto, o anche un drago amico, sarebbe stato scacciato perché nessun elemento estraneo era ammesso quando una draghessa covava una nidiata. Finegarmn però era di famiglia. Era l’unico figlio della precedente covata della loro madre, risalente a più di settant’anni prima.
Il cucciolo gli rivolse appena uno sguardo. Se sua sorella fosse stata viva, sarebbero corsi entrambi all’arrembaggio del fratellone che aveva girato il vasto mondo, avrebbero insistito per farsi raccontare le sue avventure. Ma Saelmanestrix era morta, e con lei era morto anche il suo interesse per il mondo.
Non prestò la minima attenzione a quei discorsi da adulti, rimase rannicchiato nel suo angolino, come faceva ormai tutti i giorni. Per questo rimase di sasso quando quella sera suo fratello gli annunciò che lui, il piccolo cucciolo inutile e iettatore, avrebbe lasciato la tana dei suoi genitori per seguire il fratello maggiore nelle sue avventure.
Sarebbero partiti la mattina dopo.

Il cucciolo non era in grado di volare veloce come un drago adulto, quindi Finegarmn lo prese fra le zampe anteriori e lo portò con sé come un passeggero. La velocità a cui volavano era davvero impressionante, ma anche… elettrizzante. Per la prima volta dalla morte di Saelmanestrix, stava di nuovo sentendo qualche emozione.
“Spero che tu sappia trasformarti in un essere umano.” Gli chiese il fratello maggiore, urlando per sovrastare il rumore del vento.
“Sì.” Gridò lui di rimando, con la sua vocetta infantile. “Io… abbastanza.”
“Bene! Ti servirà un nome da umano, allora. Un nome femminile, perché la nostra forma è sempre femminile. Almeno finché non imparerai ad usare la magia per trasformarti in un maschio.”
“Come faccio a sapere quali sono i nomi da femmina? Non conosco gli umani.”
Il fratello scrollò le spalle, e quel movimento si ripercosse anche sulle zampe anteriori, facendo sobbalzare il piccoletto.
In effetti, parlare urlando in quel modo non era molto comodo.
Sotto di loro il mare si stendeva immenso, punteggiato qui e là da alcune isolette e scogli. Il cucciolo non aveva mai avuto paura del mare, ma questo era prima. Prima che quell’immenso parco giochi azzurro dimostrasse di poter essere anche una tomba.
Verso sera arrivarono ad un’altra isola, una molto piccola, con una costruzione mezza diroccata sulla spiaggia. Appena toccato terra, Finegarmn posò il piccolo passeggero e lo esortò a trasformarsi in umana, cominciando lui per primo per dargli il buon esempio.
“I tuoi peli della testa sono rossi!” Esclamò il cucciolo, al colmo della sorpresa. Non aveva idea che gli umani potessero avere una tale varietà di colori. “I miei sono sempre neri.”
“Ognuno di noi ha una sola forma umana.” Gli spiegò lui. O lei. L’umana con i capelli rossi. “La mia compagna ha i capelli color dell’oro, ed è bellissima. Ora la vedrai.”
C’erano dei vestiti umani nella casetta sulla spiaggia. Infilarseli non era una cosa semplice, e per niente intuitiva, ma alla fine il draghetto sembrava una vera contadina delle Moonshae.
Una barca si stava avvicinando alla piccola isola. Era una delle agili barche a vela tipiche di quei luoghi, adatta a navigare fra i canali stretti e i bracci di mare poco profondo che separavano le isole.
Alla guida della nave c’era una donna umana. In realtà anche lei era un drago, come loro; il cucciolo poteva vederlo, perché i suoi occhi vedevano sempre la vera forma delle cose, dietro a qualsiasi illusione o trasmutazione. Finegarmn aveva ragione: era bellissima.
Il draghetto rimase in silenzio per tutto il viaggio verso una destinazione ignota, ma davanti a loro vedeva le luci di una città. Non aveva mai visto una città, ma ne aveva sentito parlare.
“Quello è il villaggio di Olafstaad.” Raccontò la draghessa, la compagna di Finegarmn. “Gli umani lì sono come me, biondi e pallidi. Non immaginavo che tu assomigliassi di più a una donna ffolk.” Qualsiasi cosa fosse una donna ffolk, perché il cucciolo non ne aveva idea. “Ma diremo che sei una nostra ancella, una serva… non attirerai l’attenzione. Fanny, dovresti trasformarti in un maschio. Tre donne da sole non verrebbero trattate con rispetto.” Gli consigliò, lanciandogli un oggetto che sembrava una corda.
La donna con i capelli rossi indossò la cintura magica, e il cucciolo la vide cambiare in modo quasi impercettibile; non aveva più le sacche sul davanti, era diventata più muscolosa, la faccia era cambiata facendosi un po' più squadrata, ma il draghetto non conosceva abbastanza degli umani per saper distinguere i due sessi.
“Mio fratello deve trovarsi un nome da umana. Un nome che sia più corto del suo, perché gli umani non ricordano i nomi lunghi.” Raccomandò Finegarmn. “E non chiamarmi Fanny.”
Anche la sua voce era un po’ diversa, notò il piccolo. Ma il fatto che l’argomento del nome fosse rispuntato, gli diede l’occasione per avanzare la richiesta.
“Saelma è un nome da umana?” Tentò.
La sua domanda cadde nel silenzio.
“Era il nome di tua… di nostra sorella, giusto?” Domandò Finegarmn, abbassando lo sguardo.
“Saelmanestrix. Era questo il suo nome. Io… vorrei ricordarla in qualche modo.”
Per qualche momento rimasero tutti in silenzio, limitandosi a remare perché quella sera non c’era vento.
“Selma.” Propose infine la donna bionda. “È un nome abbastanza comune.”
“Selma andrà bene.” Decise il piccolo. “Dovrò essere Selma finché staremo in mezzo agli umani, vero? Finché non troverò un modo per trasformarmi in un uomano maschio?”
La pronuncia incorretta fece piegare la bocca di Finegarmn in un mezzo sorriso amaro.
“Un umano maschio si dice uomo. Un umano femmina è una donna. Imparalo in fretta, piccolo fratello. Anzi… Selma. Davanti agli altri umani, dovrai chiamarmi Signore, e dovrai chiamare lei Signora.” Lo istruì, indicando la compagna. “Almeno finché saremo ad Olafstaad. Presto attraverseremo l’isola, sul versante orientale troveremo una nave per il continente. Lì avremo altre identità, un po’ più informali.” Batté una mano sulla spalla della donna dai capelli neri, ed era strano pensare che quella creatura della sua stessa stazza fosse in realtà un cucciolo sperduto.
“Ehi… andrà tutto bene, fratellino. Te lo prometto. I nostri genitori non sono molto affettuosi, io stesso sono fuggito appena ho avuto l’età per farlo. Non devi basarti sul loro giudizio.”
Selma abbassò gli occhi sull’acqua nera che fluiva ai lati della barca.
Il giudizio dei loro genitori poteva essere duro, ma non era ingiusto. Sapeva che non avrebbe mai più guardato il mare senza sperare di vedere la sua sorellina rompere il pelo dell’acqua in uno spruzzo, ridendo e gridando che era stato solo uno scherzo.

La nave continuò a scivolare verso il villaggio, e presto la musica chiassosa degli umani soppraggiunse a guidarli, insieme alla luce delle torce. Il cucciolo non aveva mai sentito un simile schiamazzo, ma in qualche modo lo fece sentire un po’ meglio. Quella musica calda e caotica gli fece capire, con il cuore prima che con la mente, che da qualche parte c’era ancora gioia nel mondo.


   
 
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