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Autore: Usamljeni Vuk    25/09/2018    2 recensioni
Questa storia è una favola che tratta di un branco di animali che vivono allo stato selvatico che osservano la nascita e l'evoluzione di una nuova specie animale che si rivela essere parassita della nostra Madre Terra.
Mi sono ispirato ad un titolo di un articolo di giornale che parlava di un'invasione di cinghiali in un paesino di montagna.
Il titolo originale era: "Attenzione agli animali".
Siamo noi che abbiamo violato l'ecosistema delle specie animali, non il contrario.
Genere: Science-fiction, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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ATTENZIONE AGLI UMANI

 

 

 

Ogni notte immagini di immense distese boschive non ancora abbattute, enormi praterie verdeggianti, ruscelli e fiumiciattoli di acqua incontaminata che scorrevano indisturbati seguendo il proprio corso attraverso la Natura inviolata, si facevano reali nei miei sogni, impresse come echi di ricordi lontani mai vissuti direttamente.

Sognavo ancestrali ricordi mai visti prima, racconti generazionali di com’era il mondo primordiale, prima dell’arrivo dei grandi parassiti che avevano distrutto tutto ciò che ci apparteneva, tutto ciò che apparteneva alla Natura, tutto ciò che apparteneva a tutti gli individui della Terra...

Un mondo dove noi e la Natura eravamo un unico essere vivente; un modo dove la grande Madre Terra ci proteggeva e noi la rispettavamo reverenzialmente, come se fosse una divinità, una Dea benevola che ci proteggeva e ci cullava tra le sue forti braccia e ci regalava tutto il necessario per vivere felici senza mai profanarla come avevano fatto quei parassiti che avevano invaso i nostri territori.

Sogni di ricordi lontani che io non avevo mai potuto vivere se non nei ricordi più reconditi degli anziani, dei miei avi, dei nostri avi.

Ricordi perduti da troppo tempo, troppe stagioni, troppe generazioni...

Non avevo mai immaginato un mondo libero dalla devastazione della nostra Madre, dalla decadenza di ogni essere vivente e non vivente, dalla minaccia dell’estinzione di ogni specie; non avevo mai immaginato un mondo intatto, libero dal parassita che ci stavano per distruggere, un mondo integro nella sua naturale forma; dove tutti gli essere viventi traevano giovamenti e vantaggi dalle terre da noi abitate.

Un mondo dove nessuna specie era ridotta in schiavitù, un mondo felice, dove si lavorava, si cacciava e si amava indistintamente ogni figlio della Madre Terra.

Un ricordo che ogni giorno diventava sempre più nebuloso nella mia mente, fino ad essere solo una confusa impressione dei miei sogni migliori.

Ancestrali memorie di sorgenti di acqua fresca, limpida, trasparente, pura come l’aria che scorreva incessante lambendo le sue labili sponde che ci donavano un punto dove dissetarci e rinfrescarci durante i caldi e afosi periodi di siccità che con cadenza regolare colpiva il nostro mondo.

Ancestrali memorie di sconfinate pianure dove tutti gli esseri viventi vivevano, sopravvivevano, cacciavano, si nutrivano dei frutti della grande Dea e dei suoi figli e si divertivano nel tempo libero, scorrazzando e rotolandosi attraverso quelle lussuose lande cariche di vita.

Ancestrali memorie di piccole alture, grandi colline e immani montagne, dove solo pochi esseri si erano spinti fin sopra le loro vette, dove la neve, bianca come il latte materno, era sempre morbida e fresca e l’aria ancor più rarefatta e salubre rispetto alla valle dove noi avevamo le nostre tane, i nostri nidi, i nostri rifugi.

Ancestrali memori di corsi d’acqua che si insinuavano serpeggiando tra queste terre senza confini che appartenevano a tutti gli esseri che vi vivevano, indistintamente dalla razza e dalla specie, una terra libera, senza padroni e senza schiavi.

Ancestrali memorie di grandi alberi carichi di frutti di ogni genere, dai quali noi ci riempivamo lo stomaco e i sensi; il nostro nutrimento nei periodi più fecondi che i nostri amici inanimati ci regalavano senza chiederci nulla in cambio.

Ancestrali memorie di sterminate distese boschive, dove ci riparavamo durante i periodi di eccessiva calura della stagione arida e durante i molti pericoli del periodo delle piogge incessanti e dei boati e degli accecanti e fatali fuochi del cielo. Boschi di faggio, quercia, pioppo, castagno e betulla. Amici inanimati che ci offrivano protezione dai pericoli naturali,con le loro innumerevoli e vigorose braccia inanimate e ci allietavano la vista e i sensi con i loro mutevoli stagionali colori e i loro inebrianti profumi.

Ancestrali memorie di un arcaico ambiente incorrotto, infinito, selvatico, vivo...

Rimembro nelle mie più arcane visioni oniriche che in un tempo ormai perduto, proprio all’inizio della nostra Era, la mia specie viveva in una vastissima steppa che si estendeva da una foresta di betulle, fino alle pendici delle granitiche montagne; al di là del bosco si trovava una spettrale e mefitica palude di nere acque e maligne esalazioni; una barriera che Madre Natura aveva creato per proteggere la nostra popolazione dai predatori esterni che venivano da altri territori e per evitare che i propri figli, i figli della Terra, si allontanassero troppo dalla nostra comunità.

Le montagne invece dividevano il nostro mondo da un altro mondo a noi oscuro. Forse una terra abitata da altre specie come la nostra o da altre sconosciute a noi o semplicemente c’era il nulla, le montagne erano le barriere che indicavano la fine della terra, al di là di esse molto probabilmente non c’era più niente, era un confine naturale della fine del mondo.

Nessuno era riuscito a valicarle e ad arrivare dall’altra parte, forse nemmeno i nostri amici volatili, i padroni del cielo.

Ogni tanto da quelle alture scendevano altri essere viventi simili a noi per cibarsi del nostro stesso cibo; erano innocui, condividevano sporadicamente solo una piccola parte della nostra ecologia.

Poi c’erano i grandi e caparbi volatili che scendevano in picchiata dalle coste dei monti per sorvolare maestosamente la nostra prateria; alcuni cacciavano piccoli esseri viventi, altri venivano per cacciare noi.

Era il disegno della Grande Madre Terra; ogni organismo si cibava di un altro in modo ciclico ma sempre rimanendo su un equilibrio inviolabile che non ci causava danni.

Quando ci sentivamo minacciati da questi abitanti del cielo ci nascondevamo tra quelle selve dei nostri megalitici amici alberi.

Essi ci proteggevano tra i loro possenti rami e ci celavano dalla vista di quei spietati mostri; ci regalavano dei tetti sotto il quale ripararci in questi momenti.

Poi, all’arrivo della stagione fredda, questi nostri amici incominciavano a spogliarsi dalle loro verdi chiome per prepararsi al lungo letargo del pungente e gelido inverno.

La nostra terra si faceva sempre più fredda e piano piano tutto si copriva della stessa candida neve che copriva le immense montagne.

Tutto veniva coperto da questo soffice manto; era l’inizio del nostro lungo letargo.

Poi, all’arrivo del primo sole, la neve incominciava a sciogliersi e gli alberi iniziavano a germogliare di nuovo, mettendo folte chiome verdi sulle loro teste spelacchiate.

E così, stagione dopo stagione, luna nuova dopo luna nuova, la loro vita, la nostra vita, continuava imperterrita a scorrere come l’acqua nei torrenti.

Tutto aveva il proprio corso, la propria vita, i propri ritmi, il proprio tempo.

Prima di morire la mia generatrice mi tramandò che la colpa di tutta questa catastrofe era per colpa di un unico essere infestante.

Mi volle raccontare una storia; una storia triste e melancolica che mi dava un senso di rabbia e un desiderio di vendetta.

Tanti anni fa, prima dei miei genitori, prima dei mie nonni e dei mie bisnonni, prima del grande freddo, forse agli albori della nostra specie, uno strano essere si era addentrato tra le nostre ricche terre.

Un essere totalmente diverso da tutti quelli che avevano abitato il nostro territorio; un essere che camminava su due possenti zampe, un po’ come quelle dei nostri predatori del cielo, ma più grandi, più robuste, più lunghe, con un piedi affusolato e con delle dita tozze e corte.

Un essere che camminava e correva come noi, ma che lo faceva eretto su due zampe. Aveva le zampe superiori anche quelle forti e robuste con le quali riusciva a raccogliere i frutti degli alberi senza aspettare che cadessero al suolo; dita affusolate e possenti strappavano i frutti procurando dolore ai nostri amici alberi.

Avevano un tronco asciutto e muscoloso, che sorreggeva delle spalle dalle quali partivano le zampe superiori; la loro testa e il loro muso era strano; la testa e il muso erano tondi, schiacciati tra di loro e sopra di esso cresceva un folto e lungo pelo scuro.

Erano degli esseri che si muovevano in branco come noi, ma erano più distruttivi, più irrispettosi verso la nostra Madre Terra.

Tutto quello che la nostra grande Madre ci donava veniva depredato senza reverenziale omaggio alla Terra.

Dapprima il loro branco era formato da poche unità di individui che si addentravano nelle nostre praterie; all’inizio solo per curiosare, poi piano piano si stabilirono un po’ fuori dalla foresta, al limite della nostra terra e iniziarono a cacciare gli altri essere viventi e, a volte, anche noi.

Dovevamo nasconderci ogni volta che li vedevamo scendere dagli alberi e uscire allo scoperto, ogni giorno era probabile che la cattiva sorte avrebbe preso di mira noi.

Qualche tempo dopo uscirono definitivamente allo scoperto e iniziarono a costruire i loro nidi intrecciando gli arti morti dei nostri amici vegetali e usando le loro chiome come giacigli per stendersi e riposarsi.

Poi, con il trascorrere del tempo, questi branchi si facevano via via sempre più numerosi, sempre più impattanti, sempre più nocivi e sempre più letali.

A volte si incontravano con altri gruppi della loro stessa specie che erano riusciti ad oltrepassare la palude e si combattevano fra di loro, uccidendosi, mutilandosi e riducendo in schiavitù i sopravvissuti.

Molti morti, molti feriti, molti orfani e molti mai nati; solo devastazione e distruzione sul loro cammino.

Poi, Madre Natura volle punirci per non essere riusciti a difendere la Terra che ci aveva donato.

Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, lingue di neve e ghiaccio scesero giù dalle montagne rendendo il nostro territorio più freddo, il terreno più duro, fino a ricoprire completamente di raggelante ghiaccio tutta la landa.

Gli alberi morirono, il fiume e i torrenti gelarono e la palude scomparve sotto una coltre di neve e ghiaccio, dura e fredda come la roccia.

Molti di noi perirono, altri riuscirono in qualche modo a sopravvivere, ma quegli essere bipedi sembrarono proliferare.

Iniziarono a coprire i loro corpi senza pelo con la pelliccia dei nostri amici animali morti dal freddo e dalle privazione data dalla scarsità di cibo, se non uccisi direttamente da loro.

Con le lor zampe raccoglievano delle piccole pietre dal terreno e incidevano i corpi di ogni essere che gli capitava sotto gli occhi; strappavano la loro pelle, i loro mantelli e li indossavano sui loro corpi.

Era una cosa raccapricciante; i nostri fratelli avevano terrore ad uscire dalle loro tane durante il giorno.

Poi, dopo innumerevoli lune, dopo tanto tempo, finalmente arrivò il disgelo.

I ghiacci ritornarono sulle vette delle montagne, le nevi si sciolsero e la natura ricominciò a germogliare più rigogliosa di prima dell’arrivo di questa era buia ed ostile.

Finalmente tutto si era colorato di nuovo, il profumo era tornato ad invadere l’aria e l’acqua era tornata a scorrere impetuosa nel letto del fiume e dei torrenti.

La nostra specie riprese a proliferare, dando alla luce molti nuovi membri del nostro gruppo; ci fù una rinascita per tutti quanti.

Gli uccelli svolazzavano liberi nel cielo limpido, il sole era tornato splendente come prima e gli alberi si erano risvegliati dal loro lungo e forzato letargo ma, quei strani esseri non accennavano a diminuire, anzi, anche loro avevano avuto un incremento nella proliferazione della loro specie.

Ora il loro branco era diventato numerosissimo; erano diventati i regnanti della prateria.

Noi riuscimmo a sopravvivere perché ci nascondevamo nelle nostre tane ma, a volte, qualcuno finiva come preda nelle loro sanguinarie fauci.

Avevano incominciato anche ad abbattere gli alberi e, con i loro massicci tronchi costruivano tane sempre più grandi, sempre più enormi, occupando gran parte della nostra prateria.

Poi,iniziarono a a scavare profonde buche nel terreno e, con delle rocce, costruivano rifugi ancor più possenti, più resistenti e più inviolabili.

Ormai il nostro territorio si era spostato sulle pendici delle megalitiche montagne, per lasciare spazio a quel virus che piano piano stava contagiando tutto il nostro mondo, tutto il creato della Grande Madre.

Via via che diventavano sempre più numerosi, avevano anche imparato a schiavizzare le piante e gli alberi, riuscivano a coltivare le specie vegetali per goderne dei loro frutti a loro scelta.

Ormai il bosco era diventato via via sempre più rado, ma avevano iniziato a piantarne altri sparsi per tutta la radura; a noi andava anche bene ma erano i nostri amici che dovevano decidere se spostarsi o rimanere dove la Natura li aveva posizionati.

Ormai il nostro areale era diventato il loro mondo; un lento e incessante disfacimento di tutto quello che in origine, in un primigenio tempo remoto, era stata la culla di tutti noi.

Poi, ancora, con lo scorrere interrotto delle stagioni, del tempo, le loro tane si facevano sempre più grandi e numerose, iniziarono a costruire ponti sul fiume, a ricoprire i sentieri, prima con delle pietre, poi con strani materiali appiccicosi; iniziarono a levigare alcune alture, a portare sentieri in alto sulle montagne; fino a perforarle per ricavare altri sentieri senza doverle scalare con fatica.

Ora la nostra specie aveva capito che al di là delle alte vette c’era un altro mondo uguale al nostro; abitato da nostri simili e da altri esseri bipedi come quelli che ci avevano ridotti a vivere nascosti nei nostri rifugi.

I due mondi si erano incontrati e avevano distrutto completamente la nostra ecologia.

Ora i sentieri erano diventati enormi, utilizzavano dei marchingegni per spostarsi i quali trasudavano asfissianti e nocivi gas, andando a saturare l’aria di un veleno che ci faceva ammalare; i loro covi erano diventati più alti e grandi degli alberi, arrivavano a solleticare la pancia del cielo che ormai non era più azzurro, ma tendente al colore della pietra; dai tetti delle loro tane, strane bocche eruttavano un fumo più denso del fuoco causato dai fulmini; l’acqua del fiume e dei torrenti era diventata venefica, le loro acque erano diventate scure e delle strane chiazze schiumeggianti si formarono sulla superficie.

Questo era il mondo adesso, quello dove vivo io ora, dove viviviamo noi sopravvissuti.

Costretto a vivere nascosto per paura di essere depredato, vedendo i miei cari perire a causa dell’acqua e dell’aria infettata dalle sostanze letale riversate da quei malvagi esseri bipedi.

Questo è il mio mondo, quello che ho vissuto fino ad ora; quello che ho appena raccontato è solo un ricordo dei nostri primitivi avi, quelli che non sono riusciti a difendere la grande Madre da questa minaccia.

Ora scappate, stanno venendo a prendermi; fate attenzione a non farvi catturare.

Attenti agli umani...

 

   
 
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