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Autore: donteverlookback    25/09/2018    1 recensioni
Sono sei, e sono in un carcere a Chicago.
Ma come ci sono arrivate?Perchè Liz, casalinga e lavoratrice instancabile, ha ucciso suo marito? E perché Velma, acrobata conosciuta in tutta la nazione è finita in carcere?
E' proprio in cella che, una dopo l'altra, racconteranno perché siano finite in carcere. Il loro problema sono gli uomini, e sono stati loro il problema di queste sei donne, così diverse tra loro.
Genere: Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mit keresek, én itt? Azt mondják,
hogy a híres lakem lefogta a férjemet én meg
lecsaptam a fejét.
De nem igaz, én ártatlan
vagyok. Nem tudom miért mondja
Uncle Sam, hogy én tettem. Probáltam
a rendőrségen megmagyarázni de nem értették meg...
 
Huniak non lo capiva l’inglese.
Quando aveva traslocato con Tamás lì a Chicago lui aveva imparato bene, con la stessa rapidità con cui imparava tutte le cose. Dopo poco sul lavoro avevano cominciato ad apprezzare quel ragazzo dalla parlantina accentata e svelta e le maniere così amabili.
Lei invece stava in casa a cercare di rendere abitabile quel buco che avevano preso a Logan Square, che almeno era a pochi passi dal lavoro.
Quando era scappata dall’Ungheria assieme a Tamàs dietro di sé aveva lasciato una famiglia divisa dalla discordia e dallo scandalo di una figlia promessa ad un altro che scappa di casa. Ma non era colpa sua: László era troppo grande, troppo volgare e troppo manesco per lei, e invece Tamàs era il più gentile degli uomini; riguardo allo scandalo… Beh, era colpa di tutti loro – la sua famiglia e quella di Làszlò - e nessun altro. Non poteva rimproverarsi niente, visto che quando si segue l’amore, quello vero, non c’è problema che regga. Così avevano traslocato e si erano rimboccati le maniche entrambi. Tre mesi fa. Appena tre mesi fa, maledizione. Era successo tutto così in fretta…
Quando i poliziotti erano venuti a prenderla a casa non aveva capito cosa volessero e così, un po’ per nascondere il disordine, un po’ per fermare l’odore del cavolo che aleggiava nel palazzo dall’entrare in casa sua, era uscita dalla porta. E si era immediatamente ritrovata due manette di lucido acciaio intorno ai polsi. L’avevano portata fuori così, in pantofole e vestaglia, un po’ spingendola e un po’ trascinandola, fino alla stazione di polizia locale, dove era stata sbattuta su una sedia grigia in una stanzetta vuota. Era rimasta lì per qualche ora – non avrebbe saputo dire quanto, non c’erano né finestre né telefoni e aveva perso il senso del tempo – quando finalmente erano entrati tre uomini che parlavano inglese con l’accento marcato degli americani. Uno di loro, finalmente, si rivolse a lei in ungherese e Huniak sentì che sarebbe potuta svenire dal sollievo; ma quando l’interprete finì la frase si sentì gelare fin nel profondo.
“Ha idea di cosa potesse volere da lei Làszlo Bialik?”
Scosse solo la testa, più che per l’orrore che per dare una negazione: in realtà sapeva benissimo cosa poteva volere da lei Làszlo; ecco perché non voleva avere niente a che fare con quella faccenda.
“Il signor Bialik è stato ritrovato morto stamattina nell’albergo in cui alloggiava; nella sua stanza era presente un biglietto in cui era stato appuntato il suo indirizzo con il suo nome e cognome. Vi conoscevate?”
Terrorizzata, Huniak scosse di nuovo la testa. Era vero, lei aveva odiato Làszlo, ma mai avrebbe voluto vederlo morto… Era così orribile…
Uno dei due poliziotti si rivolse a lei con un tono calmo che riuscì a farla sentire un po’ meglio, nonostante le parole fredde e prive di intonazione dell’interprete. Dopo un paio di frasi si fermò per dare all’altro il tempo di finire di tradurre.
“Parla, Huniak. E’ molto più semplice se ci dici cosa sai, qui nessuno ti sta ancora accusando di nulla. Ma abbiamo bisogno di sapere come eravate collegati tu e quest’uomo.”
Strofinandosi le braccia con le mani, Huniak raccontò all’interprete come fosse fuggita con Tamàs dall’Ungheria, la sua terra, per sfuggire al matrimonio con Làszlo, cui era stata promessa quando era molto piccola. Raccontò del carattere violento e irascibile dell’altro, dei lividi e delle botte che aveva ricevuto da lui quando si era rifiutata di mantenere fede alla promessa. No, non aveva idea di come avesse avuto il suo indirizzo a Chicago. No, non lo vedeva da quando erano in Ungheria. Sì, sapeva che lui si sarebbe arrabbiato ma no, non sospettava che sarebbe arrivato fin laggiù. Continuò a torcersi le mani mentre l’interprete parlava coi poliziotti, che uscirono dalla stanza lasciandola lì da sola. Huniak poggiò la fronte sulle mani congiunte e si mise a pregare.
 
Nel frattempo era passata qualche ora – o forse un giorno o venti- e poi quello che aveva parlato con voce gentile venne davanti a lei e la guardò, occhi castani nei suoi azzurri, e il tono era lento, misurato, di chi pesa bene le parole prima di pronunciarle. E, quando finì, l’interprete le disse di rispondere a una semplice domanda: è suo questo?
Così dicendo le porse, chiuso in una busta, uno scialle rosso e Huniak lo riconobbe come proprio; gliel’aveva regalato Tamàs quando si erano trasferiti per tenerla calda quando andava al mercato… ma lei…lei non lo vedeva da…
«E’ mio» disse guardando il poliziotto e non l’interprete, per conferire la maggior veridicità possibile alle sue parole «Ma l’ho perduto circa tre settimane fa, al mercato, e da allora non l’ho più visto». Ci era rimasta così male che non era nemmeno riuscita a confessare a Tamàs di aver perso il suo regalo. Negli occhi del poliziotto si accese una scintilla strana e lei si ritrasse per un secondo, spaventata.
Quando l’interprete le disse che il foulard era stato ritrovato a casa di Làszlo, sporco di sangue, lei cominciò a tremare.
Quando il poliziotto le strinse le manette intorno ai polsi e le dichiarava per bocca di un anno che era in arresto per l’omicidio di Làszlo Bialik, scoppiò definitivamente a piangere sul suo sogno americano che andava in mille pezzi.
 
Per quanto si fosse sforzata, non c’era stato modo di convincere la polizia che il foulard era sparito diverse settimane prima. Non aveva sporto denuncia perché più che a un furto aveva pensato a una distrazione, ma non aveva modo di dimostrare che quello che diceva fosse vero.
Tamàs si era arrabbiato così furiosamente quando gli avevano detto che era stata arrestata che era stato messo dentro anche lui, e ora erano separati senza la possibilità di comunicare.
Guardò June, la sua compagna di cella, domandandosi se prima o poi sarebbe riuscita a imparare abbastanza l’inglese da dirle che era innocente. Forse non l’avrebbe detto mai a nessun altro.
Aveva imparato a dire solo quelle due parole.
Uh-uh, not guilty. L’aveva detto a tutti, a chiunque l’avesse ascoltata, ma nessuno la credeva. Not. Guilty. Non. Colpevole.
Ormai, l’unica cosa che continuava a chiedersi era come diavolo ci fosse finito il suo foulard rosso a casa di Làszlo.

L'autrice
Salve a tutti! Mi sono decisa a dare un senso a questa storia mai finita, e tenterò anche di aggiustare anche il resto dei capitoli appena mi ricorderò come si usa bene l'editor. La traduzione della parte in ungherese è poco precisa perché ci sono delle versioni non sicure in inglese che ho poi dovuto portare all'italiano, ma più o meno dice "Come ho fatto a finire qui? Hanno detto che il mio amato ha staccato la testa del mio amante. L'ho detto allo Zio Sam, ma non mi hanno creduto" o giù di lì, dove ovviamente lo Zio Sam rappresenta gli USA.
Ciao a tutti!
  
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