Agape
{ I ♦ Dipingi il Cielo, e una Stella }
25 Giugno 1996, sera.
È
conoscenza certa che le popolazioni più antiche credessero
nelle
stelle: si affidavano a esse per determinare il proprio destino, le
chiamavano protettrici e guide, le ritenevano eterne; le adoravano.
Cleo
una simile devozione riesce a comprenderla, anche se millenni e
secoli la separano da quelle genti e seppure la luce che da sempre
l’attrae non appartenga agli astri, ma al pianeta che li
accompagna: tanto è il suo amore che, da anni, sulla parete
opposta
al letto brilla — e lo farà per sempre, le idee
sono ben chiare —
un enorme adesivo a forma di mezzaluna, graziosissima decorazione
divenuta presto scudo contro i terrori del buio e gli incubi; inoltre
abiti, scarpe e perfino le mani sono sempre ricoperte da disegni
lunari, ornamento capace di scatenare sia i borbottii dei parenti che
gli apprezzamenti degli altri bambini.
Tuttavia,
ciò che più ama della luna non è una
semplice raffigurazione o la
replica del suo chiarore: solo quello vero, ancor meglio se unito al
riflesso che danza sul mare, può davvero farle valicare ogni
distanza e sentire libera, in completa pace.
«Non
c’è dubbio: qualcuno deve aver rapito la mia
bambina dalla culla e
messo al suo posto un adorabile alieno con la nostalgia di
casa»,
scherza sempre il padre quando, appena fuori dalla loro abitazione,
la porta con sé tra le strette vie del borgo e verso le
terrazze
panoramiche, sulle torri che affrontano le onde e dentro la notte.
L’aria
profuma di sale e pietra, l’antico e il nuovo soffiano nei
suoi
capelli e le fanno alzare lo sguardo sulla lucerna del cielo: ogni
volta lei chiede che quei momenti non abbiano mai fine, che il
papà
continui a parlarle del “signor Armstrong e del suo amico
Buzz”[1]
e la gonna della veste si agiti in un girotondo che la luna di certo
gradirà.
Questa
non si nasconde, si lascia rimirare e a propria volta osserva: i suoi
occhi grigi sostano sui palazzi e scivolano su balconi e finestre,
ricamando il marmo con merletti d’argento e ricoprendo il
vetro di
un’armatura d’acciaio, inseguendo i passi di
tutti… o
guidandoli?
Perché
è proprio grazie a lei che, in una sera d’inizio
estate, Cleo
scopre la biblioteca nascosta tra le vie basse del borgo, in mezzo a
un vecchio teatro e una villa ricoperta d’edera: le sue porte
sono
aperte, così lei corre dentro e immediatamente si perde
nell’ammirazione del pavimento su cui fioriscono rose dei
venti e
costellazioni, per poi alzare lo sguardo e notare come le vetrate blu
donino al lucore una sfumatura sognante, ma discreta. Mappamondi e
strumenti geometrici segnalano i pochi ma lunghi banconi in cui
è
possibile sedersi e consultare i volumi che li circondano, mentre
stelle e pianeti di metallo pendono dal soffitto, scontrandosi con
l’ergersi degli scaffali; ma è la parte
più vicina all’entrata
che subito l’attrae. Astrolabi e bussole, un complesso
sistema di
lenti e tre piccoli telescopi, oltre che uno strano congegno simile a
un elmo con un monocolo[2],
una sfera armillare[3]
e altri strumenti che non conosce, riposano in un’enorme teca
in
disparte; non passano che secondi prima che la bimba tenti di aprirla
per prendere la sfera, che da sempre vuole toccare dal vero.
«Attenzione,
piccola scienziata, sono molto delicati.»
La
voce che all’improvviso le sussurra all’orecchio e
le blocca
dolcemente la mano non la spaventa, tuttavia un’ombra le
attraversa
lo sguardo; e con riluttanza lei indietreggia dalla teca, gli occhi
verdi fissi sulle sue prede e già con una stilla di lacrime
a
bagnarli.
L’uomo
che le sta accanto si abbassa fino alla sua altezza e le sorride,
rivelandole uno sguardo gentile e pervaso da una luce particolare:
è
la saggezza di un maestro quella con cui la fissa. «Conosci
tutti
questi strumenti?», chiede, e Cleo annuisce lentamente.
«Qua-quasi
tutti», si corregge poi, «papà dice
sempre che diventerò
un’astronauta, e mi prende molti libri
sull’universo: li leggo
tutti almeno quattro volte, non mi stanco mai… è
lì che li ho
visti. Mi piacciono in particolare i libri sulla
luna…»
Ancor
prima che lei abbia finito, l’uomo si alza e apre la teca: le
sue
dita si chiudono sul più grande dei tre telescopi e lo
estraggono.
«Vieni», dice, dirigendosi verso il bancone a loro
più vicino;
Cleo non se lo fa ripetere, saltando di propria volontà tra
le
braccia dell’adulto e trattenendo il fiato quando viene
posata
vicino allo strumento.
A
uno a uno, il gentile signore glieli mostra tutti e spiega quelli che
lei non conosce, insegnandole il funzionamento e l’utilizzo;
con la
sfera armillare ben stretta tra le braccia e l’espressione
rapita,
l’aspirante studiosa ascolta senza perdersi una parola,
rendendosi
conto delle ore passate solo quando alza il capo e vede il buio
filtrare nella sala.
«Vai
pure», le dice allora l’altro, notando la sua
improvvisa ansia e
sorridendo di più, «immagino che i tuoi famigliari
ti stiano
aspettando.»
«Posso…
posso venire ancora?»
«Questo
luogo è sempre aperto: vieni ogni volta che lo desideri.
Siccome ti
piace così tanto l’astronomia, la prossima volta
ti mostrerò la
sezione scientifica e tu potrai leggere tutti i libri che
vorrai.»
Cleo
sorride e saluta vigorosamente, quindi corre fuori dalla biblioteca;
ed è qui che la luna l’attende, rifulgendo sul
capo del mare. Non
è sola: un ragazzino alto e bruno la sta fissando con la sua
medesima meraviglia, staccando lo sguardo dalla sua bianca forma solo
quando la piccola gli passa vicino. Questa scorge i suoi occhi chiari,
e immediatamente nota la dolcezza che alberga in loro: e si ferma per
un attimo a contemplarli, sorridendo appena l’altro lo fa.
«Ciao»,
le dice quest’ultimo, lanciando uno sguardo ammirato ai suoi
lunghi
capelli mori e allargando il sorriso; lei arrossisce e abbassa il
volto, improvvisamente e senza una ragione apparente.
«Ciao»,
risponde prima di scappare via sotto la galleria di archi che la
porterà a casa, correndo leggera e veloce come
un’onda — ma non
così rapidamente da evitare di sentire un: «Signor
Galileo, sono
qui!» pronunciato dallo stesso giovinetto, non
così tanto da
sfuggire alla sensazione che la voce le dà.
8 Agosto 1996, pomeriggio.
«Scegli
un nome diverso dal tuo.»
«…
Perché?»
«È
un gioco che abbiamo deciso io e il signor Galileo: un nome che
sappiamo solamente noi, un segreto e un codice.»
«Ma
se lo stai dicendo a me non è più così
segreto.»
Il
ragazzino sorride, ma non è una canzonatura quella che gli
illumina
il volto; e Cleo lo guarda senza comprendere, rimanendo in attesa.
«E
noi che volevamo farti entrare nel patto…»
Il
pomeriggio è caldo e lascia scivolare le dita anche tra
quelle mura, l’estate piena che si intreccia con il loro
respiro.
Lei
ha mantenuto i suoi propositi e ha iniziato a frequentare con
regolarità la biblioteca, e ogni volta qui
l’attendono gli occhi
caldi dell’altro, dal quale non riceve che parole gentili e
un nome
buffo: Socrate, il nomignolo che lui stesso si è dato
— un suono
che legato al corpo robusto, troppo alto e già sviluppato,
dona
un’idea di unicità che Cleo non riesce a spiegare,
ma che non le
dispiace.
È
stato lui a raggiungerla quando si è presentata su quella
soglia per
la seconda volta: le si è parato davanti come per impedirle
di
avanzare, per poi prenderle la mano e stringerla con vigore.
«Tu
devi essere la bambina che ama le stelle! Il signor Galileo mi ha
detto tutto. Vieni con me, ti faccio vedere quanti libri ci sono qua
dentro», le ha detto con entusiasmo, guidandola dentro; e lei
non ha
sentito alcun bisogno di replicare, colpita dalla cortesia con cui
è
stata accolta e ricambiando con tutta la sua allegra
spontaneità.
Socrate
non ha mentito: quel luogo si è rivelato ricolmo di
conoscenza —
non solo scientifica, ma anche letteraria e artistica: un tempio del
sapere, ecco cos’è quella biblioteca —
oltre ogni aspettativa, e
del giusto sentimento per apprenderla nella sua interezza; e lei non
riesce a rinunciare a nessuno dei pomeriggi che può passare
lì, con
una buona compagnia e tante cose da scoprire.
«Non
ti va come gioco?»
Socrate
la guarda in attesa, attirando la sua attenzione al di qua dei
ricordi di quelle ultime settimane; e Cleo lo guarda un attimo
confusa, prima di abbassare il capo sui libri aperti in grembo. «Non
ho la tua fantasia», si scusa, «…
non so come chiamarmi.»
«Socrate
non è un nome inventato; è quello di un filosofo
greco.»
«Cos’è
un filosofo?»
«È…
complesso da spiegare; pensa a una persona che ricerca la
verità nel
mondo e vuole aiutare la gente a comprenderla, e quindi a trovare la
felicità, e avrai un possibile filosofo.»
«Quindi
è una persona che fa del bene? Come i medici o gli
insegnanti?»
«Pensa,
molti di loro sono stati proprio scienziati e maestri.»
Cleo
chiude i volumi e li appoggia sul tavolo di fianco a lei, quindi si
sporge verso il giovane, una luce di spontaneo interesse nello
sguardo. «Perché
ti piace così tanto questo Socrate? Parlami di
lui», chiede,
preparandosi ad ascoltare.
Ben
poche cose possono distogliere Cleo da un libro; ma da quando il
ragazzino le ha raccontato la sua versione della fiaba di Biancaneve,
facendole dimenticare la quotidiana lettura serale per ripensare alle
parole che lui le ha lasciato, anche le migliori pagine
sull’allunaggio tremano al confronto con la
capacità narrativa del
nuovo amico. Una sconfinata immaginazione e la Storia vivono nel
sangue di Socrate come lo spazio riempie il suo; e quando le si siede
davanti per spiegarle qualche battaglia, personaggio storico o
leggenda, lei non può fare altro che accoccolarsi contro lo
schienale della sedia e iniziare a respirare nel lontano Rinascimento
o tra le spade fedeli a Re Artù, mentre anche il tramonto
muore e le
stelle di metallo rifulgono al pari delle sorelle notturne. Non
è
come quel giovane capace di rendere vivo il Passato, più
forte e
vicino, e che trasforma le proprie parole in una ricchezza che per
molto tempo lei ha ignorato; è diverso, e quello
è divenuto presto
un rituale che calma la frenesia di un intero giorno, la sua migliore
realizzazione.
«Parlami
di Socrate», ripete quindi Cleo, «che cosa ha
fatto?»
«Ha
cercato di dare il meglio alla sua città, discutendo di
morale e
conoscenza con chiunque volesse ascoltarlo; ha parlato di amore e
giustizia, ha insegnato ai giovani come essere corretti ed è
sempre
stato umano, anche quando le leggi della sua città lo hanno
condannato.
Ha
avuto tanto coraggio, accettando serenamente la propria sorte anche
quando il mondo gli si è rivolto contro e lui ha dovuto
abbandonare
anche la vita… sono tanti i motivi per cui vorrei
assomigliargli.»
Per
la prima volta in quel giorno, le parole del ragazzino si intridono
di una nota triste, simile alla malinconia ma più intensa;
Cleo la
sente immediatamente e vorrebbe chiedere il perché, tuttavia
qualcosa le dice di non farlo: non è il momento, e forse non
può
neppure capire — anche se, come dicono in molti, sa ascoltare
e
comprendere più del normale. «Doveva essere una
persona
bellissima», mormora invece, prima di fare un lieve sorriso,
«… e
ti prometto che un nome lo avrò anch’io, appena
troverò chi
potrei diventare.»
È
appena caduta la sera quando, dopo alcuni attimi, entrambi distolgono
lo sguardo dal volto opposto e osservano il residuo chiarore che
filtra dalle vetrate; e Cleo sospira, restia ad alzarsi dal tavolo
nonostante l’accordo fatto con la famiglia: rincasare non
oltre il
tramonto, e abbracciare la notte solo in compagnia di qualcuno della
famiglia.
«Oh,
è già ora», si rende conto il
ragazzino, guardandola levarsi in
piedi e stringersi al petto gli ennesimi libri presi in prestito; lei
annuisce, quindi abbozza un sorriso. «Non disperiamo: domani
sarò
di nuovo qui, dopotutto», risponde.
L’amico
ricambia il sorriso, quindi si alza a sua volta. «Vuoi che ti
accompagni? Ti devo ancora raccontare la tua storia serale.»
Cleo
acconsente subito e istintivamente lo prende per mano. La sente salda
e sicura, la sua presa le dona una bella sensazione di calore.
«Certo
che sì, se te la senti: dobbiamo salire in cima al borgo, ma
si fa
presto. Tu dove abiti? Non ti ho nemmeno mai visto,
qui…»
Mentre
quasi lo trascina fuori dalla biblioteca e lungo le vie, Cleo si
rende conto che è la prima volta che gli fa quelle domande:
i loro
discorsi si sono sempre soffermati per lo più sulle
rispettive
conoscenze e sui molti interessi, così che praticamente non
sa nulla
del perché sia lì o i motivi per cui lo abbia
conosciuto solo
quell’estate, o anche solo di quanti anni abbia.
Già
lo sai che lui è diverso, Cleo. Qualunque età
abbia, sembrerà
comunque più grande… è unico, ed
è bello così.
«Sulla
parte alta, come te, dove abitano i miei nonni; sono in vacanza da
loro per la prima volta, ecco perché non mi hai mai
visto.»
«Dove
vivi tu c’è il mare?»
«È
una città enorme, quasi non ci sono nemmeno parchi.
È praticamente
impossibile trovare un luogo libero da pietra o asfalto; ed ecco
perché questo posto mi è piaciuto fin da subito,
ma mi ha fatto
anche sentire un estraneo. Pensa, non so neppure
nuotare…»
«Aspetta,
davvero? È una delle cose più belle che si
possano fare, devi
imparare assolutamente!» I riccioli d’ebano si
agitano come onde,
gli occhi brillano ancor più del solito per la decisione.
«Devo
cercarti un insegnante.»
«Non
ce n’è bisogno, Cleo!»
«Ma
ti potrebbe piacere…»
«Lo
credo anch’io, ma… ma non credo che ne avremo la
possibilità.
Questi saranno gli ultimi giorni per me, qui.»
Lei
si ferma, lo guarda di nuovo con intensità. «Non
lo sapevo», la
voce improvvisamente più bassa, «…
spero che tu rimanga almeno
fino alla notte di San Lorenzo. Dalle torri il cielo è uno
spettacolo, e almeno avresti un bel ricordo di questo posto.»
È
Socrate a trattenerle la mano ancora legata alla propria, questa
volta; e l’espressione dolce con cui la guarda la costringe
ad
arrossire. «Più di uno, direi»,
risponde, prima che lei ricominci
ad avanzare.
La
voce dell’altro l’accompagna per tutto il resto del
tragitto; ma
questa si infila dentro la sua mente con minor forza del consueto,
anche se la testa non è attraversata da alcun pensiero e il
vuoto è
l’unica presenza.
Perché?
La
presa non si scioglie fino a quando la casa della piccola non compare
davanti a loro; ed è qui che Socrate abbandona la sua mano
per
accarezzarle un ricciolo ribelle, trattenendola ancora per un
momento. «Sei diventata silenziosa. Qualcosa non
va?»
Cleo
scuote la testa, ma non riesce a mentire del tutto: né a
sé stessa,
né all’altro. «Solo… credevo
che saresti rimasto qualche giorno
di più, ecco», mormora infine lei, realizzando
solo in parte quello
che davvero sente; ciò che è rimasto silente e
ancora oscuro forse
si mostrerà nel tempo, e chissà per quale motivo.
«Hey,
non ho detto che devo partire ora! Abbiamo ancora del tempo, quindi
cerchiamo di divertirci il più possibile.»
La
mora annuisce, fa una smorfia che vorrebbe essere un sorriso; in
risposta, il ragazzino le arruffa i capelli e le si avvicina di
più.
«Ti prometto che una di queste notti, che sia quella di San
Lorenzo
o la precedente, vedremo insieme le stelle; sul mare, magari. Che ne
dici?
Possiamo
farci accompagnare da qualcuno dei grandi, così le nostre
famiglie
saranno tranquille.»
«Sì,
va bene, mi piace come idea», sorride lei, ora con
più foga e
rinnovata serenità, mentre si alza sulle punte per
arrivargli più
vicino, «e ora, rimani ancora un attimo: devi raccontarmi una
storia, ricordi?»
12 Agosto 1996, mattino.
Cleo
guarda il piccolo molo, e l’aurora che tinge il mondo con i
colori
del nuovo giorno. Socrate è partito nella notte,
l’ha salutata
poche ore prima; di lui le sono rimaste tante immagini di giorni
spensierati e compagnia, oltre che un ultimo abbraccio e una
confessione finale.
Mi
chiamo Luca, Cleo; ma tu continua a chiamarmi Socrate, va bene? Ci
rivedremo presto, piccola amica.
È
malinconica e non lo nasconde: l’estate che corre verso la
propria
fine le ha mosso il cuore e, almeno in una parte di esso,
l’infanzia
è scomparsa.
«Tornerà,
non ti preoccupare. Un anno passa in fretta, non avrai nemmeno il
tempo di accorgertene che lui sarà di nuovo qui, con
te», le ha
mormorato il signor Galileo quando ha notato la sua espressione, e la
mora le ha ripetute anche nel suo letto, fino a quando la stanchezza
non l’ha costretta a cedere e le ha fatto sognare un altro
mattino.
La
mezzaluna diminuisce la propria luce insieme a lei,
l’accarezza
appena senza raggiungere i pensieri; solo una nuova primavera
potrà
risolvere certe verità, renderle più profonde o
mutarle, e solo
nell’estate una parte del cuore — quella che
già porta un altro
nome — ritornerà a sentire.
NOTE
[1] Neil Armstrong e Buzz Aldrin, astronauti della missione spaziale Apollo 11, primi uomini a toccare il suolo lunare. Una delle foto più memorabili dell’impresa (forse la più nota) ritrae proprio quest’ultimo: https://it.wikipedia.org/wiki/Buzz_Aldrin#/media/File:Aldrin_Apollo_11_(3x5_crop).jpg
[2] Si tratta del celatone, strumento inventato da Galileo per osservare i satelliti di Giove e poter, tramite questi, misurare la longitudine in mare. Si tratta di una sorta di elmo metallico, alla cui visiera è fissato un cannocchiale.
[3] Sfera formata da anelli metallici, le armille, ognuna delle quali rappresenta uno dei circoli della sfera celeste (sfera immaginaria sulla cui superficie sono proiettati tutti gli astri).