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Autore: Lilith_Luna    02/10/2018    1 recensioni
L'epoca vittoriana è un periodo difficile per una donna, il cui obbiettivo è quello di riuscire a sposare un uomo ricco e per bene, e per farlo doveva essere al massimo dell'eleganza e della raffinatezza. Ciò significava essere vestita sempre alla moda, rispettare l'etichetta, saper creare bouquet di fiori, sapere dipingere, suonare uno strumento, e così via.
Tra le cose che ad una giovane ragazza vittoriana veniva insegnato alla scuola per signorine, erano i linguaggi segreti attraverso cui potevano comunicare con gli uomini in modo discreto. Come ad esempio il linguaggio segreto del ventaglio.
Ma cosa succede se una ragazza non si rende conto di ciò che sta comunicando? Se viene fraintesa?
Questa storia è nata dal primo prompt del Writober e ha lo scopo sia di illustrare in poche pagine alcune curiosità dell'epoca vittoriana, sia di strappare qualche sorriso.
Genere: Comico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Età vittoriana/Inghilterra
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L’arrivo di ottobre significava solo una cosa per Nellie ed Elizabeth: l’inizio della Piccola Stagione londinese. Nellie, la maggiore, avrebbe fatto il suo debutto in società la primavera successiva, ma la madre aveva vivamente consigliato di approfittare di quel periodo per farsi conoscere in città. Così, bagagli in carrozza, le due sorelle erano partite alla volta di Londra per andare a trovare zia Prudence.
Elizabeth era la più elettrizzata. Essendo solo di due anni più piccola di Nellie avrebbe debuttato l’anno dopo quello della sorella, ma l’idea di stare con delle vere dame le imporporava le guance come facevano le fredde giornate invernali e le faceva vibrare il cuore.
‹Non ti esaltare troppo››, la rimproverò Nellie, ‹‹la mamma ti ha permesso di venire con me come accompagnatrice per darmi una mano con gli abiti e perché altrimenti avresti fatto i capricci››.
Il brillio negli occhi della sorella minore la metteva sempre in allarme. Elizabeth era una cara ragazza, graziosa come un fiore in boccio ed educata, ma ogni tanto quello che la madre chiamava “Il Folletto dei Gaskin” – proveniente dalla famiglia del padre, al quale Lizzie somigliava molto – le sussurrava all’orecchio e le faceva combinare qualche pasticcio. Quando aveva dieci anni, Elizabeth credeva davvero che un folletto invisibile le si posasse sulla spalla, così prima di andare a dormire spazzolava energicamente i capelli per controllare che non vi avesse fatto il nido e una volta addirittura andò in giro con un paio di teste d’aglio appese alle orecchie, convinta che l’odore avrebbe tenuto lontano il famoso folletto.
‹‹Il mio incarico ufficiale, invero, è controllare che tu non faccia la civetta a qualche ballo››, la punzecchiò, conoscendo bene il timore folle di Nellie di fare brutte figure in pubblico e disonorare il nome della famiglia. ‹‹Quello non ufficiale, invece››, proseguì abbassando la voce, anche se non occorreva dal momento che erano sole in carrozza, ‹‹è di evitare che tu muoia di noia con zia Prudence o che ti faccia rimpinzare di tramezzini al cetriolo fino a non entrare più nel corsetto, che ti ricordo che va di moda più stretto dell’anno scorso››. Elizabeth sollevò il nasino con fare snob imitando Georgia Hamilton, compagna di corsi della sorella alla scuola per signorine.
‹‹Sappiamo benissimo come andrà a finire, invece. Sarò io a dover tenere d’occhio te per non incorrere in figure sconvenienti. Non sperare di essere invitata ad un ballo, comunque, lo vedo molto inverosimile››.
‹‹Non se il ballo lo organizza la zia››. Così dicendo mise fine alla discussione con una linguaccia.
La casa di zia Prudence era situata abbastanza in centro. Ad attendere il loro arrivo davanti al cancelletto c’era il signor Palmer, fedele maggiordomo della zia da moltissimi anni – e secondo le fantasie delle ragazze, qualcosa più di un servitore dalla morte del caro zio. Non tornavano in quella casa da circa sei anni. Da fuori nulla pareva cambiato.
‹‹In perfetto orario per il tè, signorine. Vostra zia vi attende in salotto››.
In effetti qualcosa era cambiato. Palmer aveva perso la metà dei capelli.
La prima cosa che Elizabeth controllò non appena varcata la porta rossa, fu la dimensione della casa; ricordava molte stanze, ma non era certa se ci fosse spazio sufficiente per un ballo. Quando entrarono in salotto riformulò il pensiero: un ballo piccolo ci poteva stare, dopotutto.

Durante il tè, Elizabeth lasciò che fosse Nellie a condurre la conversazione, annuendo con un sorriso dove veniva interpellata indirettamente e afferrando un tramezzino al cetriolo ogni volta che zia Prudence guardava il vassoio mezzo pieno con la coda dell’occhio. Un paio riuscì a farli finire sul tappeto dietro il divano, dove fu compito di Spencer il carlino farli sparire. Come al solito però la noia di quel tipo di discorsi finì per portarla a vagare con la mente verso altro; si stava chiedendo se sarebbe riuscita a fregare da sotto il naso della zia qualche tartina al limone per nasconderla nel sacchetto di stoffa che portava appeso alla crinolina sotto gli abiti (sua madre e sua sorella non erano riuscite a toglierle quella brutta mania), quando sua zia la interpellò. Non avendo idea di quale domanda le fosse appena stata rivolta, Elizabeth cercò aiuto da sua sorella, che arricciò le labbra in un gesto di rimprovero prima di formulare la parola “fiori”.
 I fiori che impestavano la casa di odore di giardino bagnato? Sì, li aveva notati. Voleva un commento sui suoi fiori?
Non ricevendo risposta, zia Prudence si indignò un poco e bevve la sua tazza di tè fino all’ultima goccia. Nellie approfittò di quel momento per suggerire alla sorella una forma piccola e allungata con le dita affusolate.
I tussie-mussie! Stavano parlando dei vasetti d’argento che si appuntavano al corsetto degli abiti. Elizabeth stava ancora imparando ad abbinare i fiori, come ci si aspettava da una raffinata ragazza dell'alta borghesia. 
‹‹Oh, ehm, non ho ancora imparato gli abbinamenti più ricercati, ma quelli classici…››. Fu interrotta dal suono del campanello d’ingresso. Le sorelle si irrigidirono, preoccupate che qualcuno potesse vederle con i capelli in disordine per il viaggio e gli abiti sgualciti. Tirarono un sospiro di sollievo quando videro entrare in salotto solamente Palmer, che reggeva un piccolo vassoio d’argento su cui posava una busta.
Zia Prudence inforcò gli occhialini e ne lesse velocemente il contenuto. Una smorfia di disappunto le intensificò la già rigida espressione del volto.
‹‹Lo sapevo che si era trattato di un errore››. Ripose gli occhialini in grembo assieme alla lettera. ‹‹A quanto pare c’è stato un disguido nel recapito degli inviti al ballo di beneficienza di domani a Villa Peacock e il mio è andato perduto. Me ne hanno mandata una copia posticcia. Che vergogna››.
Un invito posticcio è sempre meglio di nessun invito, pensò Elizabeth, ma lo tenne per sé.
‹‹Non ci andrai, zia?››, chiese Nellie.
‹‹Ci andremo. Fare beneficienza è un atto altamente nobile e non sarà un errore di… posta, a impedirmi di fare il mio dovere››.
Alla parola “dovremo” entrambe le sorelle reagirono aggrappandosi alla stoffa delle loro gonne.

E così era successo. Erano in città solo da poche ore ed erano state invitate ad un ballo. Anche se tecnicamente era stata zia Prudence ad essere invitata, le ragazze si sentirono come se l’avessero ricevuto loro il biglietto, tanto che Elizabeth aveva insistito per tenere il foglio posticcio e poterlo rimirare ogni volta che voleva. Steso in bella vista sul tavolo da toletta, vi faceva cadere sopra l’occhio durante i preparativi ogni volta che ne aveva l’occasione, mentre Nellie le raccoglieva i boccoli dorati sopra la testa o mentre si allacciava gli stivaletti satinati. Fissava l’elegante calligrafia decorata con cui era stato scritto “Villa Peacock” anche mentre sua sorella le stringeva il corsetto e fra un saltello e l’altro mentre si infilava gli strati di gonne.
Hanna, la cameriera personale della madre, quando le aveva insegnato a vestirsi da sola le diceva sempre che per far cadere bene la stoffa sulla crinolina doveva fare saltelli da uccellino e ogni volta diceva “salta passerotto!” e lei rideva e rideva. Lo stava facendo anche ora, pur se limitandosi a dei sorrisi. Le sembrava così lontana la sua infanzia guardandosi allo specchio. La bambina con i capelli sciolti e le gonne ai polpacci aveva lasciato il posto a una giovane donna dall’invidiabile carnagione di porcellana. L’unica cosa di quegli anni che ancora portava, erano gli occhi: grandi, limpidi, chiunque capitolava davanti a quello sguardo innocente, dai genitori alla servitù. Era certa di poterli sfruttare anche con altre persone al di fuori della sua famiglia e non vedeva l’ora di mettersi alla prova.
Nellie, per contro, era molto nervosa e intanto che la cameriera personale di zia Prudence l’aiutava nell’allacciamento del corsetto, fu costretta a sopportare la sorella che camminava avanti e indietro nella camera, dimenando qua e là il ventaglio, ripassandone il linguaggio segreto.
‹‹Lizzie, piantala! Tanto non lo puoi usare!›› I fini capelli chiari appena arricciati le scivolavano davanti al volto, spostandosi in aria ad ogni suo sbuffo.
‹‹È solo per esercitarmi, non ti preoccupare››, disse alzando gli occhi al soffitto. ‹‹Non metterò in imbarazzo la nostra famiglia››.
La testa acconciata di Nellie fece capolino da un mucchietto di stoffa che la cameriera di cui non avevano appreso il nome le aveva calato addosso. ‹‹Lo spero per te o il solo matrimonio che ci potremo permettere verrà da una fuga in Scozia››.





Una leggera pioggerella rinfrescava la serata. Elizabeth aveva insistito per portare con sé l’invito, anche se non era necessario, stringendoselo al petto nella breve corsa senza ombrello dal portone alla carrozza. Le sue dita lo avevano toccato talmente tante volte che le sbavature sull’inchiostro in alcuni punti sembravano le lacrime di un’innamorata non corrisposta.
Ci vollero venti minuti per raggiungere la villa, i quali furono passati in un silenzio carico di tensione, interrotto saltuariamente da un sospiro di Elizabeth o da una raccomandazione di zia Prudence. Il rumore della pioggia sul tettuccio dell’abitacolo, lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli e i lenti respiri costretti dal corsetto, fecero scivolare Elizabeth in un dormiveglia agitato dagli sbalzi della carrozza sulla strada irregolare, il gomito appoggiato alla finestrella e la fronte posata contro l’inseparabile foglio di carta. Non si accorse di essersi addormentata finché la carrozza non frenò bruscamente, facendola svegliare con uno scossone che le fece mancare l’appoggio del braccio. Si ritrovò con il foglio appiccicato alla fronte, questo sollevò una sonora risata dalle sue compagne di viaggio, almeno fino a che non si staccò il biglietto dalla faccia. A quel punto zia Prudence cacciò un urlo stridulo e sua sorella si portò le mani alla bocca.
 ‹‹Oh santo cielo, oh santo cielo, oh santo cielo!››, ripeté Nellie in preda al panico mentre cercava di tirare fuori il suo specchietto dorato dalla piccola borsa di stoffa che portava legata al polso. Quando glielo piazzò davanti al viso, un grido le si strozzò in gola, ricordandole il guaito di un cane: sulla sua fronte spiccava la parola “cock”. L’ossessione per quel maledetto invito le si era stampata in faccia.
Incapace di formulare frasi di senso compiuto si sventolò il viso incandescente mugolando. Nel frattempo arrivarono a destinazione.
‹‹Non c’è tempo! Non c’è tempo!››, squittì zia Prudence. ‹‹Nellie, cerca di coprirle la fronte con i ciuffi più che puoi, poi cercheremo di sistemarti››.
Elizabeth scese dalla carrozza aprendo il suo ombrellino, complice solo per il sentiero di ghiaia che portava all’imponente portone. Alla vivida luce del salone d’ingresso però, i caratteri neri erano chiaramente visibili fra le ciocche bionde. Zia Prudence prese la decisione d’impulso.
‹‹Lizzie, prendi quel corridoio, dietro la statua di Apollo, e vai a nasconderti nelle stanze adiacenti alla sala da ballo. Non possiamo presentarti così, corri, vai!›› Elizabeth corse.
Ricomponendosi, zia Prudence si rivolse a Nellie. ‹‹Dovrà restare nascosta, non può farsi vedere in giro senza essere presentata. Fingeremo di essere solo noi due››.
Nellie non aveva mai partecipato ad una ballo, ma dopo quella sera poté dire che quello di Villa Peacock fu il più bello a cui assistette. Se non altro perché fu altamente fuori dal normale.
Lei e sua zia vennero presentate a Lady e Lord Chapman. Entrambi portavano rispettivamente nell’acconciatura e nel taschino una piuma dei pavoni per cui la villa era famosa. Nellie si appuntò mentalmente quel dettaglio per poi riferirlo alla sorella, magari aggiungendovi una battuta a riguardo. Zia Prudence la portò a conoscere gli habitué dei balli di città e con sorpresa Nellie si ritrovò davanti Georgia Hamilton e la sua famiglia. Se non altro avrebbe avuto compagnia, mentre si preoccupava dell’etichetta e, non per minor importanza, della sorella infiltrata nascosta chissà dove.

Dopo un’ora non aveva ancora partecipato a nessun ballo, complice il suo vagare per la sala disconnesso e continuo, alla ricerca di una porta aperta per poter accedere alle stanze attigue. Finalmente, dopo un tempo che le parve lunghissimo, le alte porte color crema vennero spalancate al medesimo tempo e gli invitati poterono sparpagliarsi nelle varie camere adibite a salottini per riposare tra un ballo e l’altro. Nellie seguì Georgia in un salottino illuminato da fioche lampade con divani e poltrone di velluto rosso, continuando a guardarsi attorno, chiedendosi dove fosse andata a finire Elizabeth.
‹‹Stai cercando un ragazzo?››, le domandò l’amica. A Nellie non piaceva il modo di Georgia di evidenziare sempre le parole nei discorsi. ‹‹Sei stata invitata da qualcuno, almeno?››
 Nellie scosse la testa, il mento alzato, mostrando di non essere interessata a ballare.
Georgia portò il ventaglio aperto alla guancia. Riconoscendo quel movimento non poté che preoccuparsi ancora di più per la fine che aveva fatto sua sorella. Prima che potesse allontanarsi dall’amica però, il suo gesto venne colto da un gruppetto di tre giovani. Nellie irrigidì la mascella. Sarebbe stata costretta a ballare, ora.
Uno spostamento fugace di blu colto con la coda dell’occhio le fece trattenere il respiro. Aveva scelto personalmente quella stoffa e quella sfumatura, non poteva sbagliarsi. Una repentina rotazione del collo poco prima che i ragazzi le raggiungessero le permise di vedere Elizabeth accucciarsi dietro uno dei divani.

Elizabeth, dal suo angolino schiacciato contro la parete, osservava sua sorella conversare con Georgia Hamilton e dei giovani in completo elegante. Il suo stomaco mandava ormai da un’ora una piccola serie di lamenti per la fame e sperava che le signore sul divano non la sentissero. Sperava altrettanto che la lasciassero sola e tornassero tutte a danzare la quadriglia. Non sapeva nemmeno se Nellie l’avesse vista durante i suoi spostamenti da quando le stanze erano state aperte. 
Finalmente il salottino si stava svuotando al ritmo di fruscii di sete, tulle e trine. Pregò che alzandosi le signore sedute sul divano non si guardassero alle spalle, o l’avrebbero sicuramente vista acquattata sul pavimento come una ladra. All’improvviso qualcosa la colpi ad una clavicola nuda, strappandole un sommesso sussulto. Era la borsetta di Nellie. Non osò muoversi per controllare oltre il bordo della spalliera, se l’aveva lanciata evidentemente non poteva avvicinarsi o peggio stava andando via anche lei, magari con quei ragazzi e Georgia.
Aprì la borsetta e con somma gioia la trovò piena di tramezzini, focaccine e persino un pasticcino alle fragole. Beh, la fragola doveva essere finita da un’altra parte perché la crema aveva un buco nel mezzo. Iniziò a mangiare voracemente maledicendo la posizione scomoda. Una volta finito si pulì la bocca con la borsetta stessa e sbirciò la stanza da sotto il divano. Sembrava vuota.
Si azzardò ad alzarsi in piedi e in qualche balzo raggiunse la porta per dare un’occhiatina fuori. Oh, quanto desiderava partecipare a quel ballo. Con una scrollata di riccioli si riprese dai pensieri romantici che la sua mente aveva iniziato ad intessere come un candido abito da sposina e chiuse una delle porte, piano piano, sperando di non attirare l’attenzione di qualcuno nel salone. Con questa sicurezza in più poté rilassare leggermente i muscoli, tesi fino a dolerle, e cercare di ovviare al problema della sua faccia. In fondo alla stanza, vicino al divano dietro cui si era nascosta, un prezioso specchio intarsiato sembrò illuminarsi, invitandola a raggiungerlo.
Elizabeth, disperata, intinse due dita nel vaso di rose rosse del mobiletto sotto allo specchio e iniziò a strofinarsi la fronte, ma riuscì solo a sbavare la lettera k, allungandola.
‹‹Oooh accidenti!››, imprecò pestando i piedi.
‹‹Mi era sembrato di vedere qualcuno››. Una voce maschile la fece girare talmente di scatto che la stoffa del vestito le si avvitò attorno alle gambe prima che la crinolina la riportasse al suo posto. Per fortuna la stanza non era illuminata quanto in precedenza, dal momento che una porta era chiusa, ma temeva che la sua fronte fosse ugualmente troppo in vista. Sistemò velocemente il ciuffo di capelli con le dita bagnate e si sedette con affettata eleganza sul divano.
‹‹Perdonate l’intrusione, signorina, ma vedendo che tutte le dame sono tornate a ballare ho pensato che foste rimasta senza cavaliere››.
‹‹Volevo riposarmi ancora un attimo, la mia… caviglia, sapete, credo di aver preso una distorsione››. Così dicendo si accomodò meglio sui cuscini, cercando di stare nell’ombra.
‹‹Non vi vedo bene, ci hanno già presentati nel salone?›› Con passo incerto, il ragazzo si avvicinò ad Elizabeth, che in preda al panico e dimentica del linguaggio che le avevano insegnato, aprì di scatto il ventaglio in tinta con il suo abito, senza prestare attenzione a come lo muoveva. Cercò di farsi aria in entrambe le direzioni per non scoprire troppo la fronte ma il ragazzo dovette fraintendere perché si bloccò a metà strada e chinò la testa.
‹‹Vi chiedo scusa, evidentemente non ci conosciamo. Posso comunque offrirvi da bere giacché sono qui?››
In controluce Elizabeth non si era accorta che il giovane aveva in mano due calici e sebbene la razionalità le dicesse che non doveva permettere al ragazzo di avvicinarsi, il cibo salato che aveva ingerito con ingordigia reclamava un po’ d’acqua o qualsiasi cosa quegli invitanti calici di cristallo cesellato contenessero.
‹‹Volentieri, vi ringrazio››. Permise così al ragazzo di avvicinarsi con un cenno del capo.
Cercò di non trangugiare la fresca bevanda, tenendone una parte per dopo.
‹‹Posso chiedervi come vi chiamate, signorina?›› Sebbene quasi in penombra, Elizabeth rimase ammaliata dalla vista del giovane. Il volto era affilato, gli occhi piccoli, una leggera peluria sul labbro superiore accentuava la sottigliezza delle labbra.
‹‹Mi chiamo El…››, ma non poteva dire il suo nome. ‹‹Eloise››.
Il ragazzo sollevò un sopracciglio invitandola a finire il nome ed Elizabeth si vide costretta a mettere alla prova i suoi occhi da fanciulla. Socchiuse languidamente le palpebre, sventolandosi molto lentamente. ‹‹Non trovate che un alone di mistero renda la conoscenza più intrigante?››
Il ragazzo parve stare al gioco.
‹‹Se la mettete così, piacere di fare la vostra conoscenza, Lady Eloise, io sono John››.
Elizabeth ripeté il nome con labbra immaginarie, pensando a come potesse suonare invece il suo vero nome pronunciato da quella bocca.
‹‹Avete danzato abbastanza, John?›› Portò il ventaglio aperto alla fronte, poggiando la testa alla mano. Quel gesto, sebbene dovesse essere compiuto coprendo interamente fronte e occhi per significare una dichiarazione, mise in difficoltà il ragazzo, che si chiese se avrebbe dovuto prestare più attenzione alla spiegazione che suo cugino aveva cercato di dargli a riguardo.
Pensando di essere preso in giro, John iniziò a giocherellare con i gemelli d’oro, cercando qualcosa da dire. Elizabeth, ancora inconscia di ciò che stava comunicando, chiuse il ventaglio sulla fronte per comodità. Su quel gesto John era sicuro, significava che le dispiaceva, quindi forse era vero che si stava prendendo gioco di lui. O forse doveva passarlo sugli occhi, non sulla fronte? Sempre più a disagio per quel linguaggio non verbale, il ragazzo scattò in piedi.
‹‹Vogliate scusarmi, Lady Eloise, posso andare a riempirvi il calice?›› Doveva assolutamente andare a consultarsi con suo cugino. Si sentiva un tale stupido. Recuperato il bicchiere di Elizabeth mosse un passo verso il salone, ma scivolò su qualcosa e finì schiena a terra con un tonfo secco. I calici mezzi pieni si rovesciarono su di lui in un arco che brillò dorato controluce.
Elizabeth si buttò accanto a lui per controllare come stava, senza preoccuparsi che chinandosi in avanti le si era scoperta la fronte. John, momentaneamente stordito dal colpo alla schiena strizzò gli occhi cercando di mettere a fuoco il viso della fanciulla.
‹‹Cosa… cosa avete sulla fronte?››
‹‹Oh cielo!›› Elizabeth non ragionò minimamente sul gesto che stava andando a compiere. Il panico le mosse la mano ad afferrare uno dei vasi di fiori più vicino e lo fracassò sulla testa di John.
‹‹Oh cielo, cielo!›› Elizabeth si prese la testa fra le mani cadendo indietro sul sedere. Lo sguardo corse lungo il corpo del ragazzo fino a posarsi sul lucido pavimento nel punto in cui era scivolato. Schiacciata fino a creare una poltiglia c’era la fragola che era scappata dal suo pasticcino. Era doppiamente colpevole del trauma causato al povero ragazzo. Una risata derivata da nervosismo isterico le increspò le labbra per qualche secondo, poi, presa da un senso di colpa criminale, corse a nascondersi in un’altra stanza fino al termine della serata, pregando che qualcuno lo soccorresse.




Elizabeth, una volta uscita indenne da quella folle serata, non raccontò mai a sua sorella di ciò che era successo in quella stanza, ma lasciò che fosse lei a narrarle i fatti avvenuti. Due anni dopo, la sera del suo debutto in società conobbe un certo John Turner, che durante la serata le lanciò occhiate strane, fino a che Elizabeth, terrorizzata al pensiero che l’avesse riconosciuta, gli chiese spavaldamente il motivo di quegli sguardi. John rispose che gli ricordava una ragazza che credeva di aver conosciuto anni prima ad un ballo di beneficienza, ma che non poteva esserne sicuro dal momento che quella sera cadde inciampando in un tappeto e un vaso lo colpì alla testa, causandogli una parziale perdita di memoria. Sulla falsa riga di questa conoscenza, i due iniziarono a frequentarsi ed Elizabeth poté finalmente udire il suono della voce del ragazzo pronunciare il suo nome e non quello della dama diventata ormai leggenda, tale Dame Coquette, famosa per partecipare ai balli per civettare con i ragazzi e poi sparire.
 
 

 
  
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