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Autore: ChiiCat92    05/10/2018    0 recensioni
"[...]appoggiò la gabbietta nuovamente sulla scrivania e prese un fazzoletto di stoffa per coprirla. Ma prima, abbassatosi al livello della creatura, gli rivolse un sorriso. « Ti chiamerò Skychild. Vedrai, ci divertiremo tanto insieme! »"
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ghirahim, Link
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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05/10/2018

 

AU


Il suono che emetteva, dibattendosi nella minuscola gabbietta, era un frullio d’ali disperato, testardo, energico. A tratti si fermava, come in ascolto di ciò che aveva intorno, per poi tornare ad accanirsi sulle sbarre con più forza.

Era affascinante vedere quella creaturina combattere invano per la sua libertà.

Ghirahim la osservava da lontano. Ne era più incuriosito che spaventato, ma nonostante questo si teneva a distanza.

Sapeva che, dall’angolo buio della stanza, la creaturina non poteva vederlo, così era libero di osservarla e studiarla e...ammirarla, per il suo inutile coraggio.

La creaturina aveva quattro ali sulla schiena, due più lunghe e due più piccole, che alla luce della luna che filtrava dalla finestra erano opalescenti, traslucide come vetro dipinto. Somigliavano in qualche modo alle ali di una libellula, ma erano più delicate, più eteree. A riempire i grandi occhi neri di Ghirahim di puro stupore infantile, però, non erano quelle ali, ma il corpicino a cui erano attaccate.

Era un omino, una piccolissima miniatura di uomo, magrolino, con un divertente vestito a tunica, legato in vita con una cintura (forse ricavata dal pistillo di un frutto), fatta con una foglia verde; aveva una zazzera di capelli biondi che incorniciavano un visetto sbarazzino, giovane; occhi blu intenso, pieni di rabbia e frustrazione, scrutavano tutto intorno, senza sapere di essere minuziosamente studiati da lontano; orecchie lunghe, appuntite, che fremevano al minimo rumore.

Ghirahim aveva visto su un libro di fiabe un’immagine simile a quella della creaturina, e quando l’aveva indicata con il ditino gli era stato detto che si trattava di una fata. Le fate erano esseri dei boschi, che tessevano abiti con fili di ragnatela e danzavano su funghi rossi, o almeno, era così che lui pensava che fossero.

Tutto era iniziato quella mattina. Allontanatosi dagli altri bambini per seguire un gatto randagio, Ghirahim aveva sorpreso la fata mezza intontita e quasi morta di freddo ai piedi di un albero. Il gatto aveva, ovviamente, perso ogni interesse per lui e si era subito gettato sull’essere tutto emozionato. Dapprima l’aveva punzecchiato con un bastoncino, poi, vedendo che respirava e che era vivo, l’aveva preso tra le mani e ficcato nello zainetto.

Ovviamente non ne aveva parlato con nessuno, né con la suora che l’aveva sgridato per essersi allontanato dal gruppo, né con gli altri bambini. Si era limitato a correre nella sua stanza e a svuotare la cassa dei giocattoli per cercare quello che gli interessava: una vecchia gabbietta con un uccello meccanico di plastica che ormai non cantava più. Strappato l’uccellino aveva infilato nella gabbietta la fata e poi l’aveva messa sulla scrivania, aspettando qualcosa.

Aveva aspettato quel “qualcosa” per tutto il giorno, era andato a pranzo, pensando alla fata, aveva fatto i compiti, pensando alla fata, e aveva detto le preghiere della sera in coro con tutti gli altri, sempre pensando alla fata.

Solo dopo che era tornato, a sera, dopo cena, quando la luna si era alzata alta in cielo, la fata si era svegliata.

Era affascinante la foga che impiegava per scuotere le sbarre, provocava uno strano senso di appagamento nel bambino: lucertole, gatti, il cane della Madre Superiora, nessuno di loro aveva cercato di liberarsi dalla sua presa, non si erano dibattuti, e quando li aveva uccisi se n’erano accorti a malapena.

Ma quella creatura...oh, sembrava così intenzionata a sopravvivere.

Ghirahim la osservò emettere uno sbuffo e lasciarsi cadere a gambe incrociate sul pavimento della sua cella. Doveva essere esausta, forse era ferita, ma non si era arresa: stava solo prendendo qualche istante per riflettere.

Fu allora che il bambino uscì dal cono d’ombra che lo nascondeva.

La fata balzò subito in piedi, gli occhi sgranati per la paura, e indietreggiò abbastanza da rendersi conto di non poter andare oltre.

« Ciao. » disse quindi lui, un sorriso largo sulle labbra.

La creatura non rispose, e d’altronde Ghirahim non era neanche certo che capisse la sua lingua o se fosse in grado di parlare. Era più umana o più animale? E che genere di animale era? Un insetto, magari?

E poi, provava dolore? Sapeva pensare come pensano le persone? Provava emozioni?

Non avere risposte a quelle domande era come avere addosso centinaia di spilli.

Si fece più vicino, mentre la fata si spinse come poté contro le sbarre della gabbietta.

« Hai paura? » gli chiese, curioso, abbassandosi al livello dell’esserino.

Com’era piccolo, avrebbe potuto schiacciarlo con una sola mano, togliergli il respiro, fermargli il cuore. E voleva davvero tanto farlo, ma così avrebbe perso il suo nuovo giocattolo.

Lentamente, l’essere scosse la testa. Ghirahim inarcò le sopracciglia candide.

« Era un “no” quello? Quindi non hai paura? » di nuovo, la creatura scosse la testa. « Riesci a capire quello che dico? » stavolta, la fata annuì.

Stavano comunicando! Eccitato da quella scoperta batté le mani, saltellando appena sui piedini. Aver aspettato tutto il giorno per vederla svegliarsi ne era valsa la pena.

Da così vicino era chiaro che la fata era un maschio, o almeno era quello che lasciavano intendere le forme del suo corpicino. Quindi forse “folletto” era il termine più adatto, anche se “fata” gli piaceva di più.

Ghirahim tornò ad ammirarlo da vicino. La sua pelle era candida, bianca come il latte, e i capelli sembravano fili d’oro.

« Bellissimo. » si lasciò sfuggire il bambino, gorgogliando di piacere, le labbra esangui a furia di mordicchiarle per trattenere quella tensione. « Hai un nome? Sai dirmelo? Puoi parlare? »

La fata, a quelle domande, sembrò rilassarsi, anche se rimaneva sul chi vive, come se mai potesse fare qualcosa se Ghirahim avesse voluto dilaniare il suo corpo. Poi mosse le mani, facendo strani gesti, e indicò il bambino.

« Cosa? » chiese lui, e la fata ripeté quei gesti. Che quello fosse il suo modo di comunicare? Il bambino piegò di lato la testa, confuso, le sopracciglia aggrottate. « Mi dispiace, non riesco a capirti. » e si strinse nelle spalle, desolato.

Prese la gabbietta, sollevandola con estrema attenzione, per portarla sul letto. Con la coda dell’occhio vide come la fata si aggrappava convulsamente alle sbarre per non essere sballottato qua e là. Davvero carino.

« Non avevo mai visto una cosa come te. » mormorò il bambino, osservandolo dall’alto mentre si sedeva sul letto. « Beh, in realtà non sapevo che esistessi, tu o altri. Ce ne sono altri? » la fata annuì, ma in modo cauto, come se stesse valutando quanto poteva fidarsi del bambino, i begli occhi blu sempre diffidenti. « Oh, che bello! »

Ghirahim si sporse verso il comodino. Si guardò intorno, anche se sapeva che nessuno poteva vederlo e che non l’avrebbero disturbato, e dal primo cassetto prese un paio di forbici.

« Queste le ho rubate dalla cucina, sai? » le lame affilate fecero sbiancare il faccino adorabile della fata. Era molto più divertente che con gli animali. « Dimmi una cosa, se ti strappassi le ali moriresti? » la fata emise qualcosa di molto simile ad uno squittio spaventato, premendosi con la schiena nell’angolo più lontano della gabbia. « No, perché quando lo faccio con le mosche non mi diverto per molto, muoiono quasi subito… »

Ghirahim sospirò tristemente.

La fata tentò ancora di comunicare con lui con quello strano linguaggio dei segni, pallido in volto, coperto di sudore gelido. Adesso aveva paura, lui lo sapeva.

Scosse la testa. « Non ti capisco. » poi aprì la porticina della gabbia.

Aveva le manine piene di tagli, graffi, segni di morsi, tanto che la sua pelle si era indurita, come metallo freddo.

Quando chiuse le dita intorno al corpicino della fatina quella provò a dimenarsi, a graffiarlo, persino a morderlo, ma lui percepiva a malapena quel movimento. Non era più doloroso dell’ultimo gatto che aveva strangolato.

Ignorando la sua vaga ribellione, afferrò un’ala con due dita per stenderla in tutta la sua lunghezza e osservarla da vicino. Era trasparente e sottile abbastanza da permettergli di vederci attraverso. Chissà se avrebbe sanguinato.

« Potresti urlare? » chiese, con lo stesso tono curioso che aveva usato per chiedergli se lo capiva. Ne aveva abbastanza di miagolii, uggiolii o versetti strozzati. Voleva qualcosa che avesse una voce umana. L’avrebbe soddisfatto.

Aveva sentito spesso dire alle maestre che se avesse continuato a torturare così gli animali nessuno lo avrebbe voluto e avrebbe finito per crescere in quell’orfanotrofio, ma a lui non importava, a dirla tutta non gli piaceva l’idea di andarsene: lì aveva tutto quello che poteva desiderare.

Afferrò le forbici, le lame fecero zack zack quando le fece scattare nel vuoto. La creaturina cominciò a scuotere la testa, convulsamente. Tremava, Ghirahim poteva sentirlo tra le dita. Tentò ancora di liberarsi, ma la sua presa era ferrea e il suo sguardo affascinato.

Il primo taglio, storto, portò via una parte dell’ala più grande. Il bambino osservò attento il dolore che saliva agli occhi della creatura e glieli rovesciava all’indietro. Affondò quelle minuscole manine con unghiette appuntite nelle sue dita, finché il tremore non lo fece accasciare. Il suo sangue era di un colore argenteo, pieno di sfumature di colore, come piccoli arcobaleni iridescenti. Ghirahim lo guardò facendo una “oh!” di stupore con le labbra.

La fata sollevò a stento lo sguardo, grossi lacrimoni gli solcavano il volto. Scosse ancora la testa, lo supplicò con gli occhi, ma le lame delle forbici zack zack tagliarono anche la seconda ala.

Stavolta, dalle labbra ormai bianche della fata, uscì qualcosa di simile ad un gemito, un melodioso gemito di dolore e paura.

Il sangue argenteo colò lungo le dta di Ghirahim, poi sul braccio, fino al gomito. Il bambino non stava più nella pelle per la felicità.

Portò alle labbra la fata e gli baciò la testa. « Grazie, è stato divertente. Però adesso devo andare a letto. »

Lo ripose con cura nella gabbietta e chiuse la porticina. La creatura, dolorante, allungò un braccio verso di lui, in una muta supplica, accorata, che però il bambino non colse.

« Domani voglio vedere cosa succede se ti stacco un braccio! » appoggiò la gabbietta nuovamente sulla scrivania e prese un fazzoletto di stoffa per coprirla. Ma prima, abbassatosi al livello della creatura, gli rivolse un sorriso. « Ti chiamerò Skychild. Vedrai, ci divertiremo tanto insieme! »

Coperta la gabbietta, andò a tuffarsi a letto. Prese un profondo respiro di sollievo, di gioia. Per la prima volta si addormentava felice.

 
   
 
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